Home Blog Pagina 18

Una lotta senza armi

Questo breve scritto è una sintesi di un articolo più ampio che verrà pubblicato insieme ad altri sul primo numero della rivista Il Sogno della farfalla del 2026.

L’intenzione di chi scrive e delle redazioni di Left e del Sogno della Farfalla è dare particolare rilievo a quanto si è svolto circa cinquanta anni fa, un periodo tormentato e importante per la storia italiana, e non solo, e decisivo per la vicenda umana e scientifica di Massimo Fagioli. Si determinò infatti in quegli anni l’evento, probabilmente irripetibile, di un grande afflusso di persone, non tutte direttamente interessate alla psichiatria, che si rivolsero ad un pensiero che apriva nuove prospettive alla psichiatria, alla cultura e alla politica. Abbiamo sempre considerato importante comprendere a fondo queste prospettive e svilupparle, ma la necessità di trovare una possibile chiave di lettura alla situazione attuale che vede esplosioni di violenza in molte parti del mondo, ci fa oggi ritenere questa scelta fondamentale.

Ribellione e rivoluzione. Un breve racconto

Circa cinquanta anni, fa tra il 1974 e il 1975, furono pubblicati dalla casa editrice Armando Armando due testi di psichiatria di Massimo Fagioli. Questi testi confermavano e sviluppavano non solo la teoria e il metodo che Fagioli aveva già esposto con Istinto di morte e conoscenza nel 1972, determinando violente critiche e sanzioni nella Spi (società psicoanalitica italiana) di cui faceva parte, ma, alla luce di quanto accadde in quegli anni, ci permettono di ipotizzare che siano stati la risposta dell’autore alle angosce profonde che le violenze di quei tempi determinarono in particolare tra i giovani e che, forse, furono anche un tentativo coraggioso di proporre una evoluzione a due istituzioni all’epoca molto importanti: la Spi, saldamente legata al pensiero freudiano, e il Pci, il più potente partito comunista dell’occidente con tutte le variegate organizzazioni di sinistra che lo circondavano.

I risultati furono, per quanto riguarda la Spi, uno scontro totale e una espulsione, per quanto riguarda il Pci e in generale la sinistra, una lunga serie di incontri e separazioni che testimoniano la grande passione di Fagioli, poco ricambiata, per la politica come possibile veicolo di idee nuove e contemporaneamente la scarsa propensione della sinistra italiana ad occuparsi di realtà umana, specialmente se non cosciente.

Volendo poi fare una breve ricostruzione di questo percorso di ricerca possiamo osservare che le prime critiche di Fagioli alla psicoanalisi risalgono addirittura al 1962 quando affermò in un convegno che la psicoanalisi era “insufficiente” a spiegare la realtà dello schizofrenico, e si definiscono nel 1972 con Istinto di morte e conoscenza (L’Asino d’oro edizioni) a cui seguono infatti reazioni esplicitamente violente nella Spi, che arrivano al perentorio e trombonesco imperativo del collega che

Sciopero generale: la lezione che Salvini non vuole imparare

Ancora una volta, Matteo Salvini ha scelto la strada sbagliata. Dopo il fermo della Global Sumud Flotilla in acque internazionali, i sindacati hanno proclamato uno sciopero generale. La risposta del ministro? Minacciare la precettazione. Un riflesso condizionato, che ignora la legge, la Commissione di garanzia e persino i precedenti giudiziari che hanno già bollato come abuso le sue ordinanze.

La legge 146 del 1990 prevede eccezioni precise al preavviso: in caso di gravi eventi lesivi della sicurezza, i lavoratori possono scioperare senza attendere i dieci giorni. Ed è difficile negare che un attacco a una missione civile italiana in mare, senza che il governo abbia mosso un dito per tutelare i suoi cittadini, non rientri in quella fattispecie. Non solo: lo sciopero del 3 ottobre era già stato regolarmente proclamato dal S.I. Cobas, con i tempi corretti, e dunque perfettamente legittimo.

Salvini però insiste. E non è la prima volta. Negli ultimi anni ha usato la precettazione come manganello politico, dimenticando che dovrebbe essere un rimedio eccezionale, da applicare solo in presenza di un pericolo imminente per i diritti fondamentali. Lo ha detto anche il Tar del Lazio, sospendendo una sua ordinanza e certificando l’abuso.

Lo sciopero non è un capriccio né un fastidio da contenere: è il sale della democrazia, il contropotere che obbliga chi governa a rispondere. Ridurlo a cavillo procedurale significa disprezzare la sua funzione. Se oggi i lavoratori scendono in piazza, è perché avvertono l’assenza di un governo capace di difendere i diritti. E se Salvini vuole davvero meno scioperi, la soluzione non è la precettazione: è la politica.

Buon giovedì.

