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Gaza, il doppio standard occidentale e la fine della storia

Che la distruzione di Gaza e del popolo che la abita in atto da quasi due anni sia destinata a divenire uno spartiacque della storia è ormai evidente. C’era un mondo prima di questo annichilimento, ci sarà un altro mondo dopo. Il massacro e le sue giustificazioni, la disumanizzazione dei palestinesi, la complicità dei governi alleati di Israele e l’ignominia di uno sterminio che ogni giorno di più appare di portata epocale sono infatti tali che, se tutto questo avrà una fine, non si potrà semplicemente «voltare pagina» e riprendere il corso delle cose come nulla fosse. Perché la ferita sarà troppo profonda, l’orrore troppo tremendo, il danno troppo enorme perché si possa prescinderne. Come potrà il mondo «fare i conti» con quanto sta accadendo a Gaza? Come sarà quella contabilità? E come farà quei conti l’Occidente stesso nel nome del quale Netanyahu afferma di agire?

Il problema, però, è che tanto più le dimensioni dello sterminio e della distruzione appaiono evidenti, le responsabilità di Israele incommensurabili e la connivenza dei Paesi occidentali imbarazzanti e vergognose, quanto più si sta cercando di porre la questione su un piano relativo. Oltrepassato quel limite che esigeva di definire quanto Israele stava compiendo come genocidio – nessuna azione riferibile agli israeliani aveva mai potuto avere a riferimento un termine che poteva solo ascriversi all’Olocausto – si sta tentando ora di porne l’azione in una prospettiva che suona come «tutti se ne sono macchiati». In effetti, la storia occidentale e del suo predominio è costellata di violenti episodi di sottomissione ed eliminazione di intere popolazioni, di predazione di terre e di risorse. Dai “pellerossa” americani ai congolesi, dagli indigeni dell’Africa sud-occidentale ai nativi di Algeria, Kenya e India, per non parlare degli schiavi africani portati in America e restare agli ultimi duecento anni, sono molteplici gli esempi in cui a prevalere, in definitiva, è stata semplicemente la legge del più forte e l’annichilimento di massa.

Dal 1945, tuttavia, i Paesi dell’Occidente democratico capitalistico avevano sempre difeso e sostenuto i principi degli inalienabili diritti dell’uomo, delle minoranze, dei popoli e della loro auto-determinazione sui quali l’Onu era stata fondata. Forti della loro supremazia politica e militare, affermatasi grazie al predominio tecnologico ed economico costruito sul colonialismo imperialistico e predatorio, quei Paesi si erano erti a garanti del mondo libero, rispettoso dei diritti umani, portatori dei “valori” di progresso ed emancipazione, equità e giustizia alla base della “civiltà occidentale”. Mettendo da parte gli “errori” commessi e arrivando, in alcuni casi, perfino a parlare di “compensazioni”. Lo sterminio e l’appropriazione coloniale erano cosa del passato oggi non più accettabili e tutti avrebbero dovuto conformarsi a questo standard.

Certo, la contrapposizione con l’Unione sovietica e la guerra “fredda” avevano consolidato l’alleanza dei Paesi occidentali, esaltandone un modello che coniugava libertà individuali, democrazia e progresso economico grazie al capitalismo dell’economia di mercato. E quando nel 1991 la dissoluzione dell’Urss ne aveva sancito la “superiorità” si era parlato di «fine della storia», dacché quel modello si sarebbe esteso a tutto il mondo. E noi ci avevamo creduto. Che quel modello fosse scaturito da un passato macchiato di soprusi e discriminazioni, sterminii e trasferimenti forzati di milioni di persone poco importava, c’erano la libertà, la democrazia e pari opportunità, ora, da difendere e godere.
L’Occidente si era così trovato all’apice del suo dominio, sentendosi chiamato a governare le vicende mondiali, intervenendo ovunque per stabilire il rispetto di quei principi fondativi – fossero questi i diritti umani, l’inviolabilità dei confini o la risoluzione dei conflitti per via pacifica – per “esportare” democrazia e capitalismo. Costruendo quella narrazione del mondo libero e democratico vincente che nascondeva il suo passato di suprematismo schiavista, razzista e genocidario, guidato da «missione civilizzatrice».

Ora che poteva vantare libertà, democrazia e tutela dei diritti, dall’alto della sua autorevolezza morale, l’Occidente aveva così usato le istituzioni internazionali per intervenire in quei Paesi che non si conformavano ai principi sanciti in Iraq come in Serbia, in Afghanistan come in Libia e in vari altri casi, perfino ricorrendo al Tribunale internazionale dell’Aja per punire i colpevoli di atti efferati o genocidi. Non smettendo, però, di consolidare la propria supremazia politica e militare, allargandone la propria sfera d’influenza tramite l’alleanza euro-atlantica.
Come «un lupo che non perde il vizio», l’Occidente aveva però continuato a “peccare” di violenze (come ad Abu Ghraib), arbitrarie interferenze (in Kosovo, in Ucraina), illeciti (come con Guantanamo), nel nome della “guerra al terrore” o altre parole d’ordine, con ipocrisia mal tollerata. La storia era finita, ma c’era chi non si adeguava e intanto, non solo il suo prestigio andava scolorendo, ma la sua stessa egemonia veniva meno con il procedere della globalizzazione.

