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Al-Jabary: Gaza è un cimitero a cielo aperto e noi giornalisti siamo ancora di più bersagli di Israele

«Noi giornalisti palestinesi siamo bersagli. Israele sta segnando di sangue il presente e il futuro del popolo palestinese», denuncia il giornalista palestinese Al-Jabary: «Gaza è un cimitero a cielo aperto: noi giornalisti siamo nel mirino di Israele». Dopo oltre 200 giornalisti palestinesi uccisi la voce di Al-Jabary ci arriva come una testimonianza diretta e fondamentale.

«Ciò che accade a Gaza supera ogni incubo più nero, è impossibile descriverlo ma come giornalisti abbiamo il dovere di riportare la verità. Stiamo vivendo un genocidio nell’inerzia più totale della comunità internazionale».

Mentre centinaia di migliaia di palestinesi sono costretti ad un esodo forzato da Gaza City il giornalista Hassan Al-Jabary ci racconta la tragedia in corso nella Striscia. Questa intervista è stata interrotta più volte dai bombardamenti israeliani, intervallata da urla e il suono delle sirene. Al-Jabary ha una pagina instagram seguita da migliaia di persone, ogni giorno i suoi occhi ci raccontano i colpi inflitti da Israele sulla vita, ora più che mai stravolta, del popolo palestinese. Ma i suoi racconti spiegano anche la resistenza e la perseveranza dei gazawi.

«Il mio nome è Mohammed Hassan Al-Jabary, ho 27 anni. Sono nato e cresciuto a Gaza. Questa città mi ha insegnato la pazienza e la resilienza fin da piccolo. Sono cresciuto in un ambiente pieno di sfide quotidiane, tra il rumore dei bombardamenti e la speranza di vivere. Questo ha plasmato la mia identità e la mia determinazione a trasmettere la verità al mondo».

Hassan, la sua vita sarà stravolta, di cosa si occupa ora?
Ero e sono un giornalista freelance, non affiliato a nessun gruppo politico o di parte. Il mio lavoro è documentare gli eventi quotidiani a Gaza con assoluta credibilità, dai bombardamenti di case e ospedali alla vita dei civili, soprattutto bambini, che soffrono durante gli sfollamenti, vivono con la fame e la paura costante. Paura di perdere i genitori o un pezzo del loro corpo.

Cosa significa nascere e crescere nella Striscia?
Nascere qui significa crescere in un contesto di resilienza e resistenza. Un senso di orgoglio matura in noi fin da bambini, perché la vita a Gaza è piena di sfide. Grandi e piccole. Eppure, nonostante questo, troviamo gioia nelle cose più semplici: i bambini che giocano nelle strade strette, le famiglie che si riuniscono e la solidarietà della comunità in tempi di crisi. Ora siamo in una nuova fase però.

Dal blocco totale allo sterminio totale. Ci sono definizioni per quello che Israele sta commettendo?
Ciò che sta accadendo a Gaza trascende ogni definizione. L’occupazione sta praticando le forme più atroci di uccisione sistematica di civili. Dall’incendio di case all’attacco di ospedali e scuole, lasciando le persone senza protezione o mezzi di sussistenza. È atroce. Questa è una chiara definizione di genocidio: un tentativo di sterminare un intero popolo con metodi sistematici, pianificati e brutalmente disumani.

Da giornalista si sarà quindi confrontato con la morte e la distruzione.
Noi giornalisti abbiamo documentato scene di uccisioni attraverso incendi, bombardamenti, mutilazioni e fame estrema. Abbiamo anche documentato lo sfollamento di massa di famiglie e la perdita delle loro case. Abbiamo visto bambini morire davanti ai nostri occhi, senzatetto e anziani soffrire per la mancanza di cibo e acqua. È un cimitero a cielo aperto. Ogni nuovo giorno racconta mille tragiche storie, alcune delle quali non possono essere descritte a parole.

In Occidente c’è chi descrive Gaza come un’area nelle mani esclusivamente dei terroristi. Si giustifica quindi l’uccisione di 20.000 bambini palestinesi perché in fondo è l’unica strada per estinguere Hamas.
Questa è una giustificazione falsa e criminale. Un pensiero malato di uno Stato assassino. La resistenza si svolge sui campi di battaglia, non negli ospedali, negli asili nido o nei rifugi. Eppure loro attaccano lì. Uccidere bambini, donne e civili innocenti è un crimine di guerra contro l’umanità che non può essere giustificato da alcuna ragione politica o militare.

Cosa la sta segnando di più?
La cosa più dolorosa è vedere un essere umano morire di fame davanti agli occhi del mondo, senza che nessuno si muova per aiutarlo. Assisto a questo tutti i giorni. Fame, deportazioni e bombardamenti continui creano una tragedia quotidiana, distruggendo la vita di intere famiglie. Puoi capire il significato di questa tragedia solo vivendola in prima persona o se assistendo alla morte di bambini inermi.

Gaza City è attualmente sotto invasione. Cosa porterà questa azione? E’ un punto di non ritorno?
Le conseguenze sono catastrofiche: l’uccisione di migliaia di persone innocenti, la distruzione di case, ospedali e scuole, lo sfollamento di massa di milioni di persone e il collasso di servizi di base come elettricità, acqua e sanità. Questa invasione lascerà un impatto psicologico duraturo su bambini e giovani e gli effetti della guerra saranno visibili in tutta la società per i decenni a venire. Stanno devastando il presente e il futuro di un popolo.

