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Renata Pepicelli: Vi parlo dell’Occiriente, il mondo che non si vuole vedere

«Solo l’Occidente conosce la storia», affermano le nuove indicazioni nazionali per la scuola d’infanzia e primaria varate dal ministro Valditara. Come se la Cina, l’India o l’Africa fossero senza storia e immemori. Basterebbe anche solo questo terribile esempio per far capire come i concetti di Oriente e Occidente siano funzionali a una narrazione ignorante quanto ideologica della storia e del presente. Il libro di Renata Pepicelli Né Oriente né Occidente, vivere in un mondo nuovo (Il Mulino) è un potente antidoto contro questa visione sclerotica del mondo e ci fornisce lenti nuove per leggere il complesso e fecondo meticciato in cui siamo immersi. Il nuovo che avanza è già qui. Nel multiculturalismo che colora l’arte, la vita nelle strade, le scolaresche di oggi. Da storica che lavora sui documenti ma anche facendo ricerca sul campo la docente dell’università di Pisa ne traccia un affresco affascinante in continuo divenire, dandoci strumenti di interpretazione sociologica, ma anche politica.

In attesa di incontrarla dal vivo (12 settembre) al festival Con-vivere di Carrara e ai Dialoghi di Trani (28 settembre) le abbiamo rivolto qualche domanda.

Professoressa Pepicelli le categorie di Oriente e Occidente sono da rottamare?
Oggi non sono assolutamente più efficaci per raccontare il mondo, la pluralità e le contaminazioni che caratterizzano gli spazi che noi abitiamo. A ben vedere, forse, non lo sono mai state. Non possiamo dimenticare che Oriente e Occidente, per come le usiamo oggi, sono categorie nate in epoca coloniale. Lo ha scritto in modo magistrale Edward Said. Con il suo libro Orientalismo (Feltrinelli, 1978) ha dimostrato che la nozione di Oriente è del tutto inventata. Usata in contrapposizione a Occidente è servita per giustificare una presunta superiorità morale di quest’ultimo ed è stata un viatico ai progetti colonialisti e imperialisti del cosiddetto Occidente e dell’Europa nell’Ottocento e già prima.

Oriente-Occidente sono parole impregnate di una visione eurocentrica della storia?
Sì. Pensiamo all’espressione Medio Oriente che tutti utilizziamo ogni giorno. Implica la prospettiva di chi divide il mondo in blocchi. Nell’800 l’Inghilterra usava questo approccio per fare conquiste e costruire il proprio impero. Ma anche la prospettiva italiana sul Medio Oriente ha questa accezione. Eppure questa terminologia, con tutto il suo portato coloniale, è riuscita ad arrivare fin qui. La continuiamo ad usare e addirittura l’hanno fatta propria gli stessi popoli colonizzati. Basti dire che

Attilio Bolzoni: La mafia non spara più. Ed è al potere

Il suo primo servizio sulla mafia è stato il 21 luglio 1979. «Me lo ricordo perché è stato il giorno in cui hanno ucciso Boris Giuliano», racconta Attilio Bolzoni. «Io ero in cronaca quel giorno e la mattina presto in redazione c’eravamo io e Gianni Lo Monaco. Siamo subito corsi con uno spiderino Fiat e Pallina, il suo cane da caccia, in via Di Blasi, al bar Lux. Lì c’era il cadavere del commissario Giuliano, colpito a morte da 7 colpi di pistola sparati alle spalle. Fu la mia prima cronaca di un importante delitto di mafia». Bolzoni era una delle firme dell’Ora di Palermo nei primi anni 80, poi è passato a Repubblica – dove ha trascorso 40 anni scrivendo di mafie e politica. E oggi lo ritroviamo al Domani. In mezzo una vita spesa a raccontare gli anni più bui della sua Sicilia e dell’Italia, gli anni dei Corleonesi e delle stragi di mafia. E non solo. Se quello che mi racconta è il suo primo aneddoto di mafia “in servizio”, non è certo il suo primo ricordo legato alla criminalità. «Non c’è un ricordo di mafia preciso, certo mi ricordo dei mafiosi di Riesi (Comune in provincia di Caltanissetta, ndr), come i Di Cristina e Piddu Madonia. Ma per chi cresce in una società e in una terra impregnata di mafia non c’è un ricordo solo. Perché tutto intorno è mafia e capisci presto che è qualcosa che è scolpito sulla faccia delle persone se sai osservare».