Immagine dalla manifestazione spontanea di Roma dopo l’assalto della marina israeliana alla Global Sumud Flotilla, dalla bacheca di Ilaria Cucchi

Premio Di Vittorio, la letteratura della working class conquista la scena

La luce di Roma, della periferia romana venerdì 29 settembre dava una nitidezza scolpita, quasi abbagliante, a cose e persone raccolte nel parco, tra gli stand, le panche dove si mangia, il ping pong e lo spazio del palco. Quella luce che per Carlo Levi, che ha vissuto nella capitale dal 1945 alla sua morte, rende eterno il paesaggio, e ci permette di vivere quella che lui chiamava la “compresenza” dei tempi storici. Ci siamo ritrovati a Villa Lazzaroni a Roma (nell’ambito della Festa del tesseramento della Cgil di Roma e del Lazio) per la premiazione dei vincitori della II edizione del premio Di Vittorio, sulla letteratura che parla del lavoro.
Il premio, di rilievo nazionale, nasce con l’obiettivo di promuovere in Italia – dopo che in Inghilterra ha avuto una straordinaria fioritura – la letteratura della ‘working class’, valorizzando romanzi e racconti che pongono il mondo del lavoro al centro della narrazione. L’iniziativa vuole dare voce alle autrici e agli autori capaci di raccontare le molteplici sfaccettature del mondo del lavoro, stimolando al contempo nuove prospettive narrative.

Ripassiamo le sei opere finaliste della sezione “La chiave a stella”. Gli straordinari di Edoardo Vitali (Mondadori) e Il mio nome è Balbir, di Marco Omizzolo e Balbir Singh (People) si situano agli opposti della condizione lavorativa oggi. Da una parte due dirigenti creativi della pAngea, un’azienda che si occupa di sviluppo sostenibile e transizione ecologica. È l’incontro con il capitalismo etico, cognitivo. Dall’altra l’indiano Balbir che da 6 anni svolge il suo lavoro da schiavo, senza alcuna protezione sindacale, in una azienda zootecnica dell’Agro Pontino, rubando il cibo che il padrone destinava ai maiali. È letteralmente un invisibile.

Poi Trudy (Einaudi) di Massimo Carlotto, che racconta con sapienza “artigianale” intrighi, dossieraggi, poteri criminali nella eterna provincia italiana. Poi due libri sulla chiusura di una fabbrica. La settimana decisiva. Memorie dall’ultima fabbrica (Bookabook) di Fabio Boccuni l’Ilva di Taranto, attraverso lo straziante memoir di un operaio, Luca Rossi. Ne esce il rifiuto dell’industrialismo, della fabbrica inquinante (e oggi spenta), dell’idea perversa, tipica della modernità di una crescita economica illimitata. Insorgiamo. Diario collettivo di una lotta operaia (e non solo), del collettivo di fabbrica GKN (Alegre) è una cronaca del licenziamento di massa alla GKN e poi dell’occupazione della fabbrica stessa. Infine Il diario del tempo di Lucia Calamaro (Fandango) è il diario dell’assenza del lavoro. Lei, 40enne, si ritrova da due anni disoccupata, e racconta i giorni che sono tutti uguali. Tenta di cambiare la propria vita “Oggi faccio tutto col sorriso, per prova”. La giuria popolare ha dato il primo premio a Omizzolo, mentre Vitali e Carlotto hanno ricevuto una menzione speciale da parte della giuria scientifica, che ho l’onore di presiedere, e che è composta da Lidia Ravera, Alessandro Pera, Angela Scarparo, Simona Baldanzi, Eugenio Ghignoni, coadiuvati da Laura Sudiro.

Dei 17 racconti inediti della sezione “Voci dal lavoro” selezionati per la loro qualità, la giuria popolare ha premiato Silvia Calamai, con Voce del verbo fare, al secondo posto Maurizio Busi, con L’Ammortizzatore sociale e al terzo Cristina Pasqua con Ora che apro gli occhi. Due le menzioni speciali della giuria scientifica: a Daniela Polimene per L’artista turnista e a Paolo Baravelli con L’ultimo guardiano (tutti saranno pubblicati, insieme a una ulteriore scelta dei migliori, in una speciale raccolta della casa editrice Alegre).

I premi sono stati consegnati dal segretario generale della Cgil, Maurizio Landini. Con questo premio della Cgil la letteratura – oggi percepita soprattutto come consumo chic e ornamento della interiorità – sembra ritrovare la sua vocazione autentica, che è quella conoscitiva ed etica. In che senso la letteratura ha a che fare con l’etica? Non è che ci rende più buoni, né fa di noi dei cittadini migliori. Uno può leggere Dostoevskij e diventare ancor più intrattabile, o commuoversi con Dickens restando indifferente alle pene del vicino di casa. …Però la letteratura ci mette davanti alla verità delle cose, oltre tutti i cliché. Dunque il contatto con un’opera letteraria ci modifica e ci interroga (sempre che ci facciamo modificare da essa): è sempre un momento di rivelazione, poi sta a noi trovare delle risposte. Però, aggiungo, in un’opera letteraria l’odio non è mai l’ultima parola, ricordiamocelo! La letteratura trasforma l’odio in amore, in comprensione e conoscenza. Poi: questi romanzi rappresentano il tabù sociale, il rimosso per eccellenza del nostro paese: il lavoro. Di cui il ceto politico non sa quasi più nulla, impegnato a proteggerci contro la minaccia dei migranti alle frontiere. E ci ricordano che la lotta di classe esiste ancora, fortunatamente (ricordo che il conflitto è ciò che fa evolvere la società: per Machiavelli il successo e la gloria della Roma repubblicana si fondavano sul conflitto!).