I giornalisti sembrano essere il bersaglio numero uno dell’IDF, più dei membri di Hamas…
Siamo sempre minacciati perché per Israele siamo una minaccia. Il governo di Tel Aviv non vuole che raccontiamo la situazione di Gaza, da Gaza. Più di 260 dei nostri colleghi giornalisti sono stati uccisi semplicemente perché il loro compito era quello di trasmettere la verità. L’occupazione prende di mira e monitora chiunque lavori per denunciare i suoi crimini qui nella Striscia di Gaza. Siamo bersagli.

Futuro. Una parola difficile da scandire in questo momento.
Il futuro è difficile e incerto ma dipende dalla nostra fermezza e dalla determinazione nel difendere i nostri diritti e la nostra terra. I palestinesi continueranno a resistere e a chiedere giustizia, nonostante la tragedia, finché il sogno della libertà non si realizzerà. Nonostante il dolore, la speranza esiste ancora, soprattutto nella determinazione dei bambini e dei giovani che non hanno perso il loro spirito vitale, la loro sete di giustizia.

Usciamo un attimo da Gaza. Cosa possono fare i Paesi occidentali per fermare Israele?
Prima di tutto devono volerlo. Dopodiché possono esercitare pressioni politiche concrete su Israele: imporre sanzioni, boicottare le aziende legate all’occupazione e promuovere i Diritti Umani a livello internazionale. I Paesi occidentali hanno il potere di influenzare l’occupazione, di limitarla in prima battuta ed isolare l’entità israeliana. Ci sono le istituzioni ma è fondamentale anche la volontà del popolo occidentale e la sua richiesta di giustizia per tutti noi. Dobbiamo sconfiggere Israele promuovendo un’alleanza di popoli per i diritti e la giustizia.

Nella mia città, Reggio Emilia, ci sono molte aziende, comprese partecipate pubbliche, che hanno legami con industrie o centri israeliani coinvolti nell’occupazione della Palestina. Pensa che i boicottaggi possano essere un’arma utile?
, i boicottaggi sono un modo efficace per dimostrare il rifiuto dell’occupazione da parte della comunità internazionale. A partire dai Comuni. Quando le aziende smettono di sostenere le industrie militari israeliane, la capacità dell’occupazione di compiere i suoi crimini si riduce e i boicottaggi diventano un potente strumento di pressione che può aiutare i palestinesi a difendere i propri diritti. A godere di maggiori libertà.

Alcuni ricercatori e studiosi paragonano il sionismo israeliano al nazismo del Terzo Reich. Un paragone che sta suscitando molte discussioni, come la pensa?
Ogni contesto ha le sue specificità storiche e politiche. Ma innegabilmente qui stiamo vivendo  politiche di pulizia etnica e discriminazione contro un intero popolo. I regimi usano la violenza e leggi repressive per prendere di mira le popolazioni civili. La cosa più importante è riconoscere i crimini e chiamare i responsabili a risponderne.

Come vede il suo futuro e quello della sua famiglia? Quali progetti aveva in cantiere prima dell’invasione israeliana?
Sognavamo una vita pacifica, con i nostri figli che studiavano e giocavano in sicurezza e le nostre famiglie che vivevano in pace. L’occupazione ha distrutto tutto questo. Ora il nostro obiettivo è la sopravvivenza, la fermezza e il continuare a trasmettere la verità al mondo, cercando al contempo di proteggere i nostri figli dalla fame, dalla paura e dai bombardamenti.

L’autore: Cosimo Pederzoli è antropologo e attivista della campagna SaveMasaferYatta

Da Roma a Pontida, le kermesse dell’odio politico. Ecco chi sono i “patrioti” dell’estrema destra brasiliana che benedicono Salvini

Strenuo sostenitore di un intervento militare statunitense in Brasile, per liberarlo “dalla dittatura delle toghe rosse” che ha condannato Jair Bolsonaro a 27 anni di carcere per tentato golpe, il figlio dell’ex presidente Eduardo Bolsonaro auspica l’arrivo di navi da guerra e aerei statunitensi sulle coste brasiliane. Mentre l’altro figlio, Flavio, non esclude il lancio di una bomba atomica sul proprio Paese, nel caso che gli USA non riescano ad ottenere “ciò che vogliono”, ovvero, l’amnistia agli estremisti di destra, condannati dalla magistratura e, di conseguenza, l’annullamento delle condanne al padre per, successivamente, lanciarlo come candidato di Trump alle presidenziali del 2026. Sabato 20 settembre i due figli di Bolsonaro, entrambi parlamentari (Flavio senatore ed Eduardo deputato), hanno promosso a Roma all’hotel dei Congressi un evento dal titolo ambiguo “Brasile: democrazia o dittatura?”. Con tanto di locandina, circolata tra gli attivisti dell’estrema destra di tutta Italia, gli organizzatori avevano annunciato la presenza del vice primo ministro Matteo Salvini, nonché dell’ex deputato per la Lega Nord Luis Roberto Lorenzato. Lo staff di Salvini dopo aver annunciato l’annullamento degli impegni del leader leghista per motivi di salute, ha invitato a Pontida Flavio Bolsonaro.

All’evento romano, organizzato dalla rete di estrema destra intitolata “Patriotas do Brasil”, con ramificazioni negli USA, e in diversi Paesi europei, erano presenti Pieremilio e Angelo Alessandro Sammarco, gli avvocati della deputata italo-brasiliana arrestata per aver violato (in accordo con l’hacker Walter Delgatti) il sistema informatico del Consiglio nazionale di Giustizia, alterando dati di documenti, certificati, mandati di arresto e scarcerazione, e persino la firma dei magistrati della Corte suprema. Di recente uno dei due legali ha duramtne criticato quanto avvenuto in Brasile: “Ci sono molti episodi di oppositori dell’attuale governo che sono stati condannati con processi che vengono definiti ‘processi sommari‘, in cui non si sarebbero riscontrate prove oggettive. E sono stati condannati a pene detentive altissime. Ci sono stati anche casi di oppositori che sono stati costretti a scappare dal Brasile e a rifugiarsi negli Usa, soprattutto giornalisti e blogger”. Quest’ultimo è un chiaro riferimento alla vicenda del blogger Allan dos Santos, condannato dalla Corte Suprema per riciclaggio di denaro sporco e associazione a delinquere, oltre a calunnia e diffamazione contro gli oppositori politici di Bolsonaro.

