Home Blog Pagina 15

«Non sappiamo cosa abbia fatto il nostro governo in quei primi mesi»

«Non sappiamo cosa abbia fatto il nostro governo in quei primi mesi».
La voce di Armanda Trentini pesa più di qualsiasi comunicato della Farnesina. Da quasi un anno suo figlio, cooperante, è detenuto in Venezuela senza accuse formali. In dieci mesi Roma ha ottenuto una telefonata e una visita consolare. Nel frattempo il governo ha scelto la “discrezione”, parola che spesso copre l’inazione.

Tra novembre e gennaio nessuna notizia, nessun contatto, nessuna spiegazione. Quando la famiglia chiedeva aggiornamenti, le risposte: «la diplomazia è al lavoro». Solo a metà gennaio, dopo due mesi di silenzio, Palazzo Chigi convoca l’incaricato d’affari venezuelano. Troppo tardi per una madre che attendeva almeno una voce.

Oggi Armanda Trentini mostra una bandiera: «Alberto Trentini libero». È il simbolo di una solitudine che pesa quanto una cella. In un Paese che si vanta di “riportare a casa gli italiani”, un cooperante dimenticato non fa notizia. Il patriottismo non vale nulla se non diventa tutela concreta dei diritti.

Chiedere è dovere: quali passi, quali date, quali nomi? Perché l’accesso consolare è arrivato dopo dieci mesi? E perché si chiede silenzio ai familiari con risultati minimi? Presidente Meloni e ministro Tajani: questa è la vostra idea di protezione dei cittadini?

La dignità di una famiglia non può essere appaltata alla ragion di Stato. Servono trasparenza, cronologia, responsabilità. Finché quel calendario non sarà pubblico la frase della madre resta l’atto d’accusa più serio: «Speravamo. Poi nessun contatto». E il silenzio dello Stato continua a fare rumore. Ora.

Buon lunedì.

Immagine dalla pagina FB “Alberto Trentini libero”

Lo storico israeliano Ilan Pappé: Dal collasso del sionismo a una Palestina democratica fondata sulla coesistenza

Insignito a Modena con il 16esimo Premio Internazionale Stefano Chiarini, Ilan Pappé è professore di Storia all’Istituto di studi arabi e islamici e direttore del Centro europeo per gli Studi etno-politici sulla Palestina presso il Dipartimento di Storia dell’Università di Exeter (Regno Unito). Lo storico israeliano è anche autore di numerosi, importanti saggi.

Nella sua lectio magistralis in occasione del premio e nel suo nuovo libro, La fine di Israele edito da Fazi (che viene presentato dall’autore con Daniele Mastrogiacomo il 6 ottobre alla Feltrinelli in via Appia Nuova a Roma) Pappé denuncia il massacro del popolo palestinese  ancora in atto, riuscendo a tenere accesa una speranza per una pace giusta in Palestina, affidata alle nuove generazioni.

Di fatto La fine di Israele è la summa dell’analisi storico-politica del noto storico israeliano, un contributo fondamentale per comprendere quanto sia insostenibile il progetto sionista e quale potrebbe essere la via percorribile per il futuro della Palestina.

Pappé preconizza: “Stiamo assistendo all’inizio della fine dello Stato di Israele”. Dopo l’attacco di Hamas del 7 Ottobre e mentre prosegue il genocidio a Gaza perpetrato dall’Idf, il progetto sionista in Palestina – tentativo secolare dell’Occidente di imporre uno Stato ebraico in un Paese arabo – è destinato a una “disintegrazione inevitabile”.

Dopo opere considerate pietre miliari nella storiografia del conflitto israelo-palestinese, nel suo nuovo saggio appena pubblicato,  Pappé sposta lo sguardo sul futuro di Israele e della Palestina. Diviso in tre parti, nella prima – Il collasso – Pappé esamina il fallimento del cosiddetto “processo di pace” ed evidenzia le fratture profonde che minacciano la stabilità di Israele: l’ascesa del sionismo religioso, le crescenti divisioni all’interno della società israeliana, l’allontanamento dei giovani ebrei dal sionismo, il sostegno dell’opinione pubblica mondiale alla causa palestinese, la crisi economica e la messa in discussione dell’invincibilità militare di Tel Aviv.

Nella seconda parte – La strada per il futuro – l’autore delinea sette mini rivoluzioni cognitive e politiche necessarie per costruire un avvenire migliore per tutti gli abitanti della Palestina storica: da una nuova strategia per il movimento nazionale palestinese alla giustizia transitoria e riparativa sul modello sudafricano, dal diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi alla ridefinizione dell’identità collettiva ebraica.
Nella terza parte – La Palestina del dopo-Israele, anno 2048 – Pappé offre una preziosa visione di speranza e riconciliazione. Immagina un domani in cui le mini-rivoluzioni abbiano avuto successo e descrive come potrebbe essere la vita in uno Stato palestinese democratico e decolonizzato, con il ritorno dei rifugiati, la coesistenza di ebrei e palestinesi come cittadini con pari diritti e la guarigione delle ferite del passato. Un’idea di futuro ben lontana dai progetti coloniali stile Gaza riviera.

 

L’Occidente in guerra contro i migranti

Quotidianamente sopraffatti da concetti, slogan e parole chiave entrati oramai nell’uso quotidiano di un linguaggio mainstream che costruisce paure ingenerando odi atavici per il “diverso” da sé, inermi assistiamo alla vergogna delle cosiddette politiche migratorie. Politiche condivise dall’Unione Europea ma non solo, alle quali si sommano le tecnologie ban-ottiche (dalla lingua inglese ban, banned, nel senso di proibire, bandire), derivazioni di un pensiero marcatamente colonialista della cui eredità ci si continua a servire per scopi non-umanitari. Accordi, leggi, e decreti i cui fini disumani crescono in proporzione alla belligerante attualità del presente.
In che modo si possa esser giunti a questo indicibile del XXI secolo ce ne parlano Maurizio Alfano e Renato Curcio, autori del libro Persone migranti. Tra cibernetica, militarizzazione e deportazione – oggetto di una prossima riedizione aggiornata per Sensibili alle foglie -, attraverso un percorso che traccia in modo chiaro il continuo mutamento politico e sociale a danno dei migranti. Il libro è stato presentato il 5 ottobre a Casal Bruciato a Roma.

