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La voce della piccola Hind grida ancora giustizia

Sullo schermo nero una traiettoria luminosa modula la riproduzione di una traccia audio che sembra rievocare le sonorità di un mare calmo e accogliente, per poi trasformarsi nello straziante grido di dolore di una bambina, e di un intero popolo, che chiedono disperatamente di essere salvati.

È il 29 gennaio 2024, quando l’ordine di evacuazione a Tel al-Hawa, nell’area ovest di Gaza, costringe uomini, donne e bambini, a lasciare le loro case. Durante la fuga, l’auto della famiglia Hamada viene crivellata di colpi dall’esercito israeliano: verranno contati 355 proiettili. La piccola Hind Rajab, 5 anni, unica sopravvissuta all’attacco all’interno dell’abitacolo dove si trova insieme agli zii e ai quattro cugini, viene rintracciata dalla sede operativa della Mezzaluna Rossa grazie alla richiesta di aiuto di un altro zio della bambina, che vive in Germania. Per tre lunghe ore gli operatori cercano di rassicurarla in attesa dell’arrivo dei soccorritori: Hind ha paura, implora Omar (Motaz Malhees) e Rana (Saja Kilani) di raggiungerla, mentre i carri armati nemici accerchiano l’automobile. È attorno a questa drammatica storia vera che Kaouther Ben Hania realizza La voce di Hind Rajab, mescolando il piano della finzione con quello della realtà e definendone i confini mediante un intenso impianto drammaturgico.

Insieme a quelle di Rana e di Omar, anche le parole di Nisreen (Clara Khoury) tentano di dare conforto a Hind – e probabilmente anche allo stesso angoscioso sgomento che pervade lo spettatore -, rappresentando un momento di de-tensione necessario: annusare un fiore, intrappolarne il profumo, soffiare piano sulla fiammella di una candela, restituiscono quel senso dell’umano che sembra essere inesorabilmente perduto. In un romanzo del 1987, Nel paese delle ultime cose (Einaudi), lo scrittore statunitense Paul Auster racconta di un mondo distopico dove sembra non esserci più via di scampo: un luogo senza tempo dove le città dilaniate dalle esplosioni, le case, le strade, lentamente scompaiono. Eppure la protagonista, Anna Blume, si aggrappa con tenacia a un’irriducibile resistenza per sopravvivere e conservare tracce di umanità.

Vincitore del Leone d’Argento all’ultima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, il film della regista tunisina utilizza le registrazioni delle vere telefonate intercorse tra gli operatori e Hind, delegando allo spettatore una tensione intrisa della stessa impotenza vissuta dai protagonisti della vicenda. La voce della bambina si inserisce in un raggelante fuoricampo – scenario di uno stato di assedio costante connotato da una spietata e incalzante disumanizzazione -, così come quello evocato, grazie alle straordinarie composizioni sonore, nel film La zona d’interesse (2023) di Jonathan Glazer (tra i produttori esecutivi del film di Kaouther Ben Hania), tratto dall’omonimo  romanzo di Martin Amis.

«Non posso accettare un mondo in cui un bambino chiede aiuto e nessuno accorre», dichiara la regista di La voce di Hind Rajab. «Quel dolore, quel fallimento, appartiene a tutti noi. Questa storia non riguarda solo Gaza. Parla di un dolore universale. E credo che la finzione (soprattutto quando attinge a eventi verificati, dolorosi, reali) sia lo strumento più potente del cinema. Più potente del rumore delle ultime notizie o dell’oblio dello scorrimento. Il cinema può conservare una memoria. Il cinema può resistere all’amnesia».

Dopo paradossali e incredibili mediazioni burocratiche, portate faticosamente avanti da Mahdi (Amer Hlehel), il coordinatore delle operazioni di soccorso della Mezzaluna Rossa, viene finalmente consentita l’apertura di un corridoio umanitario affinché i soccorritori, a bordo di un’ambulanza che si trova a soli otto minuti di distanza dall’automobile, possano raggiungerla per trarre in salvo la piccola Hind. Tentativo che risulterà fallimentare: a pochi metri dalla méta, i paramedici Yusuf al-Zeino e Ahmed al-Madhoun vengono assassinati dall’esercito israeliano. Hind è di nuovo sola, circondata dai corpi senza vita dei suoi familiari. Sono tutti morti. Poco dopo, alle 19.30, la voce di Hind non si sente più. Resta incerta, per dodici giorni, la sorte delle vittime, fino al ritiro dell’esercito israeliano avvenuto il 10 febbraio 2024. Indelebile, riecheggia il disperato grido di aiuto e la feroce e innaturale consapevolezza di una bambina di quasi 6 anni, certa della sua fine: «Morirò presto» è quanto confida, esausta, all’operatrice al telefono.

Cos’è l’infanzia in Palestina? È quanto si chiede Francesca Albanese nel primo capitolo, dedicato a Hind Rajab, del suo libro Quando il mondo dorme. Storie, parole e ferite della Palestina (Rizzoli): «La storia di Hind è diventata simbolo della brutalità dell’assalto israeliano contro la popolazione di Gaza all’indomani del 7 ottobre 2023. Ma la piccola è stata uccisa oltre tre mesi dopo il 7 ottobre, quando Israele aveva già ammazzato più di ventiseimila persone, tra cui almeno diecimila bambini. Come si è potuto tollerare tutto questo?». In quanto relatrice speciale Onu sulla situazione dei diritti umani nel territorio palestinese occupato, Albanese sceglie la tematica dell’infanzia per il suo terzo rapporto, e una parola della lingua inglese, in particolare, per descrivere in maniera efficace, a riguardo, la realtà palestinese: ‘unchilding’, ossia ‘privare dell’infanzia’. Lavorando alla creazione di focus group e avendo la possibilità di intervistare bambini palestinesi online, Francesca Albanese si trova al cospetto di «un autentico miracolo di vita, vitalità e dolcezza, una cornice in cui l’energia e la speranza sembravano resistere nonostante le avversità. […] i bambini che ho conosciuto quell’estate dimostravano una straordinaria capacità di preservare valori fondamentali, in primis l’amore per la scuola. […] quelle voci mi parlavano di una grande sete di conoscenza e di un ardente desiderio di futuro».