Scappato negli Usa nel 2020, Allan dos Santos si sarebbe associato a persone legate all’invasione di Capitol Hill, prendendo parte all’assalto. Secondo gli indagini della Polícia Federal, utilizzando il canale di Jonathon Owen Shroyer (condannato per aver partecipato a tale invasione) dos Santos avrebbe continuato a ribadire e diffondere, questa volta sul suolo americano, teorie complottistiche volte a screditare il sistema elettorale brasiliano, le istituzioni e singoli cittadini contrari alle politiche dell’estrema destra.
Alla kermesse, dal provocatorio titolo Brasile: dittatura o democrazia?, altri due giornalisti e influencer, molto amati dall’estrema destra, Paulo Renato de Oliveira Figueiredo Filho, nipote dell’ultimo dittatore del Brasile, João Baptista Figueiredo, e Karina Michelin, modella brasiliana di origini veneta, già Miss Italia nel mondo ed ex valletta di Piero Chiambretti, accorsa ad acquistare la sua maglietta “Siamo tutti Charlie Kirk”, subito dopo l’uccisione dell’estremista MAGA da un altro estremista, cresciuto nel brodo della sua stessa ideologia.
Per quanto riguarda Figueiredo, se il nonno, alla guida del paese, tra il 1979 e il 1985, ha ottenuto l’amnistia per i torturatori e assassini del regime, il nipote oggi spera di ottenerla per Bolsonaro e i suoi complici, grazie alle pressioni che esercita dagli Stati Uniti dove, in associazione con Eduardo Bolsonaro, ha messo in piedi un’apposita lobby.
Oltre ad essere indagato dalla magistratura brasiliana, Figueiredo lo è anche dalla statunitense. In Brasile, è accusato di aver divulgato notizie false su militari che non volevano aderire al golpe e, negli Stati Uniti, la sua azienda, la Figueiredo International Treasure Group è oggetto di indagine sulla base del Codice fallimentare e della Legge sui debiti e crediti di New York.
L’azione è relativa a un caso di fallimento che cerca di recuperare trasferimenti che sarebbero stati parte di una frode miliardaria guidata da un sostenitore di Trump, il magnate cinese e dissidente Miles Guo, già condannato per nove reati negli USA, tra cui riciclaggio di denaro e associazione a delinquere.

Alves, Malta e Girão: la triade degli orrori benedice Salvini
Hanno completato il quadro della kermesse dell’odio politico due senatori e pastori fondamentalisti evangelici, Damares Alves, già Ministra di Bolsonaro, Magno Malta, incrollabile sostenitore di Israele, e il deputato Eliéser Girão Monteiro Filho, il generale autore della cosiddetta “borsa stupro”, un progetto di legge che vorrebbe costringere donne e bambine stuprate, rimaste incinte dai loro aguzzini, non solo a portare avanti la gravidanza, ma anche a rendere “partecipi all’educazione dei figli” gli stupratori, in quanto “padri”.
Nel corso della sua lunga carriera politica, le dichiarazioni della pastora Damares Alves, così come le sue azioni, sono spesso state oggetto di indagini della magistratura, con accuse molto pesanti: incitamento all’odio razziale nei confronti degli indigeni, veicolazione di informazioni false sulla loro cultura, sfruttamento sessuale, sequestro e traffico di bambini indigeni.

Dopo aver sottratto, nel 1998, una bambina di sei anni all’etnia kamayurá, da un remoto villaggio del Mato Grosso, Damares Alves, allora presidente di una ONG, la tenne illegalmente con sé, crescendola senza alcun tipo di riconoscimento legale. Non avendola mai riconsegnata, i parenti diedero la piccola per scomparsa. Educata secondo i precetti evangelici, una volta diventata donna, la bambina sequestrata divenne missionaria di un’organizzazione evangelica fondamentalista. Nella docufiction Hakani, prodotta dall’Youth With A Mission worldwide, ampiamente sponsorizzata da Damares Alves per ricavare fondi per la sua ONG, la vita di una bambina di etnia suruwahá venne salvata da missionari evangelici, subito dopo essere stata sepolta viva dal fratello maggiore in una buca poco profonda. La storia fasulla, raccontata come veritiera, venne divulgata a livello mondiale per giustificare l’agire religioso e missionario di queste organizzazioni nelle comunità indigene, facendo passare l’infanticidio come pratica diffusa. Di fronte alle notizie false, la magistratura intervenne, condannando l’ONG ad indennizzare la comunità.