Parlare con Attilio Bolzoni significa avere accesso a una testimonianza diretta dell’evoluzione del fenomeno mafioso di uno dei periodi più complessi della storia del nostro Paese. E vederlo attraverso questi suoi occhi che hanno imparato un codice particolare, può aiutare a farsi delle domande su cosa stia accadendo alla criminalità italiana. In molti si è fatta strada l’idea che la mafia sia quella delle stragi tra il 1992 e il ’93, sia quella che spara e che viene combattuta dallo Stato con operazioni da centinaia di arresti. Per Bolzoni però questo volto delle organizzazioni criminali rappresenta una devianza da quella che è la natura e il vero modo di operare delle mafie. Nel suo ultimo libro, Immortali (Fuori Scena), si chiede appunto: Dove si è nascosta? Quale

Greenpasso indietro

Poche settimane fa, la Corte internazionale di giustizia, organo giurisdizionale delle Nazioni Unite, ha illustrato, in termini chiari, gli obblighi degli Stati in materia climatica e le conseguenze giuridiche derivanti dalla loro violazione. Il parere della Corte, adottato il 23 luglio scorso, a seguito di una richiesta dell’Assemblea generale dell’Onu, dovrebbe porre fine a una serie di interpretazioni, di stampo meramente politico e non giuridico, miranti a degradare le norme vincolanti dei trattati sul cambiamento climatico a mere raccomandazioni.

Il parere ha confermato che i Paesi aderenti alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico (Unfcc), cui hanno aderito 197 Parti, inclusi gli Stati Uniti) devono adottare misure per ridurre le emissioni di gas serra e adattarsi agli effetti climatici negativi, con i Paesi più industrializzati (elencati nell’Allegato I alla Convenzione) che hanno ulteriori obblighi nel guidare gli sforzi per ridurre le emissioni, in base al principio delle responsabilità comuni ma differenziate. Gli Stati devono cooperare per raggiungere gli obiettivi della Convenzione e, in aggiunta, ulteriori impegni derivano dal Protocollo di Kyoto (pochi) e, soprattutto, dall’Accordo di Parigi, relativi agli obiettivi di riduzione delle emissioni e della definizione e attuazione di misure di adattamento. Esistono anche norme consuetudinarie internazionali, applicabili indistintamente a tutti gli Stati, che impongono di prevenire danni ingenti all’ambiente e al sistema climatico e di cooperare in buona fede per risolvere tali questioni.

Un Paese che non rispetta questi obblighi commette un illecito internazionale e incorre nella responsabilità di porre fine alle azioni illecite, garantire che tali comportamenti non si ripetano e riparare i danni causati, attraverso il ripristino della situazione antecedente alla condotta illecita o il risarcimento dei danni, ferma restando la necessità di provare il nesso causale tra l’azione illecita e il danno. Anche su questo aspetto, che fino a qualche anno fa sembrava una probatio diabolica, molti tribunali nazionali si sono già espressi nel senso di dare per certa, alla luce degli studi scientifici, l’esistenza del nesso causale tra emissioni di gas e danni riconducibili alla crisi climatica.

La pronuncia della Corte rappresenta un passo in avanti dal punto di vista dell’accertamento delle norme e della loro obbligatorietà ma, al tempo stesso, si tratta comunque una goccia nel mare, sia per il fatto che si tratta di un parere, dunque di un atto che, benché autorevole, è per sua natura non vincolante, sia perché negli ultimi mesi, gli organi di stampa stanno riportando con sempre maggiore insistenza notizie relative a significative inversioni di rotta rispetto all’annuncio di politiche ambientali che, qualche anno fa, sembravano rappresentare delle priorità nelle agende politiche nazionali e internazionali. Tra queste, ha

Luca Mercalli: Meno soldi per le armi, più fondi per il clima

Luca Mercalli, climatologo di fama internazionale, presidente della Società metereologica italiana, è da decenni uno dei principali esperti a metterci in guardia sui pericoli del cambiamento climatico. Nel suo nuovo libro, Breve storia del clima in Italia (Einaudi), analizza l’evoluzione del clima nel nostro Paese e le sfide che siamo chiamati ad affrontare. In questa intervista (che anticipa i suoi interventi al Festivaletteratura di Mantova il 5 e il 6 settembre) il climatologo ci fornisce un quadro della situazione attuale, mettendo in evidenza le risposte politiche insufficienti alla crisi climatica e le difficoltà che l’Italia e l’Europa devono superare per una transizione ecologica che ormai non può più essere rinviata.

