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Auschwitz come talk show

Eugenia Roccella

Eugenia Roccella ha detto che «le gite ad Auschwitz» sono servite solo a far credere che l’antisemitismo fosse «una questione fascista e basta». Ha usato il campo di sterminio come terreno per il suo piccolo gioco ideologico, come se la memoria potesse essere piegata a un dibattito da talk show. Liliana Segre le ha risposto con una frase che dovrebbe bastare a chiudere ogni discussione: «La memoria della verità storica fa male solo a chi conserva scheletri negli armadi».

Ma questi sono gli stessi che evocano Segre solo quando serve, che agitano la sua storia come scudo morale contro chi chiede giustizia per Gaza e poi, appena si distraggono un secondo, lasciano uscire la loro vera natura. Per loro tutto – la Shoah, la Resistenza, la pace – è materia prima per la propaganda, per lo storytelling di un potere che vuole riscrivere la realtà.

Roccella ha parlato di Auschwitz come se fosse un fastidio, un rito retorico da superare. E così, nel tentativo di negare la responsabilità del fascismo, ha mostrato quanto profonda sia la continuità culturale con quel passato che finge di condannare. Gli stessi che negli ultimi due anni si sono autoeletti maestri di antisemitismo, oggi rovesciano la Storia per salvarsi la coscienza.

Auschwitz non è un’idea. È un luogo. È il confine morale che divide la civiltà dalla barbarie. Chi lo relativizza non ha solo smarrito la memoria: ha deciso di schierarsi dall’altra parte. Ed è lì che oggi si colloca una destra che confonde la giustizia con l’oblio. 

Buon lunedì. 

In foto la ministra Eugenia Roccella, foto di Quirinale.it,

Antonella Bundu: “La sicurezza non si costruisce con le telecamere ma con il welfare”

Antonella Bundu, nata a Firenze nel 1969, padre originario della Sierra Leone e madre italiana, è la candidata per le elezioni regionali toscane della lista Toscana Rossa, che comprende Potere al Popolo, Rifondazione Comunista e Possibile. Una fiorentina doc che si segnala per esperienze professionali e personali, internazionali, impegno politico e battaglie contro razzismo e discriminazioni. Già consigliera comunale a Palazzo Vecchio,  Bundu donna,  nera e di sinistra, rappresenta un credibile candidato per un’alternativa al sistema vigente, presentando un programma a tutto tondo che riguarda i punti che stanno più a cuore ai cittadini, a partire dalla sicurezza.

Partendo proprio dalla sicurezza, cosa avrebbe intenzione di fare o, in aggiunta, di modificare, rispetto al sistema odierno?

“Pensiamo che la sicurezza, intesa come tranquillità dei cittadini comuni d godersi la città in qualsiasi ora, non si costruisca con i bonus per inferriate o per l’installazione di telecamere, così come riteniamo sia fuorviante e frutto di calcoli elettorali collegarla alla presenza di immigrati. Naturalmente, siamo contrari a qualsiasi Cpr in terra toscana.  Da tempo abbiamo spiegato, e ne siamo profondamente convinti,  che la sicurezza si costruisce col welfare, evitando di  lasciare le persone sole, senza riferimenti e senza che si arrivi a non sapere dove rivolgersi. La mancanza di riferimenti e l’abbandono portano alla disperazione, come dimostra chi approfitta dei pronto soccorso degli ospedali per sopperire  alla mancanza di qualsiasi chances. Tutto ciò provoca le ben note ricadute sulla sensazione di insicurezza generalizzata che si avvertono sempre di più nella società. Rifiutiando del tutto l’equivalenza fra immigrati e sicurezza, riteniamo che il welfare fatto con saggezza e con un reale obiettivo di  inclusione degli esseri umani, possa essere lo strumento base, originario, per giungere a una città più sicura e pacificata. Voglio anche aggiungere che sul punto sicurezza spesso la politica utilizza il termine “percezione”,  la “percezione dell’insicurezza”. Noi invece contrapponiamo ai fatti reali risposte concrete e strutturali, non basate sula pancia e sulle reazioni immediate ai fatti di cronaca.

L’accenno ai pronto soccorso, dove sono avvenute aggressioni al personale anche gravi, ci ricorda che la sanità è una delle voci più “pesanti” in termini di risorse rispetto al bilancio regionale, che impegna l’80%  circa del bilancio. Eppure, liste di attesa, personale sull’orlo del collasso, ospedali sempre in emergenza, danno un quadro non felice della sanità toscana. Voi cosa proponete?

Intanto, specifichiamo che le risorse dedicate alla sanità in Toscana constano di oltre 8 miliardi. Partendo da questo dato, non chiediamo necessariamente risorse straordinarie, ma che vengano impegnate in modo diverso, razionalizzandole e rispondendo alla richiesta che sale dagli operatori e dai cittadini. Ad esempio, pensiamo di dar luogo alle assunzioni straordinarie sulla base delle graduatorie già esistenti, di ridurre l’intramoenia, ritenendo che sia necessario liberare spazi, macchinari e ore di attività medica a favore dei cittadini utenti dela sanità pubblica. Razionalizzare le risorse significa anche, secondo noi, non dotarsi solo di un numero maggiore di macchinari ma anche allungare le fasce orarie di utilizzo  e limitare la temporalità dei privati. Un meccanismo che, avviato,  produce un rafforzamento del personale che si concretizza nel rafforzamento del sistema sanitario pubblico complessivo. E’ una proposta strutturale concreta e quotidiana, non emergenziale. Muovendoci  verso una sanità pubblica, ci diamo tre anni per tagliare le liste di attesa, convinti che un impegno diverso delle risorse, incanalate verso obiettivi di sanità pubblica, produca forti benefici per la popolazione e per l’intero sistema sanitario, compresi i lavoratori e gli operatori del settore.

Un altro punto emergente per il futuro della Regione Toscana, ma anche del Paese, è la transizione energetica. Cosa pensate di fare?

“intanto, mettere in atto alcuni punti basilari, come disincentivare gli investimenti per l’uso del fossile e potenziare e creare le Cer, avviando un processo virtuoso che doti la Toscana di un sistema sostenibile, il più possibile indipendente  e accessibile a tutti; in aggiunta, avviare una sensibilizzazione diffusa circa la  riduzione degli sprechi.  Tengo a specificare che la nostra posizione è quella di appoggiare e incentivare  qualsiasi tipo di energia rinnovabile, fra cui l’eolico. Ovviamente, le modalità sono fondamentali, come il dialogo con i territori, che ci impegnamo a mantenere  sempre costante e vivo. Ad esempio, siamo a favore del fotovoltaico, ma contrari all’agrivoltaico, dal momento che non riteniamo positivo utilizzare il terreno agricolo già scarso e ampiamente sfruttato. Tornando al fotovoltaico, la modalità che appoggiamo è quella di utilizzare capannoni, parcheggi e in definitiva aree già cementificate . In Toscana è importante la geotermia, ma è necessario un utilizzo responsabile e sostenibile, come lo sfruttamento geotermico a bassa entalpia. Per quanto riguarda il ciclo dei rifiuti, appoggiamo il protocollo rifiuti zero, con un particolare riguardo non solo al riciclo, ma spingendo verso il riuso,  per creare una vera economia circolare”.

Un altro grande tema è quello del lavoro, che soprattutto in Toscana vede emergere lo sfruttamento e addirittura può dimostrarsi un anello debole per l’insinuarsi della criminalità organizzata sul territorio. Qual è il vostro piano?