Dal vostro lavoro emerge l’immagine di un Occidente feroce. Ripercorrendo allora parte di una storia italiana – dall’arrivo dei profughi albanesi negli anni Novanta ad oggi – ci si chiede come si sia potuti arrivare fino a questo punto; con uno Stato, il nostro, che ha di fatto istituzionalizzato la deportazione dei migranti.
Maurizio Alfano: È un arco temporale segnato dal debutto degli imprenditori morali. Cittadini che si professano vittime dell’immigrazione degli albanesi e, anche a sinistra, il sentimento verso i profughi si traduce presto in risorsa elettorale. La destrutturazione di questa fase restituisce la complessità di un sistema che, alimentando la paura dello straniero, riprogetta dispositivi di controllo sociale con il consenso delle masse che segna il passaggio al ricorso degli imprenditori delle armi sedimentandosi su un razzismo anche biologico. La necessità di interventi non più solo normativi, l’invocata sicurezza nazionale chiesta anche a sinistra pretende oltre che meccanismi di controllo, anche di difesa e riarmo contro l’assedio degli stranieri. In questa narrazione, l’ossessione per la deportazione negli Usa che guarda anche alla segregazione scolastica, come in Europa, dove si usa l’accesso alle piattaforme di delivery per controllare ed espellere gli stranieri, intensifica un perverso sistema di detenzione. Qui la ferocia di un Occidente che, nel Piano di riarmo e difesa dell’Ue, sostiene che le sfide transnazionali, come le migrazioni, metterebbero a dura prova il nostro sistema politico ed economico. Migrazioni utilizzate come la Palestina da anni, di contro, per testare tecnologie militari. Riarmarsi contro i migranti, implica dunque combattere, incarcerare e deportare il nemico finanche in l’Albania, dove la stessa tenuta dei diritti umani è già incerta per gli stessi albanesi.

Considerando dunque l’attuale e crescente militarizzazione delle politiche migratorie quale potrebbe essere una prossima futura ipotesi dei confini europei?
Renato Curcio: Con la crisi degli organismi mondiali di tutela del diritto internazionale alla quale stiamo assistendo anche la nozione di “confine” perde gran parte della sua sacralità. La maggiore attrezzatura tecnologica e la forza militare ne decidono le sorti. Alla prima si ancora la “sorveglianza”; alla seconda l’intervento furtivo. Con la disponibilità di satelliti e droni la tracciatura delle imbarcazioni può essere eseguita in tutti i suoi momenti e la loro intercettazione compiuta in funzione delle intenzioni che la stanno animando. La cui gamma comprende l’omissione di soccorso, il disturbo di eventuali soccorritori, il suo anonimo affondamento. Tre casi per ognuno dei quali, anche qui, abbondano le denunce documentate. Ma il punto è che gli operatori di questi crimini godono in quest’epoca di una sostanziale impunità poiché sono coperti da accordi non pubblici tra Stati concordi nel ricorso alla violazione del diritto internazionale e all’uso della forza. Per quanto ci riguarda da vicino basterà citarne due: l’Italia e la Libia.

Nel capitolo dedicato alle “Sovraimplicazioni tecnico-digitali dei processi migratori”, viene introdotto il tema dell’eredità coloniale, causa di molti mali. Riemergono antiche ossessioni in termini di “razza” e “sostituzione etnica” e a queste si lega un utilizzo sempre più massiccio di tecnologie ban-ottiche di sorveglianza, utilizzate dai corpi speciali – vedi Frontex – per prevenire l’ingresso dei soggetti ritenuti “portatori di minaccia”. Ecco … sembra essere tornati indietro nel tempo
Renato Curcio: Direi piuttosto che ci si è spinti molto avanti e ben al di là perfino delle tutele formali tuttora vigenti che non a caso anche nelle varie commissioni di studio del Parlamento europeo corrono ormai rischi serissimi di sopravvivenza. Voglio dire che al punto in cui siamo la spersonalizzazione razzista delle persone migranti s’è spinta a un tal punto istituzionale che le polizie dei singoli Stati si rapportano ad essi considerandole non-persone. In quanto “corpi estranei” essi possono dunque essere incarcerati con procedure “amministrative”, deportati in campi di concentramento in territori messi a disposizione da Stati compiacenti, e spiati nelle loro comunicazioni private o ispezionando i loro device. Al riguardo l’Agenzia Frontex che sovraintende in chiave colonialista queste derive di chiara impronta suprematista oltre alla ricognizione satellitare, l’uso di droni, aerei navi e perfino di sottomarini, si sta dotando di dispositivi implementati con specifiche intelligenze artificiali avanzate; ovvero con quelle IA-enhanced che costituiscono oggi il territorio di sperimentazione più avanzato, intrusivo e trasversale del disciplinamento sociale.
Ci si chiede spesso come mai la sinistra non abbia avuto e continui a dimostrare di non avere quella adeguata sensibilità a comprendere per tempo la complessità del sistema migratorio e quanto, di fatto, si è resa complice e responsabile dell’attuale disumanizzazione?

Alfano e Curcio si alternano in questa risposta:  I processi migratori che stanno raggiungendo l’Europa sono un inevitabile riflesso delle politiche coloniali che sono state seguite dopo la Seconda guerra mondiale. Politiche che hanno messo al centro gli interessi del cosiddetto Occidente e si sono illuse di poter contare, per amministrarli, sui gruppi di potere locali volta a volta sostenuti. Da ciò sono derivate guerre che hanno generato un numero incredibile di morti e vantaggiosissimi affari per chi le ha ispirate. Ed anche sordidi accordi con gruppi di potere locale finalizzati ad istituire sul territorio “cinture di sicurezza”. La Libia insegna! Ma se vogliamo una dimostrazione attuale ed anche più significativa, il genocidio che lo Stato di Israele – sentinella dell’Occidente – sta compiendo contro la popolazione palestinese ce la offre in spettacolo gratuito. Morte, distruzione e affari. Dove il terzo termine della triade qui in Europa è a tal punto importante che nonostante la Corte dell’Aia prima e l’Onu poi abbiano infine riconosciuto la catastrofe genocidiaria gestita dallo Stato di Israele, gli Stati del continente si guardano bene dall’interrompere le loro relazioni economiche con quel Paese. E le sinistre istituzionali non brillano certo per impegno nell’opposizione. Risponderemo allora alla domanda con un’altra domanda: questione di sensibilità culturale, di cecità politica o di complicità nel sostegno di inconfessabili interessi economici ed istituzionali?

