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Il carrello della spesa è sempre più caro per le famiglie

È sgradevolmente facile accorgersi, una settimana dopo l’altra, che quello che chiamiamo, in sintesi, “carrello della spesa” si fa sempre più costoso a onta del calo dell’inflazione. Qual è il punto?
Riporta l’Istat, nella rilevazione dei dati provvisori dei prezzi al consumo in agosto, che “secondo le stime preliminari, nel mese di agosto 2025 l’indice nazionale dei prezzi al consumo per l’intera collettività, al lordo dei tabacchi, registra una variazione del +0,1% su base mensile e del +1,6% su agosto 2024 (da +1,7% del mese precedente)”. Ma se “la decelerazione del tasso d’inflazione si deve principalmente alla dinamica dei prezzi dei Beni energetici regolamentati (da +17,1% a +12,9%) e non regolamentati (da -5,2% a -5,9%) e, in misura minore, a quella dei prezzi dei Servizi relativi alle comunicazioni (da +0,5% a +0,2%), invece sono in accelerazione i prezzi dei Beni alimentari non lavorati (da +5,1% a +5,6%) e lavorati (da +2,8% a +3,0%), quelli dei Servizi ricreativi, culturali e per la cura della persona (da +2,7% a +2,9%) e dei Servizi relativi ai trasporti (da +3,3% a +3,5%)”.
E questa è una tendenza alla crescita dei prezzi che procede con costanza da molti mesi. Insomma: se l’inflazione media (cioè la media dei prezzi di tutti i suoi componenti), che tra il 2021 e il 2023 cresceva a un ritmo intorno al 10%, oggi si attesta (ci riferiamo ai dati consolidati dell’Istituto di statistica relativi a giugno) all’1,7%, la variazione dei prezzi dei beni alimentari rispetto allo stesso mese di giugno del 2024 segna il +3,7%.
Ci sono ragioni contingenti e specifiche per l’aumento dei prodotti alimentari, come gli effetti sempre più pronunciati del cambiamento climatico e, di conseguenza dei, purtroppo, sempre più consueti eventi estremi che si producono.
Fatto sta che qui si fanno brutalmente evidenti gli effetti dell’andamento dei salari nel nostro Paese. Come siamo messi in questo momento della storia? Confrontiamo la situazione del nostro Paese con quella del resto d’Europa, partendo dall’assunto, ormai arcinoto che, di fatto, sono ormai oltre trent’anni che, in Italia, i salari sono praticamente fermi.
Secondo le previsioni Ocse nel 2025 i salari nominali italiani – cioè l’importo indicato nella busta paga che va distinto dal “salario reale”, che rappresenta il potere d’acquisto effettivo di quel salario nominale – dovrebbero aumentare del 2,6%. Una crescita che è ben inferiore a quella di molti Paesi europei dove gli incrementi percentuali sono molto più alti. Facciamo qualche esempio vicino a noi: Spagna (19%), Germania (18%), Francia (14%).
In definitiva, nel 2025, l’andamento delle retribuzioni in Italia si fermerà ad aumenti contenuti e ad un livello retributivo medio significativamente inferiore alla media europea. La crescita è lenta e la posizione di lavoratrici e lavoratori italiani gravemente svantaggiata rispetto al resto dell’UE.
E se i salari medi cresceranno di quel 2,6% e comprare da mangiare costa oltre il 3% in più (ma come ci dicono i dati congiunturali provvisori di agosto andiamo sopra al 5%) farsi i conti in tasca diventa tristemente facile.
Si vocifera che il Governo cominci a pensare di inserire nella legge di Bilancio 2026 una forma di “tassa piatta”, insomma a forfait, sulle componenti variabili dei salari, come straordinari e lavoro notturno e nei giorni festivi. Naturalmente, tutto va bene per rimpolpare le asfittiche retribuzioni del nostro Paese. Ma, come al solito, il Governo Meloni non va oltre progetti di interventi spot, non strutturali.
E questo succede anche perché un grande e definitivo problema resta sul tavolo. Ossia, proprio l’assenza di un “tavolo”. Quello del confronto – oltreché con le opposizioni che ha segnato tutte le leggi di Bilancio di questo Governo – con le parti sociali. Un tavolo serio, che serva a progettare politiche economiche e industriali di largo respiro senza le quali il Paese non uscirà da questo pantano. Un Governo malato di solipsismo e autocelebrazione non è per nulla utile a un Paese, lo dimostrano i dati, in cui diventa sempre più difficile – come dice l’adagio popolare – “mettere insieme il pranzo con la cena”.

 

L’autore: Cesare Damiano, già sindacalista e parlamentare in tre legislature, è stato ministro del Lavoro ed è presidente dell’associazione Lavoro & Welfare

Foto di Erik Mclean su Unsplash

Se Meloni dovesse tacere sulle minacce di Israele alla Flotilla, blocco dei porti e sciopero generale

Almeno 800 persone di 44 nazionalità diverse. 70 imbarcazioni. Centinaia di tonnellate di aiuti umanitari. Più di 300 quelle arrivate nella sola Genova negli ultimi giorni di agosto.
Sono alcuni dei numeri della Global Sumud Flotilla, la più grande missione civile internazionale della storia.
L’obiettivo è portare cibo, medicine e beni di prima necessità alla popolazione palestinese di Gaza, sottoposta da due anni al genocidio israeliano, alle bombe e alla fame.
Per raggiungere lo scopo, la Global Sumud Flotilla dovrà rompere il blocco navale imposto da Israele alla Striscia di Gaza dal 2007, cioè da quasi vent’anni.

