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Meredith Monk, la voce che danza

Meredith Monk rappresenta la vera evoluzione del pensiero musicale coniugato con i movimenti fisici e non solo. Nella sua formazione infatti ha ben influito l’essenza del movimento, del corpo sonante. Dalla conoscenza del movimento alla pratica, alla creatività attraverso molteplici linguaggi e con la realizzazione di veri concept. Caterina Barbieri, neo direttrice artistica della Biennale Musica di Venezia ha quindi ben pensato di assegnare a lei l’ambito Leone alla carriera. E il 18 ottobre ci sarà l’occasione di ascoltare Monk dal vivo, al Teatro Malibran, Venezia con Abdullah Miniawy.

Vorrei iniziare questa intervista con il Book of Days del 1985. Come è nato il progetto prima che venisse registrato dalla Ecm nel 1990?

Un giorno dell’estate del 1984, mentre spazzavo il pavimento della mia casa in campagna fuori New York, mi è venuta in mente l’immagine di una ragazzina e di una strada medievale in una comunità ebraica (in bianco e nero). Da un po’ pensavo di realizzare un film che avesse un che di fiabesco o mitologico. Mi sono resa conto che queste immagini potevano diventare un film. Intanto stavo lavorando ad alcune musiche che sarebbero diventate “Book of Days”, un concerto vocale eseguito dal mio Vocal ensemble e da un coro di 21 elementi alla Carnegie Hall. Allora mi resi conto che la musica e le idee del film erano in qualche modo collegate. Man mano che il concept del film si faceva più chiaro, sapevo che avrei dovuto comporre altra musica e che il film si sarebbe intitolato anch’esso Book of Days.

E quando è arrivato il momento di registrare?

Quando abbiamo iniziato con la Ecm ho ripensato la musica. Dato che non dipendevo affatto dalla sequenza e dalla tempistica delle immagini, ho cercato di sviluppare forme musicali più lunghe per alcune delle sezioni che erano solo frammenti nel film. Ci sono anche sequenze musicali nella registrazione che non sono riuscita a includere nel film. Manfred Eicher e io eravamo entrambi interessati a rendere l’album “un film per le orecchie”. Abbiamo creato una nuova continuità (che va dal mattino presto alla sera) che avesse una qualità cinematografica, sperando che questa sequenza di eventi evocasse immagini nella mente di ogni ascoltatore e offrisse lo spazio e il tempo per sognare.

Cosa ricorda dei suoi studi con il metodo Dalcroze e quali aspetti ritiene siano ancora validi oggi?

Sono nata con un problema

Lo sguardo cinese sull’Italia: storia, immagini e sorprese

Siamo sempre noi a guardare gli altri. È difficile provare a immaginare come gli altri vedano noi. Questo è ancora più vero se siamo i boriosi eredi di qualche impero, come gli abitanti di Roma, o di Londra, cittadini del Commonwealth of nations, fondato sulle ceneri dell’Impero britannico.

Pensiamo di essere il centro della storia, della cultura e della politica e il resto del mondo dovrebbe seguirci, ammirarci e aspirare a essere come noi. Eppure, nella storia, mentre noi pensavamo di essere il punto di riferimento della rotazione della Terra, all’altro capo del nostro stesso continente – che abbiamo voluto dividere in Europa e Asia, pur essendo una continua distesa – si agitava e si fondava un altro impero, che si imponeva direttamente sulle estreme propaggini a oriente da noi e irradiava la sua cultura su altri territori limitrofi, continentali e insulari. Mentre qui l’Impero romano si consolidava e governava con la sua influenza gran parte del continente Europa e le sponde di quel vasto mare chiuso che è il Mediterraneo, dall’altro capo dello stesso continente si consolidava un altro impero, quello cinese, che avrebbe influenzato la storia e la cultura dei Paesi che si affacciano sul suo mare: il Giappone, la Corea e il VietNam.