Dopo aver inveito contro l’autocrate russo, chiamandolo di fronte alla stessa corte internazionale per i crimini compiuti in Ucraina dopo il 2022, l’Occidente non ha fatto nulla per fermare la follia devastatrice di Israele a Gaza, rivelando così un “doppio standard” inaccettabile. Perché quanto sta accadendo oggi a Gaza non è che l’ultimo atto di un progetto coloniale da parte di un nutrito gruppo di ebrei che, con somma soddisfazione da parte degli europei ben lieti di liberarsene, decisero di andare ad occupare «una terra senza popolo per un popolo senza terra» con il placet delle potenze coloniali. Un progetto coloniale che non è mai stato stigmatizzato o controllato, sin dalla sua nascita nel 1948.

Di chi allora abitava quella terra non ci si occupò, né allora né dopo e Israele, con il governo attuale, ha deciso di dare un’accelerazione alle sue politiche di eliminazione e occupazione, nascondendosi, come sempre, dietro alla richiesta di un «diritto all’esistenza» che non potrà mai essere compiuto se non garantendo un diritto all’esistenza dei palestinesi stessi. Il problema, tuttavia, è che, mentre fino ad oggi vi era stata una “convivenza” forzata – che oscurava un’occupazione spietata e finanche l’apartheid dei palestinesi – l’azione di Israele ha trovato i suoi alleati inerti e disposti ad accettarne qualunque sviluppo. Il vulnus di quel progetto colonizzatore si è così ingigantito, fino a far suppurare la ferita. Il crimine di Israele è fuori misura e ha oggi definitivamente superato ogni termine di paragone.

Dopo Gaza, non sarà più possibile per l’Occidente parlare in nome della difesa dei diritti umani. Lo aveva fatto contro il Sudafrica, sanzionandolo per l’apartheid: non lo ha fatto oggi, lasciando Israele agire impunito nello sterminio dei palestinesi. Di fronte all’orrore provocato dall’azione di Israele con il sostegno e l’avallo dei paesi occidentali, anche le nostre parole devono cambiare. Non abbiamo più alcuna credibilità, non possiamo più parlare di rispetto del “diritto internazionale”, né tanto meno di “diritti umani”. Non abbiamo – se mai l’avessimo avuta – alcuna autorevolezza né morale né politica. Noi, l’Occidente della “civiltà”, come possiamo guardare a ciò che succede a Gaza senza chiederci come abbia potuto quella “barbarie” nascerci in seno? I “barbari”, storicamente, erano gli “altri”, i non civilizzati. Che senso ha dire “fermare la barbarie” quando siamo noi i barbari, quando quella barbarie siamo noi a generarla?

Il silenzio, l’inazione e la connivenza dei governi si sono fatti insopportabili, per tutti, ma soprattutto per noi che abitiamo in Occidente. Il baratro in cui Israele è precipitato – tanto da far parlare ad Anna Foa di “suicidio” – ci sta risucchiando come mai non era accaduto, smontando le certezze che avevamo di essere «baluardi della civiltà» e «fari del mondo libero». Ed è per questo, quindi, che oggi a Gaza ha fine la storia, quella storia in cui è stato l’Occidente a predominare. La doppia morale – sono crimini quelli degli altri – ne sancisce la fine. Una nuova storia sta cominciando, una storia in cui il mondo, come vediamo, è già in cerca di un altro “ordine internazionale” – quello di un mondo senza modelli né Paesi guida – ed è un mondo con un Occidente “sminuito” non solo perché non ha più l’egemonia economica e tecnologica, ma anche perché quella supremazia che aveva reclamato nelle sfere del diritto internazionale e dei diritti umani è definitivamente venuta meno.

Italia complice fino all’ultimo: un sì tardivo che non lava il sangue di Gaza

L’Italia oggi voterà sì alle sanzioni contro Smotrich e Ben-Gvir. Ma è la foglia di fico di un Paese che per mesi ha fatto scudo a Israele insieme alla Germania, bloccando perfino il congelamento di Horizon, i fondi che possono finire a sostenere anche l’industria bellica. Roma si concede il lusso di colpire due ministri estremisti già bollati dalla comunità internazionale: un atto minimo, utile solo a salvare la faccia.