In una netta violazione delle norme di protezione dell’infanzia e dei diritti umani, da ministra di Bolsonaro, Damares Alves divulgò alla militante di estrema destra, Sara Winter, i dati personali di una bambina di dieci anni stuprata e rimasta incinta dallo zio, in attesa del procedimento di interruzione volontaria della gravidanza.
Appena la giustizia autorizzò l’IVG, Alves fece partire una task force di pastori evangelici e psicologi per convincere la piccola – orfana di madre e con il padre in carcere – e la nonna, responsabile legale, ad abbandonare il processo abortivo. Nonostante i suoi tentativi, i medici del Centro Integrado de Saúde Amaury de Medeiros, agirono nel rispetto dell’ordine della magistratura di salvaguardare la vita della bambina, gravemente a rischio a causa delle dimensioni dell’utero, effettuando l’aborto.
Orde di parlamentari evangelici, gruppi “pro vita”, associazioni cattoliche ed estremisti di destra, aizzati dall’ex ministra, ora senatrice, assalirono la struttura che aveva accolto la piccola e presero d’assalto l’ospedale, costringendola ad entrare ed uscire nascosta nel porta bagagli di una macchina, pur di evitare il linciaggio, assieme alla nonna.
Allora a capo di un Ministero creato ad hoc per occuparsi di tre delle categorie più bersagliate dalla violenza verbale dell’ex presidente Bolsonaro, ossia, le donne, gli indigeni e le famiglie dei desaparecidos politici, Damares Alves estinse buona parte dei programmi sociali lasciati in eredità dai governi Lula e Dilma Rousseff.
Da senatrice, difende il ripristino del cosiddetto Estatuto do Nascituro, un progetto di legge che condanna le donne che abortiscono, e chi pratica l’aborto, anche in caso di stupro, con pene variabili da quattro a dieci anni di reclusione.

A detta sua, le bambine povere, vittime dei pedofili, vengono scelte dai loro aguzzini perché le famiglie sono “troppo povere per vestirle adeguatamente”. Un’affermazione che destò scalpore nella società civile quando, nel 2019, Damares Alves lanciò un personale appello agli imprenditori, invitandoli a instaurare fabbriche di mutandine nell’Isola di Marajó, al fine di evitare che le piccole girassero per strada “sprovviste di indumenti intimi” e quindi inducendo in tentazione i maschi.
Magno Malta, alla sua volta, appartiene alla lunga schiera di pastori fondamentalisti che, all’apice della pandemia di Covid-19, invitarono i brasiliani a diffidare dai vaccini e ad aggrapparsi a medicinali inefficaci, come la clorochina, pur di recarsi in piazza per sostenere Bolsonaro nel suo scontro con la magistratura.
Il 07 settembre 2022, Festa dell’Indipendenza brasiliana, davanti a circa 120mila persone, Magno Malta fece eco alle minacce dell’ex presidente di chiudere la Corte Suprema e auto assegnarsi “pieni potere” in caso di sconfitta alle elezioni del 2022.
Per il pastore, quotato più volte come vicepresidente della Repubblica, nelle candidature di Bolsonaro, gli elettori della sinistra sono dei “ratti” e i giudici della Corte Suprema “corvi” comandati da uno “psicopatico”, ovvero, il giudice Alexandre de Moraes. Un tempo sostenitore di Lula, a detta sua, è stato “Dio ad aver sollevato il coperchio del tombino” affinché “vedessi i ratti, li conoscessi e sapessi i loro nomignoli.”
Nei suoi culti, sulle reti sociali e programmi radiotelevisivi, Malta paragona gli omosessuali a necrofili e pedofili, sostiene il progetto di legge Escola Sem Partido – che difende forti restrizioni alla libertà di cattedra dei professori – attacca gli oppositori con accuse infamanti e chiama “assassine” donne e bambine che abortiscono, anche quando vittime di stupro.
Un palcoscenico che sembra fatto su misura per il viceministro Matteo Salvini, abituato ad offendere pesantemente politiche, intellettuali e attiviste, oltre a definire l’interruzione volontaria di gravidanza (IVG), un diritto sancito dalla Legge 194/78, e garantito a tutte le donne, una pratica di cui si avvalgono donne dedite a “stili di vita incivili”.

Il governo Meloni e la cabala del numero mille

Pitagora, già nel 500 A.C., sosteneva che i numeri sono il fondamento di ogni cosa e sono indispensabili per comprendere la natura e la realtà.
Ma, senza scomodare ne’ la scienza matematica ne’, in modo più empirico, la cabala, è indubbio che ci sono numeri e numeri ed evidentemente alcuni sprigionano un fascino più di altri. Mille è senz’altro uno di questi.
Non si spiegherebbe altrimenti il suo uso diffuso e variegato utilizzato sia dalla storia, “I Mille” al seguito di Garibaldi, sia dalla letteratura orientale, i famosi racconti delle “Mille e una notte”, fino allo sport con il nome dato alla leggendaria gara automobilistica, le “Mille miglia”.
E che dire della musica? Dal desiderio espresso in una vecchia canzonetta di poter avere ” Mille lire al mese”, passando per le bolle blu di Mina, che erano immancabilmente “Mille”, fino al tormentone estivo di un paio di anni fa, nel quale Orietta Berti, in un trio, cantava una canzone dal titolo inequivocabile, “Mille”.
Sicuramente irretito e conquistato dallo charme misterioso che questo numero a quattro cifre emana, deve essere stato, senza dubbio, anche qualche esponente del Governo, che nelle scorse settimane ha annunciato in pompa magna l’imminente assunzione, nelle realtà del terzo settore, di una quantità di persone con disabilità ben definita. Indovinate quante? Esatto, proprio il numero che state pensando: mille.
Sarebbe, eventualmente, una goccia in mezzo al mare, considerando che i disabili iscritti al collocamento in Italia, sono poco meno di 900mila; ma si sa, mille è un numero magico, lo abbiamo appena dimostrato.
Naturalmente, se in seguito a questo proclama, in futuro, dovesse corrispondere l’inizio di una occupazione reale, stabile e dignitosa per una cifra rilevante di persone con disabilità, anche se ad onore del vero non intravediamo alcun segnale consistente e adeguato in questa direzione, non avremmo nessun problema a dire: “grazie mille”.