Passarono i secoli, da noi l’Impero romano fu sostituito da quello cristiano, poi cattolico, protestante o ortodosso, mentre laggiù quello stesso impero Han si tra sformava con l’avvicendarsi delle dinastie. Poi per un breve periodo fra noi e loro si insediarono i Mongoli, che conquistarono tutta l’Asia centrale, arrivando alle porte di Vienna nel 1242, instaurando un periodo di pace e prosperità, durante il quale era possibile viaggiare liberamente dall’Europa all’Asia estrema; uno dei tanti viaggiatori narrò la storia dei suoi movimenti, Marco Polo, diventando il più famoso di tutti i tempi, che con i suoi racconti trasformò l’Asia nell’«orizzonte onirico dell’Europa», come scrisse Jacques Le Goff.

Qualche secolo dopo, il mondo apparteneva ai conquistatori spagnoli e ai nocchieri portoghesi che nel 1494 si spartirono il globo, la Spagna a ovest e il Portogallo a est: l’ordine era arrivare ovunque e razziare qualunque cosa. Ma quando i portoghesi arrivarono in Cina, con al seguito i missionari gesuiti, si accorsero

La grammatica della fantasia parla cinese

«I libri sulla Cina li debbono scrivere gli esperti di cose cinesi. E io non sono un «sinologo». Così, questo non è un «libro sulla Cina», anche se ne ha la veste: è una semplice raccolta di articoli, scritti senza presunzione, e accompagnati da ampie dichiarazioni d’ignoranza. Tre settimane in Cina mi sono bastate per capire che ciò che della Cina si sa è infinitamente meno di quel che non si sa» (Turista in Cina, 1974).

arafrasando le parole di Rodari potremmo dire che articoli su di lui dovrebbero scriverli gli specialisti della materia, e io so di sapere infinitamente poco. Tuttavia da qualche mese un gruppo di docenti, bibliotecari e dottorandi del dipartimento istituto italiano di Studi Orientali della Sapienza, in collaborazione con il Centro studi Gianni Rodari di Orvieto, Ilaria Capanna, M. A. Ranchino e Paola Rodari, hanno avviato un progetto di ricerca, A Non-Western “Grammar of Fantasy”: the Reception and Translation of Gianni Rodari’s works from North Africa and the Middle East to East Asia (Finanziato dalla Sapienza) che mira a ricostruire i tortuosi sentieri della traduzione e i complessi contesti della recezione di Rodari in paesi extra-europei, dal Medio Oriente all’Asia.

Obiettivo del progetto è analizzare quali opere dell’autore di Omegna (racconti, filastrocche, fiabe, poesie, saggi) abbiano ricevuto maggior accoglienza in queste aree, durante quali momenti storici e attraverso quali canali e/o mediatori (scrittori, traduttori, editori); in breve provare a ricostruire una mappa cronologica, geografica e letteraria della recezione di Rodari nel Medio oriente, in India e in Asia. Il caso della Cina

David Quammen: Senza Darwin non capiremmo i virus

David Quammen è riconosciuto come uno dei più influenti divulgatori scientifici del nostro tempo, capace di trasformare argomenti complessi in narrazioni affascinanti e comprensibili. Nel suo libro L’evoluzionista riluttante (Raffaello Cortina), ha deciso di occuparsi di Charles Darwin, il naturalista che, con la teoria dell’evoluzione, ha trasformato radicalmente il nostro modo di percepire la vita. Tuttavia, ciò che emerge dalle pagine di Quammen non è soltanto l’immagine di uno scienziato rivoluzionario, ma anche quello di un uomo carico di dubbi, ansie e conflitti interiori. Un ritratto, quindi, che parla di scienza, ma anche di storia, politica e umanità, ricordandoci quanto Darwin sia una figura cruciale ancora oggi. In questa intervista

Quammen ci accompagna nella vita e nel pensiero del naturalista inglese e ci racconta perché Darwin continua a parlarci ancora oggi, anche oltre i confini della scienza. In occasione della sua partecipazione il 5 ottobre al festival del Pianeta terra diretto da Stefano Mancuso a Lucca, abbiamo rivolto qualche domanda all’autore, noto al grande pubblico per il bestseller Spillover (Adelphi), in cui molto prima degli anni del Covid aveva parlato del rischio di una nuova pandemia da virus sconosciuto.

David Quammen il suo libro offre una prospettiva unica sulla vita e sul lavoro di Darwin. Perché, considerando i progressi della biologia e della genetica, è ancora importante leggere la teoria dell’evoluzione e la storia del suo fondatore?