Cominciamo col dire che l’85% delle imprese regionali sono piccole e medie imprese. Partendo da ciò, riteniamo che gli investimenti di risorse devono avere le Pmi come priorità. Le risorse pubbliche non devono secondo noi essere utilizzate per attrarre grandi soggetti economici.  Inoltre, il settore pubblico, come abbiamo visto negli ultimi tempi, deve intervenire sulle aziende prima che la crisi esploda, dal momento che, una volta avvenuta, la situazione è difficilmente recuperabile. Lo dimostra il caso di Piombino, con i lavoratori da 13 anni in cassintegrazione.  Uno strumento importante per gestire le crisi, è la legge regionale sui consorzi industriali, che significa un ruolo attivo della Regione, anche a livello nazionale, oltre a tempi certi anche nei piani di reindustrializzazione. D’altro canto, non è accettabile dire  che l’automotive è in crisi, quindi si fanno armi. Le riconversioni che vogliamo sono ecologiche e sostenibili , sostenute da un vero piano industriale (es.GKN) .No dimentichiamo, in tema di lavoro, la catena  appalti e subappalti, su cui non solo deve essere applicato il codice degli appalti, ma serve un controllo continuo e stringente, reale.  Anche perché la catena degli appalti può diventare una porta aperta  verso l’intrusione delle mafie nel tessuto economico regionale. Per questo riteniamo importante che i controlli siano numerosi, attivi e improvvisi. Il tema riguarda  anche la sicurezza sul lavoro. Su questo argomento, voglio sottolineare che addossare la responsabilità ai lavoratori che non sarebbero in possesso di una “cultura della sicurezza”, è solo una scusa. E’ infatti necessario  che formazione capillare e leggi di tutela dei lavoratori vadano di pari passo. Ancora, il salario minimo, necessario, deve essere effettivo, dal momento che è inutile chiederlo a parole, per poi assegnare appalti con stipendi irrisori. Occorre ricordare che  il salario minimo è necessario per rendere non ricattabili i lavoratori. Un lavoro, per essere dignitoso e salvaguardare la dignità del lavoratore, deve avere un salario dignitoso.

Un tema imprescindibile, di questi tempi, è la pace. Cosa può fare una regione per contribuire alla costruzione della pace?

Si può fare molto. Ad esempio, non inaugurare nuove sedi Nato, evitare di trasformare  parchi come san Rossore in territori dedicati alla guerra, cercare di evitare la militarizzazione dei territori. Come?  Ad esempio,  incrementare un’educazione di pace che passi dalle scuole, dalle associazioni, dalle istituzioni. Per costruirla davvero.

 

L’importanza della prevenzione primaria, dalla gravidanza ai 3 anni

La prevenzione primaria in pediatria si occupa di promuovere l’insieme di interventi atti a favorire il benessere psico-fisico dei bambini e degli adolescenti, agendo su fattori di rischio e promuovendo comportamenti “sani”.

Nel contesto storico attuale potrebbe sembrare fuori luogo evidenziare come fattori di rischio, un allattamento o uno svezzamento mal riuscito o una relazione genitore-bambino disfunzionale. Dai dati di Save the children sappiamo che a Gaza più di 20mila bambini sono stati uccisi e almeno 1000 di questi erano sotto l’anno di vita. Decine di migliaia, sono stati feriti e mutilati. Quelli rimasti sono malnutriti e privati della propria casa, delle scuole, degli ospedali. Altri 132.000, sotto i 5 anni, sono a rischio di morte per la carestia. Amnesty International, nell’ultimo Rapporto documenta gravi violazioni dei diritti umani in 154 Paesi su 195. Sono numeri che parlano di orrore, di perdita dell’umanità e allora diventa urgente, cominciare a parlare di un fattore di rischio primario, che è la perdita dell’affettività da parte di chi ha provocato tale sterminio o da parte di chi non si indigna abbastanza, di fronte a tanta disumanità.

C’è chi vuole sapere la” definizione di bambino”; per stabilire se è giustificabile la sua uccisione? A questo orrore rispondiamo, occupandoci anche delle esigenze dei bambini, perché si arriva ad eliminare il cibo, l’acqua, i bisogni materiali, quando già è stata completamente eliminata la realtà non materiale del bambino, e quindi il gioco, la fantasia, il desiderio di conoscenza.

È necessario fare prevenzione e raccontare i fondamenti della Teoria della nascita dello psichiatra Massimo Fagioli che nella ricerca di un’Identità umana nuova, diceva: «La libertà è l’obbligo di essere, esseri umani». Culturalmente, donna e bambino, sono sempre stati “ignorati” perché non rientrano nei canoni della razionalità. Invece noi, non vogliamo perdere il mondo degli affetti e della realtà non cosciente che è il sale della vita personale e collettiva. Le basi teoriche di una nuova umanità ci permetteranno di proporre una nuova immagine di donna e bambino e anche una futura immagine di uomo.

Non sembra più fuori luogo occuparci di accompagnare giovani coppie in un percorso vissuto a volte con entusiasmo ma, a volte con difficoltà manifeste o latenti. Coppie preoccupate dei cambiamenti che necessariamente bisognerà affrontare, quando viene al mondo un bambino di cui si ha la responsabilità della crescita. I genitori non hanno colpe, hanno responsabilità e gli operatori sanitari hanno il dovere di accompagnarli in questo affascinante e difficile percorso. Spesso i genitori hanno la consapevolezza di non essere sufficientemente pronti per affrontare un essere umano che si esprime con un linguaggio non verbale di difficile interpretazione.

Ci sono anche genitori che sono ignari della realtà non cosciente dei neonati, pensano che i bambini abbiano necessità di essere accuditi solo nei bisogni materiali. Il laboratorio di psichiatria e psicoterapia della Fondazione Massimo Fagioli propone come Prevenzione Primaria, incontri informativi per genitori. Gli incontri sono tutti gratuiti e sono suddivisi in due moduli. Il primo modulo è dedicato a coppie di genitori in gravidanza e il secondo modulo per genitori di bambini nel primo anno di vita fino a 3 anni. Il corso arrivato alla seconda annualità, è tenuto da un’equipe multidisciplinare di professioniste: ostetrica, pediatre, psicologhe cliniche, psichiatra, neuropsichiatra infantile, pedagogista familiare e giuridica-coordinatrice genitoriale. Si comincia proponendo i tre trimestri della gravidanza nel loro aspetto biologico-ostetrico- psicologico. La suddivisione nei tre trimestri permette di analizzare le diverse fasi della gravidanza e di discutere con i partecipanti, rispondendo alle loro specifiche domande.

Spesso il primo trimestre, è caratterizzato da ansia, irritabilità, insonnia, nausea, paure per un possibile aborto, ma si inizia anche a realizzare l’idea mentale del futuro bambino, pur se il corpo della donna non è ancora, manifestamente cambiato. C’è qualcosa di nuovo e si diventa sempre più consapevoli che la propria vita cambierà e che è necessario maturare competenze genitoriali. Dal punto di vista biologico con la formazione dello zigote, mediante successive divisioni cellulari si formano i tre foglietti embrionali, da cui derivano i vari organi e apparati. Nel primo trimestre si ha la formazione del tubo cardiaco e a 4-5 settimane di gravidanza inizia il battito cardiaco spontaneamente, senza alcun stimolo esterno.È una pulsazione ritmica, che ha forza in se stessa, è un movimento che non si sposta nello spazio, è forza del cuore e sarà capacità di reagire del feto. Mi chiedo: normalmente e giustamente, non ci si meraviglia dell’origine spontanea dell’attività cardiaca fetale, stessa cosa non succede, quando alla nascita c’è l’emergenza della realtà non materiale dal corpo del neonato. Il battito cardiaco non si può negare, lo si può ascoltare con appropriate strumentazioni, la realtà non materiale non è registrabile, la possiamo solo dedurre.