Il fuoricampo diviene, infine, un’immagine reale: la regista di La voce di Hind Rajab, dal 25 settembre in sala (a pochi giorni dall’uscita del film Tutto quello che resta di te diretto dalla regista palestinese-americana Cherien Dabis), decide di rendere visibile lo scenario di devastazione seguito all’atroce attacco. Un genocidio perpetrato ai danni di una popolazione a cui viene negato il diritto ad esistere, e che è doveroso restituire alla memoria collettiva.

«Un giorno la popolazione della Terra sarà costretta a lasciare il nostro pianeta e dovrà cercare un altro posto dove vivere e lavorare. Saranno trascorsi cento anni e tante saranno le astronavi in volo cariche di gente, di animali e di piante. Quando non sapranno più dove andare, vedranno un punto bianco che le porterà in salvo»: nel 1982 Michelangelo Antonioni e Tonino Guerra scrivono L’Aquilone. Una favola per il terzo millennio (Editoriale Delfi), un racconto che sembra descrivere con efficace e poetica lungimiranza il destino della Terra. Rintracciare, allora, l’aquilone – divenuto ormai un lontanissimo puntino bianco che continua a librarsi in alto nonostante tutto – vuol dire ri-conquistare la speranza, l’umanità che si pensava perduta. Tutto ruota intorno alla questione del vedere, ma non con gli occhi: per recuperare l’umanità e l’affettività necessarie per tornare a quella prima immagine, quando è il rumore del mare a sovrastare qualsiasi altro suono.

Come ritrovare l’umanità? Come porre rimedio alla catastrofe interna che alimenta il genocidio? Come riuscire a sentire, e a restituire, la voce gioiosa dell’infanzia?

Hind avrebbe compiuto sei anni il 3 maggio 2024, qualche mese dopo il suo brutale assassinio. Hind frequentava la classe delle Farfalle presso la scuola materna “La felicità dell’infanzia”. Hind era una bambina e amava il mare: non vedeva l’ora che la guerra finisse per tornare in spiaggia a giocare. Per tornare a quel suono caldo e rassicurante dove l’acqua del mare diviene culla, protezione, ritorno a una affettività necessaria, imprescindibile.

Hind è la ferita straziante inferta alla Palestina, alle migliaia di vittime che hanno perso la vita a causa della violenza devastante del genocidio.

Global Sumud Flotilla. La prudenza italiana che fa comodo a Israele

L’Italia sceglie ancora la linea della prudenza, che in diplomazia spesso è solo un altro nome per subalternità. A Parigi e Londra si è deciso di riconoscere la Palestina, assumendosi il rischio di incrinare i rapporti con Israele. Roma, invece, ha scelto la via condizionata: lo farà solo se Hamas scomparirà dalla scena. Una formula che ripete parola per parola l’impostazione di Washington, molto più che quella di Bruxelles.

La fregata inviata a sud di Creta per “soccorrere” la Flotilla sembra più un gesto simbolico che un atto politico. Un avvertimento a Gerusalemme, certo, ma calibrato con la cura di chi non vuole mai davvero rompere. Il messaggio è chiaro: l’Italia non intende seguire fino in fondo la scelta francese, né assumere il peso politico di un riconoscimento unilaterale. Preferisce muoversi sotto l’ombrello americano, anche a costo di apparire isolata nel Mediterraneo che pure la riguarda più di altri.

L’argomento usato da Giorgia Meloni – «prima la liberazione degli ostaggi» – suona come la clausola perfetta per rimandare sine die qualsiasi decisione. Una prudenza che non è neutrale: di fatto rafforza la linea di chi vuole congelare ogni ipotesi di Stato palestinese. Così Roma si ritrova a metà del guado, costretta a gestire piazze sempre più infuocate e la pressione di capitali europee che hanno già rotto gli indugi.

Il governo italiano rivendica autonomia. In realtà la sua bussola resta a Washington. E mentre il Mediterraneo brucia, l’Italia continua a guardare oltreoceano in attesa che qualcuno le dica da che parte stare.

Buon giovedì.

