Home Blog Pagina 17

I giovani riscrivono le priorità della scuola

Dopo tre anni di legislatura, il bilancio delle politiche del governo Meloni su scuola e università è chiaro: peggiorano le condizioni di studentesse e studenti, senza rispondere alle necessità reali dei giovani di questo Paese. L’istruzione pubblica è in serio pericolo, minacciata da riforme che si professano inclusive ma che smantellano via via il diritto allo studio, rafforzando un’idea di scuola e università come privilegio per pochi. Una direzione chiara, volta a stringere il controllo sui luoghi del sapere, storicamente culle del pensiero critico e delle resistenze, pericolosi per chi vuole mantenere lo status quo.

È stata prima la volta della scuola, con il cambio di nome da “ministero dell’Istruzione” a “ministero dell’Istruzione e del Merito”, cristallizzando l’idea di una scuola escludente, destinata solo a chi già parte da una posizione di vantaggio. In assenza di investimenti per colmare le disuguaglianze di partenza – come trasporti gratuiti o libri accessibili – parlare di merito significa in realtà acuire le differenze: non avanza chi è più capace, ma chi può permetterselo. Così la scuola smette di essere un ascensore sociale e diventa un meccanismo di selezione classista.

Poi è toccato alle università, colpite da ingenti tagli al Fondo di finanziamento ordinario che hanno lasciato in ginocchio soprattutto gli atenei più piccoli e periferici. E mentre si riducono le risorse per l’università pubblica, il governo strizza l’occhio alle telematiche, che crescono a dismisura costruendo un sistema d’istruzione a scopo di lucro ed elitario, privo di un vero investimento nella formazione e nella cultura.

A questa logica di disinvestimento si affianca la morsa repressiva, tratto distintivo del governo Meloni. Dal ddl Sicurezza alle manganellate contro chi manifesta, la strategia è chiara: soffocare ogni forma di dissenso sociale. Una linea che non ha risparmiato neppure i luoghi del sapere, forse i più temuti perché naturalmente inclini alla critica e alla costruzione di alternative.

Lo abbiamo visto con il divieto di utilizzare i telefoni a scuola, con l’irrigidimento del voto di condotta e la bocciatura per chi occupa, con la circolare

Il giusto clima per uno sviluppo sostenibile

L’internazionale sovranista non ha mai nascosto la propria allergia per la transizione ecologica e tutto ciò che è green. Il matrimonio di interessi tra il mondo fossile e i partiti di ultradestra è ormai un fatto compiuto. L’Italia di Giorgia Meloni, nel 2025, non fa eccezione. Diffidenza verso le rinnovabili, dichiarazioni d’amore a petrolio e gas, flirt con il nucleare: ecco la ricetta del governo in tema di ambiente e clima. Da una parte un esecutivo che si barcamena tra inattivismo, scetticismo e negazionismo climatico. Dall’altra, chi non si arrende al business as usual: movimenti, associazioni e comitati che da anni si battono per la giustizia climatica. Fridays for future e Ultima generazione riempiono ancora le piazze, Legambiente, Greenpeace e Wwf denunciano gli errori del governo, i comitati locali resistono contro grandi opere inutili e dannose per i territori.

L’Unione europea è chiara: per contenere l’aumento delle temperature dobbiamo tagliare le emissioni del 55% entro il 2030 e raggiungere la neutralità climatica entro il 2050. Una necessità storica: il pianeta si adatterà comunque, ma l’umanità rischia di andare a sbattere contro un vicolo cieco. Le rinnovabili restano lo strumento principale, eppure l’esecutivo guidato dalla pasionaria di Garbatella non sembra preoccuparsi del futuro dei propri nipoti.

Secondo Legambiente, il governo sta accumulando troppi ritardi sulle energie pulite. Nel rapporto Scacco matto alle rinnovabili 2025 si stima che, con i ritmi attuali, l’Italia raggiungerà l’obiettivo europeo non nel 2030 ma solo nel 2038. Un ritardo che rischia di vanificare gli impegni presi con Bruxelles e costare caro anche sul piano economico. A conferma, anche il Pniec – Piano nazionale integrato energia e clima – è stato giudicato da associazioni e Commissione europea poco ambizioso e troppo sbilanciato su gas e false soluzioni.