Meloni lo presenterà come svolta, ma nessuno potrà dimenticare il silenzio sugli ospedali bombardati, sui campi profughi spianati, sul genocidio certificato dall’Onu che il governo continua a fingere di non vedere. Il paragone con l’Ucraina è imbarazzante: allora l’Europa, Italia compresa, aprì le porte a centinaia di migliaia di rifugiati; per Gaza non si concede neppure lo status di protezione temporanea.

Il voto di oggi è la scelta di chi vuole restare nel gruppo, non la presa di coscienza di una responsabilità. Roma continua a proteggere i contratti militari e i legami strategici, sacrificando ogni coerenza sui diritti umani. Le parole «mai più» pronunciate a ogni commemorazione diventano carta straccia quando servirebbe il coraggio di interrompere rapporti con chi bombarda e affama una popolazione.

L’Italia arriva al voto trascinata, non convinta. E questo è il segno più grave: non è la giustizia a guidarla, ma la paura dell’isolamento. La verità è che Roma non sceglie i diritti, ma i bilanci; non difende la pace, ma le forniture. Con questo voto timido, l’Italia non lava le proprie mani: le lascia sporche di complicità.

Buon mercoledì. 

Il genocidio e le molte mani sporche di sangue

C’è sempre qualcuno, nei palazzi del potere, pronto a scandalizzarsi se gli si ricorda che ha le mani sporche di sangue. Ministri, premier, presidenti: tutti indignati, tutti pronti a dire che “non è vero”, che loro chiedono pace, che loro non c’entrano. Ma Gaza City oggi è invasa dai carri armati israeliani, i quartieri vengono sbriciolati, e migliaia di famiglie fuggono a piedi con il cielo arancione di bombe sopra la testa. Le mani sporche non sono un’opinione: sono un fatto scolpito nelle macerie.

A Doha, i Paesi arabi e musulmani riuniti in vertice straordinario accusano Israele di crimini di guerra e sabotaggio dei negoziati. Il Qatar chiede sanzioni e misure concrete, l’Egitto e la Turchia spingono per una linea dura. È la prima risposta coordinata, ma intanto i bombardamenti continuano. E in Occidente? Si ricorre alla solita formula: “moderazione”. Una parola che pesa come una pietra, perché tradotta significa complicità.

In Israele, le famiglie degli ostaggi parlano di “710ª notte”, forse l’ultima. Accusano Netanyahu di sacrificare i loro figli per calcoli politici, mentre l’esercito intensifica l’operazione proprio nelle aree dove potrebbero trovarsi. La politica usa i vivi e i morti come pedine, e lo fa senza pudore.

E poi ci sono i governi occidentali, quelli che si offendono quando li accusi di complicità. Parlano di diritti umani nei salotti, ma intanto firmano contratti miliardari con le stesse industrie che armano l’assedio. Fingono neutralità mentre scelgono sempre da che parte stare: dalla parte del business. Gaza brucia, i bambini muoiono, i palazzi si sbriciolano. E loro, con la faccia pulita davanti alle telecamere, si fingono innocenti. La verità è che complici lo sono davvero. Ogni loro lacrima è finta, ogni condoglianza è veleno, ogni parola di “preoccupazione” è benzina gettata sul fuoco. Gaza oggi è il loro specchio: e il riflesso è quello di un mondo marcio.

Buon martedì.

 

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Dalla bugia all’indecenza: Meloni fa campagna sull’omicidio Kirk

Per giorni giornali e commentatori si sono lanciati in ricostruzioni isteriche: “antifascisti”, “scontro politico”, “odio di sinistra”. Niente di tutto questo era provato, e infatti i fatti hanno smentito le fantasie. Ma chi si aspettava un minimo di pudore, un passo indietro, un’ammissione di responsabilità, ha sbagliato indirizzo. La destra italiana non conosce vergogna: preferisce usare un cadavere come megafono.

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha colto l’occasione per esibirsi alla kermesse di Vox, in Spagna, e trasformare l’omicidio di Charlie Kirk in uno spot politico. «Il suo sacrificio ci ricorda da che lato sta la violenza e l’intolleranza», ha scandito, accreditando la solita sinistra-mostro, utile come spauracchio a ogni stagione. Un’esibizione che non ha nulla a che vedere con la prudenza istituzionale, e molto con la propaganda da comizio, pronunciata tra gli applausi di un partito che dell’odio fa identità.

Poco importano le indagini, poco importano le contraddizioni: il copione è sempre lo stesso, agitare lo spettro dell’odio per presentarsi vittime e custodi della libertà. Il risultato è una caricatura della realtà, utile solo a blindare il consenso interno.