Conti in ordine ma crescita lenta: aumenta la pressione fiscale

Il 22 settembre l’Istat ha presentato la Contabilità nazionale per gli anni 2023 e 2024. I dati certificano che “nel 2024 il tasso di variazione del Pil in volume”, tasso che misura la crescita o la contrazione reale dell’economia, tenendo conto solo della quantità di beni e servizi prodotti senza l’influenza delle variazioni nei prezzi , “è stato pari a 0,7%, invariato rispetto alla stima del marzo scorso. Sulla base dei nuovi dati, nel 2023 il Pil in volume è aumentato dell’1,0%, con una revisione positiva di 0,3 punti percentuali rispetto alla stima di marzo”. Dopo queste rilevazioni e la revisione dei dati del 2023 (+1%), per il 2024, che si attesta al momento al +0,7%, si registra un -0,3% di crescita rispetto all’anno scorso.
Nel dettaglio le cose sono andate così, come enumera il comunicato stampa dell’Istituto: “il valore aggiunto in volume nel 2024 è aumentato del 2,0% nel settore dell’agricoltura, silvicoltura e pesca; dell’1,1% nelle costruzioni e dello 0,8% nel settore dei servizi, mentre è risultato stazionario nell’industria in senso stretto”.
Insomma, se alcuni settori crescono molto moderatamente, a tale avanzamento non contribuisce l’industria che, come abbiamo messo in evidenza molte volte, non cresce da oltre due anni. Anzi.
E poi, come siamo messi sul piano dell’indebitamento? L’Istat sancisce che “il rapporto tra indebitamento delle Amministrazioni pubbliche e Pil ha segnato un deciso miglioramento attestandosi a un -3,4%. Il saldo primario è tornato positivo, portandosi a +0,5% da un -3,5% del 2023”.
Ora, attenzione. Perché il dibattito pubblico si concentrerà sulla “buona e prudente amministrazione” attuata dal Governo Meloni nei suoi tre anni di storia. Sfumando forse su altre cifre certificate dall’Istat. Ad esempio, che “la pressione fiscale è cresciuta di oltre 1 punto percentuale, attestandosi sui valori registrati nel 2020-2021”.
Dunque, riassumendo, siamo un Paese – nonostante il Pnrr – dalla crescita lenta mentre, per esempio, quest’anno la Spagna crescerà intorno al 3% e, inoltre, abbiamo una pressione fiscale sempre più forte. E, certamente, è una buona notizia che il rendimento dei titoli di Stato, cioè il costo del debito pubblico, sia calato inducendo le agenzie di rating, come Fitch, ad assegnare un miglior punteggio al nostro Paese. Ricordandoci, però, che il rapporto tra debito pubblico italiano e Pil resta molto alto: 134,9%. Davvero pesante a confronto con quello di altri Paesi come Francia (116%), Germania (64%) e con una media dell’Unione Europea dell’87,4%.
Fossimo un condominio, potremmo dire di essere amministrati abbastanza bene. Ma siamo un Paese. Un Paese industriale, per la precisione, nel quale l’industria non cresce.
L’occupazione, fino a poco tempo fa è aumentata, anche se gli ultimi dati ci dicono che ora rallenta anche nel terziario, nel quale negli anni passati cresceva in modo abbastanza costante. E ricordiamo, ancora una volta, che l’industria – tra le altre cose – è il settore che offre le condizioni contrattuali e salariali di maggiore qualità.
Inoltre, la produttività resta un problema irrisolto di sistema. Negli ultimi 20 anni la produttività della Germania è cresciuta del 30%. Quella della Francia del 26. In Italia ci fermiamo a 4 punti. In altre parole, con lo stesso numero di ore lavorate, in Italia si genera un valore economico molto inferiore rispetto a quei Paesi. Con le ovvie conseguenze anche sui redditi da lavoro.
Non siamo un condominio. Siamo un Paese industriale che produce poco sviluppo e, perciò, in ultima analisi, mediamente salari troppo bassi. La prudente gestione del debito va bene, resta una buona notizia. Ma da inquadrare in uno scenario complessivamente poco positivo del quale il Governo Meloni pare proprio non voglia tener conto.

L’autore: Cesare Damiano, già sindacalista e parlamentare in tre legislature, è stato ministro del Lavoro ed è presidente dell’associazione Lavoro & Welfare

Foto di Mario Scheibl su Unsplash

Perché accogliere è necessario ed è un’esigenza umana

La questione dell’accoglienza, e in particolare la capacità di accogliere, si colloca al centro del dibattito sulla sicurezza sociale, poiché riflette sia la tenuta etica di una comunità sia la sua struttura materiale. Una società sicura è una società in grado di accogliere e integrare chi chiede di entrare in questa società. Una società sicura è l’opposto degli Stati Uniti attuali, per essere chiari, come dimostrano i dati sulla criminalità e sul disagio sociale nel Paese messi a sistema con lo scellerato discorso di Trump alle Nazioni Unite. Non essere accolti implica scontro e in ultima analisi rischio per la sicurezza interna alla società stessa.

Martha C. Nussbaum, una delle filosofe politiche più influenti degli ultimi decenni, ha offerto strumenti di grande rilevanza per interpretare il nesso tra giustizia sociale e migrazioni.

Attraverso il suo capabilities approach, sviluppato in dialogo con Amartya Sen, Nussbaum propone un modello di valutazione del benessere e dell’equità che va oltre il calcolo economico, ponendo l’accento sulle reali opportunità che gli individui hanno di condurre una vita dignitosa. La qualità stessa di sapere accogliere non è un handicap ma un aspetto che caratterizza l’essere umano. Chi è capace di aiuto a chi è in difficoltà è prettamente umano.

Applicato al fenomeno migratorio, questo approccio definito dalla Nussbaum non si limita a chiedere se i migranti abbiano accesso a risorse minime, ma indaga se essi dispongano delle capacità concrete per esercitare libertà, sviluppare talenti e partecipare alla vita comunitaria vivendo al riparo dall’insicurezza. Se si ottiene quest’ultimo snodo fondamentale, quello di vivere in un ambiente più sicuro si raggiunge in primis il risultato che chi viene accolto può disabituarsi dalle condizioni di insicurezza e ottenere un’esistenza più virtuosa e affine ad un modo di vita più sicuro. È un dato di fatto, scientifico, insomma che l’accesso alla sicurezza è foriero di sicurezza sociale e innesca pertanto un circolo virtuoso. Per attualizzare il discorso di Nussbaum è questo uno dei punti che spesso perdiamo di vista anche nella società europea: dare al migrante, in maniera consapevole, accesso alla sicurezza è un modo, alquanto veloce e tendenzialmente diretto, di porlo nelle condizioni di divenire “produttore” di sicurezza.

Il contributo teorico del capabilities approach, elaborato a partire dagli anni Novanta da Martha Nussbaum e dall’economista Amartya Sen non misura il benessere attraverso il Pil o altri indici economici aggregati, ma attraverso le reali capacità che gli individui hanno di vivere una vita che abbiano ragione di considerare piena e sicura. Questo, per quanto dimostrato sopra, non è solo per ragioni di carità pura e semplice, ma anche per il fatto che la libera espressione di una capacità umana non può che rafforzare l’umanità di un contesto sociale e quindi anche di un pensiero statale o nazionale in sé. Questo, è bene rammentarlo, avviene con buona pace della destra e della sua assenza di pensiero e cultura su questa e sulla stragrande parte delle questioni sociali.

Chi esprime la capacità di accogliere la esprime per etica e per umanità, chi non è capace di accogliere non lo è per ragioni economiche, ma anti economiche e brilla essenzialmente per carenza di umanità, questo è il concetto espresso in maniera brutale. Tuttavia, per evidenziare questo passaggio c’è bisogno anche di brutalità, dal momento che, si nota, l’Unione europea per prima pare aver del tutto obnubilato un concetto tanto semplice eppure tanto affine alla spina dorsale dei suoi valori e della sua “Costituzione economica”. L’accoglienza per Bruxelles è vissuta molto spesso come “problematica”, e questo lo dimostra il Patto del 2024.