Mentre l’Italia arranca, il governo rilancia l’opzione nucleare come panacea di tutti i mali. Ma Legambiente, Wwf, Greenpeace e Kyoto Club hanno bollato il Ddl nucleare approvato a febbraio come una «decisione antistorica e ideologica». Centrali a fissione, anche se di nuova generazione o in formato Smr, restano costose, lente e

Non c’è pace per chi è in pensione e per chi sta per andarci

L’ultimo assalto, in ordine di tempo, è arrivato da Claudio Durigon, sottosegretario al Lavoro, espressione della Lega di Matteo Salvini, partito che ha utilizzato spesso i temi della previdenza come cavallo di battaglia politico. Si sa, tra il dire ed il fare c’è di mezzo il mare e un conto è fare propaganda, un altro è fare scelte coerenti con le promesse fatte. Così, dopo essersi dimenticati di essere stati già protagonisti dell’aumento dell’età pensionabile con la Riforma Maroni nel 2004, ed essere parte della coalizione governativa di centrodestra che nel 2010 introdusse l’adeguamento automatico dell’età pensionabile alla speranza di vita, la Lega ha fatto della opposizione alla legge Fornero il simbolo attorno al quale costruire il consenso di pensionandi e pensionati. Si parlava di “restituire diritti”, di “libertà di scelta”, di “mandare in pensione chi aveva già dato”, di “abolizione della legge Fornero”.

Una legge che nelle ultime leggi di bilancio è stata peggiorata, riducendo nei fatti anche i pochi margini di flessibilità che aveva. A dimostrare quanto ampia sia la distanza tra le promesse del governo Meloni, quelle dei partiti di maggioranza e le loro azioni ora è arrivata, appunto, anche la proposta estiva di Durigon. Avanzata direttamente dal palco del Meeting di Rimini, prevede di estendere la possibilità di andare in pensione a 64 anni con 25 anni di contributi a chiunque ne faccia richiesta e non solo a chi è nel sistema contributivo.

Poiché, però, questo stesso esecutivo ha fissato una soglia di accesso elevatissima, che richiede quasi 1.700 euro di pensione mensile lorda, ecco che la proposta nasconde il solito trucco: se si vorrà accedere alla misura – che dovrebbe essere inserita nella prossima legge di bilancio – si dovrà pagare di tasca propria. E neanche poco: per raggiungere la soglia minima, infatti, i lavoratori dovrebbero utilizzare il loro trattamento di fine rapporto che verrebbe così trasformato in una parte del reddito mensile. Inoltre la pensione sarebbe calcolata totalmente tramite sistema contributivo, anche se chi ne facesse richiesta avesse iniziato a lavorare prima del 1996, quindi con regime misto.

Ma l’idea di utilizzare il Tfr per garantire

Cittadinanza e giustizia sociale, il futuro è qui

Non ci si lasci ingannare. Quella che è un’offensiva delle destre più reazionarie, che sta modificando l’assetto politico, non solo in Europa, è quanto di più variegato e articolato. Le differenze fra le singole forze in crescita o, come in Italia, anche al governo, riguardano approcci nella politica interna e internazionale, persino nella cultura su cui forgiano la propria identità. Al parlamento Ue, non a caso, sono presenti in gruppi diversi, possono anche, non solo in Italia, costruire alleanze tattiche di governo e/o di opposizione ma permangono fra loro punti di concorrenza o tentativi di rivolgersi a diverso tipo di elettorato per conquistarne la fiducia.

Un tema però accomuna queste forze, anche se a volte con toni diversi: l’immigrazione vista pericolo comune, come capro espiatorio, come tema su cui scaricare ogni forma di insicurezza sociale, ogni questione che può essere risolta da un intervento politico solidale con i propri elettori. Lega e FdI, più di altri, sono stati dei veri e propri apripista, le loro campagne elettorali si sono svolte all’insegna del “fermeremo l’immigrazione incontrollata” (peraltro inesistente). A partire da “blocchiamo i porti” risultati concreti non ne sono stati ottenuti, non ci sono consistenti aumenti nei rimpatri anzi, su pressante richiesta degli imprenditori, il governo attuale è ogni anno costretto ad aumentare il numero di persone ammesse ad entrare con il cd. decreto Flussi, anche se ufficialmente solo per lavoro stagionale e dai Paesi con cui sono stati stipulati accordi di riammissione.