La teoria di Darwin è importante oggi più che mai, perché non solo spiega la bellezza e la complessità della natura ma ci aiuta a comprende anche fenomeni pericolosi e mortali. Pensiamo al Covid-19: il virus ha infettato l’uomo grazie alle mutazioni che ne hanno permesso lo spillover, ossia il salto di specie, e dal 2020 è in continua evoluzione rendendo necessario lo sviluppo di nuovi vaccini ogni anno. La teoria dell’evoluzione è la chiave per comprendere la biologia dei virus e di conseguenza la scienza dei vaccini, ma è altrettanto fondamentale per la biologia molecolare e per comprendere il cancro. Ho appena finito un nuovo libro, che analizza il cancro come fenomeno evolutivo, nel quale ho provato a chiarire perché, nonostante gli straordinari passi avanti fatti nella medicina, rimanga ancora così difficile da curare. I tumori sono una popolazione di cellule, e come tale, sono soggetti all’evoluzione attraverso la selezione naturale. Ciò che rende le cellule tumorali

Paola Caridi: Gaza è la faglia in cui sprofonda l’Europa

Numeri, numeri. Numeri che congelano la nostra empatia. E che nulla dicono di biografie, amori, desideri , lavoro e fame, sogni e vita reclusa in una striscia di terra ignota al mondo. In questo genocidio nostro, di cui i sudari sono simbolo per difetto, i palestinesi non hanno neanche il diritto a conoscere il numero esatto dei defunti, né soprattutto i loro nomi», scrive Paola Caridi nel libro Sudari, elegia per Gaza (Feltrinelli). Esperta di storia politica contemporanea del mondo arabo, ha scritto libri importanti come Hamas, dalla resistenza al regime e Il gelso di Gerusalemme ed è stata, in questi due anni di guerra israeliana su Gaza una delle voci intellettuali più autorevoli e impegnate nello scuotere le coscienze per fermare il genocidio. Il suo intervento al festival di Emergency a Reggio Emilia ci ha offerto l’occasione per incontrarla e rivolgerle qualche domanda (il 26 ottobre sarà ad Umbrialibri).

Con il suo ultimo libro, dopo l’accurata ed esaustiva ricerca su Hamas e dopo la narrazione della Terra Santa, attraverso i suoi protagonisti millenari, gli alberi, perché c’era bisogno di un’icona come il sudario bianco per penetrare l’orrore dello spettacolo di un genocidio?

Terra Santa è una definizione “nostra”, parziale che si riferisce ad un preciso suprematismo dell’immaginario, che ha creato molti danni; Israele e Palestina è la definizione corrente, nel senso che ci sono due Stati, anzi uno che si considera uno Stato, l’altro che viene definita “Entità” anche se viene riconosciuta da buona parte del mondo. Perché il sudario? Ce l’hanno detto i giornalisti di Gaza, i fotografi palestinesi, proprio quelli che sono stati ammazzati dalle forze armate israeliane, quando ci hanno mostrato i corpi, nascondendoli; cioè hanno mostrato i corpi degli uccisi, così noi ci siamo accorti dei vivi che erano stati ammazzati. Fino a che non è emerso questo simbolismo del corpo, non ce e siamo accorti, come invece avremmo dovuto per fermare il genocidio.

La legge di Creonte che impone lo sterminio dei corpi sotto le macerie e la legge di Antigone, che muove alla compassione della sepoltura sotto le bombe entrano di nuovo in contraddizione. Sembra che l’Occidente non sappia uscire dai propri nodi contraddittori tra oppressione sterminatrice e rispetto delle libertà individuali. Lei parla infatti di naufragio morale. Cosa intende?

Questo, proprio questo! Noi non riconosciamo agli altri quanto riconosciamo a noi. Non sarebbe difficile coniugare la tutela dei diritti, immaginata nell’idea di Europa che pensavamo di costruire dopo la seconda guerra mondiale, con l’attenzione agli altri che non consideriamo come noi, bianchi, europei, benestanti. Se avessero ammazzato più di 60mila- ma saranno almeno il doppio – italiani, tedeschi, francesi quale sarebbe stata la nostra reazione? Come quella di Galli Della Loggia e chi dice che “in due anni hanno ammazzato solo 60mila palestinesi”?… Come facciamo a difendere la nostra dignità dall’oscenità di una frase di questo genere? Non è un naufragio morale questo? Mi stupisce che mentre le nuove generazioni gridano “mai più!” e riconoscano il genocidio vari intellettuali neghino l’evidenza e dicano che si può chiamare in qualsiasi altro modo. Non 