Lo schema funziona perché trova eco in una stampa già pronta a rilanciare generalizzazioni e bugie. Si cancella la realtà, si fabbrica il nemico, si recita indignazione a comando. È un gioco sporco che sporca tutto: la memoria della vittima, la qualità del dibattito pubblico, la tenuta democratica. Non è solo strumentalizzazione, è necrofilia politica.

Meloni non ha parlato di Kirk, ha parlato di sé: e per farlo ha usato un cadavere come specchio.

Buon lunedì.

Bolsonaro golpista del Terzo millennio, pesantissima condanna per l’ex presidente amico delle destre d’Occidente

Cono Sur, da un golpe riuscito a un golpista condannato. Nell’anniversario del colpo di Stato in Cile, avvenuto l’11 settembre 1973, che rovesciò e portò alla morte il presidente Salvador Allende, la Corte Suprema brasiliana ha votato a favore della colpevolezza dell’ex presidente Jair Messias Bolsonaro, accusato, assieme ad ex ministri e alti ufficiali dell’esercito, di aver orchestrato un tentato colpo di Stato, dopo la sconfitta elettorale del 2022.
La sentenza ha tenuto conto dell’età di Bolsonaro (oltre 70 anni), che ha garantito un piccolo sconto di pena, ma il suo ruolo di leader dell’organizzazione criminale ha portato a una condanna più severa rispetto a quella degli altri imputati.
La Corte Suprema ha stabilito che l’ex presidente inizi a scontare la pena in regime di reclusione, ovvero che Bolsonaro debba essere condotto in un istituto penitenziario o in una struttura speciale come una cella della Polizia Federale. Tuttavia, non è stato ancora deciso dove verrà trasferito.
La decisione segna un momento storico per il Brasile, non solo perché è la prima volta che un ex capo di stato viene giudicato per reati di tale gravità, ma per la presenza nel banco degli imputati di generali che avevano preso parte, attivamente, del regime militare del 1964, come Augusto Heleno Ribeiro Pereira, ex ministro del Gabinetto di Sicurezza Istituzionale (GSI) del governo Bolsonaro, ora condannato a 21 anni di carcere.
I reati sono tentato golpe, criminalità organizzata, abolizione violenta dello stato di diritto, danneggiamento aggravato e deterioramento del patrimonio storico, alcuni previsti nella Costituzione del 1988.
L’abolizione violenta dello Stato di diritto e il colpo di Stato, invece, non erano stati regolamentati fino al 2021, quando il Parlamento l’ha votata in fretta e furia, timoroso per la deriva autoritaria presa da Bolsonaro nel corso della pandemia.
L’approvazione della legge 14.197/2021 sui reati contro la democrazia, avvenne con l’obiettivo di impedire a Bolsonaro di utilizzare la legge che era ancora in vigore dagli anni del regime militare e che, in casi eccezionali, permetteva al presidente della Repubblica di violare le regole del sistema politico per mantenersi al potere, o ampliarne a dismisura i propri. Bolsonaro, nonostante le pene durissime firmò.
​Quindi, secondo la Procura, l’ex presidente avrebbe guidato un’organizzazione criminale volta a sovvertire il sistema democratico e a mantenersi al potere.
Il piano prevedeva, tra le altre cose, l’imposizione dello stato d’assedio e l’uccisione di figure istituzionali, tra cui l’attuale presidente Luiz Inácio Lula da Silva, il suo vice Geraldo Alckmin e il giudice della Corte Suprema, Alexandre de Moraes, relatore del processo.
​La condanna da parte del collegio della Corte Suprema è arrivata dopo un lungo e attento esame delle prove, iniziato due anni fa.
​La sentenza della Corte Suprema si aggiunge alle già esistenti restrizioni a carico di Bolsonaro. Dichiarato ineleggibile per otto anni nel giugno 2023 per aver diffuso disinformazione sul sistema elettorale, l’ex presidente è agli arresti domiciliari dal 5 agosto scorso, dopo aver violato le misure cautelari.
La sua difesa, che lo ha sempre dichiarato innocente e vittima di una “persecuzione politica”, ha citato problemi di salute per giustificare la sua assenza dalle udienze finali del processo.
​L’intero iter giudiziario si è svolto in un clima di grande tensione e con un rafforzato dispositivo di sicurezza nella Praça dos Três Poderes a Brasilia, luogo che fu teatro dell’assalto da parte dei sostenitori di Bolsonaro l’8 gennaio 2023.
Oltre a Bolsonaro, e il generale Augusto Heleno Ribeiro Pereira, le pene maggiori sono state assegnate al​l’ex ministro della Difesa Walter Braga Netto, arrestato lo scorso dicembre per intralcio alla giustizia, condannato a 26 anni di carcere, all’ex ministro della Giustizia Anderson Torres e all’ex comandante della Marina Almir Garnier, condannati a 24 anni di carcere ciascuno.
La strategia difensiva dell’ex ministro della Difesa Paulo Sérgio Nogueira, che aveva ammesso di aver provato a dissuadere Bolsonaro di proseguire nell’intento di rovesciare il sistema democratico, non ha funzionato: condannato a 19 anni di carcere. Alexandre Ramagem, oggi deputato federale, ma a capo dei servizi segreti di allora, sconterà 16 anni e 1 mese di carcere per avere ordinato la sorveglianza illegale e la creazione di dossier contro gli oppositori politici di Jair Bolsonaro, generando un clima di persecuzione e di odio contro comuni cittadini, artisti e dipendenti statali, non allineati al governo.
​Mauro César Cid, il tenente colonnello dell’Esercito scelto da Bolsonaro come aiutante di campo, divenuto collaboratore di giustizia, sconterà la pena di 2 anni in regime aperto. Figlio di un generale dell’esercito, compagno di Bolsonaro ai tempi in cui frequentava l’Accademia militare, nell’accordo di delazione premiata, Cid mise come condizione per la sua confessione il diritto a una scorta per moglie, figlie e genitori.
Nel mese di giugno parte della famiglia ha lasciato il paese verso gli Stati Uniti.
La difesa di Bolsonaro e degli altri imputati ha dichiarato che farà ricorso contro la sentenza, definendo le pene “eccessive e sproporzionate”.
Tuttavia, la condanna da parte del collegio della Corte, per quattro voti contro uno, è di per sé un passo significativo e un messaggio forte a difesa della democrazia brasiliana.
L’esito di questo storico processo avrà sicuramente un impatto profondo e duraturo sul futuro del paese, come auspica la giudice della Corte, Carmen Lúcia Antunes Rocha.
Nel suo voto, fondamentale alla condanna degli imputati, la giudice ha affermato che in nessun luogo al mondo “si è immuni dal virus dell’autoritarismo”, che si insinua insidiosamente “diffondendo il suo veleno e contaminando le libertà e i diritti umani” ma che, in Brasile, dopo successivi colpi di Stato, avvenuti sin da quando divenne una Repubblica, nel 1889, il mantenimento democrazia è oggi una priorità.
L’atmosfera politica rimane incandescente, specialmente in vista delle prossime elezioni presidenziali del 2026.