Gli autori: Cesare Damiano è presidente associazione Lavoro&Welfare; Fabrizio D’Aprile è presidente associazione Pro Habilis

 

Foto di XT7 Core su Unsplash

Se per il ministro Valditara l’Adhd è ribellione da correggere

L’acronimo Adhd è diventato, negli ultimi anni, sempre più comune nel linguaggio scolastico. Sta aumentando, infatti, il numero dei ragazzi, e qualche volta delle ragazze, per i quali è necessario che il consiglio di classe preveda un piano didattico personalizzato – il cosiddetto Pdp – sulla base di una valutazione redatta da esperti che attesta la sindrome di Adhd. Ricordiamo brevemente che l’Adhd rientra tra i bisogni educativi speciali (Bes) per i quali è prevista la compilazione di un documento che descrive le strategie adottate per supportare il successo formativo che la condizione attestata potrebbe ostacolare, questo documento è, appunto, il Piano didattico personalizzato.

L’importante incremento delle certificazioni per Adhd coinvolge la scuola in modo significativo su piani differenti. Se da un lato siamo, infatti, chiamati a rispondere alle certificazioni che ci vengono presentate con strategie didattiche mirate, dall’altra è bene ricordare che spesso è proprio dalla scuola che partono le richieste alle famiglie di sottoporre i figli ad eventuali valutazioni cliniche alla luce di comportamenti e atteggiamenti considerati incongrui.

Davanti a questo aumento di certificazioni però le reazioni sono diverse: molti, tra genitori insegnanti e anche ragazzi e bambini, accolgono la diagnosi di Adhd quasi con sollievo vedendo in essa una spiegazione per un disagio altrimenti catalogato come maleducazione. Per molti ragazzi quella certificazione costituisce in qualche modo la ratifica di un problema di cui tutti si devono far carico e non più una “colpa” da espiare in solitudine mentre genitori ed insegnanti sentono, in questo modo, di potersi affrancare dall’ipotesi di un’inefficacia educativa. D’altra parte, però sono molti anche coloro che tra, docenti e professionisti del settore leggono questo incremento come un fenomeno eccessivo, preoccupati da un sistema che rischia di medicalizzare ciò che potrebbe essere solo una delle tante varianti del comportamento umano e di classificare ragazzi e bambini con etichette sempre più differenziate.

Non è certo tra le competenze e i ruoli della scuola mettere in discussione le certificazioni prodotte da professionisti, ma quello che invece la scuola può – e deve – fare è prendere atto delle indicazioni fornite, ripensare

E se l’Europa svuotasse gli arsenali e riempisse i granai?

Ma che mondo è quello in cui dopo aver celebrato i trionfi del capitalismo globalizzato, dei mercati liberi e aperti ci si ritrova, come nel film di Troisi, di fronte alla domanda «chi siete, quanti siete, cosa portate? Pagate un fiorino»?

Non che i trent’anni gloriosi delle magnifiche sorti e progressive del capitalismo trionfante siano stati rose e fiori. Wto, Trip, accordi di libero scambio che in realtà impongono l’economia dei forti, hanno accompagnato la cavalcata delle valchirie di quella che Luciano Gallino ha chiamato la lotta di classe rovesciata. E creato una realtà distopica che ora esplode.

Una sorta di medioevo tecnologico, per usare la definizione di Varoufakis. Con un grande mercato finanziario globale che nessuno osa toccare e tanti potenti che si contendono ciò che comunque non vogliono dare ai dominati. Nell’accordo tra Ue e Usa, tra Trump e Von der Leyen, che ora abbiamo potuto leggere nero su bianco c’è una stretta connessione fra dazi ed acquisti veramente esorbitanti e scriteriati di armi ed energia dagli Usa. Con buona pace per il disarmo e il clima. E in più ci sono deroghe a normative europee per favorire le esportazioni Usa. Un mix tra il ritorno dei dazi e l’uso degli strumenti per profitti tipici degli accordi commerciali simmetrici di questo trentennio. Ma veramente questa è l’Europa che pensavamo l’indomani della seconda guerra mondiale, degli indicibili orrori dei campi di sterminio e delle atomiche sulle città?

Ciò che dovrebbe apparire incredibile è che l’Europa che pensavano i sopravvissuti si è veramente ricostruita, almeno per una sua larga parte. Certo divisa tra Est ed Ovest, tra socialismo reale e un capitalismo che però non poteva ignorare le istanze che avevano sorretto la lotta a quel nazifascismo nato dal fallimento dei vecchi Stati liberali. Stiamo qui, in Occidente. L’Europa si ricostruisce dopo il 1945 intorno a un mix di economia pubblica e privata, con un larghissimo ruolo del pubblico non solo nei settori che formeranno il welfare più avanzato al mondo dalla sanità, alla scuola, alla casa, alle pensioni, ai servizi, ma in interi grandi comparti infrastrutturali e produttivi. La piena occupazione è non solo elemento costituzionale ma concreto obiettivo inserito nella programmazione. La rendita viene additata come residuo medievale da estirpare. La cooperazione evocata

L’alfabeto per combattere tutte le mafie

Ci sono libri che non si limitano a raccontare una realtà, ma si pongono come strumenti per trasformarla. L’antimafia parola per parola – Conoscere per resistere (Liberaetà edizioni, con illustrazioni di Miriam Balli) è uno di questi. Frutto della collaborazione tra lo Spi Cgil, la Rete degli studenti medi e l’Unione degli universitari, questo vocabolario militante è più di un repertorio terminologico: è un atlante politico ed etico, dove ogni parola scelta nasce da un’esperienza di lotta e di memoria. Fin dalle prime pagine, emerge con forza la consapevolezza che la lotta alla mafia non riguarda solo i magistrati e forze dell’ordine, ma è impresa collettiva, fondata sulla cultura, sul lavoro e sulla giustizia sociale La segretaria generale Spi Cgil Tania Scacchetti lo afferma chiaramente: «Il nostro obiettivo è fare cultura antimafia in maniera trasversale, con l’ambizione di parlare alle giovani generazioni e a chi ha contribuito in prima persona a conquistare importanti diritti civili e sociali». L’antimafia, in questa visione, non è una pratica quotidiana e collettiva, fatta di alleanze generazionali, presidi territoriali, campi di formazione sui beni confiscati, assemblee, scuole.