Nel suo libro descrive numerosi eventi meteorologici estremi dall’impero romano al medioevo, dal rinascimento sino all’epoca moderna. Che cosa ci insegnano queste cronache storiche sul legame tra clima e crisi sociale?
Direi che tutto il libro è costellato di eventi estremi fin dalla più remota antichità, solo che quelli che conosciamo meglio sono quelli dall’epoca romana in poi, perché hanno lasciato delle tracce scritte. Però complessivamente possiamo dire che quasi tutti gli eventi estremi del passato riguardavano freddo e alluvioni, che avevano un effetto deleterio sui raccolti, per cui si riflettevano immediatamente sulla società con le carestie e con problemi economici o anche di stabilità della società. Poi era facile avere dei tumulti, delle rivoluzioni. Quindi fondamentalmente vediamo che anche piccole variazioni del clima, perché qui nel passato stiamo parlando di variazioni non superiori a un grado, hanno sempre generato enormi problemi nella società. Adesso stiamo andando verso un caldo mai visto prima e con variazioni che possono arrivare a cinque gradi in questo secolo. E da qui uno dice: ci stiamo recando verso un territorio sconosciuto, un clima assolutamente nuovo di cui dovremmo essere assolutamente allarmati, consapevoli che bisogna fare qualcosa per ridurne gli effetti.

Lei parla di «anomalia dantesca» per definire il periodo che va dal 1314 al 1327. In che modo la letteratura, come la Divina Commedia di Dante, può aiutarci a capire il clima di un’epoca?
Ci sono delle tracce che, ovviamente, non bastano. La letteratura può metterci su una pista che poi va seguita e confermata sia con altri documenti che confermino quello che eventualmente ci ha detto un’opera letteraria o un altro documento storico. In genere, se troviamo più di un riferimento proveniente da documenti molto diversi, c’è una maggiore verifica che l’evento sia accaduto veramente e non sia il frutto di una fantasia di un solo autore. L’altro elemento è che questi riferimenti possono poi essere messi in relazione con i dati geochimici e bio-geo-chimici, cioè i dati che arrivano dai pollini fossili, dai ghiacciai, dagli anelli degli alberi, dalle stalattiti nelle grotte. Sono tutti metodi di ricostruzione climatica che possono confermare quello che i documenti ci hanno eventualmente illuminato solo in parte e viceversa. Ovviamente, le due informazioni si completano a vicenda.

E se tra le pagine affiora una costante, che è l’incapacità di prevedere il clima e i suoi effetti, oggi invece abbiamo modelli e dati, ma sembriamo ancora impreparati, nonostante tutto. Perché?
Perché neghiamo. Mentre fino a cinquant’anni fa l’umanità si è trovata a subire i cambiamenti climatici naturali – ad esempio, eruzioni vulcaniche che causavano un raffreddamento temporaneo, oppure situazioni di cambiamento nell’attività del sole – senza la possibilità di conoscere i meccanismi di funzionamento del clima, non avendo satelliti o stazioni

Strage di memoria

Testo di Simona Silvestri, foto di Savino Carbone – da Srebrenica

Compaiono all’improvviso, non appena la macchina svolta da Bratunac verso il memoriale di Potočari, alle porte di Srebrenica. Sono un qualche centinaio di immagini piantate davanti alla quasi totalità delle case e dei cortili affacciati sulla via: rappresentano i volti dei civili serbi uccisi in quella zona durante la guerra del 1992-95, nelle intenzioni di chi le ha affisse «vittime dimenticate e trascurate» contrapposte volutamente alle vittime degli “altri”, quelle che invece vengono ricordate l’11 luglio di ogni anno qualche chilometro più avanti. Sono i giorni in cui viene commemorato il trentennale dal genocidio di Srebrenica, il massacro di oltre 8.000 bosgnacchi (bosniaco-musulmani) da parte delle forze armate serbe agli ordini del generale Ratko Mladić, ed è quasi impossibile non pensare a una provocazione.