Un blocco illegale che però mai è stato sfidato dai Governi occidentali. Gli stessi che un giorno sì e l’altro pure, quando si parla di altri fronti, si dicono impegnati a tutelare o ripristinare la legalità internazionale.
La Global Sumud Flotilla, quindi, osa tentare ciò che il potere politico mai ha osato.

Gli ultimi tentativi non sono andati a buon fine. Il 31 maggio 2010 Israele addirittura sparò contro la Mavi Marmara, l’imbarcazione della Freedom Flotilla che cercava di raggiungere le coste palestinesi. In quell’occasione Tel Aviv uccise dieci attivisti, ne ferì decine e ne arrestò centinaia.

Negli anni si sono susseguiti altri tentativi. Gli ultimi sono del giugno e luglio 2025.
Il 1 giugno la Madleen salpa dal porto di Catania, con un carico di latte in polvere per bambini, 100kg di farina, riso, assorbenti, farmaci. All’alba del 9 giugno viene attaccata in acque internazionali – dunque in violazione del diritto internazionale – dalle forze armate israeliane, sequestrata e portata in Israele. Gli attivisti, tra cui Greta Thurnberg e l’europarlamentare franco-palestinese de La France Insoumise Rima Hassan, sono arrestati, tratti in ostaggio e poi espulsi.
Stessa sorte per la Handala e il suo equipaggio, partiti da Siracusa il 13 luglio.

A poche ore dalla partenza della Global Sumud Flotilla, il ministro della Sicurezza Nazionale del governo Netanyahu, Itamar Ben Gvir, esponente dell’ala più estremista dell’ultradestra israeliana, ha minacciato gli attivisti: “saranno trattati come terroristi”. Materialmente significherà una detenzione prolungata nelle stesse condizioni sofferte dai prigionieri palestinesi, ovvero in condizioni disumane.

Di fronte a queste esplicite minacce il Governo Meloni non ha protestato. Né ha garantito ad esempio l’immunità diplomatica per gli attivisti e le attiviste italiane a bordo della Flotilla. Solo in una lettera del 4 settembre ha genericamente affermato che “saranno adottate tutte le misure di tutela e di sicurezza dei connazionali all’estero in situazioni analoghe”.

Nella stessa lettera, Giorgia Meloni non risparmia invece un attacco alla Global Sumud Flotilla. Prima “suggerisce la possibilità di avvalersi di canali alternativi e più efficaci di consegna”, poi di “avvalersi dei canali umanitari già attivi”, così da evitare “di esporre i partecipanti all’iniziativa “Global Sumud Flotilla” ai rischi derivanti dal recarsi in una zona di crisi e al conseguente onere a carico delle diverse Autorità statuali coinvolte di garantire tutela e sicurezza”.
Insomma, Meloni è pure un po’ infastidita dell’onere che ricadrà sulle istituzioni italiane per garantire la sicurezza degli attivisti.

Ciò che Meloni non dice nella sua lettera è che anche per l’iniziativa “Food for Gaza”, citata per vantarsi di 200 tonnellate di aiuti inviati (tra i quali quelli lanciati via aerea e che hanno causato la morte di alcuni civili palestinesi), è Israele a decidere se, cosa, quanto, come e dove può entrare a Gaza.
È la dimostrazione plastica che Gaza è una prigione a cielo aperto – e non da oggi, dove è il carceriere israeliano ad

reparare lo sciopero generale e generalizzato per ribadire “giù le mani dalla missione umanitaria a sostegno del popolo palestinese”.

Nella base dei lavoratori della CGIL aumentano e si fanno via via più rumorose le voci di lavoratori e lavoratrici che premono per uno sciopero generale contro il genocidio, come è stato evidente nelle piazze convocate sabato 6 settembre dal principale sindacato italiano.

I Collettivi Autorganizzati Universitari (Cau) di Napoli, Padova e Torino, il collettivo Cau di Bologna, l’organizzazione giovanile Cambiare Rotta e altri ancora, hanno lanciato appelli al blocco di scuole e università se Israele dovesse attaccare la Flotilla. Intanto i “docenti per Gaza”, che hanno già lanciato un minuto di silenzio per il giorno di inizio delle lezioni, stanno ragionando sulla possibilità di scioperi di solidarietà con la missione.

Alcune organizzazioni politiche, in particolare Potere al Popolo!, hanno invitato a organizzarsi per scendere in piazza, bloccare le città e rivendicare la rottura da parte del governo italiano di ogni complicità – militare, politica ed economica – con lo Stato di Israele.

L’appello al blocco, insomma, si va allargando di giorno in giorno e già coinvolge pezzi significativi del mondo del lavoro, della scuola, dell’università, dell’associazionismo, dei partiti politici.