Certo ogni libro ha il suo destino. Un anno fa Landini regalò a Giorgia Meloni L’uomo in rivolta di Camus, chissà se l’ha letto e che impressione le ha fatto: a suo tempo Bush Jr disse di aver letto in estate Lo straniero di Camus, appassionandovisi…Come sappiamo è un romanzo bellissimo, ma anche indecifrabile, chissà cosa gli sia piaciuto, a Bush Jr…(forse semplicemente nel romanzo c’ è uno che ammazza un arabo)

Parlare del lavoro significa parlare degli esseri umani, delle loro aspirazioni profonde, di felicità, autorealizzazione e libertà. Nei romanzi e racconti del premio Di Vittorio si svolge continuamente una dialettica – per Hannah Arendt una contraddizione che non potrà mai trovare vera sintesi – già presente in Marx: liberazione del lavoro ( dunque certezza del lavoro: dignità, sicurezza, crescita professionale) e liberazione dal lavoro (inteso come coercizione esterna del bisogno e maledizione biblica). Il lavoro, che resta centrale, e che è l’attività con cui l’uomo produce se stesso, non può essere l’unico elemento che definisce la nostra esistenza.

Come la sezione dei romanzi editi anche i racconti ci presentano una estrema varietà di temi, di generi letterari, di opzioni stilistiche. E come l’altr’anno, con la prima edizione del premio, la loro pubblicazione sarà una specie di narrazione polifonica, capillare e dal basso, che ci dà immediatamente il polso del variegato mondo del lavoro, e che oggi dovrebbero obbligatoriamente leggere politici, amministratori, operatori sociali e sindacali, giornalisti e sociologi.

Massimiliano Smeriglio, presente alla premiazione, ha auspicato una letteratura capace di svincolarsi dalla cosiddetta autofiction e da una sterile autoreferenzialità intimistica. Landini ha puntualizzato che la letteratura del lavoro non solo “ci informa” – attraverso un lavoro prezioso di documentazione e inchiesta – ma genera bellezza! In che senso? Torniamo alla funzione specifica della letteratura, quella di dire la verità. Il racconto della condizione operaia – non solo della solidarietà e condivisione ma anche della sofferenza, della alienazione, della perdita di diritti – nel momento in cui si fa letteratura diventa “forma”, capace di coinvolgere ed emozionare ogni lettore: acquista un valore universale ed è destinata a restare nel tempo. Dunque è un racconto “bello” – dell’universo lavorativo – in quanto “vero”.

L’autore: Filippo La Porta è critico letterario, autore di molti libri, tiene una rubrica di recensioni su Left ed è alla guida di questo prestigioso premio Di Vittorio, dedicato alla letteratura working class

Come lo sbarco sulla luna

Scrivo questo buongiorno con colpevole ritardo dopo una notte passata in una veglia laica che ha tenuto insieme il Paese, le piazze, i social e un’infinita diretta sui canali di Global March To Gaza Italia, la componente italiana della missione Global Sumud Flotilla. 

Qualche giorno fa, il 22 settembre, scrivevano i giornali – quelli che non spacciano calunnie – che mai negli ultimi anni si erano viste le piazze così piene e variegate. Ieri sera il cuore di quelle piazze – mai stanco e mai domo – si è rimesso in moto seguendo le barche. È stata la notte in cui la fregata italiana ha scelto di fermarsi di fronte a una linea rossa immaginaria tracciata da Israele e inesistente per il diritto internazionale. È stata la notte in cui artisti, intellettuali e attivisti hanno ringraziato una missione civile per avere toccato i nervi di una comunità che si è riconosciuta sognante e attiva. E stata la notte in cui un pezzo di Paese s’è sentito imbarcato. 

Nell’Italia che non vota cinquanta barche in mezzo al mare portano con sé le Costituzioni, i diritti, la storia “e il vangelo”, come ha detto a notte fonda lo storico Tomaso Montanari. E così s’è celebrata una veglia laica che non ha niente a che vedere con il ricordo ma che sa di movimento – per mare e per terra – e che si ostina a combattere l’infingardia e la vigliaccheria di una politica complice. 

Gli equipaggi della Global Sumud Flotilla – quelli di terra e quelli di mare – vengono dal futuro. Si sono scrollati di dosso la cortese diplomazia che calpesta il diritto internazionale. Sarà per questo che un pezzo di Paese li segue con la stessa apprensione dello sbarco sulla luna. 

Buon mercoledì. 

La missione umanitaria in diretta qui

Trump e Netanyahu: la pace come rapina

Donald Trump lo chiama «giorno storico», Netanyahu applaude. Ma il piano appena annunciato alla Casa Bianca è un’oscenità travestita da pace. Dentro ci sono ostaggi liberati in 72 ore, una tregua a Gaza, persino la finta amnistia per chi depone le armi. Ma la vera sostanza è un’altra: togliere ai palestinesi il controllo sul loro futuro, appaltare la Striscia come fosse un cantiere miliardario, garantire a Tel Aviv l’eterna “sicurezza” dei confini e regalare a Trump il ruolo di arbitro assoluto.