Dobbiamo constatare che ancora non si comprende la differenza fra feto e neonato, fra chi è solo realtà biologica e chi come il neonato fonde biologia e realtà non materiale. Nel secondo trimestre c’è più tranquillità nella coppia, la comparsa dei movimenti fetali e l’immagine della pancia che sta crescendo favoriscono sempre più l’accettazione della futura nascita. Raccontiamo il fenomeno dell’omeostasi fetale, ovvero quello stato che permette di conservare le proprie caratteristiche, grazie a meccanismi di autoregolazione. Infatti il feto non reagisce agli stimoli esterni al sacco amniotico, il feto deve essere protetto per tutta la gravidanza, non deve subire danni, la biologia fetale deve essere salvaguardata. Ne consegue che è necessario sfatare tutta una serie di credenze molto diffuse e molto seguite dai futuri genitori. La più diffusa riguarda il fenomeno per il quale il feto sarebbe in grado di ascoltare la voce dei papà e sentire la realtà interna della madre. Non è raro imbattersi in corsi istituzionali, in cui le gestanti leggono libri di favole ai loro feti. E non è raro trovare donne estremamente preoccupate con vissuti di sensi di colpa, per avere avuto pensieri di non accettazione della gravidanza o perché affette da depressione, o donne che hanno un vissuto di “assassine” per essersi sottoposte ad un aborto. Altra condanna culturale che nasce dalla mancata distinzione fra feto e neonato e che andrebbe superata in una società laica. In questi casi è necessario tranquillizzare, anche consigliando dei percorsi di psicoterapia, necessari per ritrovare il proprio benessere e la serenità per relazionarsi con il nascituro.

La credenza di un legame feto-donna è molto radicata nella nostra cultura cattolica, è sostenuta anche dagli addetti ai lavori, ostetriche, ginecologi, pediatri, riviste scientifiche, social. Ne consegue che noi operatori cerchiamo di argomentare scientificamente le informazioni sulla realtà biologica del feto che non avendo realtà psichica non può avere vissuti emotivi, infatti la vita umana non è ancora iniziata, c’è solo realtà biologica. Per chi volesse approfondire, consigliamo i numerosi articoli della professoressa Maria Gabriella Gatti pubblicati sulla rivista Il Sogno della Farfalla, edito dall’Asino d’oro e su Left.

Cominciamo differenziando il feto dal neonato. Il cervello fetale non è attivo a differenza di quello del neonato. La prima domanda che ne consegue: come può il feto muoversi se non ha un’attività cerebrale? Analizziamo i movimenti embrionali e fetali e diciamo che essi hanno un’attività elettrica spontanea, autogenerata, prodotta da “simil pace-makers” del midollo spinale e del tronco encefalico. Ne consegue che i movimenti fetali non dipendono dalla corteccia cerebrale. Il liquido amniotico, grazie ai movimenti fetali, stimola la cute, dove sono presenti i recettori sensoriali tattili, che a loro volta, si esprimono con una attività elettrica autogenerata, grazie all’effetto eccitatorio di un neurotrasmettitore, una sostanza chimica, il Gaba.

I recettori della cute del feto in contatto con il liquido amniotico trasmetteranno, grazie alle fibre nervose, una informazione somato-sensoriale di calore-calma che arriva al Midollo Spinale, fuori dal controllo della corteccia e che sarà la matrice della memoria dell’esperienza avuta in questo periodo. Dopo, alla nascita, sarà un “sentire” a pelle. I recettori sensoriali non sono solo sulla cute, ma anche sui muscoli, sulle articolazioni, sopra l’orecchio, sulla retina e tutti vengono stimolati, sempre grazie ai movimenti fetali. Da tutti i recettori si sviluppano fibre nervose che si allungano al midollo spinale, al tronco encefalico, fino ad arrivare alla lamina sotto corticale e tutto ciò avviene gradualmente nel corso dei nove mesi di gravidanza. A circa 23- 24 settimane, i fotorecettori retinici, arrivati alla lamina sottocorticale, sono pronti per reagire alla luce, evento necessario per la sopravvivenza fuori dall’utero. A 24 settimane è anche possibile evidenziare un tracciato Eeg che registra la sola maturazione delle terminazioni nervose, il tracciato è sempre uguale, perché la corteccia non è attiva.

Nel terzo trimestre di gravidanza potrebbero ricomparire ansie e fobie legate al parto (tocofobia), stanchezza relativa ad episodi d’insonnia, il corpo diventa ingombrante. Il bambino immaginario è sempre più concreto e si ha più consapevolezza della necessità di dover essere all’altezza di un compito molto delicato. La crescita fetale, diventa più rapida, cominciano i monitoraggi per valutare il benessere fetale. Nelle ultime settimane si consiglia di riposare, recuperare energie, prendersi cura di sé e della coppia. Durante il corso si discute di quando recarsi in ospedale, dei vari tipi di parto, di come gestire il dolore durante le contrazioni, in presenza del proprio partner o di una persona di fiducia.

Si evidenzia come non ci sia un modo giusto o sbagliato per affrontare il dolore, è necessario abbandonarsi all’evento. Si parla di parto-analgesia e spesso si apre un dibattito molto interessante sul ruolo del partner in sala parto. Gli uomini raccontano i loro vissuti emozionali, dimostrando grande partecipazione all’evento nascita, anche quando inizialmente avevano dichiarato difficoltà, senso di smarrimento. Discutendo del travaglio, si evidenzia come nel passaggio nel canale del parto, il cranio del feto non subisce lesioni. Tutto ciò è dimostrato da Eeg sperimentali, che non evidenziano nessuna modificazione del tracciato, nonostante la fortissima pressione esercitata dai muscoli addominali materni sulla testa del feto, evento plausibile perché il cervello non è attivo, il feto è solo una realtà biologica. Infatti, durante il travaglio, c’è una reazione biologica di resistenza e opposizione alla pressione esercitata sul cranio, il feto si prepara a reagire con tutto il corpo all’evento nascita. Ormai non è più possibile tornare nella situazione precedente, il feto viene espulso, grazie alla rottura irreversibile del lungo equilibrio omeostatico che ha caratterizzato tutta la gravidanza. Il feto sparisce e nasce il bambino.

La dinamica della nascita, fondamento della Teoria del professor Massimo Fagioli, è uguale per tutti gli esseri umani, senza distinzione di genere e di nazionalità. È una dinamica biologica della natura. La nascita dell’essere umano non inizia con il vagito, come comunemente si pensa, ma il bambino è già nato nei 20 sec. precedenti, quando la luce attiva la sostanza cerebrale e la reazione è la simultanea emergenza dal corpo della Pulsione e della Vitalità, realtà non materiali. Il neonato, diversamente dagli animali, capaci di allontanarsi fisicamente dall’aggressore, deve necessariamente annullare il mondo naturale, troppo violento per un neonato inetto, incapace di difendersi dai numerosi stimoli aggressivi della natura.