La Global Sumud Flotilla si sta configurando come ben più di una missione umanitaria. È una sfida politica ai governi complici prima ancora che a Israele. È più degli attivisti presenti a bordo delle imbarcazioni; è l’unità tra chi è in mare e chi rimane a terra, con l’obiettivo di sostenere la resistenza del popolo palestinese e contribuire alla fine del genocidio in corso in diretta mondiale.

L’autore: Giuliano Granato è portavoce nazionale di Potere al popolo

Articolo pubblicato in collaborazione con Canal Red

Foto Gov

La crisi spiegata a rovescio: colpa dei clienti, parola ai quotidiani

Sul Corriere della Sera è andato in vetrina il caso del ristoratore di Bologna che chiede una «mancia obbligatoria del 5%» per salvare i locali dalla crisi. Chiamarla mancia è un esercizio di maquillage: se è obbligatoria è prezzo. E il prezzo si espone sul menu, si fattura, sconta l’Iva, entra nella busta paga. Tutto il resto è fumo che sposta un pezzo di salario dal conto dell’impresa al portafogli del cliente.

I conti della ristorazione sono stretti, l’energia morde, l’inflazione ha gonfiato gli acquisti: vero. Il punto però è il lavoro. Turni sfiancanti, part-time di comodo, straordinari elastici: il sistema regge se il cameriere vive di propine? In Italia i minimi li fissano i contratti, non le collettine al tavolo. Se il modello d’impresa sta in piedi solo con l’obolo coatto, il problema non è la “tirchieria” dei clienti, è la fragilità del modello.

Qui entra in scena l’informazione. Un grande quotidiano che rilancia la trovata come “soluzione” dovrebbe almeno inseguire le domande elementari: chi incassa quel 5%? come si ripartisce? è tracciato? i contratti sono rispettati? Senza queste risposte si mette il timbro di qualità su uno scivolamento culturale: il rischio d’impresa diventa tassa al tavolo, la trasparenza evapora nell’angolo delle buone intenzioni.

La via corretta è meno glamour e più adulta: prezzi chiari, conti puliti, controlli veri. Se serve, si alzano i listini e lo si dice. E se ancora non torna, si cambia organizzazione o si chiude: si chiama concorrenza. Il salario non si baratta alla cassa; e una stampa che si rispetti non vende il trucco come innovazione, ma lo smonta riga per riga, dalla prima all’ultima.

Buon lunedì.

Foto di SumUp su Unsplash

La battaglia per la storia. Contro le indicazioni di Valditara

Negli ultimi mesi è montata una polemica in merito alle nuove Indicazioni nazionali della scuola alla cui disamina critica Left dedica il libro Lotta di classe. Ernesto Galli Della Loggia, collaboratore del ministro Valditara, in un un passaggio delle indicazioni cita l’Apologia della Storia di Marc Bloch. In quel libro, a suo avviso, si sosterrebbe l’unicità dell’Occidente (categoria già di per sé alquanto ideologica) unica cultura in grado di produrre una Storia. In realtà lo studioso alsaziano, nel suo capolavoro, intendeva porre in rilievo quella peculiare concezione del tempo, che dai Greci in poi caratterizza gli apparati concettuali europei.

Le stagioni dei post colonial studies, ed opere seminali come I dannati della Terra, di Franz Fanon, hanno segnato un cambiamento di paradigma nello studio della storia, in cui è emerso in maniera esplicita e diretta, il punto di vista dei popoli subalterni. Ciò ha consentito l’affermarsi di una differente prospettiva di analisi, che metteva definitivamente in discussione gli assunti positivisti del suprematismo bianco e per indicare un vero e proprio decentramento del discorso storico, anche in relazione all’idea di progresso.

La storia si apriva ad uno sguardo globalizzato che, se da un lato evidenziava le conseguenze nefaste dei meccanismi coloniali e delle logiche imperialiste, da un’altra recuperava la complessa funzione delle classi dirigenti e dei differenti attori delle società native, in relazione al dominio, alle lotte per l’emancipazione e agli sviluppi posteriori all’indipendenza. Fu l’intellettuale palestinese Edward Said a smontare il meccanismo che assegnava alla narrazione storica il binomio mistificante Occidente-Oriente, definendone le connotazioni puramente strumentali. L’invenzione stereotipata dell’Orientalismo serviva a legittimare l’asservimento alla presunta opera di civilizzazione occidentale, di tutti quei territori che rientravano in quel modello. Anche i maggiori scrittori europei o americani d’altra parte hanno contribuito, a volte implicitamente, all’edificazione di tali categorie.

Il diffondersi di quella che viene definita Cancel culture, nel secondo decennio del millennio, è a tutti gli effetti un tentativo di riappropriazione della memoria pubblica, proprio a partire dalla destrutturazione semiotica dello sguardo eurocentrico, così come si palesa ad esempio nelle statue o nella toponomastica. A dimostrazione che il linguaggio messo in campo da quel binomio attraversa anche spazi interni ai differenti territori. Come la razzializzazione del lavoro o la gestione dei flussi migratori. O come le contraddizioni che il genocidio dei gazawi ha reso nette ed ineludibili.