Quel blocco illegale che uccide il diritto internazionale

Il blocco navale non è un’invenzione recente. La sua disciplina giuridica affonda le radici nella Dichiarazione di Londra del 1909, firmata dalle grandi potenze marittime per stabilire regole comuni sulla guerra in mare: dal contrabbando, al commercio con i neutrali, fino al blocco delle coste nemiche. Quella convenzione rappresentò un passo avanti nel diritto marittimo internazionale, offrendo principi che ancora oggi ritroviamo nel diritto dei conflitti armati, lo ius in bello.
Un precedente ancor più significativo, tuttora in vigore, è la Convenzione di Costantinopoli del 1888, che limita il blocco negli stretti internazionali: passaggi come Suez o il Bosforo non possono essere chiusi se collegano l’alto mare con acque circondate da Stati neutrali. Una regola che, in tempi di nuove tensioni geopolitiche, mantiene una bruciante attualità.
Ma cos’è, giuridicamente, un blocco navale? È un atto di guerra a tutti gli effetti. La stessa Dichiarazione di Londra lo equiparava a una dichiarazione di guerra. La sua liceità, oggi, si trova nell’articolo 42 della Carta Onu, che autorizza il Consiglio di sicurezza a disporre un blocco tra le misure coercitive in caso di minaccia alla pace. Per essere legittimo, tuttavia, deve rispettare tre condizioni: deve essere effettivo (utilizzando navi di superficie, e non sommergibili), non discriminatorio e preceduto da una dichiarazione ufficiale.
Non tutte le navi, però, possono essere fermate. Il diritto umanitario prevede esenzioni precise: l’art. 23 della IV Convenzione di Ginevra tutela le navi cariche di medicinali, mentre l’art. 70 del I Protocollo aggiuntivo consente azioni umanitarie per inviare cibo, vestiario e beni indispensabili alla sopravvivenza dei civili. È qui che entra in gioco la vicenda della Sumud Flottiglia.
Israele ha imposto il blocco navale a Gaza il 3 gennaio 2009, durante l’operazione Piombo Fuso contro Hamas, fissando la linea a 20 miglia nautiche dalla costa (poi ridotte). Un blocco rimasto in vigore anche dopo la fine delle ostilità, trasformandosi in un regime di guerra permanente, in contrasto con lo spirito della Dichiarazione di Londra.
Ma il nodo più controverso riguarda la sorte delle navi che tentano di violare un blocco. La Dichiarazione del 1909 non chiarisce cosa debba accadere agli equipaggi. Nel caso della Mavi Marmara, la nave abbordata nel 2010 con esiti tragici, Israele ha fatto riferimento non a una fonte di diritto internazionale, ma al manuale della Marina Usa, secondo cui il tentativo di violazione inizierebbe già all’uscita dal porto con l’intenzione manifesta di superare il blocco.
Su questa base Israele ha invocato un “diritto di inseguimento” che avrebbe legittimato l’abbordaggio delle navi della Flottiglia in alto mare. Ma qui sta la frattura giuridica: il cosiddetto diritto di inseguimento, previsto dall’art. 111 della Convenzione sul diritto del mare (Unclos), non si applica a navi civili in acque internazionali. Perciò l’azione israeliana resta inquadrabile solo come applicazione di un blocco navale (la cui legalità nel contesto del diritto umanitario è contestata) o come atto di autodifesa – un’argomentazione altrettanto controversa, data l’assenza di armi a bordo delle navi.
Ed è qui che si gioca la partita giudiziaria destinata ad animare i tribunali internazionali: avvocati e giudici dovranno districarsi tra il diritto di guerra, le norme umanitarie e i principi della Carta Onu.
Il punto cruciale, però, resta la confusione di fondo: tra guerra dichiarata e operazioni “di sicurezza”, tra blocco navale e diritto umanitario. Perché, in diritto internazionale, la guerra – esclusi i casi di autodifesa e le azioni autorizzate dal Consiglio di sicurezza – resta illegale.
Il problema giuridico, dunque, non è la Flottiglia. Il problema è la guerra.
In apertura uno scatto dalla manifestazione del 3 ottobre 2005 a Firenze, foto di Massimo Lensi

A bordo di Mediterranea ancora ferma a Trapani: multata per aver salvato vite

Il 3 ottobre è una data che segna uno spartiacque. Nell’ottobre 2013 al largo di Lampedusa, 368 persone che tentavano di raggiungere l’isola, persero la vita. All’indomani di quel tragico naufragio che non fu una fatalità, e mentre continua la criminalizzazione del lavoro di salvataggio delle ong, ecco un racconto dal vivo delle conseguenze del fermo che Mediterranea sta ancora sta subendo

Salire su Mediterranea significa sbattere contro tutte le contraddizioni di una politica che ha deciso di rappresentare come criminali delle persone che salvano altre persone, con il solo scopo di tenere queste ultime più lontane possibile dal nostro mondo di privilegiati: europei, bianchi, cattolici. Un mondo dove i diritti ci sono stati concessi quasi per caso, per il solo fatto di essere nati dalla parte giusta del Mediterraneo. Che se fossimo nati 200 miglia più in là, i nemici saremmo stati noi. Mediterranea è un posto dove la coscienza, la memoria che si tenta di desertificare e l’impegno diventano un luogo ed una comunità.
La nave Ong è in fermo amministrativo dal 23 agosto, multata per 10mila euro in applicazione del decreto legge Piantedosi. Rea di non aver attraccato a Genova ma a Trapani, per risparmiare 4 giorni di navigazione a 21 migranti soccorsi in mare in condizioni spaventose.La nave è all’ancora, che resiste, a pochi metri dalla Mare Ionio e dallo scafo arrugginito della Iuventa.


Sullo sfondo, una Trapani di luce e lutti: città di accoglienza ma anche capace di negare la cittadinanza onoraria alle Ong e di ospitare un Cpr dove troppo spesso “si fa la corda”.
Guardare Mediterranea con una visione del problema migratorio che parte dalle norme, dai decreti, fa perdere di vista le persone.
Le cui storie abbattono i confini fatti della stessa materia dei sogni, ci fanno sentire più fragili, vulnerabili a quel racconto che non può che cambiarci.Perché il mare è un non luogo, la traversata ed il rescue è un attimo, la salvezza è il futuro che si apre oltre i porti di sbarco. Sheila ha un tatuaggio sul braccio destro, dei numeri in sequenza: sono le coordinate delle rotte delle missioni di salvataggio nel Mediterraneo Centrale cui ha partecipato in questi anni. É incazzata con un mondo che vorrebbe scuotere forte, appollaiata su una sedia sgarrupata come il suo animo: negli ultimi due giorni, al largo delle coste di Tobruk e di quelle tunisine, ci sono stati due grossi naufragi con decine e decine di vittime, che loro avrebbero potuto salvare. Lei si è sempre occupata di persone: a 18 anni con Emergency, gli ambulatori di Palermo, che la avvicinano alla storia delle persone in movimento. Poi, una telefonata da un amico palermitano di Arci “Porco Rosso”: “Torna, stiamo comprando una nave”.