Nei venti secondi, prima del vagito, il bambino appare silenzioso, ipotonico, pallido, bradicardico, senza riflessi, per la pulsione di annullamento che elimina insieme al mondo esterno, anche la forza dei muscoli striati ed abbassa il ritmo cardiaco. Ma simultaneamente la vitalità si oppone alla violenza della pulsione di annullamento e compare la creazione e l’esistenza del nuovo nato, inizia il tempo della vita ed emerge la capacità d’immaginare. Il corpo prende forza, inizia il movimento, che non è più il movimento nello spazio, quello del feto, che era solo realtà biologica, ora è movimento nel tempo, perché è comparsa la realtà non materiale. Emerge il vagito dal corpo e compare la memoria di quella esperienza somato-sensoriale fetale, che è sensibilità di tutto il corpo, prima immagine mentale. C’è la certezza di un’umanità che deve corrispondere a questa sensibilità, il vero motivo per il quale il bambino cerca il seno. C’è una certezza di sapere di esistere che è fragile e andrà confermata durante tutto il primo anno di vita, la vitalità fisiologicamente carente della nascita si accrescerà nel rapporto con i genitori e con tutti gli esseri umani che si prenderanno cura del bambino, se ci sarà una corrispondenza di sensibilità, che fa il rapporto interumano. Sarà la ricerca di tutta la vita.

Ricerca di una umanità che non deve essere mai perduta per rimanere affettivi e esseri sociali anche in età adulta. Molte sono le domande sull’allattamento nei primi giorni di vita, soprattutto quando si rientra a casa e si deve gestire il bambino in autonomia, fuori dall’ambiente ospedaliero. Il neopapà ha un compito molto importante in questo periodo, deve supportare la propria compagna nell’allattamento che per alcune può risultare difficoltoso e in ogni caso stancante, soprattutto per la perdita del sonno. Le quotidianità domestiche dovrebbero essere gestite per lo più dal partner o da un aiuto familiare. Inutile dire che il latte di scelta è sicuramente il latte materno, per le sue qualità organolettiche specie-specifiche. Nei primi giorni di vita bisogna favorire l’allattamento al seno, senza però estremizzare quella che deve comunque rimanere una scelta della donna e del medico curante. Faremo dei cenni storici riguardo l’allattamento, partendo dagli anni 80, quando in epoca post-68, la maggior parte delle donne usava per lo più il latte di formula. Quando più raramente si allattava al seno, si sospendeva all’incirca verso i 3-4 mesi di vita del bambino.

Le motivazioni erano culturali, le donne si emancipavano e pur non trascurando i propri figli, sentivano la necessità di tornare più velocemente alla vita precedente il parto. Poi arriveremo agli anni 90, con l’ospedale amico del bambino che ha determinato una particolare idealizzazione dell’allattamento al seno, sconfinando in regole molto rigide fin dai primissimi giorni di vita. C’è l’errata convinzione che l’affettività passi solo attraverso questo tipo di allattamento, che deve essere esclusivo almeno fino a 6 mesi di vita e poi dovrebbe continuare alternandosi con cibi solidi anche oltre i 2-3 anni. Si attribuiscono così al seno qualità psichiche che dovrebbero essere della madre, come persona. Il bambino viene attaccato a richiesta e si finisce di rispondere sempre e soltanto con il seno, senza mai approfondire che cosa ci vuole comunicare con il suo linguaggio non verbale. Si fa passare un messaggio scorretto: ogni fastidio, tensione, difficoltà di rapporto può essere superato, consolandosi attraverso il canale alimentare.

Sappiamo invece, che il bambino mentre ciuccia fa un vissuto corporeo di percezione che non è solo gustativa, ma è anche tattile, olfattiva, uditiva e in parte anche di immagini di luce e ombre, essendo la vista nei primi mesi immatura. Tutte queste percezioni, legandosi agli affetti, di amore, calma, benessere ma anche di malessere, rabbia, angoscia, determineranno delle sensazioni. Poi, quando la poppata finisce, separandosi dal vissuto corporeo, se la poppata è stata soddisfacente, le percezioni-sensazioni spariscono, trasformandosi in memorie, ovvero pensieri per immagini, accrescendo ulteriormente la vitalità. Se ne deduce che una poppata fisiologica non si basa su un rapporto d’introiezione e proiezione che passa per il canale alimentare, ma sulla formazione di memorie-immagini che nulla hanno a che fare con la bocca. La dinamica introiettiva-proiettiva è una dinamica patologica che si verifica quando il bambino viene deluso nella relazione e la separazione determina l’annullamento del vissuto corporeo e mancata trasformazione.

Quindi proporre il seno mentre si parla con un’amica, si sta al telefono o si fa la spesa, non è relazione, non è affetto, il bambino viene deluso. Il seno non è creativo, il bambino chiede a chi allatta, di essere corrisposto nella sua sensibilità e invece troppo spesso lo si ignora e si consolida una dinamica bramosa del seno che con la proiezione, accresce solo la cultura dell’identificazione, dell’essere come l’altro. Il bambino non è libero di formare immagini che saranno preziose memorie della sua realtà non cosciente. Le immagini, poi in pubertà saranno “messe al fuori di sé”, alienate in un’altra immagine uguale e diversa per rivivere la bellezza del primo anno di vita.

Altro argomento del corso è lo svezzamento nel suo aspetto alimentare e relazionale. Per comprendere quanto sia importante non scindere il corpo dalla realtà non materiale del pensiero per immagini è necessario anche cambiare l’idea di pediatra e pretendere che questa figura professionale non sia solo il medico del corpo, altrimenti non sarà mai possibile comprendere la vera realtà del bambino. Al di là delle malattie strettamente organiche, in pediatria è necessario valutare numerose dinamiche dove il corpo e la mente sono inseparabili. Se, in parte, possiamo curare una broncopolmonite senza necessariamente prendere in considerazione l’aspetto degli affetti del bambino, stessa cosa non si può fare quando parliamo di svezzamento.

Ogni svezzamento va valutato singolarmente considerando la dinamica di rapporto madre-bambino. Non esistono regole rigide, va valutata la crescita ponderale in relazione alla dinamica di rapporto. Quel che è certo è che per lo più verso la fine del primo anno di vita, il bambino non ha più necessità di essere allattato al seno. Fisiologicamente, a questa età, la quantità di latte materno è generalmente talmente scarsa che deve essere sostituita da altri alimenti. Dal punto di vista relazionale si può e si deve concludere quel lungo e prezioso periodo in cui la certezza di sapere di esistere della nascita uguale per tutti, diventa identità unica e originale, conoscendosi allo specchio. La madre ora, deve favorire questa separazione, permettendo quell’autonomia che nel secondo anno di vita fa conoscere il mondo. Tema che affronteremo più dettagliatamente nel secondo Modulo insieme al linguaggio articolato, alla motricità, al gioco e alla cura di un ambiente in cui la crescita avvenga per continue separazioni.

Il corso gratuito Benvenuti al mondo primo modulo inizia il 18 ottobre 2025. Gli incontri si tengono in via Roma Libera, 23, a Roma

L’autrice: Silva Stella è Pediatra e Psicologa Clinica già responsabile Uos medicina preventiva età evolutiva – Consultorio familiare ASLRMH6 Velletri-Roma ed è referente Progetto Benvenuti al mondo Laboratorio Psichiatria-Psicoterapia Fondazione Massimo Fagioli

Foto di iggii su Unsplash

Le porte di Gaza

“Le porte di Gaza” del giornalista e inviato del giornale israeliano Haaretz, Amir Tibon è una testimonianza vissuta in prima persona, dal 7 ottobre 2023. Esce il 10 ottobre edito da Orizzonte Milton, con una importante prefazione di Anna Foa, eccola in anteprima:

Questo libro apre una breccia nel clima di odio e contrapposizione che sempre maggiormente segna l’opinione pubblica italiana sulla questione mediorientale. Infatti chi ricorda con orrore il terribile attacco di Hamas del 7 ottobre ha spesso finito in questi due anni per negare o almeno gravemente sottovalutare l’orrore degli oltre sessantamila palestinesi uccisi da Israele a Gaza, in maggioranza civili, definendolo come una legittima reazione, sia pur sproporzionata, all’attacco di Hamas.