Di recente è stato pubblicato da Laterza un saggio storico che esprime appieno questo percorso di riappropriazione policentrica del senso storico. Una storia criminale del mondo, scritta dal giurista argentino Eugenio Zaffaroni, indirizza la relazione tra periferia e centro del mondo, relativizzando i modelli interpretativi alla luce di una genesi endogena dei Diritti, che precederebbe nelle culture ancestrali, di gran lunga anche le grandi rivoluzioni bianche.

Oggi che gli scenari planetari si dispongono a differenti equilibri geopolitici, con il protagonismo sempre più marcato di nuove potenze, tese ad approfittare del declino americano, le voci dissonanti aprono la riflessione storica a tracciare disegni sempre più stratificati e polifonici. Se il filosofo camerunense Achille Mbembe denuncia l’architettura del potere occidentale, che ovunque reifica gli spazi dell’immateriale e del corporeo, nel suo splendido libro, La maledizione della noce moscata(Neri Pozza), lo scrittore indiano Amitav Ghosh pone in evidenza la stretta correlazione intercorsa tra penetrazione europea nelle Molucche e tracollo degli ecosistemi locali. Il traffico delle spezie sottopone i luoghi della significazione autoctona, alla razionalizzazione del capitale, (attraverso il quale vengono sviliti a spazi di sfruttamento), andando oltre i meri aspetti politici del dominio e promuovendo quella visione vitalista del rapporto con Gaia, che recupera una concezione antropologica, carica di misticismo.

D’altra parte, di nuovo la stessa letteratura si arricchisce sempre più di narrazioni migratorie, capaci di nutrire un immaginario gravido di implicazioni ed esperienze differenti, che esprimono una contro narrazione delle questioni legate al razzismo, alla cittadinanza, alla condizione femminile. Appare quindi del tutto controproducente e raffazzonato il tentativo di riappropriazione egemonica della storia, che si sta attuando in maniera addirittura grottesca, nelle intenzioni di chi disegna i nuovi modelli di insegnamento e di trasmissione-costruzione della coscienza collettiva che la conoscenza del passato consente di strutturare, sia nell’ America trumpiana, sia in Italia. Sembra di assistere infatti ad un disperato bisogno di ricavare nei fatti remoti un rifugio identitario, a fronte di una democratizzazione finalmente planetaria del discorso storico, tesa a restituire una destrutturazione anti ideologica del controllo sul passato, per assegnare il giusto peso a tutti i protagonisti delle vicende umane.

Nell’era dell’Antropocene, però, come ci avverte Francois Hartot,”La torsione più forte e spaesante” che trasforma la stessa qualità del tempo storico, in relazione al futuro, è che, pur essendo quanto non accaduto la dimensione più propria dell’avvenire, esso è già parzialmente compromesso. Quindi è proprio dai linguaggi differenti, che recuperano una relazione di rispetto e sinergia col pianeta, che potrà venire la definizione di un campo di azioni umane e non umane, in grado di rimettere sul giusto cammino la storia della terra.

In apertura il ministro dell’istruzione e del merito, Valditara wikic

L’attivista palestinese Huraini: «A Tuwani un cancello di Israele per cancellarci»

L’autorità israeliana isola Tuwani, il villaggio al centro del documentario Premio Oscar 2025 No other land. Ora per accedere a Masafer Yatta bisognerà attraversare un nuovo check point, illegale come tutta l’occupazione. Ad assistere a questo sopruso è l’attivista Hesham Huraini.

“In questo momento a Masafer Yatta, le forze di occupazione stanno installando cancelli militari all’ingresso dei nostri villaggi, tra Tuwani. Dove abito. Non è solo un pezzo di metallo, è uno strumento per controllare i nostri movimenti, isolarci da scuole, ospedali e creare distanza tra i cittadini palestinesi”. A raccontarci l’attuazione del piano di colonizzazione israeliana nei Territori Palestinesi Occupati è Mohammad Hesham Huraini: ha 22 anni ed è un attivista di Masafer Yatta, la regione delle colline a sud di Hebron. In Cisgiordania. Lo fa mentre l’autorità di occupazione israeliana, scortata dall’esercito, sta posizionando un enorme sbarra mobile all’ingresso di Tuwani (mercoledì 3 settembre, ndr). Se il nome del villaggio vi è famigliare è perché qui si ambienta buona parte del documentario Premio Oscar 2025 “No Other Land”. Un riconoscimento che Israele non ha particolarmente gradito, riversando ancora più odio su questo lembo di terra composto da circa 12 villaggi palestinesi intenti a resistere alla pulizia etnica israeliana. “Sono cresciuto qui, in una comunità che ha vissuto sotto la costante pressione dell’occupazione illegale israeliana. Tutti i giorni della mia vita”.

Huraini, cosa sta succedendo ora nel suo villaggio?