L’esito del processo e la reazione degli Stati Uniti
Dopo aver imposto pesanti dazi doganali al Brasile, pur di sostenere l’alleato Bolsonaro e l’estrema destra brasiliana, il presidente statunitense Donald Trump ha commentato la condanna di Bolsonaro, ritenuto da lui un “buon presidente” dicendosi “sorpreso” del risultato. “È molto simile a quello che hanno cercato di fare con me, ma senza riuscirci”, ha detto Trump.
Il segretario di Stato statunitense Marco Rubio ha pubblicato un messaggio sul social network X promettendo reazioni contro “le persecuzioni politiche” del giudice Alexandre de Moraes e degli altri giudici della Corte Suprema per avere “condannato ingiustamente l’ex presidente Jair Bolsonaro”.
“Gli Stati Uniti risponderanno in modo appropriato a questa caccia alle streghe”, promette Rubio. Forti dell’appoggio statunitense, il Partido Liberal, di Bolsonaro, sostiene l’amnistia che mira a favorire l’ex presidente e i detenuti e condannati per gli attacchi dell’8 gennaio 2023. Alle prime avvisaglie della condanna, il governatore di San Paolo, l’ingegnere militare Tarcísio de Freitas, considerato dall’estrema destra un forte candidato alla presidenza, ha aumentato gli attacchi alla Corte Suprema.
Pur di accalappiare gli orfani più radicali del presidente estremista, Freitas si è dichiarato trumpiano convinto, sostenitore del movimento Maga e del governo Netanyahu, nonostante lo storico di azioni genocidarie in corso a Gaza, mettendo a repentaglio la sua immagine moderata e il sostegno nei confronti del mondo dell’imprenditoria, fortemente danneggiato dai dazi. Così come il generale condannato Augusto Heleno Ribeiro Pereira, Tarcísio de Freitas ha preso parte alla sanguinosa operazione di peacekeeping Minustah, ad Haiti.

Gaza muore, l’Europa discute

Mentre l’Unione europea si divide su una mozione d’acqua tiepida e Antonio Tajani balbetta giustificazioni, a Gaza si contano i morti. Dall’alba, almeno 43 persone uccise dai raid, famiglie spezzate in case senza ripari, con ospedali che non hanno più letti né anestetici. L’UNRWA ricorda che duemila civili sono stati ammazzati mentre erano in fila per un sacco di farina: non «scudi umani», ma affamati in attesa di aiuti. A Gaza City l’UNICEF certifica la carestia: un bambino su cinque è colpito da malnutrizione acuta; in tutta la Striscia il tasso è salito al 13,5% ad agosto (era l’8,3% a luglio). Tra i piccoli ricoverati, la forma più letale (SAM) è raddoppiata in sei mesi: dal 12% al 23%. Dieci centri nutrizionali sono stati costretti a chiudere sotto gli ordini di evacuazione e le esplosioni: niente visite, niente screening, niente cibo terapeutico. Il risultato si vede in culla: un neonato su cinque nasce prematuro o sottopeso.