Si chiama «Board of Peace», e suona come una beffa. Alla guida, lo stesso Trump, pronto a spartire i contratti di ricostruzione con l’ex premier britannico Tony Blair. Non è un piano di pace: è un piano d’affari. Netanyahu lo ha subito benedetto, infilando le sue condizioni: esercito israeliano ai confini di Gaza per sempre, demilitarizzazione totale, nessun ruolo per Hamas e neppure per l’Autorità nazionale palestinese. In pratica, Gaza continuerà a essere una prigione a cielo aperto, con il secondino che decide tempi e modi della sopravvivenza.

Trump urla alla «pace perenne», ma minaccia ritorsioni se Hamas rifiuterà. Netanyahu si tiene le mani libere, schiacciato da un lato dalle famiglie degli ostaggi, dall’altro dall’ultradestra che non vuole accordi. Entrambi però hanno trovato un terreno comune: il futuro dei palestinesi vale solo come merce di scambio. La liberazione promessa è una truffa semantica: ciò che consegnano è un’occupazione resa più presentabile, con un cartellino del prezzo ben visibile.

Altro che pace: questa è l’ennesima colonizzazione mascherata, un patto tra due uomini che fanno della forza e dell’umiliazione il loro linguaggio. E il mondo dovrebbe chiamarla per ciò che è: un furto, non un accordo.

Buon martedì. 

La rivoluzione di Milei è un fallimento: qualcuno avvisi Meloni

In Argentina la rivoluzione liberista di Javier Milei è franata in un baratro che ha travolto salari, lavoro e dignità. L’inflazione, che superava il 200% nell’anno della sua vittoria, è scesa al 30%, ma al prezzo di una deindustrializzazione feroce e di un crollo dei consumi alimentari del 20%. La povertà ha superato il 50% dopo la maxi-svalutazione del 2023 e resta oggi strutturale, mentre si contano oltre 100 mila posti di lavoro bruciati nel settore privato. Pensionati e dipendenti pubblici hanno visto erodere il reddito, Buenos Aires è piena di persone costrette a chiedere l’elemosina. L’Argentina vive grazie ai dollari americani, in cambio del litio e persino della concessione di basi militari agli Stati Uniti. È la fotografia di un Paese che baratta sovranità per sopravvivenza, con l’illusione di una stabilità che evapora a ogni nuova crisi di cambio.

Eppure Milei ha avuto in Italia una claque entusiasta. «Un gigante», lo definì Matteo Salvini. Giorgia Meloni lo accolse a Roma nel 2024 parlando di «un modello di coraggio politico». Carlo Fidanza, capo delegazione di Fratelli d’Italia a Bruxelles, lo celebrò per «la sua guerra al socialismo che affama i popoli». Il senatore leghista Claudio Borghi citava le sue teorie come ricette da importare, e diversi opinionisti della destra lo innalzavano a simbolo della “rivincita liberista” contro lo Stato parassita.

Oggi che la rivoluzione promessa è solo un disastro, viene da chiedersi se questi fan provino vergogna. O se, più semplicemente, continueranno a tacere, aspettando un nuovo idolo da esibire nelle piazze e nei convegni. Perché la “cura Milei” è il manuale perfetto del fallimento: un Paese ridotto all’elemosina, la moneta senza valore, la gente senza pane.

Buon lunedì.

Foto Gov

A Gaza abbiamo normalizzato l’illegalità internazionale

A Gaza abbiamo cancellato la legalità internazionale e cioè al rispetto delle norme, dei principi e delle leggi che governano le relazioni tra gli Stati e gli altri attori della scena globale, inclusi il rispetto del diritto internazionale (come trattati e consuetudini), la promozione dei diritti umani, la prevenzione dei crimini internazionali e l’adesione ai valori di pace, giustizia e solidarietà, promossi attivamente da organizzazioni come le Nazioni Unite o l’Unione europea. Alla legalità internazionale abbiamo sostituito, “l’illegalità internazionale normalizzata”. Non tuteliamo più i più deboli, oggi, prevale la legge del più forte, la barbarie della forza bruta fine a se stessa.

I crimini di guerra e i genocidi si realizzano nell’indifferenza generale in tutto il mondo. La legge del più forte è resuscitata e torna a predominare la scena internazionale e i rapporti tra gli Stati. A fare differenza nel mondo oggi è l’indifferenza. Dobbiamo combatterla, oggi più che mai, in ogni modo possibile. Ogni volta che vinciamo contro le illegalità diventa un miracolo e non la normalità come invece dovrebbe essere. I criminali di guerra sono in grado di autorigenerarsi e, per questo, occorre l’impegno di tutti, sempre. L’olocausto non ci ha insegnato nulla.