“Hanno appena installato una barriera mobile all’ingresso di Tuwani, sull’unica strada che ci connette con il resto della Cisgiordania. Vogliono isolarci, rendere la vita insopportabile e spingerci ad abbandonare la nostra terra. Questa non è la prima barriera ma è la più impattante. Questi cancelli sono disseminati in tutta la Cisgiordania e creano ostacoli che possono trasformare un banale viaggio in auto di quindici minuti in un’impresa impossibile. Le nostre strade vengono appositamente devastate dai mezzi pesanti israeliani e grossi massi vengono piazzati sul nostro cammino per bloccare gli spostamenti. Ovviamente questo è un trattamento specifico per noi palestinesi”.

Di fatto si tratta di un check Point israeliano permanente, quella è la porta di Masafer Yatta.

“Vedremo nei prossimi giorni come verrà utilizzato ma sarà l’esercito israeliano a decidere quando chiudere la strada, quando far entrare gli insegnanti per le lezioni a scuola, se autorizzare l’ingresso di un’ambulanza e se lasciare gli internazionali liberi di muoversi dentro e fuori Tuwani”.

Come sta vivendo questo acuirsi della violenza israeliana nei vostri villaggi?

“Come attivista la mia vita è profondamente legata alla resistenza, lottiamo contri i tentativi di espellerci dalla nostra terra. Nello specifico mi occupo di documentare gli attacchi di esercito e coloni, sostengo le famiglie che subiscono l’occupazione, lavoro con palestinesi e amici internazionali per proteggere i nostri villaggi. Sapete, non è una vita facile. Ma è radicata nella dignità e nell’amore per la nostra casa. Nella ricerca della libertà”.

Come tanti giovani attivisti ha scelto la strada della nonviolenza, in un contesto in cui la violenza israeliana è prassi quotidiana rivolta ai palestinesi. Come mai?

“Per me, resistenza nonviolenta significa rifiutarsi di arrendersi nonostante i loro continui soprusi. Significa rimanere saldi, coltivare la nostra terra anche quando viene distrutta dai coloni, riparare le case quando l’autorità israeliana ci sguinzaglia bulldozer, documentare gli abusi commessi verso le nostre famiglie e i nostri bambini. Far sentire la nostra voce al mondo. È un modo per dimostrare che la nostra umanità e il nostro diritto a vivere qui non possono essere schiacciati dalle loro armi, dall’apartheid o dalle intimidazioni”.

Quindi sta vivendo a pieno l’ingiustizia e la sopraffazione israeliana.

“Ho affrontato molte difficoltà con coloni e soldati: incursioni notturne, arresti, percosse, distruzione dei nostri raccolti, furto del nostro bestiame, demolizioni di case, scuole e cisterne d’acqua. Ho visto bambini piangere di paura, famiglie aggredite, auto distrutte. Questi momenti sono dolorosi, però mi infondono più forza per resistere”.

Che tipo di supporto si aspetta da un Paese come l’Italia?

“Dall’Italia e da qualsiasi parte del mondo le persone possono sostenerci sensibilizzando l’opinione pubblica, facendo pressione sui governi affinché smettano di sostenere l’apartheid israeliana, aderendo alle campagne di boicottaggio e disinvestimento. Potete venire nei nostri villaggi, qui a Masafer Yatta, e toccare con mano l’occupazione israeliana, schierarvi al nostro fianco. La vostra solidarietà rompe il silenzio”.

Come definirebbe l’occupazione israeliana?

L’occupazione influenza ogni aspetto della mia vita e di quella della mia famiglia. Dalla possibilità di raggiungere la scuola o il lavoro ma nega anche il diritto alle cure. Di giorno siamo bersaglio e di notte ruba il sonno impedendoci di dormire. L’occupazione cerca di impossessarsi non solo della nostra terra ma di sottrarre anche la normalità alle nostre vite. Annullando progetti, speranze e relazioni. Non è solo un cancello metallico ma una rete di violenza che vuole controllare ogni cosa. L’occupazione la respiriamo, ci riempi i polmoni. Ma nel cuore abbiamo la resistenza. Siamo qui e resistiamo”.

L’autore: Cosimo Pederzoli – Antropologo, attivista campagna SaveMasaferYatta

Contro il vangelo della guerra automatizzata

A Gaza la devastazione non ha “solo” il volto della guerra coloniale che data dal 1948, ma quello ulteriormente inquietante di una guerra di religione per la riconquista di Giudea e Samaria e della sperimentazione tecnologica. Imbracciando la Torah, il governo di Netanyahu ha lanciato sul territorio palestinese una crociata di guerra automatizzata, governata da algoritmi, droni e reti neurali. Come scrive Sergio Bellucci, la novità del presente è che «tutti i fattori immaginati dalla letteratura fantascientifica distopica sono già qui»: capacità predittive, sistemi agentici, armi autonome letali che uccidono civili senza esitazione, né pietà. La Striscia di Gaza è stata trasformata in un perverso laboratorio di guerra automatizzata, «un beta testing in scala reale di quel che potrà accadere nelle guerre del futuro». Sulla pelle dei palestinesi, indistintamente bambini, ragazzi, donne, anziani, l’esercito israeliano sperimenta lo sviluppo di sistemi IA come The Gospel (Il Vangelo, sic!), The Lavender e Where’s Daddy che selezionano obiettivi, con margini di errore accettati a priori: dieci, venti, fino a cento civili come “danni collaterali” per ogni presunto “combattente” tecnologico. Le conseguenze di questa guerra impari su Gaza sono sotto gli occhi di tutti. Siamo davanti a un genocidio in diretta 24 ore su 24 come dice la giornalista palestinese Faten Elwan, intervistata su questo numero di Left. I costi umani sono elevatissimi, con oltre 60mila vittime fra i civili palestinesi certificate non solo da Hamas. E per Israele e “alleati” aumentano i profitti. La guerra automatizzata a Gaza ha prodotto un nuovo ciclo di accumulazione capitalistica. «Israele, dal 7 ottobre 2023 in poi, ha visto le esportazioni tecnologiche crescere fino al 64% del totale e la Borsa di Tel Aviv salire del 200%», scrive nella storia di copertina Franco Padella. Nello stesso periodo la tecnologica statunitense Palantir ha raddoppiato il suo valore azionario.