I numeri sono persone. Dodicimila e ottocento bambini “identificati” come malnutriti in un solo mese: scheletri con occhi enormi, madri che allattano senza latte, acqua inquinata, antibiotici introvabili. A Khan Younis, i sanitari descrivono «una situazione mai vista prima». Le cliniche restano l’ultimo argine: quella di Emergency ad al-Qarara ha superato le 23 mila visite in sette mesi, con oltre metà pazienti minorenni. Intorno crolla tutto: scuole, acquedotti, strade. Anche le chiese tremano: il parroco di Gaza parla di esplosioni a quattrocento metri dalla parrocchia.

Mentre Netanyahu discute di «emigrazione volontaria» per svuotare la Striscia, l’Europa applaude la propria irrilevanza e l’Italia si rifugia nel paternalismo. Non servono altre parole, servono fatti: cessate il fuoco, accesso umanitario pieno, sanzioni verso chi bombarda e affama. Perché quando un continente non trova il coraggio, la contabilità la fanno i bambini. E la loro è già una sentenza.

Buon venerdì.

Disegno di Marilena Nardi

Charlie Kirk e i bambini di scuola: stessa resa culturale

Paradosso americano nudo: Charlie Kirk cade sotto un colpo durante un evento nello Utah; poche ore dopo un’altra scuola entra nelle breaking news tra spari e sirene. Violenza politica e accesso facile alle armi si toccano, si alimentano, si confondono. Non è un incidente: è un sistema che accetta il rischio come costo della libertà armata.

Kirk, volto di Turning Point USA e idolo dei razzisti e degli adoratori di armi, è stato ucciso a Utah Valley University. Le autorità parlano di attacco mirato; la politica condanna e volta pagina.

In Colorado, a Evergreen High School, due studenti feriti: a morire è il giovane aggressore con colpo su di sé. Nessun bambino “protetto” dall’idea che più armi significhino più sicurezza: solo aule svuotate e famiglie in fila.

La tesi che la circolazione capillare di pistole e fucili difenda un “bene superiore” ha un corollario: accettiamo vittime collaterali. È una resa culturale prima che legislativa. L’America che chiede metal detector e addestra i ragazzi ai lockdown drills non è più libera: è più rassegnata.

Arginare la violenza politica significa fare tre cose: raffreddare la retorica che disumanizza; restringere l’accesso alle armi, chiudendo varchi e responsabilizzando i proprietari; finanziare prevenzione e salute mentale nelle scuole. Il resto è cordoglio.

La democrazia non vive tra trincee domestiche e campus fortificati. Vive quando una platea può ascoltare senza cadere e quando l’uscita da scuola non è un percorso di guerra. Oggi non è così; e non lo sarà domani finché il sangue resterà un effetto collaterale accettabile. Per tutti, punto.

Buon giovedì.

Foto Wp

Il governo Pinocchio incassa un nuovo capitolo: la “zarina” della Giustizia nel mirino

La vicenda che scuote il governo Meloni assume tinte sempre più grottesche. Non bastava che il ministro Nordio, il capo del Viminale Piantedosi e il sottosegretario Mantovano fossero finiti sotto inchiesta: ora anche Giusi Bartolozzi, “zarina” del ministero della Giustizia, è ufficialmente indagata per aver fornito «false informazioni» ai pubblici ministeri nel caso Almasri.

Secondo il Tribunale dei ministri, la versione fornita da Bartolozzi sul dossier Almasri — il comandante libico arrestato a gennaio e prontamente rimpatriato — era «inattendibile e mendace». La norma violata è l’articolo 371-bis del codice penale: fino a quattro anni di reclusione per chi, durante un’indagine, mentisce o tace di fronte ai magistrati.

Quel che colpisce è la fretta con cui la politica tenta di blindare la propria classe dirigente. Fratelli d’Italia – d’intesa con il governo – chiede alla Giunta per le autorizzazioni di estendere anche alla Bartolozzi la protezione parlamentare. Uno scudo che, pur non spettandole, potrebbe sottrarla a qualunque processo, così come accadrà – quasi certamente – per Nordio, Piantedosi e Mantovano.