E il 7 ottobre? ci si sente chiedere ogni volta che si parla di ciò che ormai tante voci di giuristi, storici, politici definiscono ‘genocidio’. Dall’altra parte la memoria del 7 ottobre è stata offuscata e anche rimossa da molti di coloro che si sono impegnati a mettere in luce i terribili eventi di Gaza, la distruzione ormai quasi totale della Striscia. Senza contare, da entrambe le parti, gli estremisti che negano i crimini dell’esercito israeliano a Gaza attribuendoli alla propaganda di Hamas o quelli invece che rifiutano di condannare la mattanza del 7 ottobre considerandola una forma legittima di resistenza.

In Israele, la memoria del 7 ottobre è ancora una ferita aperta, tenuta viva e sanguinante dalla questione degli ostaggi e dalle battaglie quotidiane portate avanti senza sosta da due anni dalle loro famiglie. Ma altrove, dove naturalmente la sorte degli ostaggi ha un peso minore, la memoria del 7 ottobre sta sempre più diventando patrimonio di quanti la usano polemicamente, se non strumentalmente, per appoggiare in maniera più o meno esplicita il governo di Netanyahu. Il libro di Amir Tibon ci aiuta ad uscire da questa contrapposizione, frutto anche dell’ignoranza della situazione in Israele, delle centinaia di migliaia di israeliani che manifestano nelle strade delle sue città. Per gli uni, sono fautori di Hamas, come proclama il governo. Per gli altri, non sono tanto diversi dai sostenitori di Netanyahu, e inoltre sono pochi e ininfluenti. Tibon è un giornalista di Haaretz, il giornale più importante di opposizione al governo della destra al governo in Israele, avversato e costantemente minacciato da Netanyahu, una voce libera e indipendente.

Amir Tibon vive dal 2014 con la sua famiglia in un kibbutz sulla linea di confine con Gaza, il più vicino alla Striscia e uno dei kibbutzim distrutti nell’attacco terroristico del 7 ottobre, Nahal Oz. Tibon ben rappresenta quindi, nel suo racconto e nelle sue parole, la percezione e la sensibilità di quegli israeliani laici e di sinistra che considerano i palestinesi come loro simili e ne sostengono i diritti, ma che hanno subito direttamente, sulla loro pelle, le conseguenze terribili del continuo degenerare della situazione. Quelli che hanno manifestato per tutto il 2023 contro la riforma giudiziaria voluta da Netanyahu, pur sottovalutando, forse, il ruolo e l’importanza che nelle degenerazioni della democrazia in Israele aveva avuto dopo il 1967 l’occupazione, l’‘elefante nella stanza’, come è stata chiamata.

All’alba del 7 ottobre, Tibon è nel suo kibbutz e viene svegliato non dall’allarme delle sirene che segnalano l’arrivo di razzi o missili, rumore a cui gli abitanti del kibbutz sono abituati, ma da colpi di mortaio. Chiusosi con la moglie e le due bambine piccole nella stanza di sicurezza, la stanza blindata presente nel kibbutz in tutte le case, si rende poco a poco conto che ciò che stava succedendo era diverso da quanto era abituato a vedere, che i terroristi erano dentro il kibbutz, e che nessuno sembrava poter venire subito in loro soccorso. Ed è suo padre, Noam Tibon, un generale in pensione che vive a Tel Aviv, che si mette in macchina e guidando fra mille pericoli e in un territorio disseminato di morti, li porta in salvo, un episodio divenuto famoso in tutta Israele. La sua famiglia è salva ma 13 membri del kibbutz sono morti e 6, di cui due ancora prigionieri, sono stati rapiti dai terroristi.

Questa vicenda, che Tibon narra con sobrietà, senza indulgere a descriverne le modalità più atroci, pur lasciandoci intendere la immane portata della violenza scatenatasi, è narrata nel libro, intrecciandosi alla storia del kibbutz e alla storia dello Stato, della sua costruzione, delle trasformazioni che lo hanno segnato dal 1948 ai nostri giorni.

Il kibbutz Nahal Oz nasce nel 1951 come un presidio militare vicino al confine con Gaza, per poi diventare nel 1953 un insediamento civile, anche se la vicinanza con la frontiera lo rende militarmente significativo. Nel libro Tibon chiarisce con nettezza la differenza fra i kibbutzim, anche quelli di frontiera, e le colonie: gli uni nati per proteggere i confini, le altre, quelle dei sionisti religiosi, per annullare i confini e estendere Israele nella prospettiva della grande Israele.

Tibon vi si trasferisce nel 2014, in anni di continue ostilità e guerre tra Israele e Hamas. Era stato colpito sia dalla bellezza del luogo sia anche dal fatto di trovarvi persone che, anche in circostanze di conflitto armato, continuavano a professarsi favorevoli alla pace con i palestinesi e a non considerarli nemici. Uno stato d’animo che ritroviamo espresso dall’ autore di questo libro, anche dopo quel 7 ottobre che lo ha visto personalmente coinvolto, ma che in molti altri è stato messo tuttavia a dura prova da quegli eventi.

Oggi, il kibbutz è ancora distrutto, molti dei suoi abitanti, soprattutto quelli con bambini, non sono ancora tornati e aspettano la fine della guerra prima di poter ritornare a casa. Ma nelle pagine di Tibon non manca di affiorare una forte nostalgia per la vita che vi ha condotto. Che è anche nostalgia per quel mondo perduto, e non solo a causa del 7 ottobre.

Il libro racconta così, in un’ottica laica e aperta ad un’immagine di coesistenza con i palestinesi, la storia del Paese, le sue trasformazioni. Questa storia è attraversata da una parte dall’immagine del kibbutz, dall’altra da quella della sua distruzione. E il libro vuole anche, a due anni di distanza da quel 7 ottobre, e semplicemente raccontando, rispondere ad una domanda fondamentale: quanto quella distruzione, ma anche l’immane massacro di palestinesi che l’ha seguita, nella maggior parte non terroristi di Hamas ma civili innocenti, hanno reso per sempre impossibile la continuazione di quell’età di apertura, nonostante tutti i conflitti e le lacerazioni del Paese?

E forse la risposta è nelle ultime righe del suo libro, quando ricorda le parole di Moshé Dayan pronunciate al kibbutz nel 1956, che prospettavano la guerra coi palestinesi come inevitabile, un futuro che gli abitanti del kibbutz non volevano accettare. Le porte di Gaza, quelle alla cui guardia stava Nahal Oz, «gravano ancora sul nostro paese. Ma il peso di quelle porte non grava solo sulle nostre spalle… Negli anni a venire graverà sui nostri animi». Una conclusione che chiude ogni speranza, o invece che apre ad una possibile rigenerazione?

L’autrice: Anna Foa, intellettuale, scrittrice, vincitrice del Premio Strega 2025, con il libro “Il suicidio di Israele” (Laterza)

In apertura, immagine della scrittrice dalla pagina del Premio Strega

 

Meloni, Salvini e Tajani: festa grande sulla pelle di Gaza

Poiché il circo è una cosa seria, non va usato questo paragone. Nel nostro caso gli acrobati sono goffi, cascano senza rete, anzi capitombolano sulle schiene dei cittadini italiani. Per questo non si fanno mai male. I membri del governo – Meloni, Tajani e Salvini in testa – da ieri hanno iniziato un week-end lungo festeggiando da sbronzi una pace confezionata da Donald Trump e Netanyahu su Gaza.