Nel triennio 2023-25 sono state ammesse 470 mila persone, per il 2026-28 oltre 497 mila. Peccato che il meccanismo obsoleto che dovrebbe regolare l’immigrazione in rapporto alle esigenze della produttività, non abbia mai funzionato. Vincoli burocratici, contratti di assunzione che esistono solo sulla carta, scarsa corrispondenza fra domanda e offerta, fanno sì che gli “ingressi regolari” siano pochissimi e che molte persone debbano continuare ad affidarsi ai permessi per motivi turistici, se va bene, all’ingresso rischioso e illegale se va male, o per chiedere asilo. Questo mentre continuano a vivere nel Paese, in alcuni casi da decenni, almeno 500 mila persone prive di titoli, spesso impiegate al nero nei settori nevralgici ma che soltanto la sciocchezza della propaganda impedisce di inserire con meccanismi di regolarizzazione permanente.

Questo è il quadro reale con cui il governo non è capace

Una premier genuflessa, il suo nemico è la laicità

Giorgia Meloni ha sviluppato un rapporto articolato e ambivalente con le gerarchie ecclesiastiche, e se da una parte dichiara una identità di valori con il mondo cristiano, dall’altro fa prevalere le ambiguità e le ipocrisie del mondo cattolico. Se si analizza il rapporto di Meloni con i valori della ideologia cristiana che sostiene di interpretare, emergono alcune contraddizioni strutturali e retoriche che meritano attenzione. Piuttosto significativo è stato il discorso di Meloni durante il Meeting 2025 di Comunione e liberazione (Cl), la lobby cattolica che ogni anno a Rimini dà sfoggio del suo potere.

Meloni è intervenuta in qualità di presidente del Consiglio e ha pronunciato la seguente frase: «Voi, che siete rimasti fedeli al carisma del vostro fondatore, non avete mai disprezzato la politica. Anzi. Non vi siete rinchiusi nelle sacrestie nelle quali avrebbero voluto confinarvi, ma vi siete sempre “sporcati le mani”. Declinando nella realtà quella “scelta religiosa” alla quale mezzo secolo fa altri volevano ridurre il mondo cattolico italiano, e che san Giovanni Paolo II ha ribaltato, quando ha descritto la coerenza, nella distinzione degli ambiti, tra fede, cultura e impegno politico». In questa breve espressione ha sintetizzato quale sia la concezione confessionalista dell’attuale compagine governativa. Il richiamo alla religione cattolica, per Meloni, non è soltanto una “scelta religiosa” individuale, ma diventa un criterio pubblico e normativo, soprattutto quando lo lega a provvedimenti legislativi contro l’autodeterminazione femminile in tema di aborto, o di diritti omosessuali e transgender o contro i migranti.

Ed è proprio questa la regressione pericolosa messa in atto dalla Meloni che pur di garantirsi l’esercizio del potere, sposa la strada della subordinazione delle istituzioni pubbliche al potere delle lobby religiose. Analizzando le sue espressioni comiziali, e dunque spontanee, la Meloni non ha mai dato prova di saper argomentare in maniera complessa, dal momento che utilizza slogan per menti semplici e enfatizza un linguaggio povero. È stato sufficiente

Chi difende i difensori dei diritti. A colloquio con l’avvocato Arturo Salerni

Arturo Salerni non è “solo” uno degli avvocati che difende i familiari dei cittadini italiani desaparecidos nel processo per il cosiddetto Piano Condor al Tribunale di Roma. Salerni fa parte del direttivo di Antigone, associazione per la riforma del diritto penale e la tutela dei diritti dei detenuti; è presidente del Comitato memoria e giustizia per i nuovi desaparecidos fondato da Enrico Calamai, che ha come obiettivo individuare le responsabilità delle morti di migliaia di migranti nel Mediterraneo; è stato presidente della Coalizione italiana per le libertà e i diritti civili (Cild). Lo incontriamo mentre è di ritorno dal Kurdistan iracheno, è difatti anche uno dei massimi esperti della questione curda oltre che essere stato il difensore in Italia del leader curdo Abdullah Ocalan e di numerosi altri attivisti. A Salerni chiediamo alcune riflessioni sulla torsione autoritaria impressa alla nostra democrazia dal governo Meloni e in che modo la affronta una persona di legge che si occupa di tutela dei diritti umani.