Il Patto per l’immigrazione, pubblicato nel maggio 2024 elenca una serie di misure abbastanza rigorose per sistematizzare il flusso migratorio in entrata in Europa. L’ulteriore sforzo di uniformare è comprensibile, viste le iniziative decisamente forti (e illegali, secondo la Giustizia sia italiana che europea) di governi come quello italiano, con riferimento all’increscioso e dispendioso evento delle deportazioni arbitrarie in Albania. Tuttavia vi sono due principali falle nel Patto dell’Unione: la prima è che l’immigrazione è inquadrata e definita ancora una volta come una vera e propria problematica, la seconda è che il Patto conferisce molti più poteri ai singoli stati e molti meno all’Unione. Il Patto stesso infatti ammette la propria natura repressiva, poiché tre dei quattro pilastri sono rivolti alla limitazione del fenomeno migratorio (di per sé impossibile da arginare), ed uno solo è teso all’integrazione. 

Emerge anche, dal Patto, una grande autonomia riconosciuta agli stati per le forme di mitigazione degli effetti del fenomeno, ma non viene prevista una redistribuzione dei flussi. Quindi in realtà si lascia ai singoli stati grande arbitrio su come utilizzare le risorse dell’Unione in forme diverse dal ricollocamento ma «di pari valore», come afferma il costituzionalista Claudio Panzera. 

Insomma, da una parte il Patto non indirizza il fenomeno immigrazione ad una comprensione della sua realtà più inclusiva ed economica, la “capacità di accoglienza” che può essere trasformata in capacità di integrazione e quindi in un circolo virtuoso; dall’altra, di fatto, si abbandonano gli stati ad un ‘incertezza che non può che fomentare comportamenti divergenti e centrifughi.

La problematica non può essere considerata l’immigrazione in sé e deve essere considerata l’integrazione (da perseguire anche tramite una giustizia certa sul crimine, quando viene commesso). Gli effetti della mancanza di integrazione non possono essere frenati con strumenti repressivi solo come avviene in Italia, dove, mentre in Ministero degli Interni farnetica di rimpatri, molti dati sulla microcriminalità sono in decisivo aumento da quando questo governo si è accaparrato il potere, secondo il Rapporto del Censis.

Lo sforzo da fare è a priori, è un ripensamento deciso e una migliore comprensione del valore dell’accoglienza e della regolazione di un’integrazione indispensabile, giacché promotrice del circolo virtuoso di cui sopra.

In apertura, un murale di Riace in Calabria. Foto di Federico Tulli

Perché il governo Meloni non può e non vuole staccarsi da Netanyahu

In questi giorni, davanti al collasso totale della situazione palestinese, vediamo Stati europei, Onu e altri attori internazionali prendere posizione in modo sempre più evidente, per quanto tardivo. Ma al tempo stesso, osserviamo la posizione a detta di alcuni prudente, in realtà vigliacca del governo italiano: non vuole riconosce ora la Palestina (salvo ipotizzare un riconoscimento condizionato al rilascio degli ostaggi e alla esclusione di Hamas da qualsiasi dinamica di governo, e oggi in serata rincara stigmatizzando la Flottilla come strumento per dare problemi al governo ndr), non condanna in modo forte e netto il criminale governo di Netanyahu, continua a parlare soltanto di reazione proporzionata che non viene condivisa o approvata, rifiuta le sentenze internazionali sul genocidio, si oppone alle sanzioni pur minime che l’Ue ha iniziato a mettere sul tavolo. Ci si interroga sulle motivazioni di questo atteggiamento: qualcuno parla di strategie diplomatiche, nel tentativo di non minare le basi stabilite a Oslo decenni fa, che vorrebbero un iter differente per il riconoscimento dello stato palestinese; altri insistono sull’allineamento irrinunciabile con l’alleato Trump, che però sembra ben poco interessato alla giustizia e ai diritti umanitari. È difficile individuare profondi ragionamenti diplomatici da parte di Meloni, tanto più nell’isolamento rispetto a Paesi con grandi tradizioni diplomatiche come Uk e Francia. Trump è certo una delle chiavi per interpretare le scelte italiane, e allora va riconosciuto che si tratta di allineamento a una figura pericolosa e criminale anche in questo caso. Ma manca un tassello, perché è pur vero che le scelte della presidente del Consiglio sono sempre state ponderate, solo in relazione a una sua discutibile collocazione ideologica.

Dall’inizio della guerra in Ucraina, opposizioni e media si sono più volte scagliati – a ragione – contro la Lega, chiedendo conto dell’accordo di collaborazione stretto, e mai sospeso, con il partito putiniano Russia Unita. Perché allora nessuno ricorda pubblicamente l’alleanza formale di Meloni con il Likud? È ovvio, non può colpire i suoi partner, così come con Trump, altrimenti sconfesserebbe la sua visione e l’asse internazionale attorno a cui ruota. E così, va bene qualche sanzione ai coloni più violenti, ma non ci si può sbilanciare e colpire il governo israeliano a guida Likud.

Il partito di Netanyahu – da sempre contrario alla possibilità che i palestinesi si autodeterminino nella loro stessa terra, anche senza il supporto dei fanatici messianici – è uno dei più stretti Global Partners dell’Ecr. Il partito europeo di Meloni ha organizzato in passato convegni a Gerusalemme, in collaborazione con gli occupanti della città; ha ospitato esponenti della destra israeliana in eventi per la promozione del neoconservatorismo e del ruolo superiore dell’Occidente, in un mix di evangelismo messianico e reazionario. A maggio 2025, a genocidio già acclarato, una delegazione di Ecr si è recata in Israele, per rinsaldare un caposaldo nel programma conservatore, la necessaria alleanza, in nome della reciproca difesa, fra l’Europa delle Nazioni e Israele (avamposto coloniale del conservatorismo). Ma non è solo Meloni: anche Salvini nel gruppo dei Patriots – nato alle ultime elezioni europee – annovera fra i suoi membri osservatori il Likud.