Lo so, suona strano che la pace non venga siglata dalle parti in causa ma dal carnefice e dal suo amico del cuore, ma del resto è il vecchio trucco occidentale: prima il colonialismo si chiamava esportazione di democrazia, oggi si chiama pace. Sofismi letterari di poco conto.

Allo scampanellio dell’intervallo chiamato pace, Meloni, Salvini e Tajani si sono lanciati folli per i corridoi della scuola attribuendosi il merito di essere stati fondamentali nell’impresa. Sono gli stessi che non sono riusciti a evitare ai loro parlamentari di beccarsi gli sputi dell’esercito israeliano. Sono gli stessi che contano come il due di picche quando c’è da difendere cittadini italiani umiliati (anche adesso, mentre ne scrivo) e illegalmente incarcerati da Israele. Ci dicono di fidarsi: è tutto merito loro.

Salvini festeggia attaccando i suoi avversari politici (che uomo di pace), Meloni festeggia insabbiando i favori fatti a un torturatore libico e Tajani festeggia condividendo sui suoi social un video storpiato dall’intelligenza artificiale: era contro il governo italiano e lui lo rivende al mercato della propaganda come video di ringraziamento.

E questo è tutto quello che c’è da dire di questa combriccola suonata.

Buon venerdì.

Il piano di Trump sputtana la propaganda israeliana

Ci sono voluti tredici mesi, migliaia di morti e un mare di bugie perché qualcuno lo scrivesse nero su bianco: i valichi di Gaza non erano aperti, gli aiuti non arrivavano, e la fame non era una “percezione”. Ora è lo stesso piano di pace di Trump – quello che Israele ha finto di accettare per convenienza – a certificare che servono nuove regole per far passare cibo e medicine, che servono osservatori terzi, che servono tregue e linee di ritiro. Tutto ciò che Netanyahu e i suoi portavoce hanno negato per mesi.

Per mesi il governo israeliano ha ripetuto che non c’era alcuna carestia, che i camion entravano, che i bombardamenti erano “chirurgici”, che la sicurezza richiedeva il blocco totale. Oggi quel racconto crolla sotto la firma americana: il piano parla di cessate il fuoco, di valichi aperti, di una forza internazionale a guida araba, di una polizia palestinese formata, di ricostruzione con materiali che Israele ha sempre definito “pericolosi”.

Ogni punto del piano è una smentita: il ritiro parziale delle truppe nega la “guerra totale”, lo scambio di ostaggi e prigionieri nega la propaganda del “mai un accordo con i terroristi”, la riapertura aiuti nega mesi di negazionismo umanitario.

Il piano di Trump non è una svolta morale: è un atto di realismo. Ma basta a dimostrare che Israele e i suoi difensori hanno mentito su tutto. E che il mondo, per quanto tardi, è costretto a mettere a verbale la verità che Gaza grida da un anno: i colpevoli non sono solo a Sud della recinzione.

Buon giovedì. 

Francesca Albanese: «A Gaza otto case su nove non esistono più. Se non fermiamo il genocidio nel 2025 avremo fallito come umanità»

«A Gaza otto abitazioni su nove non esistono più, nonostante ciò il popolo palestinese non ha intenzione di allontanarsi dalla propria terra, perché per un popolo indigeno la terra è un elemento che ne compone l’identità. Il piano di pace di Trump ignora completamente il diritto all’autodeterminazione dei palestinesi». Così Francesca Albanese, relatrice speciale dell’Onu sui Territori palestinesi occupati, durante l’Assemblea generale della Flai Cgil, la federazione dei lavoratori dell’agroindustria, al Centro Congresso Frentani di Roma. All’iniziativa sono intervenuti anche il deputato dem Arturo Scotto e l’europarlamentare di Avs Benedetta Scuderi, rientrati in Italia dopo aver partecipato alla missione della Global Sumud Flotilla. Insieme a loro il segretario generale della Cgil Maurizio Landini e il segretario generale della Flai Cgil Giovanni Mininni.
«Il 9 ottobre si compie il secondo anno da quando il genocidio a Gaza è passato da intenzione ad atto – ha ricordato Albanese -. Io mi sono occupata di ricostruire cosa sia accaduto in questi due anni. Nel mio ultimo rapporto ho parlato di come si è passati dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio, si tratta di un passaggio fondamentale. Questa economia fa comodo a tutte le aziende che vi partecipano».
Per denunciare questa situazione e fermare lo sterminio a Gaza, ribadisce Albanese, «i sindacati sono fondamentali. Se nel 2025 non riusciamo a fermare un genocidio vuol dire che abbiamo fallito come umanità».
In questo contesto ha aggiunto l’europarlamentare Benedetta Scuderi, la Global Sumud Flotilla «è stato un bellissimo esempio di resistenza non violenta, attraverso il quale la società civile ha trovato un modo per mobilitarsi dal basso, smuovere moltissime coscienze e fare ciò che gli Stati non hanno voluto fare». La Flotilla «ha subito attacchi con droni in acque internazionali, avvenuti su suolo europeo, un’inaccettabile violazione del diritto che si è consumata in diretta – continua la parlamentare europea -. Poi siamo stati intercettati in maniera illegale dalle forze armate israeliane. Non capisco come sia stato possibile che governi e istituzioni non abbiano saputo reagire di fronte ad un atto di pirateria come questo, siamo arrivati a sentire dal nostro ministro degli Esteri che “il diritto internazionale conta fino ad un certo punto”. D’altronde, quegli stessi governi che sono stati silenti davanti agli attacchi alla Flotilla non reagiscono nemmeno di fronte ad un genocidio. In ogni caso, le violazioni che abbiamo subito non sono comparabili a ciò che ogni giorno subiscono i palestinesi a Gaza e nelle carceri israeliane».
«Secondo il governo italiano, la Flotilla sarebbe stata organizzata dall’opposizione per mettere in difficoltà l’esecutivo – prende parola Arturo Scotto -. Ora, l’impresa umanitaria era composta da attivisti di 44 nazionalità, un attivista spagnolo o tunisino non è certo salito su quelle barche per fare un dispetto a Giorgia Meloni. Ci deve essere un limite alla megalomania della presidente del Consiglio».
«L’assistenza diplomatica che ci ha offerto il governo italiano è stata minima – prosegue il deputato Pd -, per il nostro rientro abbiamo preso un volo di linea durante il quale il capitano al microfono ha sottolineato che a bordo erano presenti quattro parlamentari che avevano partecipato alla “Hamas Flotilla”. C’è chi si è avvicinato per insultarci. Quel governo che non ha offerto un volo di Stato a quattro parlamentari italiani per tornare nel nostro Paese è lo stesso che ha offerto un volo di Stato per rimpatriare il torturatore libico Al Masri».
Ospitando in questa assemblea Albanese, Scuderi e Scotto, precisa dal palco il segretario generale Flai Mininni in conclusione degli interventi degli ospiti, «abbiamo voluto ancora una volta ribadire la nostra vicinanza e il nostro impegno concreto a sostegno del popolo palestinese vittima di genocidio».

L’assalto alla nostra coscienza

Durante la notte l’esercito israeliano ha commesso l’ennesimo atto di pirateria, questa volta ai danni della nave Conscience delle otto barche che navigavano con lei in una missione congiunta della Freedom Flotilla e dall’associazione ThounsandMadleens. Non si tratta di un intercettamento, come si legge in giro. È un atto illegale in acque internazionali e ha bisogno della parola giusta: pirateria. Il decadimento morale imposto da Israele al mondo richiede anche un’argine lessicale. 