Era il 2018 e la prima missione della Mare Ionio fu preparata in maniera semiclandestina nel porto di Augusta.
Sheila è come Mr. Wolf: risolve problemi, aiuta a trovare delle strategie per restare il più possibile in mare. Come quando, con Mare Ionio ferma, le missioni sono continuate con la Safira, di due amici trapanesi.
Nel 2018 c’era anche Beppe Caccia, oggi capo missione di Mediterranea, una vita di militanza movimentista, anche a livello europeo.
É lui che si è assunto la responsabilità delle scelte della notte del 23 agosto: “Prima di tutto, si obbedisce alla legge del mare, alla Costituzione italiana e alle leggi dell’umanità”, dice Beppe. Aldo Ciani, romano, era un ristoratore. Conosce Mediterranea Saving Humans, seguendo la vicenda della Maersk Etienne, bloccata in mare con ventisette migranti a bordo, durante il lockdown. Entra come volontario nell’“equipaggio di terra”, partecipa a iniziative come i safe passage dall’Ucraina.
Nel maggio 2025 viene acquistata Mediterranea, più grande e funzionale della Mare Ionio, ed ora servono anche gli equipaggi di terra: Aldo cura la cambusa e cucina, ogni ruolo è essenziale in questa operosa fabbrica solidale. La nave Mediterranea è il risultato di un sogno parecchio agitato di Luca Casarini condiviso con Beppe Caccia: un rilancio forte sia sul piano dell’impegno e, soprattutto, una risposta alle politiche istituzionali che vogliono che nessuno guardi, nessuno veda, nessuno racconti quello che succede al di là del Mediterraneo.


É un’ingiustizia umana intollerabile dover salvare, di notte, un bambino di venti giorni e che le navi soccorso siano “punite” per aver salvato vite e da questo possano scaturire altre morti. Sheila non può pensare che “ci siano politici, ministri, sottosegretari che siedano intorno ad un tavolo e non capiscano quali siano gli effetti dei loro decreti, delle loro norme. Che non capiscano che il “reato di salvezza” non ha un senso logico”. Perché ogni salvataggio porta grandi felicità: vite annegate che passano dalla paura di morire alla gioia di essere salvi.Come quella dei due fratelli, partiti su barche diverse e convinti di essersi persi per sempre, che si ritrovano in un abbraccio sul ponte. A ciascuna delle centinaia di persone incrociate, Sheila avrebbe voluto dire loro non ti preoccupare, andrà tutto bene, potrai rivedere i tuoi genitori, in Italia sarai accolto, la tua vita sarà bellissima.

Invece ogni volta li guarda e l’unica cosa che riesce a dirgli è “vuoi del tè caldo?” Una vita migliore non è in grado di promettergliela, perché da quel momento li attende un altro calvario, anticipato dai troppi militari in tenuta antisommossa al momento dello sbarco nei porti italiani. Nel maggio 2019, Beppe era sulla Mare Ionio in zona SAR libica.
Dopo una segnalazione di Alarm Phone avvistarono un piccolo gommone grigio, invisibile ai radar e privo di telefono satellitare. Un potenziale “naufragio fantasma”.

A bordo c’erano 50 persone, tra cui una coppia sud sudanese con una bambina nata nei campi libici e la madre incinta. Oggi vivono in Francia, hanno una famiglia numerosa e lavorano: “Dopo questo, non puoi più smettere di salvare vite”, racconta Beppe. Lui ha visto molti orrori: le fosse comuni in Bosnia durante la guerra; a Ramallah, nel 2002, quando ha aiutato a trasformare il parcheggio dell’ospedale in una fossa comune, perché i morti di quella seconda intifada non entravano più nelle celle mortuarie. Ma la sproporzione tra la realtà che si vive in mare, la propaganda che viene fatta sull’immigrazione e sul soccorso nel Mediterraneo lo ferisce persino di più. Fare parte della Civil Fleet che pattuglia il Mediterraneo pone davanti a scelte continue. Scegliere ogni giorno come non diventare complici di una politica orrenda è la sfida più grande: rispettare il “codice Minniti” o disobbedire per salvare vite rischiando multe e sequestri.

Scegliere ogni giorno di restare umani. Ma poi ci sono loro, i salvati, che ballano sul ponte felici di essere vivi, che ti dicono che sei la prima persona bianca di cui non hanno paura. Ci sono i bambini che disegnano le navi italiane coi cuoricini e i fiori, con gli arcobaleni colorati. Sono loro che ti salvano, anche se Sheila, oggi, si sente sommersa: non è il suo primo fermo, nemmeno la sua prima missione, e se non ha mai recuperato cadaveri, i fantasmi che vengono su dal mare le siedono accanto, le posano una mano sulla spalla. E forse sono loro a dirle che andrà tutto bene, non ha bisogno di un thè caldo.

Andrà tutto bene perché non si sono voltati dall’altra parte, perché Beppe vuole poter guardare in faccia i propri figli e dire che ha fatto qualcosa: si sente egoista a questa motivazione, ma forse è semplicemente un Uomo che riconosce uomini in quello che, per parte dell’Occidente, è solo un “carico”. Sheila, Aldo e Beppe fanno parte di “un esercito nato per sciogliersi”, ma solo quando questa crisi umanitaria, che dura ormai da 30 anni, sarà risolta aprendo canali sicuri e legali di libera circolazione. Scendo da Mediterranea, l’intervista è conclusa: sfioro il passamano, sperando che ci sia un po’ di salvezza anche per me.

Beppe Caccia

 

L’autrice: Valentina Colli è archeologa e componente dell’Udi Trapani

Complicità di governo: le denunce fanno quello che la politica non osa

Ci sono decine di denunce pronte a riempire i tavoli della Procura di Roma. Mica un gesto simbolico: sono esposti che chiamano in causa Israele per l’assalto in acque internazionali alla Global Sumud Flotilla e il governo italiano per omissione di tutela verso i propri cittadini. È il diritto internazionale a reclamare spazio, mentre la politica italiana si esercita in equilibrismi semantici per evitare di disturbare l’alleato.
Le accuse non riguardano soltanto la violenza dei militari israeliani, ma il vuoto lasciato da Palazzo Chigi. Gli attivisti, imbarcati con il sostegno pubblico di associazioni e cittadini, si aspettavano protezione. Hanno trovato il silenzio di un esecutivo che ha scelto la convenienza diplomatica. Crosetto, per difendere l’indifendibile, si è rifugiato in rapporti vecchi di dieci anni per legittimare un blocco navale che l’Onu ha definito illegittimo.
A differenza della propaganda, le denunce hanno un pregio: impongono alle istituzioni di rispondere con atti, non con dichiarazioni. Se la Procura accoglierà le istanze, si aprirà un fascicolo che metterà a nudo la distanza tra la retorica della legalità e la pratica della ragion di Stato.
Le firme che sostengono gli esposti non chiedono favori, ma l’applicazione delle regole comuni. Perché il diritto internazionale non è un orpello da citare nei convegni: è l’unico argine che resta quando la politica decide che la vita dei cittadini vale meno delle alleanze.
Buon venerdì.