Come si salva una grande foresta

Quando nel 1990 il governo guatemalteco istituì la Riserva della biosfera Maya per proteggere la più grande foresta pluviale dell’America Centrale, molti ambientalisti gridarono al tradimento. Come poteva lo Stato concedere una parte significativa di quella che era considerata il terzo hotspot di biodiversità più importante del pianeta alle comunità locali per il disboscamento sostenibile? Sembrava un’occasione perduta per salvare l’habitat di oltre 1.400 specie vegetali e 450 specie animali. Trent’anni dopo, i fatti hanno ribaltato ogni previsione. Mentre i parchi nazionali a protezione integrale sono stati devastati da allevamenti illegali legati ai cartelli della droga – con il Laguna del Tigre National Park che ha perso quasi un terzo delle sue foreste dal 2000 – le tanto criticate concessioni comunitarie brillano come una “lucente bandiera” della conservazione. I 360mila ettari gestiti dalle comunità nella parte orientale della riserva registrano tassi di deforestazione inferiori all’1%, costituendo uno dei più grandi e riusciti esperimenti di gestione forestale comunitaria al mondo. Per comprendere appieno il significato della vittoria delle comunità del Petén, bisogna inquadrarla nella complicata storia del Guatemala. La foresta del Petén, una delle grandi gemme ecologiche dell’America Latina ricca di resti archeologici maya, è stata per anni definita un “far west” perché luogo di fuga della popolazione da secoli di oppressione e sfruttamento. La colonizzazione spagnola decimò le popolazioni indigene attraverso malattie, lavori forzati e conversioni religiose violente.

Dopo l’indipendenza nel 1821, le élite creole perpetrarono lo stesso sistema estrattivo: enormi piantagioni di caffè e banane gestite da multinazionali straniere come la United fruit company, che controllavano ferrovie, porti e governi fantoccio. Il tentativo democratico di Jacobo Árbenz (1951-1954) di ridistribuire le terre incolte alle comunità indigene fu stroncato da un colpo di stato orchestrato dalla Cia. Seguirono quattro decenni di guerra civile (1960-1996), durante i quali l’esercito guatemalteco condusse una vera e propria campagna genocida contro le popolazioni maya. Fino alla metà del XX secolo era scarsamente popolato, con circa 5mila abitanti. Le cose cambiarono dopo il colpo di stato del 1954, quando il governo iniziò a insediare nella regione chi era stato espulso dalle terre fertili del sud. Dopo decenni di guerra civile, nel 1990 nacque la riserva, con un’estensione di oltre 21mila km², più del doppio dello Yellowstone National Park. Ma anche la “pace” post-1996 si rivelò amara: accordi neoliberisti imposero privatizzazioni massive, concessioni minerarie alle multinazionali canadesi e statunitensi, monocolture industriali per l’esportazione. Il Guatemala odierno rimane uno dei Paesi più ineguali al mondo, con il 60% della popolazione in povertà. È in questo contesto 

Le radici politiche del divario Nord Sud

Il Mezzogiorno era unito sotto la corona del normanno Ruggero II fin dal XII secolo. Dopo innumerevoli vicissitudini e cambiamenti sovrani, al principio del Cinquecento diventava un vicereame spagnolo, quindi austriaco (1707-1734), fino alla riconquista della propria autonomia nel fuoco dei conflitti dinastici europei, quando era assegnato a don Carlos di Borbone, il futuro Carlo III di Spagna dal 1759. Una storia lunga e tribolata, quindi, che coinvolgeva per secoli una porzione assai consistente della Penisola, facendone il più importante ed esteso regno italiano preunitario, in apparenza il candidato naturale al quale affidare la guida del processo risorgimentale.