È la stessa idea che muove l’impegno di Luisa Impastato nelle belle pagine dedicate a Peppino: «La sua voce- che la mafia nel 1978 ha tentato di zittire con cinque chili di tritolo – non si è spenta con lui». Radio Aut, la sua radio libera, ridicolizzava i boss, dava spazio ai collettivi femministi, scardinava il linguaggio del potere con l’arma dell’ironia: «Tano Seduto» al posto di Badalamenti, «Mafiopoli» per Cinisi. Non era “solo” dissenso: era rottura simbolica e culturale, e per questo tanto pericolosa da costargli la vita.

Una lezione, la sua, che continua a vivere nel presente, nelle parole degli studenti, che scelgono di «ripartire dall’antimafia dei territori», portando l’impegno nelle periferie, nei quartieri dove la marginalità sociale diventa terreno fertile per le infiltrazioni mafiose. Riconvertire un bene confiscato in una biblioteca o in uno spazio di aggregazione

A Bebelplatz i libri bruciati, ma non le idee

Rogo di libri a Berlino nel 1933

La letteratura fa paura al potere? Possono i libri essere considerati una seria minaccia all’ordine costituito, tanto da essere eliminati fisicamente, bruciati in piazza perché tutti vedano e capiscano? Ebbene sì, questo è ciò che ci consegna la storia, ed è l’argomento dell’ultimo libro di Fabio Stassi, Bebelplatz. La notte dei libri bruciati, pubblicato da Sellerio (il 19 settembre Stassi lo presenta a Pordenonelegge). Organizzato in cinque parti, il libro combina elementi di saggistica storica, diario personale e reportage, ed è accompagnato, in apertura, da una nota critica di Alberto Manguel e, in appendice, da una cronologia ragionata dei roghi di biblioteche e di libri dall’antichità ai giorni nostri (il primo censito è quello della biblioteca di Tebe del 1358 a.C.), oltre che da un puntuale apparato di note. Quella di Stassi è la storia di un viaggio in Germania per un ciclo di conferenze negli istituti italiani di cultura, che si trasforma nell’innesco di una ricerca nel passato – più e meno recente . dei fantasmi e degli orrori che hanno segnato la nostra storia, caratterizzata nei secoli da una dichiarata e plateale ostilità nei confronti della cultura, e in particolare di uno dei suoi simboli più forti: il libro. A Bebelplatz, nel centro di Berlino, il 10 maggio del 1933 a mezzanotte, migliaia di libri vengono dati alle fiamme. Il gran cerimoniere è Joseph Goebbels, ministro del Reich per la Propaganda e l’Istruzione pubblica, che celebra la nascita dell’uomo nuovo tedesco, che dei libri non avrà mai più bisogno. È un potentissimo atto simbolico, che darà il via alla distruzione di un intero continente: nel giro di pochi anni, l’Europa verrà avvolta dalle fiamme e diventerà un cumulo di cadaveri e macerie. Durante il suo viaggio, Stassi visita anche città tedesche che, come Amburgo, furono distrutte dai bombardamenti inglesi; nell’ambito della devastante Operazione Gomorrah, gran parte della città fu rasa al suolo, causando circa cinquantamila vittime civili. È evidente come il viaggio-ricerca di Stassi non si fermi al passato, ma guardi anche al presente, poiché si svolge mentre infuria la guerra in Ucraina — a causa dell’aggressione russa — e poco prima dell’inizio della carneficina di Gaza. In questo contesto, l’autore si interroga sul ruolo della memoria e sulla difficoltà, o l’incapacità, di elaborare il lutto collettivo di fronte alle distruzioni di massa compiute anche dagli anglo-americani durante la Seconda guerra mondiale. A guidarlo è il pensiero di W.G. Sebald, che parlò di un vero e proprio “processo sociale di rimozione”. Ed è proprio sulla scia di Sebald che Stassi scrive:<>. Come a voler dire che la guerra è sempre morte, distruzione e dolore; e che non ha colore – soprattutto per chi la subisce. Nel cuore del libro, Fabio Stassi dedica un’ampia e intensa riflessione a cinque autori italiani che finirono nelle liste nere del regime nazista: quattro uomini e una donna, ognuno a suo modo rappresentante di una forma di libertà che il potere non poteva tollerare. Il primo è Pietro Aretino, figura centrale della cultura rinascimentale, autore irriverente dei Sonetti lussuriosi, che fece della parola uno strumento di sfida all’ipocrisia e ai moralismi del tempo. Ma Aretino fu anche un autore di testi biblici e agiografici, a conferma della sua complessità intellettuale. Fu visto come sacrilego e miscredente, condannato tanto dalla Chiesa quanto, secoli dopo, dal nazismo, che in lui riconobbe il simbolo di una libertà eversiva, scomoda e inassimilabile. Giuseppe Antonio Borgese, siciliano delle Madonie e cittadino del mondo, rifiutò il giuramento imposto dal regime e scelse l’esilio negli Stati Uniti. Lì, oltre a proseguire la sua attività culturale, sposò Elisabeth Mann, molto più giovane di lui, figlia di Thomas Mann. Utopista, europeista ante litteram, Borgese rappresentava una cultura della pace e del dialogo che mal si adattava alle logiche del totalitarismo. Poi c’è Emilio Salgari, grande scrittore e viaggiatore dell’immaginazione. La sua opera, apparentemente d’intrattenimento, custodiva in realtà una visione profondamente antimperialista, capace di rovesciare le gerarchie tra colonizzatori e colonizzati. Non a caso, fu letto e celebrato in Sudamerica come una voce di riscatto, e per questo percepito dai regimi come un autore pericoloso, perché capace di ispirare identità e resistenza. Ignazio Silone, che, dopo aver lasciato l’Italia, elesse a sua patria Zurigo, città di esuli celebri come James Joyce, fu un altro esempio di intellettuale indomabile. Comunista eretico, antifascista convinto, scelse sempre la libertà anche a costo dell’isolamento politico. La sua opera più famosa Fontamara venne apprezzata e promossa, tra gli altri, da Carlo Rosselli; dopo un iniziale ostracismo andrà incontro a al successo internazionale, diventando uno dei romanzi antifascisti più letti al mondo.