La Comunità internazionale e la società civile ad essa connessa devono pretendere verità. Negli scenari di guerra non emerge più la realtà dei fatti e senza quest’ultima non si può costruire una giustizia internazionale credibile ed efficace. La verità è indispensabile oggi più che mai, in particolare, per tutte quelle persone e per tutti quei territori che vivono un oppressione che genera esclusione, povertà e assenza di prospettive. La verità negli scenari di guerra è un valore assoluto ed essenziale in quanto in essa si costituiscono le premesse per il rispetto dei diritti della persona umana, la crescita civile dell’individuo, per un incontro attivo con il mondo circostante, per la formazione dei saperi, delle competenze e dei sentimenti utili all’esercizio della partecipazione viva della vita sociale.

La verità e la giustizia sono i pilastri portanti dello sviluppo di pratiche di legalità e consentono di trasmettere e sperimentare i valori e i rapporti tra le generazioni con l’intento di facilitare la crescita di soggetti sociali, capaci di riferirsi a norme sociali condivise, che rispettano le regole del vivere comune e contribuiscono a istruire e far crescere una società più giusta ed equa.

Oggi, a Gaza siamo domina il “mors tua, vita mea”, dove la sopravvivenza di uno implica la distruzione dell’altro. Assistiamo alla orribile sciagura della fine di qualsiasi elementare principio di diritto umanitario. C’è un esercito che uccide direttamente civili inermi. Concordo in pieno con il pensiero di Massimo Cacciari: “Assistiamo a una catastrofe culturale del nostro mondo”. La democrazia è in crisi e trascina in questo declino continuo tutti i suoi principi portanti. Prima prenderemo atto di questa catastrofe e meglio sarà per il futuro delle prossime generazioni che rischiano di vivere in un mondo senza più regole democratiche e diritti umani da tutelare

L’autore: Vincenzo Musacchio è criminologo

Alla scoperta della biblioteca di Gianni Rodari

Si apre una stagione densa di appuntamenti dedicati a Gianni Rodari, con pubblicazioni e convegni. In particolare a dicembre uscirà in volume la ricerca su “La biblioteca d’autore di Gianni Rodari”, Edizioni Pensa Multimedia. E entro la fine dell’anno verrà reso pubblico anche l’unico sito ufficiale, ora in lavorazione, su Gianni Rodari.

Inoltre il 30 settembre si inaugura a Firenze il convegno nazionale “Fare Futuro” organizzato da Indire. Nell’ambito di questa iniziativa, il 1 ottobre, si terrà la tavola rotonda dal titolo “Educare con il patrimonio dei luoghi: una Biblioteca d’autore” in cui si parlerà di Gianni Rodari e del lavoro sul suo fondo librario privato. Il fondo librario di Rodari raccoglie migliaia di volumi, per lo più di autori italiani ma anche stranieri, su cui lo scrittore omegnese ha studiato nel corso dei suoi anni; le tematiche spaziano dalla politica del secolo scorso alla letteratura dell’Ottocento ma soprattutto del Novecento, alla poesia, monografie d’arte, favolistica e folklore, testi sacri, tantissime collane dedicate alla scuola e alla pedagogia. Ho iniziato ad occuparmi del presente studio di ricerca sulla “Biblioteca d’autore” attraverso la presentazione di proposta del medesimo progetto all’Ente Indire/Istituto Nazionale di Documentazione innovazione e ricerca rducativa, che ne sta portando avanti la cura grazie ai fondi Pnr-Piano nazionale della ricerca del Ministero dei Beni culturali italiano e sotto l’attenzione della professoressa Pamela Giorgi, ricercatrice Indire e responsabile del progetto. Partner è il Dipartimento di comunicazione e giornalismo dell’Università di Siviglia che sta lavorando alla creazione del sito web su Gianni Rodari, ufficialmente pubblico tra alcuni mesi grazie alla vicaria di Dipartimento Rosalba Mancina Chavez e al professor Manuel Blanco Pérez.