La politica è ricerca collettiva

Nel processo politico il confronto tra idee diverse viene affermato essere ciò che permette la nascita di nuove possibilità di sviluppo di una società.

Il confronto è dialettica, orale e scritta. Lo scopo è convincere con le proprie argomentazioni chi ascolta, con l’idea che questi poi sosterrà la posizione politica in una votazione o in una ulteriore discussione altrove. Gli argomenti della discussione politica sono evidentemente tutto ciò che riguarda il vivere insieme, il progettare il futuro, il migliorare le condizioni di vita, il gestire tutto ciò che può essere lesivo del benessere e tutto ciò che è migliorativo del benessere. Ma l’oggetto della politica sappiamo tutti che non è in realtà la semplice amministrazione della cosa pubblica.

È evidente che l’idea di fondo di ogni idea o movimento politico si riferisce sempre ad un’idea più o meno consapevole di cosa sia un essere umano e di conseguenza di quale sia una politica che vada a “vantaggio” di quell’idea di essere umano. Al fondo possiamo dire che sono le diverse concezioni di cosa sia un essere umano che fanno le diverse idee politiche. La concretezza della decisione e dell’azione politica è una manifestazione di quel pensiero. Una politica contro l’aborto avrà una ben precisa idea di donna e di relazione tra donna e uomo che la sostiene così come d’altra parte una politica a favore dell’aborto avrà un’altra idea di ciò. E non è necessario che queste idee siano palesate esplicitamente. La gran parte della politica esprime le proprie idee sull’essere umano senza “dirle” esplicitamente ma lasciandole intendere tramite l’azione politica. Se il ministero dell’Istruzione diventa anche “del Merito” si intende che c’è un’idea di competitività naturale tra gli esseri umani che deve essere valorizzata.

D’altra parte una sanità che sia pubblica e universale, che non consideri il censo o la situazione personale del paziente, che faccia sì che chiunque, che sia un clochard o un broker di borsa, possa avere accesso a cure sofisticate e costose, realizza e comunica un’idea di essere umano in un certo modo. Così come al contrario, una privatizzazione estrema della sanità, comunica un’altra idea di essere umano, un’idea per la quale avere successo economico e quindi potersi permettere le cure mediche significa essere dei prescelti, dal destino, da un’ascendenza o da dio, a seconda del tipo di approccio filosofico dei sostenitori di tale impostazione. Allora quale che sia la concezione dell’umano, essa è il contenuto della politica di chi ha il potere in un determinato momento storico.

Dobbiamo essere grati alla Rivoluzione francese e a Napoleone se è stata messa a punto un’idea dello Stato per cui la politica deve muoversi all’interno di una struttura di istituzioni che lo governano in cui ogni idea può esprimersi a condizione di non mettere in crisi la stessa struttura istituzionale. Sappiamo dalla storia che questa struttura è valida e permette uno sviluppo intellettuale ed economico straordinario. Ma la storia ci dice anche che questa struttura di per sé non è sufficiente a contenere la politica quando essa diventa violenta. Qualcosa si rompe, si vuole andare oltre, si creano spaccature nel confronto culturale e politico per cui non c’è più possibilità di recuperare un vivere insieme accettando di non pensare l’umano tutti allo stesso modo.

Quale che sia l’origine del pensiero politico esso produrrà azione politica che influisce sul vivere sociale nel senso di affermare quell’idea di umano che viene proposta più o meno latentemente. Conseguentemente sarebbe compito di chi voglia veramente fare politica approfondire la ricerca sull’essere umano, su cosa sia veramente e su cosa lo muova. Che non si dia frettolosamente per scontato che sappiamo tutto e che non c’è alcun dubbio su cosa esso sia. Ovvero, e più regressivamente ancora, che non si dia per scontato che non sia possibile studiare, sapere e conoscere cosa sia l’essere umano.

La conoscenza scientifica ha permesso di sapere pressoché tutto della fisiologia e biologia umana. Per cui sappiamo perfettamente quali sono i bisogni essenziali di ogni essere umano nelle sue diverse fasi di vita, da bambino, adulto e poi anziano. Sappiamo esattamente cosa sia necessario affinché il corpo si sviluppi forte e sano. Sappiamo come fare in modo che si viva a lungo, abbiamo strumenti per combattere malattie che nella storia hanno fatto milioni di vittime. L’evidenza scientifica dei bisogni degli esseri umani rende lo scontro politico rispetto ad essi la fiera dell’ovvio. Sarebbe da andare oltre a questo. Perché certamente l’essere umano ha bisogni ma altrettanto certamente l’essere umano non è soltanto questo!

E qui entriamo nel merito politico che mi interessa: se la sinistra si ostina a contestare soltanto bisogni non riconosciuti e non sviluppa un pensiero su tutto il resto che fa la specificità umana, lascia campo libero alle altre forze politiche per affermare idee di umano che di umano non hanno proprio nulla. Così come non si può in nessun modo accettare che la sinistra pensi che tutto ciò che non è bisogno sia dominio della religione e che vada bene tutto ciò che essa sostiene. In questo modo si rinuncia ad ogni ricerca su ciò che è la mente e il pensiero umano e di conseguenza si rinuncia a fare una Politica che sia realmente nuova e soprattutto umana! Perché se è il pensiero religioso “la verità”, allora perché complicarsi la vita… votiamo per una teocrazia e abbiamo risolto!

Vediamo allora di delineare come fare questa ricerca andando a guardare nel pensiero sull’uomo. Grossolanamente possiamo dire che c’è una distinzione di fondo tra pensiero politico che ha un pensiero negativo dell’agire umano oppure il contrario. Se pensiamo all’essere umano come intrinsecamente cattivo (con il peccato originale, il nulla originario o il caos di pulsioni parziali) la conseguenza politica necessaria è pensare ad un potere, ad una forza materiale, che contenga queste le pulsioni negative e violente degli esseri umani. Dio, patria, padre, famiglia, strutture che possano contenere il pensiero inevitabilmente violento di chi altrimenti si troverebbe a uccidere il prossimo. Perché la violenza e il dominio dell’uno sull’altro sarebbe la realtà ineluttabile e naturale degli esseri umani. Realtà che si può forse contenere e modificare con l’educazione, la ragione e il comportamento. Dall’altro canto c’è (o dovrebbe esserci) una cultura e poi una Politica che invece ha un pensiero positivo rispetto all’agire umano, un pensiero che sappia di una fantasia spontanea e originaria dell’essere umano il cui contenuto è un pensiero di voler stare insieme agli altri. Un pensiero che vede bene senza farsi confondere e sa bene che la violenza umana può esistere e quando questo accade non è per una naturale realtà violenta degli esseri umani ma perché c’è una storia individuale in cui è esistita una socialità non sana che ha determinato l’emergere di quella violenza.