Ma non c’è da stupirsi: in Bosnia Erzegovina i morti hanno finito col diventare simboli al servizio di una politica sempre più nazionalista che non si fa scrupoli di utilizzarne la memoria – o meglio, la memoria distorta – per i propri fini propagandistici, e che sfrutta la rimozione della storia e delle proprie responsabilità per ottenere consenso. Non è un caso che quelle immagini siano state posizionate in bella vista lungo l’unica strada su cui sono costrette a transitare tutte le persone dirette a Srebrenica, verso quel memoriale che dovrebbe essere considerato un monumento perenne all’ignavia dell’Europa e dell’Occidente che, nell’estate del 1995, voltarono lo sguardo altrove mentre nel silenzio generale veniva compiuto il genocidio, l’unico in Europa e riconosciuto come tale dopo la Shoah. Una mattanza che avrebbe demolito in poche ore l’illusione di quel “non accadrà mai più” pronunciato come monito dopo la Seconda Guerra mondiale.

Nel giro di pochi giorni a partire dall’11 luglio, oltre 8.000 uomini e ragazzi bosgnacchi sopra ai 12 anni furono giustiziati dalle forze serbo-bosniache entrate in quella che l’Onu aveva dichiarato una zona sicura: la cifra 8.372 impressa sulla targa all’ingresso del memoriale di Potočari indica il numero delle vittime, anche se i tre puntini che immediatamente la seguono lasciano intendere come si tratti di un numero tutt’altro che definitivo. Secondo le stime, infatti, sarebbero diecimila le persone scomparse, molte delle quali impossibili da identificare: dopo essere state seppellite in fosse comuni, vennero a più riprese spostate in fosse secondarie

Faten Elwan: A Gaza è un genocidio in diretta

Parlare con Faten Elwan è come trovarsi improvvisamente in prima linea. È come essere catapultati per le strade di Gerico o di Jenin, in fuga da un bulldozer o dagli spari dei soldati e dei coloni israeliani. O, improvvisamente, a fronteggiare un interrogatorio, un’aggressione verbale e fisica. Senti il dolore, senti le mani e le armi dei militari che ti sono addosso e senti la rabbia. Faten Elwan è una giornalista palestinese che lavora per Al Jazeera e altre testate internazionali come la turca Trt World. È un’inviata di guerra che negli anni ha lavorato in tutto il mondo, dall’ Arabia Saudita agli Stati Uniti o al Qatar, seguendo i vari trattati e sviluppi internazionali della questione israelo-palestinese, fino a quando, in seguito a un arresto arbitrario da parte dell’esercito e la fedina penale improvvisamente diventata “sporca”, non ha più potuto viaggiare come voleva e doveva per il suo mestiere. Ma Faten è inviata di guerra anche rimanendo, nella sua terra. La guerra è semplicemente lì, da quando è nata. Anzi da prima:«Sono rifugiata da tre generazioni».

Non è “solo” il 7 ottobre, non è solo la guerra su Gaza. È una guerra permanente che Faten combatte ogni giorno, anche adesso che vive a Marsiglia da sette mesi per motivi di sicurezza: sono i ricordi, i morti pianti, gli orrori visti, le ingiustizie subite e quando parla è un fiume in piena: «Hai mai incontrato un caso di disturbo post traumatico», mi chiede? Al collo la chiave del “ritorno” (la chiave è la testimonianza della “Nakba” del 1948 e il simbolo del diritto dei palestinesi di tornare nella loro terra, sancito dalla risoluzione Onu 194, ndr). Faten, nata in Venezuela, arrivata in Palestina all’età di 7 anni, dice di aver cominciato fin da piccola a voler reagire alle ingiustizie che vedeva, a partire dalla scuola e dalla quotidianità.