Perché nessuno pone l’accento su alleanze formali con un partito politico a guida criminale? Questo elementi potrebbero anche pesare nelle valutazioni su eventuali complicità, o quanto meno sui mancati interventi di contrasto imposti dal diritto internazionale. Nei mesi scorsi, vari esponenti di governo si sono spinti a dichiarare che se Netanyahu si fosse recato in Italia, contrariamente a quanto chiesto dalla Cpi, non sarebbe stato arrestato. Ma tutte le azioni di Meloni & co. vanno lette in base a questi accordi, testimonianza di una condivisione di intenti nazionalistici deleteri.

Già nel 1948, in una lettera al New York Times, figure come Albert Einstein e Hannah Arendt – certo non tacciabili di antisemitismo – condannarono la deriva nazi-fascista della politica israeliana, nei metodi e nelle idee, riferendosi in particolare a Begin, capo delle squadracce paramilitari Irgun (artefici di innumerevoli attacchi a civili palestinesi fin dagli anni Trenta), primo ministro, e infine mentore di Bibi Netanyahu e fondatore del Likud, guida politica mai rinnegata (un po’ come il criminale Almirante per Meloni).

Nelle radici storiche sta il trait d’union profondo tra ECR e Likud, il nazionalismo. Di per sé il sionismo è una forma di nazionalismo, nata nel XIX sec. sulle stesse basi del mito germanico e di altri nazionalismi europei. Arendt ravvisava il rischio di una deriva in un nazionalismo a base etnico-religiosa così forte. E parole ancor più chiare sono quelle di Victor Klemperer – filologo tedesco di religione ebraica, perseguitato dai nazisti e autore di uno studio fondamentale sulla lingua del Terzo Reich –, che nei suoi diari, con la lucidità propria del mestiere, ravvisava affinità e parentela ideologica di fondo tra le proposte sioniste – fin da Herzl – e il razzismo germanico – anche nella variante hitleriana. Quando a prendere il sopravvento è poi il sionismo di destra, che da Haganah e Irgun arriva fino al Likud e ai coloni messianici, l’esito atroce è scontato.

Nel cinismo totale, il criminale Smotrich attacca l’UK per il riconoscimento della Palestina, e dice che non c’è più il mandato britannico, e nessuno può più dirgli cosa fare, perciò si prenderanno la Cisgiordania. La follia vuole riscrivere la storia, che vide in realtà la nascita di Israele favorita dalle logiche mandatarie, fin dai tempi di Balfour (1917), proprio a scapito delle popolazioni locali, alla fine condannate all’esilio, private delle terre in cui vivevano da generazioni. Oggi come allora l’unica strada giusta è un’altra, e anche riconoscere la Palestina può essere solo una tappa intermedia in quella più valida direzione, indicata da intellettuali palestinesi come Edward Said, ma anche da Noam Chomsky e Ilan Pappé, ebrei e dunque anche questa volta di sicuro non antisemiti: un unico stato multietnico, plurale, laico nei suoi apparati, non più confessionale e benché meno messianico, in cui tutti avranno il diritto di abitare la terra legata alla propria identità culturale, stando gli uni accanto agli altri, senza pretese di elezione o eccezionalismo, tanto per chi da generazioni e secoli abitava quei luoghi – i palestinesi – quanto per quelle persone di religione ebraica che desiderano vivere nella terra che sentono come sacra (senza contare che il sionismo portò lì ebrei europei, ma già alcuni palestinesi di religione ebraica vivevano in quei territori da secoli, senza problemi con gli altri palestinesi). Ma è la varia molteplicità dell’esistenza che i nazionalisti di ECR e Likud combattono, in nome dell’invenzione malata della nazione, con le sue idee di uniformità e tradizione a cui tutti devono sottostare.

Assistiamo quotidianamente all’immobilismo del governo, a certo opinionismo squallido nella difesa a spada tratta di Israele, al punto che si vorrebbe dettare ai manifestanti lo slogan, Free Palestine from Hamas, anche se le bombe sono lanciate dalla non democratica Israele, oggi come fra 2008 e 2009 con l’operazione Piombo Fuso. E allora, ben vengano le proteste, gli scioperi, le occupazioni studentesche, la sospensione di incarichi di docenza per professori che nella professione di sionismo difendono l’operato dell’Idf. Non si deve mai sfociare nella violenza, e episodi del genere sono assolutamente da condannare, ma non inficiano in nulla la validità del grido che si sta levando dalla società civile italiana, ancor più a fronte di un governo che vorrebbe silenziare, soffocare il dibattito, fin dentro scuole e università, che invece sono i luoghi in cui bisogna educare la pensiero critico (certo non all’artificio retorico che impone con la forza ottusa le sue idee, nello stile di Charlie Kirk, il cui omicidio è assolutamente da condannare, senza però santificarlo e difenderne le idee a priori). Ma ECR ha come suo motto Bringing common sense back. Il common sense era però il presunto organo conoscitivo individuato da varie correnti filosofiche di inizio XIX sec., in opposizione alla ragione illuminista, al criticismo kantiano e al moderno dubbio che arricchisce il sapere. Il pensiero critico è «un avvedersi di credenze stolte / che per lungo portar l’alma contrasse», come insegna Leopardi – figlio dell’illuminismo, attento alla relatività e varietà – proprio attaccando con sarcasmo i seguaci del common sense, reazionari e rigidi conservatori, guidati da schemi mentali nemici della realtà.