Chiude la rassegna Maria Assunta Volpi Nannipieri, l’unica donna della lista, figura oggi poco nota ma sorprendente per modernità. Giornalista e scrittrice, incontrò e raccontò Joséphine Baker, la celebre “Venere nera” del music hall parigino, rompendo tabù legati al corpo femminile, alla razza e al desiderio. Nei suoi romanzi, per lo più di genere rosa, emerge una rivendicazione di autonomia e piacere, che mette al centro la libertà delle donne, non come concessione, ma come diritto inalienabile (la pietra dello scandalo fu il suo libro intitolato Sambadù, amore negro, pubblicato da Rizzoli). Per questo venne censurata. Attraverso i loro esempi, e un significativo excursus letterario che tocca autori come Ovidio, Cervantes (l’autore ci invita a riaprire la biblioteca di Don Chisciotte), Hannah Arendt e Elsa Morante, il lavoro di Stassi si configura come un’appassionata difesa della trasgressione e del potere sovversivo e ribelle della lettura — ma soprattutto dei lettori e delle lettrici, autentici “pericoli” per ogni potere, terribilmente temuti perché liberi per costituzione. Il libro si conclude con una splendida definizione della letteratura, ispirata da Leonardo Sciascia e da un ricordo del padre dell’autore:<>. Alla fine del suo viaggio, dunque, Fabio Stassi ci rammenta che il compito di non far spegnere quest’ultima candela spetta a tutti noi.

 

In apertura, rogo di libri a Berlino nel 1933 foto wp

 

’autore: Pierluigi Barberio è docente e autore del libro Luciano Bianciardi. Scrittore e uomo libero (Momo edizioni), con Illustrazioni di Marco Petrella

Trump, metastasi del nostro tempo

Trump è il cancro di questo tempo. Sì, certo, Netanyahu è un assassino. Sì, certo, Putin sta solleticando la voglia della peggiore classe dirigente che l’Unione europea abbia mai avuto. Dietro, alle spalle, ci sono i servi: i signorotti delle armi che si cibano del sangue, soprattutto degli innocenti. Quelli che lucrano sulle crisi, come avvoltoi che si nutrono di interiora. Ma Trump è il sigillo dell’epoca buia. E noi italiani qui, asserviti a una comparsa.

Donald Trump non è un capo di Stato da prendere con leggerezza o da misurare solo con critiche partitiche: è la manifestazione plastica di decadenza morale, politica, intellettuale. Non è l’errore che possiamo tappare con una firma, è il sintomo profondo di un sistema che celebra l’egoismo, la divisione, il rancore. È lui che sbandiera la “grandezza” mentre distrugge le istituzioni. È lui che invoca la pace ma arma la guerra con la propria retorica. È lui che crea muri, non solo tra nazioni, ma fra persone. Fra chi deve lottare per sopravvivere e chi si arrocca in privilegi e citazioni viralizzate.

Netanyahu, sì, ha ucciso, continua a perseguitare, è il cocchiere del genocidio. La responsabilità dei governi è quella di proteggere, non di massacrare. Però non basta indignarsi per Netanyahu: bisogna nominarlo, chiamarlo con il suo nome, ma sapere che le sue azioni sono il riflesso più estremo di ciò che gli Stati che si reputano civili già accettano in silenzio. E Putin, con il suo impero di menzogne e violenza, ha nutrito la fame di guerra della peggior classe dirigente europea — quella che con la bava alla bocca perché non vede l’ora di fare alla guerra. 

Gli affari delle armi, dei mercati geopolitici, del petrolio, del gas, del denaro che cambia mani mentre la gente muore, eccoli i mandanti invisibili. I signori delle crisi sanno benissimo che senza guerra non vendono armi, non strappano contratti, non gonfiano profitti. Sono i parassiti che prosperano quando la democrazia vacilla, quando la giustizia è piegata, quando la pietà morale diventa una finzione.

Ma Trump? Trump è il sigillo. È il marchio che sancisce che abbiamo superato il punto di non ritorno: l’arroganza istituzionalizzata, la demagogia che non serve a risvegliare coscienze, ma a soffocarne la speranza. È lui che trasforma la leadership in spettacolo, che fa della folla il suo specchio, che spegne la luce nelle stanze dove una generazione avrebbe potuto costruire altrove una speranza diversa.