«Più che torsione parlerei di involuzione autoritaria – sottolinea. E in tal senso due sono le questioni cardine del triennio meloniano: il decreto sicurezza e l’attacco all’autonomia della magistratura». Partiamo dal decreto sicurezza. «Una prima anomalia è un’anomalia ormai ricorrente, è quella per cui si interviene al di fuori della effettiva necessità ed urgenza prevista dalla Costituzione e si attribuisce all’esecutivo il potere legislativo. Poi c’è un’anomalia specifica per cui questo testo che viene inizialmente presentato come disegno di legge e per diversi mesi gira all’interno delle Camere, quindi non avendo all’origine per stessa ammissione del proponente quel carattere di necessità ed urgenza, ad un certo punto, di fronte alle difficoltà parlamentari, trasforma la sua natura e diventa un decreto legge». Su questo punto già è intervenuta la Corte costituzionale dichiarando in situazioni analoghe l’illegittimità dei decreti e quindi delle leggi di conversione ma la torsione-involuzione resta.

«Sul piano sostanziale, poi, va evidenziata una serie di interventi mirati su alcune fasce sociali particolari, penso ai detenuti in generale e alle detenute madri o incinte di etnia Rom. È stato inasprito il reato di rivolta penitenziaria con la punibilità di condotte di resistenza passiva, ovvero non violenta, ciò che non esisteva neanche nel Codice Rocco. E questo è un vulnus molto importante rispetto al nostro ordinamento in cui la resistenza consiste materialmente in atti di violenza o minaccia. Questo reato inizialmente era stato addirittura esteso anche ai centri di accoglienza per i migranti, cioè persone libere, e resta invece per i centri di rimpatrio. Si revoca inoltre l’obbligo – prima esistente – di rinviare l’esecuzione della pena per le donne incinte o con figli piccoli. Si tratta in questi casi di una norma tagliata, come dire, etnicamente, per nazionalità».
E poi c’è il versante che criminalizza il dissenso e

Andrea Filippi (Fp Cgil medici): Salute mentale, più risorse alla psicoterapia pubblica

Il governo Meloni non ha fatto nulla di quanto fosse necessario per il Servizio sanitario nazionale (Ssn) sia in termini di risorse che in termini di riorganizzazione», denuncia il segretario nazionale della Fp Cgil Medici Andrea Filippi. Quanto ai finanziamenti, come è noto, Meloni ripete sempre che il suo governo è quello che ha stanziato più risorse per la sanità ma le opposizioni contestano integralmente la sua narrazione. Abbiamo chiesto a Filippi di aiutarci nel fact checking: «In termini di risorse siamo molto al di sotto del necessario. Oggi i finanziamenti del governo Meloni al Fondo sanitario nazionale sono sotto il punto critico rispetto al Pil. Siamo scesi al 6,3 per cento: un livello così basso non l’avevamo mai toccato con i governi precedenti». Del resto, aggiunge il sindacalista e psichiatra: «Meloni aveva dichiarato già nel momento in cui si è insediata tre anni fa che la sanità non era la sua priorità, nonostante si venisse fuori da una situazione drammatica come quella della pandemia. In questo è stata coerente. Quello era il suo programma».

E per quanto riguarda la salute mentale? «La situazione è speculare a quella più generale. Non ha fatto nulla in ambito di salute mentale». Con questo – precisa -, intendiamoci, non che i governi precedenti avessero fatto qualcosa di meglio o di più in ambito di salute mentale. Sono almeno 20 anni che noi attendiamo finanziamenti al Ssn e per la salute mentale. Non a caso erano dieci anni che aspettavamo quello che una volta veniva chiamato progetto obiettivo per la riorganizzazione del potenziamento dei servizi e che oggi è il Piano di azione nazionale per la salute mentale (Panasm)».