L’autore: Matteo Cazzatto è filologo e ricercatore presso l’Università di Padova

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni incontra il premier israeliano Benjamin Netanyahu (10 marzo 2023) foto Gov

Trump all’Onu: il bullo che mente più di quanto minacci

New York, 24 settembre. Donald Trump ha trasformato l’Assemblea generale dell’Onu nel palco di un comizio. Per 57 minuti ha ripetuto il suo repertorio: Europa «invasa» dai migranti, rinnovabili «barzellette», il clima «la più grande truffa», Nazioni unite inutili. La platea però non era un’arena elettorale: era il podio che regge l’architettura del diritto internazionale.
La novità sta tutta qui. Dalla massima tribuna globale ha teorizzato Trumplandia: frontiere chiuse, dazi come arma, idrocarburi come destino, diritti condizionati da censo e appartenenza. Uno stato d’eccezione permanente che pretende obbedienza e archivia il multilateralismo come debolezza.
Trump non intimidisce: inganna. È più ballista che bullo. Elenca successi immaginari («ho fermato sette guerre»), ammicca al «clean beautiful coal», finge di non sapere che la crisi climatica significa esondazioni e siccità, e propone all’Europa la scorciatoia dei fossili americani spacciandola per salvezza. Intanto trasforma i migranti in nemico interno, collante di paure e scudo per concentrare potere.
Lo schema è collaudato: gonfiare un’emergenza, indicare un colpevole, promettere ordine a colpi di decreti e dazi. Il green diventa capro espiatorio, i profughi una minaccia totale, la diplomazia un intralcio al business. Così le bugie non servono solo a convincere: servono a governare, spostano risorse, ridisegnano priorità, autorizzano abusi.
Rancori privati diventano dottrina. Dalla ristrutturazione mancata del Palazzo di Vetro ai «teleprompter rotti», ogni dettaglio diventa prova dell’inefficienza altrui. Il messaggio è programmatico: «seguitemi, o andate all’inferno». Sull’Ucraina, poco più di un cenno autocelebrativo; sull’Onu, l’ennesimo ultimatum mascherato da pragmatismo.
Le parole hanno conseguenze. Dazi «molto forti», via libera alle trivelle, criminalizzazione dei migranti, delegittimazione delle istituzioni comuni: è un’agenda che arretra su clima e asilo, normalizza l’eccezione, monetizza il futuro. Quando il presidente degli Stati Uniti chiama «bufala» il riscaldamento globale, la menzogna si incolla alle politiche.
Per questo oggi il punto non è replicare agli insulti. È rigenerare la responsabilità: fatti verificati, regole condivise, alleanze sociali e politiche che non barattano la verità con l’applauso. Il bullo si nutre di paura; il ballista di credulità. A entrambi si risponde smontando, con pazienza e dati, la favola che vendono. Tutto il resto è rumore.

Buon mercoledì

Foto di History in HD su Unsplash
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Sciopero generale del 22 settembre: i lavoratori dicono no al genocidio a Gaza e al riarmo

L’Italia ieri si è davvero bloccata. Si è bloccata grazie alle lavoratrici e ai lavoratori che hanno deciso di non essere complici di un genocidio che va avanti oramai da due anni e che vediamo ogni giorno sui nostri schermi. Lavoratori e lavoratrici che hanno deciso di organizzare la propria rabbia, aderendo allo sciopero generale lanciato dall’USB e da altri sindacati di base come i Cobas, capaci di intercettare e incanalare un malcontento diffuso in un grande momento di lotta che ha visto la partecipazione di praticamente tutte le categorie.

Secondo l’USB, milioni di lavoratori e lavoratrici hanno scioperato in tutto il Paese, con punte del 70% di scuole chiuse in alcune città e una partecipazione molto alta nei trasporti, in particolare nel Sud. Le parole d’ordine sono state quelle della solidarietà internazionalista, contro le politiche di riarmo e per la fine del genocidio in Palestina. Lo slogan rilanciato dai sindacati di base è immediato: “Abbassare le armi, alzare i salari”. Un messaggio tanto semplice quanto chiaro ripreso anche in uno degli interventi più significativi al presidio di Roma, quando un pompiere USB ha interrotto i cori della folla, ricordando che i pompieri hanno paura, devono averne, perché non sono supereroi ma lavoratori come tutti gli altri e per questo bisogna scioperare contro uno Stato che sottrae fondi a ricerca, sanità e soccorso pubblico per investirli nell’industria bellica. Le persone vogliono il welfare non il warfare, vogliono servizi, sicurezza abitativa e salari dignitosi, non essere complici di un genocidio che miete centinaia di vittime ogni giorno da quasi due anni.

La mobilitazione del 22 settembre ha attraversato strade, piazze, stazioni e porti. Sono state occupate le stazioni di Pisa, Napoli, Torino e Milano; bloccate le tangenziali e le autostrade a Bologna, Firenze e Roma e i porti di Genova, Livorno, Bari, Venezia e Trieste. La chiamata di USB, sullo slancio della Freedom Flottila, è stata in grado di bloccare punti economici nevralgici di questo paese mobilitando ampie fasce della popolazione in maniera coordinata ovunque. Questa capacità organizzativa ramificata non può che spaventare chi ci governa.

E, per la prima volta in Italia, non vediamo soltanto una grande capacità di coordinamento nazionale, ma anche la presa di parola e di spazio pubblico delle cosiddette “seconde generazioni” e delle tante soggettività razzializzate che abitano questo paese. Sono loro che smascherano con chiarezza le bugie di queste democrazie liberali, le stesse che avevano promesso uguaglianza e diritti, distinguendosi dai corrotti governi arabi o dai tanti Stati post-coloniali che, una volta raggiunta l’indipendenza, hanno deluso le aspettative di milioni di persone. Oggi il genocidio a Gaza ha il volto del razzismo e dell’islamofobia: ed è questo che li fa, giustamente, incazzare. Sono giovani come Ramy per cui ancora si chiede giustizia, e sono tutte quelle persone che abbiamo deluso con quel Sì mancato al referendum dell’8 giugno per la riforma della legge sulla cittadinanza.
Persone razzializzate, lavoratrici precarie e giovani sono inoltre del tutto sacrificabili, e infatti la risposta del governo e delle forze dell’ordine è stata la solita: repressione. Cariche, idranti e lacrimogeni in diverse città, con feriti portati in ospedale, arresti e denunce. Da parte delle istituzioni è arrivato il consueto tentativo di rovesciare i ruoli: non solo si è vittime di un sistema violento e iniquo, ma quando ci si ribella si diventa automaticamente “vandali” o “delinquenti”. Una narrazione che non sorprende, ma che mostra ancora una volta la distanza tra la società reale e chi governa.