Ecco il paradosso: la “difesa incolume” di un sistema che dice di voler riformare la giustizia ma che, alla prova del potere, fa quadrato attorno ai suoi. Il ministro Nordio si è affrettato a proclamare «massima solidarietà»: secondo lui, Bartolozzi «ha sempre agito nella massima correttezza e lealtà». Un plauso che assume il chiaro sapore di una protezione preventiva, ben prima di un eventuale svolgimento giudiziario.

Ma la gravità istituzionale resta. Non è solo un problema giudiziario: la rapidità con cui si mobilita lo “scudo politico” evidenzia un sistema in fibrillazione, disposto a neutralizzare l’indagine non con argomentazioni, ma con immunità condivise. Il governo che ama presentarsi come paladino della legalità si trova ancora una volta costretto a fughe in avanti e protezioni d’emergenza. Chissà quale favola racconteranno domani per giustificare l’ennesimo schermo al potere.

Buon mercoledì. 

Elegia contro il genocidio

Nascondono i corpi agli occhi del mondo, i sudari di Gaza. Velano i corpi, con antica pietà, perché non siano preda del mondo. Non una, ma mille volte, migliaia e migliaia di volte, tante quante sono le immagini dei corpi maciullati, le repliche infinite dei corpi frammentati, sbranati, umiliati che riempiono i nostri schermi insonni. Come silhouette candide, come fantasmi, come strappi bianchi nelle fotografie, i sudari di Gaza riempiono le macerie grigie, polverose di una terra totalmente distrutta. Azzerata. Desolata. Sono i sudari dei bambini in braccio ai padri. È la lunga, composta fila di sudari, uno accanto all’altro. Tanti sudari quanti erano i componenti di un’intera famiglia scomparsa sotto un bombarda mento israeliano. L’ennesimo. Quattro, dieci, decine: corpi velati – appunto – con antica pietà applicata a quello che, in una terra desolata e distrutta, non c’è. Acqua, cimiteri, sudari, ospedali, obitori.

I corpi avvolti nei teli funerari sono adagiati su pavimenti, strade, spiazzi di terra, come fossero un tappeto di bozzoli bianchi che copre l’intera superficie. Sono sequenze di generazioni. Nonni, madri, padri, sorelle, fratelli, figlie e figli, nipoti. Coprono spazi grandi quanto stanzoni d’ospedale, cortili di scuole, marciapiedi, sale. Ovunque. Là dove c’è terra e spazio per adagiare salme, ricomporre corpi, dare una dignità minima a una morte ancor più crudele di quanto già la morte non sia. È allora, quando la vita abbandona i corpi e i morti ammazzati vengono coperti dalla pietas di chi rimane, di chi sopravvive allo scempio, che le immagini si fanno spazio. Arrivano da noi, come polvere bianca e accecante sui nostri occhi distratti. Arrivano, i corpi dei palestinesi di Gaza, solo quando diventano biancore di teli, prima di essere seppelliti sotto la loro terra. La terra nativa, la terra degli antenati, la terra a cui si torna.

Bozzoli bianchi. Corpi avvolti. Così, solo così, abbiamo visto per la prima volta i corpi di Gaza, dopo il 7 ottobre. Quando sono stati coperti da un sudario, da un lenzuolo di mussolina, di cotone, e poi – sempre più di frequente – di spessa plastica bianca. Così, solo così, avvolti in un telo chiuso da nodi, abbiamo visto i palestinesi di Gaza, che erano vivi. Vivi ma nascosti – prima, sì, davvero, per interi decenni – agli occhi del mondo, sprofondati in un buco nero invisibile e irraggiungibile, battezzato con un nome incomprensibile. Striscia di Gaza. Striscia, poco più di un cerotto sulla sponda orientale del Mediterraneo, troppo piccolo perché ci sia persino spazio per il suo nome, su una carta geografica. Niente più di un nome, nuovo, con pochi decenni alle spalle. Nessun passato, nessun racconto, nessuna storia condivisa, diffusa sugli schermi dei vecchi telegiornali. Un luogo confinato, un universo concentrazionario per milioni di palestinesi, visitato da pochi, pochissimi “eletti” internazionali. Diplomatici. E funzionari internazionali, giornalisti internazionali, volontari internazionali.