Il saggio di Pino Ippolito Armino (Storia dell’Italia meridionale, Laterza, 2025) parte più o meno implicitamente dall’assunto di questa centralità del Mezzogiorno, per poi indagare le ragioni della successiva deriva, con la conseguenza di una crescente e (per molti versi) paradossale marginalità politica, sociale ed economica. Un processo di decadenza che doveva confrontarsi e subire il protagonismo sabaudo che, passando per sconfitta della Prima guerra d’indipendenza, diventava invece il punto di riferimento del liberalismo e del costituzionalismo nazionale. Un regno di Sardegna, rimarca Armino, che, pur aderendo alle pieghe del processo della Restaurazione post-napoleonica, aveva però avuto la ventura (storica) di non massacrare le proprie élite più illuminate e intraprendenti, come invece era accaduto a Napoli nel 1799 in occasione della sfortunata rivoluzione giacobina. Un bagno di sangue che scandalizzava l’Europa e, ancora nel 1815, spingeva i rappresentanti della Santa Alleanza a imporre al Borbone stringenti condizioni per il ritorno sul trono, a iniziare al divieto di epurare e di vendicarsi dei sudditi che aveva collaborato con i francesi. Allo stesso tempo, il Piemonte godeva anche di una fortunata rendita di posizione geografica, potendo rapidamente comunicare e fare sistema con le rivoluzioni industriale e commerciale in corso nell’Europa centro-settentrionale; esattamente il contrario di quanto accadeva al regno duosiciliano, privo di una robusta e diffusa borghesia autoctona e, dopo lo snodo cruciale del 1848, fermamente attestato su una concezione autocratica del proprio potere regale, pertanto

La scuola davanti al mondo che cambia

La scuola ha il compito di «creare il sangue che rinnova giornalmente tutti gli altri organi» della società e mantiene viva la democrazia (Zagrebelsky, La lezione, Einaudi). Fra continuità e mutamento, il sangue rinnova l’organismo, ne accompagna l’incessante evoluzione, non la statica conservazione.

Con ogni avvio d’anno scolastico le riflessioni sono di routine, ma oggi gli interrogativi sulle scelte del governo per la formazione dei cittadini si fanno più pressanti, davanti a interventi normativi e prese di posizione che sembrano solo voler atrofizzare la scuola. Le linee guida dovrebbero dare una direzione di massima, lasciando spazio all’autonomia di istituti e docenti. E dovrebbero avere un carattere flessibile, per consentire di adattare l’insegnamento alle sfide sempre nuove poste dal mondo. Il Consiglio superiore della pubblica istruzione ha criticato invece il ministero dell’Istruzione (Mim) per un ritorno alla logica prescrittiva dei programmi chiusi. La flessibilità escluderebbe poi impianti ideologici, ma il governo sembra tracciare un percorso verso l’indottrinamento scolastico. La Premessa culturale generale marca il terreno nella difesa oltranzista dell’Occidente, semplicisticamente ricondotto alla triade conservatrice Atene-Roma-Gerusalemme: non falsa, è però insufficiente a dar conto della reale complessità culturale, specie nella versione edulcorata della destra, refrattaria a ogni autocritica. Siamo davanti ad un appiattimento infondato e scorretto, che rivela il desiderio di riaffermare una qualche presunta superiorità, proprio nel momento in cui la scena geopolitica è sempre più esasperata dal ritorno di blocchi contrapposti nello scontro di civiltà. La politica meloniana ha un suo mantra: ricomporre l’unità dell’Occidente, come fortezza chiusa, nell’incuranza sostanziale per il resto del mondo. Ma serve un altro pensiero – attento alla coesistenza attuale e storica delle civiltà – e una scuola in grado di dargli forma, per preparare i futuri cittadini ad agire in uno spazio geopolitico e socio-culturale plurale, non con logiche di potenza ma con capacità di interazione.

Invece il ministro Valditara e i suoi collaboratori vanno imperterriti nella direzione opposta. Sminuendo il lavoro di precedenti commissioni – come quella in cui lavorò Tullio de Mauro (si vedano alcuni passaggi dell’ultimo libro di Valditara, La rivoluzione del buon senso. Per un Paese normale, Guerini e associati ed.) – rifiutano l’idea di grammatica descrittiva (attenta a principi quali osservazione e consapevolezza di lingua e cultura come sistemi in evoluzione). Puntano sulla «correttezza» meccanica, viatico a «un positivo autocontrollo» comportamentale (un allenamento a ordine e disciplina, manca solo la bacchetta sulle dita). Le ore di letteratura potrebbero

Cristiano Corsini: Liberiamo gli studenti dalla tirannia del voto

Roma,  Incontro Cristiano Corsini in un tranquillo pomeriggio per parlare con lui di scuola e valutazione, mentre prepara i suoi nuovi corsi universitari e le sue prossime conferenze in giro per l’Italia. Il professore mi accoglie nel suo studio all’Università Roma Tre, dove insegna Pedagogia sperimentale, e iniziamo a conversare.