In questo scenario, tuttavia, la grande sconfitta è stata quella dei sindacati confederati, primo fra tutti la CGIL, che invece di convergere pienamente nello sciopero del 22, ha proclamato per conto proprio un’astensione di sole quattro ore il 19, passata quasi del tutto inosservata e alla quale hanno aderito in pochissimi. Non potendo formalmente indire un vero sciopero generale, si sono così ritrovati ai margini, incapaci di cogliere la portata storica del momento e rischiando di collocarsi, di fatto, dalla parte sbagliata della storia.

Ma chi si trova senza alcun margine di dubbio dalla parte imperdonabile della storia sono i nostri rappresentanti politici, i governi e le istituzioni occidentali. A partire da un’Unione Europea incapace persino di approvare sanzioni economiche contro Israele, passando per quei paesi che ancora riforniscono lo Stato Ebraico di armi, fino ad arrivare agli Stati Uniti, un Paese sempre più logorato da disuguaglianze interne ormai incolmabili e sull’orlo di una nuova guerra civile.
La Storia presenterà loro il conto, prima o poi, e non sarà indulgente.

Gli autori: Federica Stagni è ricercatrice alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Luca Bonaventura è documentarista e videomaker

Nebbia sullo Stretto: Salvini mostra i rendering ma nasconde gli atti

Sul Ponte sullo Stretto cala la nebbia. Non quella del mare, ma quella che serve a nascondere. La Società Stretto di Messina, guidata da Pietro Ciucci, ha risposto al deputato Angelo Bonelli che la sua carica non basta per ottenere i documenti sul contratto con Eurolink. È il paradosso: un parlamentare escluso da un’opera da oltre 13,5 miliardi, come se la democrazia fosse un orpello da archiviare.

Dentro quel contratto ci sono penali feroci: un milione di euro per ogni giorno di ritardo, 650 milioni di cauzione, clausole che trasformano lo Stato in debitore perpetuo. Eppure la firma è arrivata in fretta, prima della pubblicazione in Gazzetta e senza il parere della Corte dei conti. Una scorciatoia che rivela la fretta di blindare interessi e vincoli, prima che qualcuno potesse alzare la mano.

Non è solo un affare interno. Bruxelles ha già bussato due volte, chiedendo chiarimenti su appalti e impatto ambientale. Ma qui la nebbia conviene: oscura i numeri, copre i rischi, spegne le domande. È la stessa nebbia che alimenta il mito del “grande cantiere” mentre si tagliano scuole e ospedali.

Il Ponte viene venduto come sogno d’acciaio e cemento, ma cresce come un debito opaco, custodito in una cassaforte di segreti. La nebbia lo protegge, certo. Ma ogni nebbia si alza: e allora resterà solo un viadotto di menzogne appoggiato sul nulla.

Buon martedì. 

“La vita è profumo”: storia di affido, resistenza e diritti negati

Chiara Ingrao non è solo una scrittrice, è una tessitrice delicata e poetica (e molto altro ancora). Giovanna Calciati, amica che ha condiviso con lei anni di militanza, passione politica e affetti, lo sapeva chiamandola a condividere con lei un libro che è anche un progetto e una memoria di vita, di perdita, di amore, di impegno.

La vita è profumo. Canto a due voci, edito da Baldini e Castoldi, è la tessitura di una trama inedita, musicale, poetica. Due mani che si intrecciano sulla copertina, una bianca e una nera, raccontano immediatamente di una storia e di un legame d’amore, tra Giovanna, genitrice affidataria e Blessing, adolescente nigeriana, già profondamente e violentemente colpita dalla vita a 17 anni.

Il libro è diviso in due parti: una prima parte in cui si narra la storia delle protagoniste, una seconda in cui protagoniste sono le poesie di Blessing, scelte fra mille. Il titolo è un verso delicato rubato da una di queste: “La vita è strana/la vita è un profumo che/devi saper mettere/tutti i giorni” e il prologo ci dice subito che Blessing non c’è più. Tra il 24 e il 25 maggio 2022, Blessing “ha deciso che il profumo della vita non voleva metterlo più.”

Comincia così il “canto a due voci”, che forse sono tre: la voce narrante di Giovanna e il controcanto delle poesie di Blessing, sapientemente accordate dalla penna di Chiara, che intreccia con grande partecipazione emotiva, delicatezza e sapienza letteraria, temi drammatici e scomodi con gli affetti profondi delle protagoniste, non esenti da ironia e dolcezza.

Blessing arriva in Italia dalla Nigeria, dove è nata nel 1993. Ha 10 anni ma si trascina dal paese di origine violenze familiari fisiche e psicologiche indescrivibili ed è ha urgente necessità di un porto umano sicuro e affetti più stabili. La madre, fuggita in Italia, una volta arrivata a Piacenza, la chiama insieme ai suoi fratelli. Ma la mamma reale non è il sogno che si aspettava: scontri, botte, ancora violenza. Blessing entra in una casa-famiglia, ma è ora di cambiare vita, libera dalle angosce e dalle sofferenze. L’incontro con Giovanna Calciati è fondamentale. Giovanna ha 47 anni, non ha mai avuto figli, una “sfida imprevista” afferma. Ma se lei non sa cosa significa essere madre, Blessing non sa cosa significa avere una madre ed essere una figlia amata. Una vita a due sconosciuta per entrambe, due esseri umani, due donne che si riconoscono e si cercano continuamente tra profondissimi affetti, distacchi, improvvise tormente e imprevedibili terremoti. Arrabbiata e ribelle, come tutti gli adolescenti, scrive sul suo diario all’inizio della insolita convivenza: “Veramente Giovanna a volte non la sopporto!! È così irritante, esagerata, rompipalle, stronza, invadente. Io non so se ce la potrò fare a convivere con lei. Lei non è nessuno per me!», scrive sul suo diario all’inizio della loro convivenza. Ma un attimo prima aveva dichiarato: “Giovanna è una fantastica».