E nell’altro scenario di guerra nel cuore dell’Europa cosa sta accadendo? In tre anni e mezzo di conflitto in Ucraina si sono fronteggiati due eserciti, con grandi perdite umane da entrambe le parti, ma anche di civili ucraini. Per rispondere all’invasione russa l’esercito di Kiev si è fatto forte dei droni turchi forniti da Erdoğan e dei sistemi satellitari dapprima messi a disposizione da Musk. Se la Russia ha convertito la propria economia in una economia di guerra, altrettanto ha fatto l’Ucraina diventando una grande produttrice di droni di nuova generazione low cost. Equipaggiati con software open-source e reti neurali per il riconoscimento facciale possono diventare strumenti di assassinio mirato. In Ucraina si sono già visti droni Fpv (First-person view) modificati con esplosivi, pilotati da remoto; ma la nuova frontiera riguarda soprattutto gli sciami autonomi: centinaia di droni che comunicano tra loro, saturano le difese antiaeree e si adattano agli imprevisti. In questo quadro, come ha rivelato per primo il Financial Times, Trump non è certo un mediatore neutro. Oltre a promettere a Zelensky cento miliardi di armi Usa pagate dalla Ue, ha stretto un patto con Kiev per l’acquisto di più di 50 miliardi di droni di nuova generazione prodotti in Ucraina in joint venture con aziende Usa. Dietro la logica spietata della guerra automatizzata c’è la logica altrettanto spietata del capitalismo, della massimizzazione del profitto, ad ogni costo.

Dietro quella che Bellucci chiama la guerra senza volto, fatta senza esitazioni, senza rimorso, solo attraverso codici che eseguono istruzioni, c’è sempre dietro un programmatore in carne ed ossa. Non dobbiamo perdere di vista questo aspetto. L’automazione dell’“essere per la morte dell’altro” prevede sempre una decisione e una responsabilità politica e umana a monte. L’essere per la morte è un costrutto culturale, una ideologia, che può e deve essere rifiutata e sconfitta. Non è un dato di natura, ontologico. La guerra non è inscritta nel nostro Dna, non è frutto del peccato e del Caino che secondo il perverso pensiero religioso sarebbe in ciascuno di noi. «La guerra è disumana, è il cancro della storia umana che va eradicato», diceva Gino Strada. E tanto più lo è la guerra ai tempi dei droni e dei robot killer che non hanno sentimenti, non hanno remore, non hanno empatia ma solo una logica calcolatrice. Già durante il processo di Norimberga il nazista Speer, l’architetto di Hitler, ebbe a dire che la colpa della Shoah era della tecnologia tedesca così potente e implacabile. I nazisti sarebbero stati solo degli esecutori (vedi Gitta Sereny, Albert Speer, Adelphi). Martin Heidegger, teorico del nazismo, scrisse pagine e pagine per dare tutte le colpe alla tecnica e scagionare i nazisti. La verità è un’altra: c’è sempre la responsabilità di chi programma la tecnologia e di chi la usa, come ci ha ricordato Brecht. La differenza è che con i nuovi scenari di guerra è molto più difficile di primo acchito riconoscere di chi sia questa responsabilità.

L’Ai bellica non nasce nel vuoto, ma da scelte culturali e politiche. Ogni algoritmo è progettato ad hoc. E allora occorrono nuovi strumenti giuridici di indagine e di rafforzamento del diritto umanitario e internazionale. Di fronte all’agghiacciante scenario che si dischiude oggi urge una moratoria globale sulle armi “autonome” letali sfatando l’illusione diffusa che la macchina ci assolva da ogni responsabilità, la guerra automatizzata non è un destino tecnologico è il braccio armato della logica capitalista.

La logica anaffettiva di produrre strumenti di morte, se possibile a basso costo, testarli su campi di battaglia reali, venderli sul mercato globale. Non è un destino divino già scritto. Se vogliamo cambiare rotta dobbiamo stringere un nuovo patto internazionale, simile a quello che ha portato al controllo sulle armi nucleari e che oggi più che mai deve essere a sua volta riattivato. Servono movimenti dal basso, come scrive Francesco Vignarca della Rete pace e disarmo per far sentire la nostra voce di cittadini, per far pressione sui governi per fermare la corsa riarmo e a nuovi armamenti tecnologici che sta tellurizzando l’Europa, sempre più immemore di sé e della propria nascita contro i fili spinati, come scrissero Rossi, Colorni, Spinelli e Hirschmann nel Manifesto di Ventotene.