Il 23 aprile scorso, proprio all’Università di Siviglia, durante l’XI Congresso internazionale di Comunicacion y Pensamiento, si è tenuta particolare attenzione su questi temi nel “El pensamiento de Gianni Rodari en la era de la desinformación” anche attraverso la partecipazione di diversi relatori, tra cui esperti e docenti italiani. Come nasce questa ricerca e come è stata affrontata Dal 2022 faccio parte del comitato scientifico del Centro studi Gianni Rodari Orvieto e dal 2010 mi occupo della catalogazione e disposizione dei libri in edizioni italiane ed estere delle favole e filastrocche dell’autore, nonché di tutti i saggi e critica scritta su di lui. Negli anni sono state diverse le mie ricerche e pubblicazioni sullo scrittore per giungere oggi a questo importantissimo studio sulla sua “Biblioteca d’autore” che renderà conosciuto il patrimonio librario su cui ha studiato uno dei più importanti intellettuali del nostro Novecento. Ho affrontato il lavoro sul fondo librario di Gianni Rodari, che possiamo definire per le sue caratteristiche “Biblioteca d’Autore”, considerando le riflessioni del bibliotecario e docente Luigi Crocetti. Ho prestato quindi attenzione alla biblioteca privata dello scrittore di Omegna proponendo un’analisi accurata di tutto il materiale di studio rimasto per lo più intatto nella disposizione e collocato nella sua abitazione privata di Monteverde vecchio, a Roma. Mi sono basata poi su linee guida e ricerche portate avanti dal cruppo di lavoro Aib che enumerano una serie di linee distintive e identificative delle biblioteche d’autore dando nota di ogni postilla, appunti a biro o lapis, materiale inserito all’interno dei volumi (ritagli di giornale, lettere, cartoline, fotografie, biglietti da visita, ecc.). Presenza di materiale speciale, escluso dai circuiti commerciali (plaquettes a tiratura limitata, inviti a mostre o altri eventi, programmi di sala, celebrazioni, doni e testimonianze d’affetto e di stima da parte di amici, allievi o colleghi ecc.). Presenza di esemplari integri nel loro corredo editoriale (copertine originarie, sovracoperte con risvolti editoriali, fascette, pubblicità editoriale. E’ stato un lavoro molto scrupoloso. Ho diviso per tematiche i libri disposti in più librerie della casa, sei gruppi, per la miglior fruibilità di chi vorrà interessarsi ad un tema rispetto ad un altro: Arte, musica, cinema; Politica, storia;Letteratura, critica letteraria, poesia; Filosofia, scienza, religione; Favolistica, folklore, antropologia; Scuola, pedagogia, didattica. Proprio di quest’ultima tematica (riguardo la scuola) Rodari ha fatto diretta e attiva ricerca, conoscendo maestre e maestri e recandosi nelle loro classi interagendo, come spesso alcuni video ormai di facile reperibilità e fruizione ci dimostrano, coi bambini e le bambine italiane e dell’allora Urss.

Sono centinaia i libri sul valore educativo in ambito pedagogico su cui ha studiato e reperiti nelle sue librerie. Importanti e cospicui pure i suoi numerosi volumi sulla letteratura e la poesia, soprattutto del Novecento e di autori a lui contemporanei, tra questi anche grandi nomi dell’Ottocento tra cui Leopardi e Dostoevskij. Altra sezione rilevante è quella dedicata alla favolistica e al folklore italiano ed estero, volumi che sono stati certamente strumenti fondamentali per l’elaborazione della sua visione immaginativa e costruzione dei suoi racconti, che trasformerà, grazie anche alla sua esperienza da giornalista e all’influenza avuta dei surrealisti, così come per la grande curiosità e stima verso Cesare Zavattini, in favole tutte nuove, Favole moderne. Di grande importanza e fonte di studio per Rodari sono indubbiamente i testi su Collodi, in particolar modo il romanzo “Le avventure di Pinocchio”. Collodi è infatti per Rodari l’autore indiscusso della favola moderna a cui ha spesso fatto dediche dirette e indirette nelle sue storie e filastrocche.

Per la sezione dei libri sulla politica, sono tanti i volumi che riguardano tematiche stirco politiche rilevanti per l’Italia, ma anche per la Russia e la Cina. In base alle ricerche che ho affrontato negli anni, ritengo che Rodari era, nonostante i suoi numerosi libri su Karl Marx, un uomo dal pensiero gramsciano, non solo come figura intellettuale, ma come autore e giornalista capace di unire tutto il suo sapere ad una restituzione creativa e artistica con attenzione all’infanzia. Tutto il lavoro che ho condotto in questa approfondita analisi confluirà nel volume “La biblioteca d’autore di Gianni Rodari” per Edizioni Pensa Multimedia, in uscita a dicembre di quest’anno. Il volume sarà accompagnato da quattro prefazioni: una di Pamela Giorgi, responsabile del progetto e ricercatrice Indire, una a firma di Federica Depaolis, biblioteconomista, una del pedagogista Franco Cambi e infine una della sottoscritta. Ogni sezione tematica sarà introdotta da un breve saggio esplicativo. Il Progetto che ho dunque affrontato ha voluto ricostruire i percorsi di studi di Rodari, la genesi del suo lavoro attraverso le fonti, la sua bibliografia (all’interno del panorama ottocentesco e per lo più novecentesco), la scelta di modelli di riferimento letterari, pedagogici, artistici, politici e testi in lingua (molti in russo). Ho cercato di ritrovare e mettere in luce, attraverso una approfondita ricostruzione, quelle fonti tra fantastico e metaforizzazione in cui l’autore si muove nella scrittura fortemente permeata da influenze dell’epistemologia moderna, e non solo. La genesi di “Grammatica della fantasia” e del suo continuo e costante lavoro come giornalista, uomo di politica e ricercatore. Spero che questo mio lavoro possa essere un’importante restituzione alla comunità scientifica e a tutte e tutti coloro i quali credono fermamente al valore della fantasia. A lui va ancora un grazie per averci permesso di poter dire “Tutti gli usi della parola a tutti: mi sembra un buon motto, dal bel suono democratico. Non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo”.