La storia rapisce e commuove fin dalle prime battute. Blessing è in gamba, intelligente, studia con successo, ha un grande talento. Dipinge, danza, scrive, ama la musica, tutta, da Miriam Makeba e Brenda Fassie, da Fela Kuti a Rihanna; dai Queen e Beyoncé a Rino Gaetano e Lucio Dalla. Canta e non solo canzoni, racconta Giovanna, “anche l’aria della Regina della Notte dal Flauto magico e tanti altri brani di Mozart, dopo che insieme a me aveva incontrato l’Orchestra giovanile Cherubini, e si era innamorata anche della musica classica.”

Si lancia con energia ammirevole in progetti di impegno civile come mediatrice culturale, combatte la sua battaglia contro il razzismo. Il richiamo e l’attaccamento alle sue origini africane non l‘abbandonano mai. Ama da impazzire il mare, viaggiare vagabondando alla scoperta appassionata di territori in cui arte e natura si legano e si confondono, come il Giardino dei Tarocchi di Niki de Saint Phalle, il Parco dei Mostri di Bomarzo, il Parc Guell di Gaudí a Barcellona, o il Labirinto della Masone, molto amato, un labirinto composto interamente da piante di bambù, creato da Franco Maria Ricci a Fontanellato.

Ma la storia brillante e a tratti felice si alterna, impietosamente, con il nero di ferite profonde e antiche mai guarite, che sanguinano con una potenza difficile da contenere e sostenere. E Blessing si perde, conosce l’angoscia, l’autolesionismo della bulimia, i tentativi di suicidio, i farmaci che a un certo punto rifiuta, i Tso, i ricoveri volontari, le allucinazioni. “Sono rotta, Gio’, sono tutta rotta e nessuno mi può più incollare”, dice ad un certo punto a Giovanna. Cade e si rialza continuamente. “Non voglio più sopravvivere – scrive – Voglio vivere, e brillare. Anche solo per un istante”. Nonostante tutto, scrive, la scrittura è parte della sua vita, la poesia è fatta a sua immagine e somiglianza. Scandisce in parole sonore la gioia, il dolore acuto, la solitudine impalpabile, gli innamoramenti, la sessualità, l’essere neri, la sua urgenza quasi fisica di esistere e di essere.

Giovanna, quotidianamente e senza sosta, attraversa con Blessing, momenti di complicità giocosa, anche ironica, fatta di film, di canzoni, di arte in un continuo e spesso difficile scambio di conoscenza, di attenzione. “Le serate lunghissime – racconta Giovanna – spesso abbracciate e tutte e due assetate di sapere, di raccontarci tutto: dai dettagli più banali alle cose più intime, perfino quelle più dolorose e segrete che lei non aveva mai raccontato a nessuno…”. Insieme affrontano i fantasmi di Blessing, un passato fatto di abusi, di abbandoni, di infibulazione e violenze crudeli. “All’età di 17 anni mia mamma, una bianca italiana, piacentina mi ha insegnato a chiudere le ferite a pulire lo sporco del passato e ad amare le bellezze del mondo” – scrive Blessing nel 2021 – “Tu ai tuoi figli hai insegnato loro come si sogna? come si diventa liberi, autonomi, indipendenti e buoni? Mia mamma ha fatto tutte ’ste cose!”. E poi l’epilogo duro, drammatico, inumano come sussurra lei, perché qualcosa si spezza e Blessing si suicida prima di compiere 29 anni. Dodici anni di amore non sono bastati a superare una vita abusata, Giovanna lo sa e le è impossibile, però, accettare una scelta del genere. Un’intera “comunità matriarcale” si stringe intorno a Giovanna Calciati per dare sostegno, aiutarla e non lasciarla sola, come le amiche di Blessing che “custodiscono pezzi di cuore, immagini e pensieri di mia figlia.” E così la storia di Blessing non finisce con il suo gesto disperato. La sua determinazione, i suoi affetti, il suo impegno ostinato per gli altri perché nessuno viva quello che lei ha vissuto, le mail, i suoi appunti, i suoi scritti, i suoi 37 quaderni di poesie vengono letti, ordinati, scelti e si trasformano in un libro, per non sparire. Leggete le sue poesie. Sono come messaggi all’interno di una bottiglia gettata in un mare in tempesta, veri, a tratti pieni di vita a tratti dolenti, sognando che qualcuno li trovi, che qualcuno comprenda, che qualcuno scopra le risposte cercate, ora “…per aiutare chi sta male come me”.

Tajani, ministro dell’impotenza

Le dichiarazioni di Antonio Tajani al Festival di Open hanno il sapore della resa. Davanti alla possibilità che la Flotilla diretta a Gaza venga intercettata da Israele, il ministro degli Esteri ha parlato di «impotenza». È una scelta politica, un calcolo: rinunciare al diritto internazionale per non incrinare i rapporti con Tel Aviv. È una resa secca. Punto.

Lo ricorda il comunicato del Global Movement to Gaza: il blocco navale imposto da Israele dal 2007 è illegale. Se le navi pacifiste venissero fermate, sarebbe un atto di pirateria e sequestro di persona. La portavoce Maria Elena Delia è chiara: «Non chiediamo protezione militare, chiediamo l’applicazione delle regole». Una richiesta elementare che il ministro capovolge difendendo anche l’inerzia dello Stato.

La domanda è: fino a che punto un Paese democratico può sacrificare la legalità internazionale sull’altare delle convenienze diplomatiche ed economiche? Per questo l’organizzazione, insieme al senatore Marco Croatti e all’europarlamentare Benedetta Scuderi, chiede una Commissione parlamentare d’inchiesta sui rapporti istituzionali ed economici tra Italia e Israele: trasparenza e responsabilità.

Il punto è qui. Ammettere «impotenza» mentre civili vengono schiacciati da un assedio illegale equivale ad abdicare; prudenza qui è un alibi. La tutela dei cittadini italiani imbarcati e il rispetto del diritto internazionale non sono favori da contrattare, sono obblighi. Se il governo non li esercita, è giusto che il Parlamento e l’opinione pubblica pretendano memoria dei fatti, controllo degli atti e un cambio di rotta.

Buon lunedì. 

In foto Greta Tumberg alla presentazione dell’iniziativa della Global Sumud Flottilla

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