Le democrazie rischiano di perdere la loro legittimità se adottano pratiche belliche in contrasto con i loro valori di giustizia sociale e rispetto dei diritti umani, scrive Mariarosa Taddeo in Codice di guerra (Raffaello Cortina). La regolamentazione dell’IA in guerra e per la difesa non è solo questione militare, rileva, ma riguarda il futuro delle democrazie e il loro rapporto con diritti, trasparenza, la libertà dei cittadini. La difesa, la “sicurezza” non può giustificare la sorveglianza totale.

Ma noi non ci accontentiamo di un codice etico di guerra che la contenga entro certi limiti, per prevenire le violazioni più gravi di diritti umani. Ripudiamo la guerra. Esprimiamo un rifiuto totale della logica della violenza e della sopraffazione, in accordo con l’articolo 11 della nostra Carta costituzionale nata dalla Resistenza. E con Left vogliamo invitarvi a una riflessione profonda, per una critica radicale della ragione bellica per dirla con il titolo di un bel saggio di Tommaso Greco appena uscito per Laterza. Come ha scritto Elisabetta Amalfitano in Controstoria della ragione (L’Asino d’oro edizioni), è tempo di una nuova antropologia che liberi l’umano dall’idea che il conflitto armato sia la cifra necessaria della storia.

In apertura, disegno di Marilena Nardi

Neutralismo pontificio: la teologia dell’omissione

Isaac Herzog è uscito dal Vaticano raccontando un incontro «caloroso». La Sala Stampa ha parlato di «tragica situazione» e di «futuro per il popolo palestinese», con i soliti capitoli: cessate il fuoco, aiuti umanitari, due Stati, ostaggi. Ma qui sta la frattura: mentre il presidente israeliano colleziona foto di normalità diplomatica, il lessico ufficiale della Santa Sede scivola verso un neutralismo che non nomina mai ciò che va nominato. Nessuna parola su genocidio, pulizia etnica, apartheid, uso sistematico della fame; nessun riferimento ai migliaia di palestinesi detenuti senza accuse. La grammatica della cautela diventa, di fatto, un’amnistia semantica.

Herzog non è un ospite neutrale. Nell’ottobre 2023 disse che «un’intera nazione» a Gaza è responsabile: una frase diventata prova di retorica disumanizzante nelle carte internazionali. Ha firmato un proiettile diretto a Gaza, ha sostenuto politicamente l’assedio che ha demolito ospedali e scuole. La stretta di mano, in questo quadro, non è gesto di pace: è un credito simbolico concesso a chi ha coperture e complicità nella punizione collettiva.

La diplomazia ha un limite: quando la prudenza lessicale cancella le vittime. Il Vaticano può rivendicare equidistanza tra comunicati, ma l’equidistanza tra occupante e occupato non regge alla prova dei fatti. Se il pontefice chiede il rispetto del diritto umanitario, allora l’udienza deve diventare atto di verità: nominare i crimini, pretendere responsabilità, indicare condizioni concrete (cessazione dei bombardamenti, fine dell’assedio, liberazione dei prigionieri politici oltre che degli ostaggi). Altrimenti l’abbraccio resta una fotografia riuscita per Herzog e un’occasione persa per la Chiesa: non un ponte, ma un silenzio che pesa.

Buon venerdì. 

DDT contro la propaganda di guerra

A settembre la storica band russa Ddt torna in studio per registrare un nuovo album. Il frontman Jury Shevchuk ha scritto diversi nuovi brani durante il lungo tour europeo che li ha portati anche a Milano, dove li abbiamo incontrati prima che spiccassero il volo per Riga, il Kazakistan e la Moldavia. Ma riallacciamo i fili della loro storia che ha molto da darci oggi.

«La patria non è il deretano del presidente che bisogna continuamente baciare. La patria è la povera vecchietta che vende patate alla stazione». Nel maggio del 2022 Jurij Ševčuk pronunciò questa frase durante il concerto a Ufa, capitale della Repubblica di Baškiria, Federazione russa. Tre mesi prima Putin aveva invaso l’Ucraina e quelle parole non vennero prese bene dalle autorità: partirono le indagini, Ševčuk fu costretto a pagare una multa per mancato rispetto nei confronti delle Forze armate e tutti i concerti del gruppo Ddt furono annullati, anche quello che avrebbe dovuto tenersi a San Pietroburgo alcune settimane dopo.

D’altra parte Ševčuk non ha mai amato il potere e la guerra. Quando fondò il suo gruppo nel 1980, l’Unione Sovietica aveva appena invaso l’Afghanistan. Uno dei primi successi del gruppo fu una canzone dal titolo inequivocabile: “Non sparare!” Il testo esortava i giovani soldati sovietici a non usare le armi. Questo aveva attirato l’attenzione del Kgb sul gruppo musicale esordiente, che fu dunque obbligato a suonare in semi clandestinità. Ma la loro musica si diffuse nonostante la censura. Si tratta di canzoni di protesta, ma anche di testi poetici e melodie in cui trova spazio l’anima russa, non senza l’influsso della musica rock occidentale.