La nave Conscience trasportava più di cento persone tra medici, infermieri e giornalisti e portava con sé i medicinali che a Gaza mancano da mesi negli ospedali. I medici si erano detti disposti a “dare il cambio” ai colleghi palestinesi che negli ospedali diroccati operano incessantemente i feriti. Lì il piano di pace che riempie le prime pagine e le bocche dei politici non è mai arrivato. Le bombe continuano. 

“Abbiamo lanciato l’allerta generale”, dice nel suo ultimo messaggio Vincenzo Fullone, portavoce per l’Italia sulla Conscience mentre si dispera per rabbia. Per Israele il mare Mediterraneo è suo. Per Israele la striscia di Gaza è una sua proprietà da sfibrare e riutilizzare a piacimento. Per Israele la Cisgiordania è un boccone da prendersi gradualmente. Per Israele il diritto internazionale è un ingombro da scavalcare alla bisogna.

Eppure le navi che cercheranno di rompere il blocco continueranno, partiranno ancora. Perché ogni volta a rimanere in mutande non sono gli attivisti abusati dall’esercito israeliano: sono i governi nazionali e l’Europa. E la politica dignitosa solo fino a un certo punto, come piace al nostro ministro Antonio Tajani. 

Buon mercoledì. 

In foto una fase dell’atto di pirateria degli incursori israeliani nei confronti della Freedom Flotilla Coalition – che include le barche di Thousand Madleens to Gaza and Conscience

Il genocidio stanca, ma non il servilismo

Meloni e Giuli alla festa per san Francesco

Il nostro governo non è ancora contento di essere prono al criminale governo di Israele nei consessi internazionali. Non basta. A Giorgia Meloni e ai suoi ministri non basta nemmeno avere chinato la testa in acque internazionali, permettendo all’esercito israeliano di assaltare come pirati cittadini italiani, poi trascinati in cella, fottendosene di qualsiasi rispetto dei diritti umani. I patrioti italiani hanno deciso ora di concedere al Mossad – agenzia di intelligence dello Stato di Israele – di farsi una scampagnata a Udine insieme alla nazionale di calcio che sfiderà l’Italia il prossimo 14 ottobre, in una delle partite di calcio che rimarranno impresse nel calendario della vergogna della Figc.

Accadrà quindi che un corpo paramilitare ma interamente criminale sarà sugli spalti a Udine, ufficialmente “per garantire sicurezza”. Quale sicurezza potrebbe garantire il servizio di intelligence di uno Stato che affama, che spiana, che deliberatamente ammazza donne e bambini, non ci è dato sapere.

Direte: il ministro Piantedosi ha smentito. Ma il governo che smentisce è lo stesso governo che aveva concesso al Mossad di passeggiare sul suolo italiano durante la visita in Italia dell’ex premier israeliano Olmert. Il ministro Piantedosi è lo stesso che ha garantito protezione ai militari israeliani in vacanza di decompressione nelle Marche e in Sardegna. Del resto, il genocidio stanca.

Così il governo di coloro che avrebbero dovuto essere patrioti, giorno dopo giorno, si smutanda in un mediocre vassallo, ponte nel Mediterraneo. E insieme al diritto internazionale anche la dignità, e fino a un certo punto.

Buon martedì.

Meloni alla festa per San Francesco, foto gov

Toscana al voto. La cultura come atto politico

“Per essere giusta, cioè per avere la sua ragion d’essere, la critica deve essere parziale, appassionata, politica. Fatta dunque da un punto di vista esclusivo, ma tale da aprire il più vasto orizzonte”. Lo proclamava Charles Baudelaire a proposito del Salon di Parigi del 1846. Il poeta parlava di critica d’arte: ma la solidarietà fra impegno, schieramento e ampiezza degli orizzonti si addice non solo ad ogni lavoro intellettuale, ma alla missione stessa dell’intellettuale, e alla sua onestà.

Con questo spirito ho fatto qualcosa che avevo quasi tenacemente evitato di fare, e cioè candidarmi ad amministrare la cosa pubblica. Siccome faccio lo storico dell’arte, ho sempre pensato che il mio mestiere, pur intriso di valore politico, fosse diverso da quello del politico praticante, ossia dell’uomo di governo e di amministrazione. Il ruolo dell’intellettuale è anzi quello di rappresentare la coscienza critica della politica come della società civile, di cui egli è parte necessaria. E anche di formare la classe dirigente: specie quando, come nel mio caso, è un docente universitario.

Ci sono tuttavia dei frangenti in cui mettersi in gioco significa dare una risposta, operativa e culturale al tempo stesso, a una sfiducia nella politica espressa da una terribile crisi di rappresentanza. A una politica autoreferenziale, sempre più scadente e sempre più lontana dalle forze vive dalla società, fanno da contrappasso la fuga dei cittadini dalle urne ma anche l’impressionante mobilitazione delle piazze, culminata nei cortei in nome di Gaza, di cui è impregnata l’aria mentre scrivo.

collettivo Gkn, manifestazione per la Palestina

Segno che c’è un’Italia nettamente migliore di chi pretende di rappresentarla. E che costoro dispongono di strumenti culturali inadeguati per amministrare un condominio, figuriamoci per interpretare i grandi percorsi storici che attraversano i sentimenti popolari come le crisi internazionali. Se la politica ha smesso di ascoltare gli intellettuali, e anzi ha preso a deriderli e denigrarli, forse è il caso che gli intellettuali si schierino in maniera più decisa di quanto finora non abbiano fatto. Senza tradire la loro natura, ma anzi irrobustendola con nuove occasioni di contatto con la società civile, nutrite da spirito di servizio e senso delle istituzioni.

Sbottonarsi fa bene, insomma: basta essere coscienti che sotto non abbiamo il costume di Superman, ma una scorza di umanità alimentata da una lunga coltivazione della conoscenza. Mi sono candidato consigliere alla Regione Toscana (si vota il 12 e il 13 ottobre), nella coalizione che sostiene la candidatura a presidente di Antonella Bundu: si chiama Toscana Rossa e la compongono Possibile, Potere al Popolo e Rifondazione Comunista. Si propone come alternativa sia al centrodestra (candidato Alessandro Tomasi), sia a un centrosinistra dal campo molto largo che rilancia la presidenza di Eugenio Giani.

Antonella Bundu, candidata alla presidenza della Toscana per Toscana Rossa

La mia scelta è motivata sia da ragioni di principio, sia dalla specificità del contesto toscano, un laboratorio cui il resto del Paese dovrebbe guardare con maggiore attenzione. Per questo credo che qualche riflessione in merito possa interessare a un pubblico più largo dei soli elettori toscani (altrimenti starei a parlare solo del mio ombelico, come fanno i politici da social). Toscana Rossa può sembrare un progetto identitario: ma è soprattutto un tentativo di chiedere fiducia a chi crede ancora in una politica condivisa, costruita dal basso con spirito di ascolto e di inclusione, capace di contrapporsi a scelte calate dall’alto che favoriscono solo ristretti gruppi di potere. Aggregarsi e dialogare è qualcosa che dovrebbe stare nel midollo spinale di ogni anima di sinistra. Perché significa riconnettere la politica alla polis, nel senso aristotelico del termine. Rimettere i diritti al centro del discorso politico. E riconoscere che non c’è villaggio che possa ignorare il mondo.