L’autrice: Ilaria Capanna è autrice del libro Gianni Rodari, c’è una favola in ogni cosa edito da Left  Left.it/libri/

In foto wikipedia Gianni Rodari 

Bogdanov, Gramsci e l’altra rivoluzione

Dal 26 settembre in libreria il saggio di Noemi Ghetti, Andreas Iacarella e Örsan Senalp Bogdanov, Gramsci e l’altra rivoluzione. Cultura, organizzazione, egemonia (Donzelli ed.), in cui a partire dalla “scoperta” della traduzione di Stella Rossa, il popolare romanzo-utopia di Aleksandr Bogdanov, che nel 1922 a Mosca Gramsci propose a Giulia Schucht con il proposito di pubblicarlo in Italia, a sei mani viene ricostruita la figura a lungo sconosciuta del grande bolscevico, e la convergenza tra i due grandi marxisti nell’originale interpretazione in chiave culturale del marxismo, che nell’attuale crisi delle sinistre può offrire validi spunti di ricerca. Ne proponiamo un estratto dalle pagine iniziali.

«Conosco Bogdanov da tempo e bene, lo stimo molto perché è un eretico, e che c’è di meglio di un eretico tra gli uomini?». Così Maksim Gor’kij nell’aprile 1927 in una lettera da Sorrento all’amico Michail Prišvin definiva lo scienziato e scrittore bolscevico. Lo conosceva dai tempi dell’aspra polemica con Lenin seguita alla Rivoluzione del 1905, e poi dall’ospitalità e stretta collaborazione nella propria dimora a Capri, che nel 1909 fu sede della prima Scuola operaia. Ideata da Bogdanov con il cognato Anatolij Lunačarski, intendeva promuovere lo sviluppo di un marxismo collettivista e anti-autoritario, alternativo al dogmatismo del materialismo storico allora vigente. Il progetto fu ripreso nel 1910-1911 con la Scuola operaia di Bologna, e nel 1917, alla vigilia della Rivoluzione d’ottobre, si sviluppò ulteriormente nella fondazione del Proletkul’t, Organizzazione culturale-educativa proletaria.

Allontanato definitivamente dalla scena politica e culturale per le sue idee eterodosse nel 1923 e divenuto, in quanto medico, fondatore di un pionieristico istituto ematologico sperimentale, Bogdanov sarebbe morto nel 1928 a seguito di un’autotrasfusione di sangue infetto.

L’anno successivo in una cella di Turi, dove scontava la condanna a oltre venti anni di carcere, Gramsci iniziava a scrivere le «note dantesche» sul Canto X dell’Inferno, detto appunto degli eretici, coloro «che l’anima col corpo morta fanno», annunciato nel piano di lavoro l’8 febbraio 1929, alla vigilia del Concordato tra la Chiesa e lo Stato italiano. Il dirigente comunista dava così inizio alla critica dell’estetizzante metodo crociano, da cui nei Quaderni del carcere prende le mosse l’originale teorizzazione delle categorie di egemonia culturale e di filosofia della praxis. Alternativa oltre che all’idealismo, anche al materialismo storico, essa risultava certamente eretica, secondo il significato etimologico del termine, rispetto al marxismo-leninismo ortodosso, la dottrina che dopo la morte di Lenin fu codificata da Stalin come spietato strumento di eliminazione del dissenso. La notizia delle scandalose lezioni gramsciane al collettivo dei compagni in carcere, il celebre «cazzotto nell’occhio» del rapporto del compagno di prigionia Athos Lisa, arrivò anche a Mosca e gli valse, di fatto, una scomunica. Vittima a distanza, fallita all’ultimo per un contrordine di Togliatti giunto da Mosca anche la liberazione mediante uno scambio di prigionieri, l’eretico Gramsci sarebbe morto in una clinica romana il 27 aprile 1937, una settimana dopo la fine della sua condanna, senza potere riabbracciare la moglie Giulia Schucht e i figli, il primogenito Delio e il secondogenito Giuliano, che non poté mai conoscere.

La storia degli eretici, da sempre, continua dopo la loro morte con il sequestro, l’occultamento e perfino il rogo delle loro opere. Che tuttavia a volte riemergono anche dopo tanto tempo, ostinate e preziose per chi sappia coglierle, e abbia l’interesse a studiare quanto è riuscito a passare attraverso lo stretto vaglio di censure anche postume, permettendoci di cogliere quanto può ancora parlarci nel presente.

 Questa è la storia di «una piccola scoperta», come Gramsci nella lettera alla cognata Tatiana Schucht del 26 agosto 1929 definisce quello che sarà il contenuto della «nota dantesca» sul canto degli eretici, spunto iniziale della critica alla distinzione di Benedetto Croce tra struttura e poesia nella Divina Commedia (cfr. Ghetti, Gramsci nel cieco carcere degli eretici, L’Asino d’oro ed. 2014). La scoperta, attraverso due minute di una lettera mai inviata di Giulia Schucht a Gramsci dell’11 ottobre 1922, della singolare convergenza di due eterodossi rivoluzionari, nati nella seconda metà dell’Ottocento: il russo Aleksandr Aleksandrovič Bogdanov nato Malinovskij (Sokółka 1873-Mosca 1928) e il sardo Antonio Gramsci (Ales 1891-Roma 1937). Una corrispondenza solo qualche volta ipotizzata e per lo più negata, che nel 2016 trovò una doppia conferma in testimonianze scritte fino ad allora ignorate. E che, forse scomoda, tale rimase successivamente anche in ambiti specialistici (cfr. Ghetti, La cartolina di Gramsci. A Mosca tra politica e amori, Donzelli 2016).