Le idee pacifiste del gruppo Ddt sono centrali anche negli anni 90: nel 1995 si esibiscono in Cecenia in un tour di 50 concerti concepito come “missione di pace”, nel 1999 sono in Jugoslavia e criticano aspramente i bombardamenti occidentali; nel 2008 a Mosca e San Pietroburgo cantano contro la guerra tra Russia e Georgia. I Ddt così sono diventati molto

A star is born. Breve storia dell’Adhd

Ripercorrere le orme dell’Adhd è come partire per un viaggio nel tempo, più o meno quello che avviene ogni volta che ci troviamo ad osservare un cielo stellato. Ciò che vediamo non è quello che sta succedendo, ma ciò che accadeva nel momento in cui la luce è partita.

Nel caso dell’Adhd il percorso non è stato così lineare, e i comportamenti cui oggi viene data valenza di sintomi sono stati osservati attraverso lenti molto diverse, con il cammino che lo ha portato ad essere considerato un disturbo del neurosviluppo e non un difetto dell’educazione costantemente in bilico tra il giudizio clinico e quello morale. Attualmente nel nostro Paese si fa fatica a comprendere le dimensioni del fenomeno persino con le statistiche, con i dati ufficiali sulla prevalenza al 5-6% smentiti dai registri di classe.

In alcune aule si può arrivare sino a 6 ragazzi su un totale di 18 alunni, con un incremento dei casi che non ha precedenti nell’ambito della salute mentale né trova spiegazioni epidemiologiche, a meno che non si voglia attribuirlo, più che ad una diffusione “virale”, ad un’esplosione del fenomeno su base mediatica.

Di sicuro ad una crescita tanto vertiginosa hanno contribuito le variazioni dei criteri diagnostici decise dall’Associazione psichiatrica americana.

Dall’edizione del 2012 del Dsm-Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, l’età di esordio dei sintomi è stata portata dai precedenti 7 anni agli attuali 12 anni di età, raddoppiando il campione della popolazione e quindi la prevalenza, con la diagnosi che ora può essere posta in comorbidità con i disturbi dello spettro autistico, dal quale in precedenza l’Adhd doveva essere invece “attentamente differenziato”. Anche se più recente però, quella dell’inquadramento diagnostico non è stata l’unica svolta nella sua storia.

Come ogni fenomeno umano anche l’Adhd ha risentito tanto della sensibilità dello strumento con cui si è cercato di misurarlo quanto delle influenze culturali dell’epoca in cui è stato osservato, così che persino Conners, autore nel 1969 dell’omonima scala di valutazione, ha di recente espresso riserve, raccomandando prudenza.

Negli Usa la percentuale di bambini in età scolare che attualmente riceve diagnosi è superiore al 9% e si arriva al 20% nella fascia adulta; mentre in Francia, dove i criteri

Adhd: sindrome o business? Cosa dice davvero la scienza

L’Adhd, la sindrome da deficit di attenzione e iperattività, è attualmente il disturbo del neurosviluppo più frequentemente diagnosticato nei bambini e rappresenta una condizione in costante crescita tra gli adulti.

È più o meno noto a tutti che i sintomi cardine di questo disturbo sono l’incapacità a concentrarsi quando si devono eseguire compiti che si ritengono noiosi, l’iperattività e l’impulsività. A ciò va aggiunto che l’Adhd è una diagnosi in cui il comportamento ed il cattivo funzionamento scolastico e lavorativo rivestono un ruolo cruciale.

Sulla sua diffusione la scienza ci dice che circa il 5,3% dei giovani ed il 2,5% degli adulti nel mondo ne sono affetti (per avere un’idea dell’ampiezza del fenomeno si calcoli che secondo l’Oms nel mondo la percentuale di persone affette da depressione è del 5% circa).

L’incidenza di nuove diagnosi di Adhd è cresciuta costantemente negli ultimi venti anni e con essa sono cresciute le prescrizioni dei farmaci in tutto il mondo.

Uno studio recente ha evidenziato come tra il 2015 e il 2019, in 64 Paesi, l’incremento di prescrizioni di farmaci per l’Adhd sia aumentato del 9,7% ogni anno.

Si parla quindi di milioni e milioni di persone nel mondo a cui è stato diagnosticato un disturbo che presenta dei sintomi altamente aspecifici e che si riscontrano in moltissime altre patologie psichiatriche e non solo. Il neurologo Richard Saul, autore nel 2014 del volume Adhd does not exist, ci ricorda in un suo intervento sulla rivista Time, come sia necessario un lavoro di diagnosi differenziale più approfondito e siano oltre 20 le condizioni mediche che possono generare i sintomi dell’Adhd tra cui: i disturbi del sonno, problemi di vista e udito non diagnosticati, l’abuso di sostanze tra cui marijuana e alcol, la carenza di ferro, il disturbo bipolare e depressivo maggiore, il disturbo ossessivo-compulsivo, la dislessia.

È generalmente accettato nella comunità scientifica