Un pensiero e una politica che rinuncia alla cecità del dire che esiste il Male per spiegare le tragedie del mondo, cercando un sapere scientifico, una conoscenza dell’essere umano che permetta di vedere e di capire quando e soprattutto come l’umano perde la sensibilità e gli affetti e diventa violento verso i suoi simili perché crede che non siano più uguali a lui. Nata dalla Rivoluzione Francese, la sinistra si è sempre battuta per i bisogni negati e ha sempre avuto un’idea ottimistica del futuro dell’essere umano. La rivoluzione scientifica, la scoperta di nuovi mondi e di popoli lontani, liberi dal pensiero religioso, le possibilità di sviluppo e ricchezza create dalla tecnologia ha fatto ipotizzare ai più brillanti filosofi che potesse esistere un possibile benessere per tutti. Hanno pensato ad una socialità naturale e originaria. Ha fatto pensare che potesse esistere una società ideale di uguali. Purtroppo avevano pensato solo in termini materiali e si erano dimenticati delle donne e dei bambini. La politica era cosa da uomini… Ma poi il tempo è passato, tante menti geniali hanno scoperto molto e hanno creato molto, e forse ci hanno detto che gli esseri umani sono più della loro materialità.

Ma non è stato sufficiente. Ci sono state due guerre mondiali e altre centinaia di guerre più piccole. Il grande benessere e la grande ricchezza non sono state sufficienti per evitare lo scontro fisico, la “soluzione finale” dell’eliminazione fisica dell’avversario politico/religioso/economico/militare. C’è qualcosa di nascosto e sfuggente, qualcosa di invisibile nella mente che rende la ricerca dell’uomo nuovo, della sua libertà e della società ideale qualcosa di così complesso da sembrare impossibile.

Che cos’è quell’invisibile? Dove sta? È un conflitto intrapsichico? Oppure un qualche tipo di alleanza con il “nemico”? E chi sarebbe poi questo nemico? Viviamo tempi strani e difficili. Le ideologie costruite dalle menti eccelse dei secoli passati sembrano ormai non avere più alcun valore. Le parole e il loro significato vengono decostruite e rimesse insieme ad affermare significati opposti al precedente. È difficile rimanere calmi e non arrabbiarsi per il continuo chiasso di tanti che affermano di avere la verità imponendola agli altri.

È un’epoca dittatoriale, in ogni campo. Ci sono dittatori per ogni uso, in ogni attività. Persone che avrebbero la verità in tasca per risolvere qualunque problema. Il metro del successo è l’accumulazione economica. Più si ha, o meglio più si accumula, più si è, e più si è “buoni” e più si può essere dittatori. Persone che si propongono come ideale per altri e che a loro volta hanno ideali cui aspirano, altri dittatori più grandi di loro. Il rapporto con gli altri non c’è più, si tratta solo di dominio. Rapporto sadomasochistico? O peggio, proporre uno specchio? Viene proposta un’identità fasulla che permette di non pensare, di non angosciarsi in questi tempi in cui le minacce tra gli stati somigliano a quelle dei secoli scorsi, come se ci fossimo dimenticati di cosa sono state due guerre mondiali con l’invenzione della bomba atomica, l’arma che non può e non deve essere mai usata. Pensavamo di esserci allontanati, perlomeno come ambizione e come diritto internazionale, da rapporti tra Stati che fossero solo di forza. Invece no, siamo ancora là. E siamo ancora sulla stessa retorica dello spazio vitale, del territorio, dell’“italianità” o “americanità” o nazionalità qualsiasi che farebbe l’identità umana diversa dalle altre. La razza. La scienza che ha scoperto il Dna che tutti sanno definisce l’umano e che permette la riproduzione tra persone di nazionalità diverse non sa come spiegare che non c’è alcuna razza.

Perché la scienza non sa spiegare perché alcuni decidono di non pensare e preferiscono credere alla favola del “popolo prescelto” invece di studiare e comprendere la biologia umana. Il non voler vedere, voluto e cercato da questa politica, è talmente assoluto che mette in discussione anche la realtà materiale e quindi la conoscenza scientifica.

Ed ecco che i vaccini o la tachipirina determinano l’autismo, il cambiamento climatico non esiste e che la terra in realtà è piatta… Per contrastare questo impazzimento di rapporto con la realtà è necessario che le forze politiche progressiste ripartano dalle basi. È necessario interrogarsi e chiedersi da dove viene e come si sviluppa questo impazzimento totale per cui si nega senza alcun problema realtà evidenti, si modifica il linguaggio e si spacciano bugie per verità. Sono cose che abbiamo denunciato più volte su Left, in riferimento all’allora nuovo governo Meloni, con una copertina che faceva riferimento a 1984 di Orwell: la deformazione del linguaggio per manipolare le menti. Lo stesso processo, amplificato e reso ancora più terrificante dalla dimensione e potenza del paese, sta avvenendo con Trump. È necessario comprendere per potersi opporre in maniera efficace. È necessario comprendere cosa è che determina la violenza, cosa è l’odio e cosa è la rabbia. Non si può dire che è il Male che determina le guerre! Perché ciò significa rinunciare ad ogni ricerca e dire che gli esseri umani sono così e basta…

Così come dire “clima d’odio” non spiega nulla ed è fondamentalmente sbagliato. Il clima semmai è di paura e in alcuni casi di rabbia.

Bisogna vedere che la violenza, quella terribile che uccide, compare quando anche l’odio e la rabbia non ci sono più. Quando si perde ogni affetto e il pensiero diventa lucido e freddo. Quando la morte dell’altro è l’inevitabile unico “pensiero” rimasto come rapporto con l’altro. Fenomeno evidentissimo nella popolazione israeliana quando gli viene chiesto cosa pensano del genocidio dei palestinesi realizzato dal loro Paese. Ci sono gli strumenti per comprendere. Dobbiamo studiare e capire quello che succede. Dobbiamo proporre strade alternative e nuove. Dobbiamo comprendere che cos’è la realtà umana. E dobbiamo farlo insieme, adesso! E dobbiamo farlo insieme adesso!