Stiamo assistendo a clamorose erosioni del diritto internazionale, sostituito dalla prevaricazione del più forte o del più bullo. Ma lo smantellamento di questi diritti esplode ora semplicemente perché è in corso da diversi anni, come dimostra la politica repressiva messa in atto nel Mediterraneo contro ong e migranti da governi italiani sia di destra che di sinistra (per tacere dei nostri rapporti con la Libia). Se subordiniamo i diritti umani a una ragion di stato mai realmente argomentata, o riteniamo che i diritti siano un freno allo sviluppo (quando i diritti riguardano i lavoratori), abbiamo compiuto due passi decisivi verso il trionfo di ogni prepotenza e la fine della civiltà.

Piazza della Signoria, Firenze

Per ripristinare il diritto chi ricopre incarichi di governo deve saper passare dal gesto simbolico, pur fortissimo, a pressioni di altra concretezza. Non ha senso approvare mozioni contro lo sterminio dei Palestinesi se il console onorario di uno stato che ammazza bambini a migliaia rimane tetragono alla guida di una fondazione che i bambini li cura: l’Ospedale Meyer di Firenze. Ma proprio il fatto che la politica locale sia impotente davanti alla possibilità di cacciare Marco Carrai (o anche solo di discuterne seriamente e pubblicamente) evidenzia non poche difficoltà operative che un campo aperto a sinistra deve saper affrontare. Carrai, amico storico di Matteo Renzi, è al centro di una rete di imprenditori, grandi elettori, politici che rendono complicata, per chi amministra Comune o Regione, una decisione drastica.

Guarda caso, Renzi è uno dei grandi elettori di Giani, che pure ha definito Netanyahu un criminale di guerra. E lavora per la fondazione di Tony Blair, che rischiamo di veder governare Gaza, secondo il piano di Trump. La classe dirigente della Toscana, che rischia di venire confermata, non è all’altezza di governare la Toscana perché deferente nei riguardi di quei poteri e di quegli investitori e fautrice di una politica neoliberista che vira a destra. Ecco perché al di là dei proclami certe cose non si vogliono fare. Ma una proposta forte a sinistra dovrebbe riaffermare un sistema valoriale per cui invece queste cose non solo si possono, ma si devono fare.

Le ricadute sul territorio sono state devastanti. A Firenze le amministrazioni Renzi e Nardella hanno incoraggiato un turismo parassitario e privo di controllo (oltre che di decoro) e la svendita di Firenze a grandi gruppi immobiliari, spesso stranieri, che l’hanno trasformata in un parco a tema nella totale incuranza della sua storia. Il cosiddetto “cubo” sorto in luogo dell’ex Teatro Comunale ha tenuto banco nelle cronache estive come se fosse precipitato da Marte, ma è solo la punta di una montagna di cemento prodotta in piena zona Unesco da una privatizzazione di luoghi ex pubblici che non ha creato luoghi aggregativi né spazi abitativi accessibili ai cittadini.

Da un lato Giani ha negato che l’overtourism esista, dall’altro Firenze perde residenti nel centro e respinge anche chi vi si potrebbe trasferire per lavorare, visto che il costo degli alloggi (e della vita) è diventato insostenibile. Ma Giani crede che un fattore di sviluppo sia rappresentato da una nuova e più lunga pista dell’aeroporto di Peretola, che renderebbe ancor più precario il rischio idrogeologico della piana, mangiandosi una bella fetta di un parco agricolo progettato per impulso regionale, ma che ancora la Regione non ha istituito.

La tendenza fiorentina sta contagiando altre città della Toscana, mentre il consumo di suolo non si ferma e le energie rinnovabili stentano a farsi strada. A una promozione monodirezionale di turismo e immobiliarismo ha corrisposto una crisi dell’industria e di quell’artigianato che era un tempo eccellenza nazionale. Fa rabbrividire che tutto ciò accada proprio in Toscana, una regione il cui strepitoso patrimonio dovrebbe suggerire ben altre strategie. Ma ci vogliono gli strumenti per interrogarlo e comprenderlo.

La vera risorsa del futuro è proprio la cultura, che davvero può riempire una quota di mercato, giacché la classe politica italiana del momento brilla per non averne, visto che intellettuali e scienziati sono per lei ingombranti. Nella stessa Firenze, sembra che ogni decisione sul futuro della città venga presa come se la sua università non esistesse. Ma con un occhio di riguardo alle università straniere che procurano legioni di studenti-consumatori.

 

Fulvio Cervini, durante la campagna per il referendum sul lavoro e sulla cittadinanza

Anche qui si tratta di diritti: Firenze è divenuta una città che non garantisce il diritto allo studio. Lavorare sulla cultura potrebbe invece valorizzare il carattere propositivo dell’aggregazione, generare anticorpi, superare la fase antagonista. Non basta essere contro i genocidi, i fascismi o il turismo. Bisogna proporre una visione che gli altri non hanno. Ottocento lavoratrici e lavoratori del ministero della Cultura hanno chiesto un maggiore impegno pubblico in difesa di Gaza. Il passaggio cruciale è quello in cui i firmatari dichiarano di essere “percepiti come burocrati o custodi di una bellezza astratta e fuori dal tempo, quando non intrattenitori di un pubblico di visitatori o turisti”.

Ma musei e biblioteche sono “laboratori di riflessione sulle dinamiche della storia e sulla realtà contemporanea”. Se visitassero qualche museo o leggessero cose diverse dai loro stessi sgrammaticati post, certi opinionisti da social non potrebbero neppur concepire gli insulti razzisti e sessisti riversati a valanga sulla nostra candidata presidente, da quando è scesa in campo, ogni volta che appare o dice qualcosa: perché Antonella Bundu è di sinistra, non da ora impegnata a difesa dei diritti, ma soprattutto donna e italiana afrodiscendente. Dunque una figura straordinariamente moderna, ma difficile da accettare nella regredita Italia del 2025.

Persino in una Toscana che fu tanto all’avanguardia nella tutela dei diritti umani da abolire la pena di morte, prima al mondo. In questo clima di odio (che incredibilmente la nostra presidente del Consiglio attribuisce in toto alla “sinistra”), persino tentare un ragionamento diventa complicato. Se aggiungiamo che nel mese di agosto abbiamo dovuto raccogliere più di diecimila firme per competere (visto che nessuno dei tre partiti della coalizione era in Consiglio Regionale), e che la campagna è totalmente finanziata dal basso con mezzi esigui, molto volontariato e molto entusiasmo, si capisce che Toscana Rossa è come un peso piuma che combatte contro due pesi massimi con le mani legate. Ma in fondo neanche Golia era invincibile.

Fare cultura a sinistra dovrebbe significare che non c’è denaro sufficiente per avere la meglio sul vivere bene la propria città da parte dei cittadini, e che semplicemente certe cose non sono negoziabili. Non è solo una questione di patrimonio artistico o di decoro urbano. Il potere economico sembra non avere contrappesi, ma in realtà può essere fermato da ciò che esso non ha. La cultura fornisce gli strumenti per dire no. Ed elaborare una visione diversa delle città e dei mondi, costruita sul rispetto delle persone e delle comunità, e nutrita dalla profondità di una prospettiva storica. Ecco perché, come diceva Marco Aurelio, ogni giorno dobbiamo alzarci pensando di far bene il nostro mestiere di uomini e donne. Mettendoci un po’ di orgoglio e di coraggio. Anche schierandoci. Anche votando. Perché questo ci rende migliori. E questo fa di noi una civiltà.

L’autore: Fulvio Cervini è docente di storia dell’arte medievale all’università di Firenze, è iscritto a Possibile ed è candidato alle elezioni regionali del 12 e 13 ottobre per Toscana rossa