Il giornalismo è nato in lei con questa vocazione: l’indignazione. Raccontare i soprusi e dare voce a tante persone. «Quello che mi interessa non sono solo i fatti, ma cosa vivono le persone. Non è la bomba che è stata sganciata, ma su chi. È questo il mio modo di fare giornalismo».

Faten Elwan era anche amica stretta di Shireen Abu Akleh, la giornalista di Al Jazeera uccisa nel maggio del 2022 da soldati israeliani nel campo profughi di Jenin. «Per me c’è stato un prima e un dopo. Quello che provavo era rabbia e desiderio di vendetta. Ma ho deciso di non cadere in questa trappola, di non diventare quel mostro che vogliono che diventi». Come molti altri giornaliste e giornalisti palestinesi, in Cisgiordania o a Gaza, Faten è insieme una professionista, una testimone e una vittima. Ma soprattutto un target: «Questa guerra non si combatte solo sul campo, ma anche attraverso la sua narrazione, ed è per questo

I curdi indicano la via della pace a noi europei

In un momento storico in cui in Europa si discute l’aumento esponenziale della spesa pubblica in armamenti, la cerimonia in cui il Pkk brucia le armi per sancire la fine della lotta armata ci deve far riflettere.

I primi giorni di luglio ho preso parte ad una delegazione internazionale in visita al partito Dem ad Istanbul, che chiedeva la liberazione di Öcalan e di tutti i detenuti politici e d’opinione in Turchia, oltre a una richiesta simbolica di una visita nel carcere di massima sicurezza di Imrali dove il leader curdo è detenuto dal 1999.

Sono mesi in cui ci sono state repentine evoluzioni della situazione curda, dagli esiti ancora molto incerti ma che certamente aprono una scenari rilevanti per gli equilibri in Medio Oriente e quindi per tutto il pianeta, specialmente da noi in Occidente.

Nella regione siriana del Rojava sappiamo che ruolo fondamentale abbiano avuto i guerrigliere e i guerriglieri del Pkk nello sconfiggere l’Isis costruendo un prototipo di confederalismo democratico teorizzato da Öcalan. Il supporto americano al Pkk in Rojava entrò già in crisi durante la prima amministrazione Trump, è proseguito con l’ impunità del governo turco da parte dell’amministrazione Biden e si sfalda definitivamente con la seconda amministrazione Trump, che ritira il supporto. Infatti, durante la sua prima amministrazione egli ha notoriamente scavalcato il Pentagono per ordinare un caotico ritiro parziale delle truppe statunitensi di stanza nel Rojava, aprendo la porta ad una mortale invasione turca che ha ucciso centinaia di persone e sfollato centinaia di migliaia di locali. Ad inizio 2025, reinsediatosi Trump, si comincia a parlare di un piano americano per la ritirata delle truppe dalla Siria, quando il governo siriano di Al Sharaa, vicino ad Erdoğan, non collabora con le forze di difesa curde, che sono quindi sempre più deboli.

E sempre nello stesso periodo, l’11 gennaio 2025, l’Osservatorio siriano per i diritti umani (Sohr), denuncia come le forze turche abbiano lanciato un attacco con un drone contro una centrale elettrica nel villaggio di Gir Kendal, nel Rojava. Oltre 70 persone uccise in un attacco che colpisce infrastrutture civili di primaria importanza a livello economico, ambientale ed energetico. L’impunità della Turchia in Siria è aumentata anche grazie al fatto che in questi anni

Giustizia per Gaza, ecco come si schiera il Sud America

Nel silenzio della stampa occidentale, i rappresentanti di oltre trenta Paesi si sono riuniti a Bogotá, in Colombia, per discutere e annunciare misure concrete contro Israele e l’evidente genocidio del popolo palestinese. La riunione di emergenza è stata convocata dal Gruppo dell’Aia, un’iniziativa fondata nel gennaio 2025 dai Paesi del Sud globale, di fronte all’omissione delle grandi potenze occidentali alle continue violazioni del diritto internazionale per parte dello Stato ebraico.

Il vertice, guidato dai presidenti Gustavo Petro (Colombia) e Cyril Ramaphosa (Sud Africa), ha segnato uno sforzo senza precedenti per coordinare le risposte diplomatiche e giuridiche dei Paesi presenti.