La guerra dell’Occidente contro i bambini di Gaza

Due anni dal 7 ottobre 2023, quando un feroce attacco terroristico di Hamas ha colpito centinaia di giovani israeliani che ballavano pacificamente in un rave. Poi da parte del premier israeliano Benjamin Netanyahu e del suo governo di ultradestra la vendetta su un intero popolo, come punizione collettiva. Una guerra spietata contro la popolazione palestinese, che in larga parte è fatta di giovani che neanche erano nati quando Hamas vinse le elezioni a Gaza nel 2006. Al grido di «combattiamo questi animali umani» (così il ministro israeliano Gallant) è avvenuta la distruzione totale di Gaza, la persecuzione di due milioni di civili si è fatta sistematica ed è diventata genocidio come ha documentato con chiarezza una commissione indipendente delle Nazioni Unite già nel marzo 2025, parlando fin da allora di «atti plausibili di genocidio». Già il 29 dicembre 2023 il Sudafrica aveva presentato denuncia contro Israele alla Corte internazionale di giustizia (Cig) accusandolo di violare la convenzione Onu sul genocidio del 1948, denuncia che è stata supportata da molti altri Paesi. Il 21 novembre 2024 la Corte penale internazionale (Icc) ha emesso un mandato di arresto internazionale contro Netanyahu e contro il ministro Gallant e per i capi di Hamas (nel frattempo uccisi).

Il lavoro dei tribunali internazionali è essenziale, ma lento, per giunta intralciato dalle sanzioni promulgate dal presidente Usa Trump, nei fatti braccio destro ed esecutivo del premier israeliano. Trump è stato il primo a preconizzare scenari di speculazione edilizia sulla Striscia, fantasticando una esotica Gaza riviere, costruita sulla fossa comune di almeno 70mila cadaveri – questo, secondo l’Alto commissariato Onu per i diritti umani, è il numero dei palestinesi che sono stati uccisi fino all’estate del 2025. Poi sarebbero arrivate le analoghe proposte di Blair (sì, ancora lui) e di Bezalel Smotrich, ministro delle Finanze israeliano, che ha parlato apertamente della Striscia di Gaza come di una «miniera d’oro immobiliare».

L’Unicef ha definito quella su Gaza «la guerra contro i bambini». La rivista scientifica The Lancet, in uno studio pubblicato a luglio 2025 ha stimato che le vittime potrebbero superare di molto sopra la quota 185mila, considerando i morti indiretti per fame e mancanza di cure.

E intanto la Striscia è colpita anche dalla carestia. Non c’era mai stata in quest’area nella sua millenaria storia di commerci e scambi con altri Paesi del Mediterraneo. Non è il frutto del fato, ma di una deliberata volontà del governo israeliano che ha sigillato gli ingressi nella Striscia, impedito gli aiuti umanitari, colpendo in primis i bambini gazawi. Quello a cui abbiamo assistito in questi due anni – e che abbiamo raccontato solo grazie al lavoro coraggioso dei colleghi di Gaza, che per questo hanno perso la vita a frotte- non sono solo i bombardamenti, l’assedio, l’attacco via terra- ma appunto anche l’uso della fame come arma, la distruzione di ospedali, scuole e infrastrutture idriche, la crudeltà di colpire i civili in fila per un tozzo di pane negli hotspot della famigerata e armata Gaza humanitarian foundation, ulteriore frutto perverso della alleanza Usa e Israele. A tutto questo si aggiunge che Gaza è diventata per Netanyahu (e per chi gli vende o gli compra armamenti) un laboratorio di sperimentazione di armi automatizzate letali.

Dirette da sistemi di intelligenza artificiale come The Gospel, Lavender, Where’s Daddy selezionano obiettivi umani accettando margini di errore che equivalgono a decine di vittime civili per ogni presunto combattente: sono stati usati per colpire cosiddetti centri nevralgici di Hamas e hanno ucciso a grappoli donne, bambini, anziani. Per il governo di Bibi le loro morti sono solo “effetti collaterali” in vista della reconquista delle terre che, nella visione messianica del governo israeliano, gli sarebbero state assegnate direttamente da Dio. Un progetto di annessione che parte da lontano, pianificato almeno fin dalla Nakba del 1948, quando oltre 700mila palestinesi furono scacciati dalle loro terre e abitazioni. Un piano che è stato perseguito per anni da Israele che, di fatto, occupa Gaza dal 1967 e che in tutti questi 58 anni ha messo in atto politiche di pulizia etnica e di apartheid dei palestinesi nella West Bank, come ampiamente documentato anche da organismi indipendenti tra cui Amnesty International. Il progetto coloniale di Israele, che dal 2018 è diventato uno stato ebraizzato a base etnico-religiosa non si è mai fermato. E ora arriva allo zenith. In Cisgiordania, ad esempio, non si tratta più di isolate iniziative violente di coloni israeliani. Il mese scorso la Knesset, il parlamento israeliano, ha approvato provvedimenti che sanciscono l’annessione de facto della Cisgiordania. I coloni ultra ortodossi, spesso armati e violenti, avanzano sotto la protezione dell’Idf, mentre ministri della destra messianica, come Smotrich e Ben Gvir, rivendicano la «riconquista di Giudea e Samaria» in nome delle Scritture. Un messianismo politico che intreccia integralismo religioso e speculazione edilizia: anche qui l’obiettivo è costruire insediamenti sulle macerie di un popolo.

Non a caso la relatrice speciale dell’Onu Francesca Albanese ha parlato in un rapporto di «economia del genocidio»: un sistema in cui la distruzione materiale e simbolica dei palestinesi alimenta filiere militari e tecnologiche, dalle imprese edilizie agli algoritmi di sorveglianza, in alleanza con molte aziende e realtà internazionali. Per questo le sue denunce sono state bersaglio di attacchi e sanzioni personali da parte degli Stati Uniti. Di fronte a tutto questo, in questi due anni, le istituzioni internazionali hanno oscillato tra timide condanne e impotenza. Fa male soprattutto il balbettio dell’Europa. La Ue non ha sospeso nemmeno l’Accordo di associazione con Israele, nonostante la violazione palese dei valori fondativi, come il rispetto dei diritti umani di cui si parla nell’articolo 2. Si è nascosta dietro i veti di Orban, dietro i silenzi di Merz e di Meloni allineata al Likud, continuando la cooperazione militare e cibernetica. Gli Usa, soprattutto con Trump, hanno garantito copertura diplomatica, militare e finanziaria a Israele, e l’Europa di Von der Leyen e l’Italia di Meloni si sono accodate. Sul finire di questi drammatici due anni, tuttavia qualcosa si è mosso, con il riconoscimento dello Stato di Palestina da parte di Francia, Gran Bretagna, Spagna, Irlanda e Norvegia. Un atto politico e simbolico che prova a rompere la narrazione israeliana di un popolo “inesistente” e apre la strada a nuove pressioni diplomatiche. Ma senza sanzioni, embargo sulle armi e sospensione degli accordi commerciali, il riconoscimento rischia di restare un gesto appunto solo simbolico.