Quanto ai fondi del Pnrr? «Nella missione 6 del Pnrr c’era un brevissimo accenno alla salute mentale, così come alle tossicodipendenze e ai consultori e – fa notare Filippi – con scarsissima attenzione ai temi che sono stati centrali negli anni 70 a venire in Italia».

In questo quadro dunque cosa rappresenta il Piano di azione nazionale salute mentale e in cosa consiste? «È stato fatto da una commissione di urgenza insediata dopo l’omicidio a Pisa della psichiatra Barbara Capovani», spiega il segretario: «È un piano di azione nazionale che fondamentalmente non contiene nulla di innovativo. Senza nessuna risorsa propone molto semplicemente una riorganizzazione dell’attuale, come se fosse un buon modello di presa in carico della salute mentale e di cura, senza considerare che non è più adeguato ai bisogni di salute della cittadinanza. Di fatto si chiede a chi oggi lavora di dare di più in una sorta di riorganizzazione senza nessuna assunzione». Il punto cardine

Salvo Di Grazia: Essere medico e scienziato al tempo dei no vax

Dopo la “cura” per il cancro con il cosiddetto metodo Di Bella (fine anni 90) e la “cura” per malattie neurodegenerative con le cellule staminali del “metodo Stamina” (intorno al 2012) in Italia pensavamo di aver visto tutto. Sebbene la comunità scientifica sin da subito avesse messo in guardia contro l’assenza di basi scientifiche e le false promesse di guarigione, ci volle del tempo per convincere parte dell’opinione pubblica, ma anche del mondo politico, che fossero totalmente e inefficaci. Nel frattempo chi ci aveva creduto ha pagato fior di soldoni e in alcuni casi anche di più. Stamina fu addirittura sperimentato negli Spedali di Brescia. In entrambi i casi furono decisive le verifiche sperimentali ufficiali, che insieme a puntuali indagini giornalistiche e giudiziarie (nel caso di Stamina) smontarono le pretese salvifiche. Il caso Di Bella e il caso Vannoni (“inventore” di Stamina) hanno segnato duramente il dibattito italiano, mostrando quanto facilmente la disperazione possa essere strumentalizzata da pratiche prive di validazione scientifica. Ma se pensiamo al movimento “novax” che più di recente è fermentato contro il vaccino anti-Covid fino ad arrivare a portare suoi rappresentanti in un comitato consultivo del ministero della Salute e in audizione presso la Commissione parlamentare sulla gestione della pandemia istituita dall’attuale maggioranza, allora vuol dire che non tutte le scorie di quelle esperienze erano state smaltite.  Come è stato possibile? Come se ne esce? Ne parliamo con il dottor Salvo Di Grazia, ginecologo, ostetrico e divulgatore scientifico autore  di numerosi altri libri sulle false medicine e la cattiva scienza. «È proprio così. Sembrava impossibile che dopo i casi Stamina e Di Bella si potesse andare oltre, ma ci metterei anche Hamer e il falso nesso tra vaccini e autismo. E invece a quanto pare è possibilissimo e il limite non era ancora stato raggiunto». Di Grazia osserva che

Le controtendenze nel mondo del lavoro

Il lavoro è via via sparito dalla trama del racconto del nostro Paese. Non che abbia smesso di essere il perno intorno a cui si organizzano le nostre esistenze. Al di là delle analisi che cianciano di “fine del lavoro”, basta parlare con chi ci è vicino o guardare alle nostre giornate per rendersi conto che il lavoro (o la sua ricerca) è centrale nella vita individuale e collettiva. Ha smesso, però, di essere elemento di soggettivazione politica. Ci definiamo in mille modi e attraverso mille prismi, ma sempre meno tramite il ruolo che svolgiamo nel rapporto sociale di produzione, nel lavoro.