Professor Corsini, con i suoi ultimi due libri La valutazione che educa. Liberare insegnamento e apprendimento dalla tirannia del voto, pubblicato da FrancoAngeli, e La fabbrica dei voti. Sull’utilità e il danno della valutazione a scuola, uscito quest’anno per l’editore Laterza, ha dato vita a un forte dibattito sulla valutazione educativa a scuola. Insomma, li vuole proprio abolire questi voti?

Il problema principale è legato al fatto che i voti spesso vengono usati laddove non è necessario. Il punto è come usarli quando è opportuno e sono utili e non quando invece possono ostacolare insegnamento e apprendimento. Il voto, che nasce sostanzialmente per classificare e selezionare studenti e studentesse, talvolta viene impropriamente impiegato per orientare l’insegnamento e l’apprendimento. Questo è l’errore.  Non c’è da abolire nulla perché il voto viene assegnato sulle schede secondo la normativa, quindi viene proposto al momento degli scrutini e questo ha senso. Usarlo quotidianamente in aula, invece, è un errore di prospettiva e tra l’altro non è neanche un atto dovuto né obbligato, perché l’insegnante non è tenuto o tenuta ad assegnare voti in itinere. Non sta scritto da nessuna parte.

Molte persone pensano che un approccio di tipo pedagogico a scuola equivalga in qualche modo a una forma di “buonismo”. Che ne pensa?

Questo è un luogo comune effettivamente molto diffuso ma del tutto infondato, perché una valutazione che non faccia leva sul voto è in realtà una valutazione estremamente rigorosa, poiché lavora sull’errore e quindi non lo nasconde. In realtà, possiamo rimproverare al voto di essere da questo punto di vista un po’ approssimativo, perché

Come si difende la scuola pubblica

Nei giorni in cui, riaperte le scuole, e studenti e studentesse sono tornati nelle aule, sento l’esigenza di partire da una considerazione di contesto. Stiamo correndo un rischio serio, grave, di torsione antidemocratica. Una prospettiva che per affermarsi ha bisogno dello smantellamento dei sistemi di istruzione pubblica. È la scuola, la scuola pubblica, infatti, il luogo della formazione democratica, dell’acquisizione delle competenze di cittadinanza.

Depotenziarla, svuotarla, svilirla favorisce l’avanzare dello svuotamento della qualità e della partecipazione democratica. Questo sta accadendo anche in questo nostro Paese. Sulla scuola il ministro fa solo propaganda, ogni giorno ha la sua pensata. Al di là delle fumisterie mediatiche, è in atto un tentativo di fare della scuola un’agenzia di propaganda della destra al governo. A questo servono le cd. Nuove indicazioni 2025. Nessuno aveva chiesto la messa al bando delle Indicazioni per il curriculo vigenti. Un testo equilibrato, frutto di un dibattito rappresentativo delle principali tendenze politico, pedagogiche e culturali.

Il nuovo testo si caratterizza per la sciatteria con la quale è scritto; per le numerose e importanti contraddizioni interne in cui incappa; per la sua impostazione settaria, faziosa, pedagogicamente antiquata, basti guardare alla storia o all’avversione per il paradigma della complessità; per le macroscopiche carenze: l’educazione interculturale in primis.

La scuola militante e democratica italiana però non ci sta. Si è costituito un Tavolo per la scuola democratica formato da importanti associazioni professionali dei docenti, studenti e associazioni dei genitori e dalla Flc Cgil (altre Oo. Ss non pervenute) impegnato a organizzare iniziative di mobilitazione, convegni, supporto alle scuole per l’esercizio della loro autonomia; anche in vista dell’arrivo delle Indicazioni per il secondo ciclo d’istruzione. (cfr il libro edito da Left Lotta di classe ndr)

C’è poi l’annunciato intervento sull’esame di Stato. I dettagli ci riportano