Né più né meno, un campo di concentramento visitato solo da chi ha il permesso giusto. Un campo di concentramento, chiuso allo sguardo degli astanti digitali, già ben prima del 7 ottobre 2023, e del 2009, e del 2005, e via all’indietro fino al 1948. Di Gaza, della plurimillenaria Gaza, nulla o quasi è stato raccontato. Nulla sui manuali di storia mediterranea per le scuole. Eppure Gaza era comparabile, per storia e peso, a tutte le altre città costiere del “mare bianco di mezzo” che hanno segnato passaggi, commerci, spostamenti, viaggi, guerre nel corso di almeno cinquemila anni di vita umana e non umana. Nulla di chiese antiche e moschee antiche, nulla di scuole filosofiche e teologiche, nulla di sarcofagi antropomorfi e siti archeologici di valore inestimabile, nulla di alberi secolari come i sicomori, nulla di giraffe arrivate a Gaza come dono per un imperatore bizantino, nulla di commercianti e proprietari terrieri. Nulla del mare e del porto di Gaza. Piccola e confinata. Sigillata e irrilevante nei destini del mondo, della regione, del Mediterraneo. Finché quel luogo non è tracimato oltre il muro: il muro di cemento armato che lo rinchiudeva, le recinzioni che – da decenni – segnavano la separazione tra Gaza e Israele. Tra la piccola striscia di terra e città e umanità, e Israele ed Egitto e, dunque, il mondo intero.

Nulla, di quel luogo, era conosciuto, sino a che quel luogo non è stato appaiato a un tempo. Un giorno-spartiacque: 7 ottobre 2023. Attacco delle Brigate al Qassam e delle Brigate al Quds, attacco armato, terroristico nei risultati. Oltre millecento, tra soldati, poliziotti, civili israeliani presi di mira e uccisi. Oltre duecento prigionieri israeliani per farne ostaggi da scambiare con i prigionieripalestinesi, in gran parte ostaggi a loro volta, detenuti nelle carceri israeliane. E subito, un altro baratro, di profondità incommensurabile, imparagonabile rispetto al giorno-spartiacque: Gaza, la Striscia di Gaza, divenuta un catino in cui le forze armate (non di difesa) israeliane hanno gettato decine di miliardi di dollari di bombe su oltre due milioni di palestinesi, un catino distrutto dove ora giacciono, come cadaveri di cemento, oltre cinquanta milioni di tonnellate di detriti. E dove sono stati uccisi almeno sessantamila palestinesi, o forse cento mila palestinesi, o forse ancora di più. Indistinti, incalcolati. Numeri, numeri. Numeri che congelano la nostra empatia, e che nulla dicono di biografie, amori, desideri, lavoro e fame, sogni e vita reclusa in una striscia di terra ignota al mondo.

In questo genocidio nostro, di cui i sudari sono simbolo per difetto, i palestinesi non hanno neanche diritto a conoscere il numero esatto dei loro defunti né, soprattutto, i loro nomi. Un numero approssimativo, un elenco per difetto, testimonianza di un razzismo profondo e senza appello. Il razzismo del colore e della subalternità, di chi non conta per le stanze del potere. E noi possiamo dimenticarci, di questo genocidio in diretta, se non tocca le nostre vite distanti. Sino a che, però, le macerie di Gaza non si trasformeranno – già si sono trasformate – nelle nostre macerie morali. In mezzo alle quali vaghiamo già irrimediabilmente trasformati. Ognuna e ognuno di noi. Cambiati per sempre.

Pubblicato in accordo con Grandi & Associati Milano
Copyright Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano

Disegno di Marilena Nardi

Macron inchiodato, governi a rotoli: è questo il modello Meloni?

Lunedì 8 settembre a Parigi è caduto l’ennesimo governo: terzo in un anno, quinto in meno di due. Emmanuel Macron resta blindato nel suo ruolo di presidente, mentre i primi ministri passano come figuranti di una commedia già scritta. È questo il modello che Giorgia Meloni vorrebbe importare in Italia col suo presidenzialismo da manuale di propaganda: «garantire stabilità» e «rispettare la volontà degli elettori». Chiedetelo ai francesi.

La Francia oggi è governata da un presidente che nessuno può sfiduciare e da un Parlamento che non riesce a costruire maggioranze. Il risultato è la paralisi: bilanci bloccati, leggi respinte, governi bruciati in poche settimane. Non esiste la stabilità promessa, esiste l’ingovernabilità certificata, con un presidente inchiodato al potere e ministri che cadono uno dopo l’altro. Una fotografia che dovrebbe far tremare chiunque parli di «modello francese» con leggerezza.

Eppure Meloni insiste. Si aggrappa al presidenzialismo perché garantisce a chi sta a Palazzo Chigi di trasformare un mandato politico in un regno personale, scavalcando il Parlamento e sterilizzando i contrappesi. La Costituzione italiana non è un ferrovecchio da adattare agli umori della maggioranza: è un equilibrio che tiene insieme rappresentanza, fiducia e responsabilità.

Oggi il governo francese dimostra che l’elezione diretta del presidente non è sinonimo di stabilità, ma di immobilismo. La «volontà popolare» si traduce in un leader che resta al suo posto mentre tutto intorno crolla. Ed è proprio questo che Meloni vuole: restare, a prescindere da tutto. Chiamatelo pure presidenzialismo. In realtà è l’arte di blindare il potere.

Buon martedì.

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