Buon venerdì.

 

Foto di Rod Long su Unsplash

«A Gaza si muore anche per la mancanza di insulina», l’appello di Lujain e la richiesta di corridoi umanitari

Corridoi umanitari per bambini e giovani affetti da diabete mellito di tipo 1, la cui vita è a rischio per l’assenza di insulina. Da Diabete Italia, che lei stessa ha contattato grazie a mail e social, arriva la testimonianza di Lujain Nashwan, 19 anni, tra gli sfollati di Gaza City. Il suo è un grido per se stessa e per quanti come lei stanno rischiando di morire se non sotto le bombe per l’assenza di insulina. A raccontare la sua storia è Monica Priore, del direttivo dell’associazione che con Lujain sta tenendo contatti quotidiani, “per sostenerla, incoraggiarla e presidiare, anche se ormai non ce la fa più”. Lujain è infatti in chetoacidosi, quindi in iperglicemia costante, una condizione clinica che, se non corretta, può condurre alla morte. A Gaza non c’è più insulina, né cibo né acqua pulita. Negli ospedali non distrutti mancano farmaci e dispositivi. Negli ultimi tre mesi Lujain ha resistito con somministrazione di prodotto scaduto e mal conservato. Trattandosi di un farmaco termosensibile, che nel passaggio di temperature perde la propria efficacia, l’insulina andrebbe infatti mantenuta nei frigoriferi. I frigoriferi però non sono in funzione dati i continui black-out, che si susseguono da novembre 2023. Lujain ha un certificato rilasciato dall’ospedale di AL- HELOU di Gaza, più volte bombardato e oggi privo delle risorse di base. Diabete Italia, per voce del Presidente Stefano Nervo e del direttivo, lancia dunque l’allarme, ricordando che su 2 milioni di palestinesi che abitavano Gaza, sono circa 71 mila quelli affetti da diabete. Tra loro, si stima che almeno mille soffrano del tipo I. Realisticamente sono almeno il triplo. E senza insulina si muore. Nervo e Priore riportano le testuali parole di Lujain. “Negli ultimi tre mesi sono stata costretta a usare insulina scaduta dal 2024. Le strisce per controllare la glicemia non esistono sul mercato e quando si trovano hanno prezzi proibitivi. Non ho mai avuto accesso a microinfusori né a sensori. La mia casa è stata distrutta e oggi vivo in una tenda, senza possibilità di conservare i farmaci in frigorifero a causa dei continui blackout. Dopo due anni sono riuscita a fare un’emoglobina glicata: era oltre l’11%. Vivo tra frequenti svenimenti dovuti a valori di glicemia fuori controllo. Ogni giorno è una battaglia per sopravvivere.” Questo quanto riferiva due giorni fa. Dopo l’invasione di terra di Israele, le operazioni militari in corso e gli ordini di evacuazione, insieme alla madre e alle sorelle è tra le 40 mila persone che si stanno spostando verso Sud. Diabete Italia cerca di agevolare contatti sicuri nei pochi presidi ospedalieri della striscia, ma la situazione è sempre più difficile. Manca internet, ricaricare il cellulare sta diventando impossibile. “Questa testimonianza è solo la punta dell’iceberg. Centinaia di bambini e persone condividono la stessa drammatica condizione”. Diabete Italia chiede dunque al Governo di attivarsi per corridoi umanitari e alle ONG, OMS e Croce Rossa di “inserire i pazienti con diabete di tipo 1 tra quelli prioritari nelle evacuazioni”. Si rende immediatamente disponibile “a coordinare l’accoglienza sanitaria in Italia, in rete con ospedali e centri di diabetologia pediatrici e per adulti”. Strazianti le parole di Lujain: “Non lasciatemi sola”, scrive, con la speranza di arrivare “in Italia, il Paese dell’umanità”. In un conflitto che conta decine di migliaia di morti Diabete Italia è chiara: “Il diabete di tipo 1 non aspetta la fine di una guerra. Non possiamo permettere che bambini e giovani muoiano solo perché la loro malattia cronica non trova spazio tra le priorità degli aiuti.”

Quando il governo bussa in procura per alleggerire i giganti

Quando il governo entra nei corridoi della giustizia non per riferire ma per “cortesia istituzionale”, la democrazia trema. Il Manifesto racconta la visita del viceministro dell’Economia Maurizio Leo e del direttore dell’Agenzia delle Entrate Carbone ai magistrati di Milano che indagano su Amazon. Un’inchiesta che vale cifre gigantesche: la Guardia di finanza stima 3 miliardi di euro tra imposte, interessi e sanzioni; l’Agenzia propone di chiudere con circa la metà, sei­cento milioni subito e il resto dilazionato. Un ribasso che alleggerirebbe anche i profili penali, a partire dalla dichiarazione fraudolenta contestata a tre manager.

Il punto non è solo la contabilità. È la linea sottile che separa la fiscalità dalla politica. Perché se lo Stato diventa negoziatore con il soggetto indagato, se accetta che il gigante digitale si sieda al tavolo con lo sconto già servito, il principio di uguaglianza tributaria rischia di essere archiviato.

Il paradosso è che mentre in Europa si discute di tassazione delle Big Tech e Trump agita i dazi accusando Bruxelles di voler colpire le imprese americane, l’Italia sembra preferire la via della “mediazione”, quasi a garantire al colosso un salvacondotto. È la fotografia che Il Manifesto consegna: uno Stato che appare più incline ad accomodare che a pretendere giustizia fiscale.

Se la legge vale solo per i piccoli, non è più legge. È un privilegio.

Buon giovedì. 

 

Foto di ANIRUDH su Unsplash