A sei mani abbiamo ricostruito le vicissitudini di un’affinità, o meglio di convergenze parallele di ricerca tra Russia e Italia, che infine si incontrarono su una questione, la cultura proletaria, talmente innovativa e dirimente nel contesto rivoluzionario degli inizi del Novecento, da rendere difficile anche la vita dei due grandi uomini, e drammaticamente prematura la loro fine. E da rimanere quasi del tutto sconosciuta agli studiosi per quasi mezzo secolo, fino a quando l’apertura degli archivi sovietici e la caduta del muro di Berlino consentirono un accesso progressivamente più largo ai documenti, e una maggiore circolazione delle ricerche storiche tra Est e Ovest europeo, che presto giunse a toccare anche gli Stati Uniti. Portarne alla luce le fonti e illustrarne i motivi riguarda sia la storia della filosofia occidentale dalle origini, che quella del pensiero politico dell’età moderna. In particolare quello del marxismo e delle sue interpretazioni, a partire dalle rivoluzioni russe del Novecento: una questione che tocca anche la ricostruzione integrale del lascito di Marx, da quello degli scritti giovanili, che solo allora stavano lentamente riemergendo, a quello dell’ultimo decennio di vita, ancora in corso.

Nella generale crisi della sinistra proveremo anche a presentare l’attualità del contributo alla conoscenza che sia Bogdanov che Gramsci, nell’ambito di una concezione antidogmatica della realtà umana, individuarono come fondamentale e originale istanza: l’unificazione di spirito e materia, di soggetto e oggetto, di individuo e collettività, di pensiero e azione, in quella che il primo definì «filosofia dell’esperienza vivente» o «dell’azione», il secondo nei Quaderni del carcere elaborò come «filosofia della praxis». L’istanza che Marx aveva lasciato aperta nell’undicesima delle Tesi su Feuerbach, appartenenti agli scritti giovanili, dei quali a partire dal 1924 sotto la direzione di David Rjazanov ebbe inizio la pubblicazione nella mega, l’edizione critica completa delle opere di Marx ed Engels. E che Gramsci in carcere traduceva da un’antologia tedesca.

Scritte nel 1845 e pubblicate da Engels solo nel 1888, le Tesi presentavano Marx non come il teorico del materialismo storico fino ad allora noto, ma come l’ideologo originale del socialismo che, nel centenario della sua nascita, Gramsci già rivendicava nell’articolo Il nostro Marx, richiamando dalle prime righe gli stessi fondamenti dell’impostazione di Bogdanov: collettivismo proletario e organizzazione. La storica chiamata del proletariato internazionale al dovere dell’organizzazione del Manifesto del Partito Comunista pubblicato a Londra nel febbraio 1848.

In foto: Bogdanov (a destra) gioca a scacchi con Lenin sotto lo sguardo di Gor’kij, col cappello di traverso e Anatolij Lunačarskij, seduto a fianco di Lenin, a Villa Blaesus, Capri, nel 1908 foto Wikipedia

L’appuntamento: Il volume sarà presentato alla presenza degli autori da Ernesto Longobardi, Guido Liguori e Cammilla Sclocco lunedì 3 novembre p.m. presso la Fondazione Basso di Roma.

L’autrice: Docente e saggista, Noemi Ghetti ha pubblicato numerosi libri ed è studiosa di Gramsci

 

 

All’Onu parla Trump, ma con la voce di Meloni

All’Assemblea generale dell’Onu Giorgia Meloni ha recitato un copione già scritto: quello di Donald Trump. Sedici minuti di discorso in italiano, davanti a una platea semivuota, per ripetere le litanie del trumpismo tradotte in salsa tricolore. Sul genocidio a Gaza, la formula è la più comoda per Tel Aviv: Israele avrebbe «superato il limite del principio di proporzionalità». Non un crimine di guerra, ma un eccesso di difesa, così si diluisce la strage di decine di migliaia di civili in un inciampo tecnico.

Dalla guerra all’ambiente: qui Meloni diventa perfetta ventriloqua. L’“ecologismo insostenibile” colpevole di aver distrutto l’industria automobilistica europea, l’Onu inadeguata, le convenzioni sui migranti “anacronistiche” da riscrivere perché ostacolate da giudici politicizzati. Ogni concetto riprende parola per parola il lessico della Casa Bianca trumpiana. Con una costante: mai citare i diritti, sempre invocare i confini, la forza, la sovranità.

Il paradosso è che mentre invoca «pace, dialogo e diplomazia», in patria governa con l’economia di guerra e firma forniture di armi. Meloni si fa chiamare “madre cristiana” sul palco dell’Onu, ma scambia la fede con l’ideologia dei crociati contemporanei: l’Occidente assediato, i migranti come minaccia, i palestinesi ridotti a pedine sacrificabili.

Resta l’immagine: una premier che usa l’arena internazionale non per costruire ponti, ma per inseguire il suo padrino politico d’Oltreoceano. Un ventriloquo ha bisogno di un pupazzo: qui il pupazzo è l’Italia.

Buon venerdì.

Foto Gov