Ai tempi della identity politics l’unica identità che pare scomparire è quella di classe. Quand’anche parliamo di “lavoratori poveri” o, per fare quelli studiati, usiamo l’espressione inglese “working poor”, l’accento cade quasi sempre su quel “poveri” (“poor”), quasi mai sull’essere lavoratori o lavoratrici. Eppure il governo dell’ultradestra non è stato parco di attacchi al soggetto classe lavoratrice. Manca, è vero, una contro-riforma organica, ma quelle erano state portate a casa dal centrosinistra. Si pensi al Jobs Act. Il Governo Meloni attacca diluendo le misure, spezzettandole e nascondendole in vari provvedimenti. Dal ritorno in grande spolvero dei voucher all’attacco al diritto allo sciopero, dai provvedimenti repressivi che nell’indice troviamo alla “S” di “sicurezza” al via libera assoluto per appalti e subappalti.

Di fronte allo scadimento del quadro, la risposta – ammettiamolo – è stata del tutto insufficiente. Non che manchino punti e momenti di conflitto. Ma spesso rimangono nel recinto della vertenza sindacale. E Cgil e Uil, per non parlare della Cisl, ormai anello del consociativismo e di un neo-corporativismo questo sì di reminiscenza fascista, non sono stati all’altezza del livello dello scontro.

È proprio nei tempi difficili, però, che un progetto di trasformazione deve avere la capacità di individuare elementi di controtendenza che, potenzialmente, possono trasformarsi in base per nuovo senso comune e configurazioni organizzative. Nell’Italia governata dall’ultradestra, ad esempio, c’è un’ampia sensibilità a sostegno di un salario minimo: grimaldello

I nuovi partigiani della democrazia

Sembra passato un secolo ma sono “solo” (si fa per dire) tre anni da quando il governo Meloni si è insediato a Palazzo Chigi e il trio Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia occupa la maggioranza dei seggi in Parlamento.

Tre anni pesantissimi per la società civile laica, libera e democratica, per chi è restato umano e non resta indifferente di fronte allo sterminio di Gaza, ai naufragi nel Mediterraneo, alle manganellate della polizia contro gli studenti, gli operai, i disoccupati che manifestano in difesa dei diritti di tutti; pesantissimi per chi non resta indifferente di fronte alle violenze contro le donne, ai femminicidi e alla mentalità patriarcale e religiosa di chi è convinto che in fondo le vittime se la siano cercata, all’inaccettabile sequela di suicidi nelle carceri, alle indicazioni ministeriali che vorrebbero ridurre la scuola pubblica a una fabbrica di obbedienti balilla, a certa stampa che fa da megafono alla propaganda del Palazzo diffondendo menzogne, allo svuotamento della tv pubblica dei contenuti di qualità e giornalistici, sostituiti da maggiordomi di destra e predicatori d’odio. Sono stati tre anni pesantissimi per chi non si arrende alla criminalizzazione del dissenso messa nero su bianco dalla cosiddetta legge “sicurezza”, al perverso imbroglio della autonomia differenziata dichiarata incostituzionale in molte sue parti dalla Consulta e che attacca in primis il carattere universalistico della sanità – peraltro sempre più in mano ai privati e svuotata di risorse; per chi non si arrende alla logica “nostalgica” del Ventennio di chi vorrebbe instaurare in Italia il premierato forte. Tre anni pesantissimi per chi auspica una giustizia sempre più giusta, indipendente e non asservita all’esecutivo come la vuole invece chi è al governo separando le carriere e spacchettando il Csm; tre anni molto foschi per chi trema all’idea che il prossimo presidente della Repubblica potrebbe essere il candidato prescelto dai nipotini politici del repubblichino, antisemita, razzista e fucilatore di partigiani Almirante e dagli eredi politici di Berlusconi, il piduista che per primo li sdoganò al governo. Saremmo perfino oltre il Piano di rinascita nazionale di Licio Gelli. Un pensiero va anche a chi si indigna per il silenzio di Giorgia Meloni, del suo cerchio magico e del vice presidente del Senato sulle responsabilità neofasciste e del Movimento sociale nelle stragi, negli anni di piombo, nella strategia della tensione foraggiata dalla Cia. Per non dire poi del vergognoso silenzio