La speranza che ci ha riempito il cuore in queste ultime settimane è quella che viene dalla società civile che in tanti Paesi europei e in Italia si è mobilitata per la Palestina e i diritti umani. Mentre tanti governi tacciono, le piazze d’Europa e del Mediterraneo si riempiono. Centinaia di migliaia di cittadini chiedono la fine del genocidio a Gaza, la sospensione delle forniture militari, il rispetto delle sentenze internazionali. In Italia, studenti e lavoratori per primi hanno espresso nelle piazze il loro “Not in our name”. Sono «i senza potere», come li chiama la scrittrice Paola Caridi, intervistata su Left, che hanno impedito finora che l’annientamento totale del popolo palestinese avvenisse e nel silenzio assoluto. Certo, la distanza tra la volontà popolare e le scelte dei governi non è mai stata così ampia. L’Occidente, che si era presentato come custode del diritto internazionale dopo il 1945, oggi perde ogni autorevolezza. Non può più parlare di diritti umani se li applica a geometria variabile. Se non fermiamo il genocidio a Gaza non sarà solo un problema palestinese: riguarderà la tenuta stessa dell’ordine mondiale. Perché, come ammoniva Hannah Arendt già nel 1948, il nazionalismo etnico-religioso porta sempre con sé la possibilità della catastrofe. Per questo parlare di “genocidio” non è una questione semantica. È un dovere giuridico e civile, l’unico modo per fermare la distruzione di un popolo e salvare il senso stesso della parola giustizia.

Foto di Leda Di Paolo – La manifestazione spontanea del 2 ottobre a Roma in solidarietà alla Global Sumud Flotilla aggredita in acque internazionali dalla marina israeliana

Anna Castiglia, dai banchi di scuola al Premio Tenco

Quest’anno la Targa Tenco per la migliore opera prima, per l’album Mi piace, è stata assegnata alla talentuosa, eclettica e penna interessantissima Anna Castiglia, già vincitrice, con il brano “Ghali”, della XXXV edizione di Musicultura. Nascita catanese, diploma EsaBac al liceo linguistico, che ha influito nel suo modo di scrivere e di percepire la musica sottolinea, poi Torino, Milano dove attualmente vive per continuare a fare, alla grande, quel che ha iniziato a 10 anni: scrivere canzoni e suonare la chitarra classica. Il primo brano per il compleanno di Paola, la sua miglior amica alle elementari, poi tanti altri e oggi l’album d’esordio, che non è un concept, ma una narrazione cronologica come ci racconta.

Anna cresce in un ambiente artistico, un privilegio lo definisce lei: papà e mamma facevano teatro, la sorella gemella apprende arti circensi nel capoluogo piemontese ed è lì che a 18 anni Anna Castiglia, decide di trasferirsi per iscriversi a una scuola di musical. Per «dare una chance all’arte» come ama dire. Oggi è impegnata in un tour fitto di date ( che il 14 ottobre la porta anche a Tunisi) e dal 2 al 5 ottobre viene premiata al Mei (Meeting delle Etichette Indipendenti) di Faenza (Ra) come artista emergente dell’anno. Di recente l’abbiamo anche vista alla Notte della Taranta (con “Beddha ci dormi” un brano della tradizione salentina).Intanto accarezza anche l’idea di prendersi una pausa per scrivere e per fare tesoro di questi mesi preziosi condivisi insieme alla sua band. Perché la musica è “collettività” come ripete spesso la cantautrice siciliana dietro un paio di occhiali che la caratterizzano e che custodiscono un bel messaggio. Per le donne, soprattutto, e le nuove generazioni.

«Anna, cantautrice demodé convinta che basti una chitarrina o una filastrocca in rima per vincere una Targa Tenco a caso» dice la voce fuori campo nel divertentissimo video di presentazione dell’album Mi piace. Un presagio?

Soprattutto una presa in giro nei miei confronti; è stata una circostanza divertentissima. L’ha scritta Zavvo Nicolosi, il regista, ed è stato assurdo quando si è avverato. Non so se ringraziarlo o no (ride, ndr).

Dodici brani, tra cui uno intitolato “Ghali” per parlare del contemporaneo anche artistico. Una curiosità, lui ti ha detto qualcosa?

Il mio ex coinquilino lavora con lui, lo abbiamo videochiamato. Ghali

Radiohead, un ritorno fra luci e ombre

A Copenaghen è un sereno pomeriggio di fine estate. Al Kihoskh, un bar e alimentari situato nel quartiere Vesterbro, i clienti stanno facendo la spesa quando qualcuno nota alcune cartoline bianche sugli scaffali delle riviste. Guardando meglio, quello che salta all’occhio è la strana struttura in stencil azzurro, ma soprattutto la scritta “Radiohead”. Ancora più in alto, l’informazione più importante: “December 01 02 04 05 2025, København, Denmark”. Quando la foto della cartolina viene caricata su Reddit, i mesi di indiscrezioni sul ritorno dal vivo della band di Oxford dopo sette anni sembrano avere finalmente conferma. Mentre le discussioni tra chi è convinto che si tratta dell’ennesima trovata promozionale dei Radiohead e gli scettici vanno avanti, altre cartoline vengono trovate al Barbican Centre di Londra, al Museumsinsel di Berlino e alla Sala Equis di Madrid. È ormai la tarda serata del 2 settembre e all’appello, seguendo le voci che si rincorrevano qualche settimana prima, manca soltanto Bologna. Ci vorrà la tarda mattinata del giorno dopo perché qualcuno scopra al Cinema Lumiere la cartolina con le date italiane.

Quando trent’anni prima Michael Stipe degli R.E.M. confessa al pubblico durante un concerto «i Radiohead sono così bravi che mi fanno paura» non era ancora uscito Ok Computer. I cinque lo avrebbero presentano un giorno di fine primavera del 1997 all’Irving Plaza di New York, dovendo persino aggiungere a penna alcuni personaggi famosi alla lista degli ospiti. Il pubblico avrebbe assistito a un concerto perfetto, il migliore dell’anno per Mike Mills degli R.E.M. Ma i Radiohead sono tanto avanguardisti quanto tradizionalisti: in quella occasione Ed O’Brien avrebbe fatto scambiare il tavolo di Madonna con quello di sua madre, per garantirle un posto privilegiato.

I motivi per cui i Radiohead hanno ancora la capacità di calamitare l’attenzione, a quarant’anni dalla loro formazione, sono molteplici. La loro inerzia è inversa rispetto alle parabole classiche del mondo della musica. Si sono allontanati dal successo pop di facile assimilazione per inglobare nel loro sound musica elettronica, classica, sperimentale, riscoperta su vinili ingialliti del Ventesimo secolo. Messa alle spalle l’esperienza con una storica major, sono diventati “la più grande band al mondo senza un contratto discografico” che si produce i dischi da sé. I Radiohead