Nella conferenza stampa congiunta, presidenti, primi ministri e rappresentanti, hanno concordato il divieto di vendita e trasferimento di armi, carburante militare e attrezzature a duplice uso a Israele, nel rispetto di quanto documentato nell’ultimo rapporto della relatrice speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani nei Territori palestinesi occupati, Francesca Albanese, datato 30 giugno 2025.

Presente all’evento che si è svolto a metà luglio, Albanese ha esortato, ancora una volta, ogni Paese a sospendere le relazioni «militari, strategiche, politiche, diplomatiche ed economiche» con Israele, come l’unica misura in grado di frenare il genocidio in corso.

Quanto accaduto a Bogotá potrebbe essere definito come il tentativo del Sud del mondo di trasformare l’indignazione globale in azioni concrete, e di recuperare i brandelli di credibilità del diritto internazionale e umanitario.

Al momento, la posizione dei Paesi sudamericani, a guida progressista, varia dalla rottura diplomatica alla pubblica condanna, senza però ulteriori passi concreti, da effettive misure economiche dei governi, come la scelta colombiana di sospendere le esportazioni di carbone verso Israele, alle richieste di responsabilità legale di Benjamin Netanyahu per crimini di guerra, presso la Corte penale internazionale.

Entrando nei dettagli, il primo Paese sudamericano a tagliare ogni vincolo con Israele è stato la Bolivia, il 31 ottobre 2023.

Nelle tre settimane successive all’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre, Israele rispose militarmente con bombardamenti, che causarono 9.000 vittime, tra i civili palestinesi, perlopiù donne e bambini, e ciò ha portato il governo di Luis Arce (Movimento per il socialismo) non solo a condannare verbalmente la «sproporzionata offensiva militare israeliana in corso nella Striscia di Gaza», ma anche a rompere i rapporti diplomatici ed economici con il governo

Il riarmo non è mai la risposta giusta

In un’epoca segnata da accelerazioni militari e da logiche geopolitiche in tensione, serve un’altra narrazione: quella della pace attiva, della sicurezza attraverso investimenti sociali, ambientali, sanitari, educativi e di cooperazione internazionale. Perché le attuali decisioni di militarizzazione e aumento delle spese militari volute dai governi ci porteranno solo maggiore sicurezza e il rischio di uno stato di guerra permanente. Il recente summit Nato e le élite europee sembrano intenti a pianificare una nuova corsa al riarmo. Nel vertice dell’Aja di fine giugno 2025 i 32 Paesi membri hanno concordato di aumentare la spesa militare entro il 2035 fino al 5 % del Pil: almeno il 3,5 % in «core military spending» (armi, mezzi, operazioni) e fino al 1,5 % in spes «di difesa e sicurezza correlate» (infrastrutture critiche, cyber, mobilità militare, resilienza). Anche l’Italia, con una spesa attuale attorno all’1,57 % del Pil (circa 35 miliardi di euro), si trova dunque ad affrontare un salto epocale: triplicare la spesa annuale fino a oltre 100 miliardi, con aumenti di 6-7 miliardi all’anno nei prossimi dieci. Il costo cumulativo stimato dall’Osservatorio Mil€x di questa scelta si potrebbe aggirare sui 700 miliardi per la sola parte “core”.

A questa prospettiva si deve aggiungere anche la proposta della Commissione europea – il piano “ReArm Europe” – che prevede investimenti fino a 800 miliardi per rafforzare la difesa e l’industria militare europea (con spese che andranno a pesare sui singoli Stati membri) oltre che la bozza di nuovo bilancio Ue per il periodo 2028-2034 che dovrebbe prevedere per il comparto difesa e spazio un totale di risorse a disposizione di 131 miliardi (cinque volte il settennato precedente!) con un contributo stimabile per il nostro paese di circa 2,4 miliardi l’anno (16,8 miliardi per sette anni) sempre secondo l’Osservatorio Mil€x.

Dati che, se messi in fila, risultano davvero impressionanti. Ma cosa ci dicono davvero? Quale può essere il significato sottostante e strutturale, al di là delle enormi cifre? La prospettiva di lungo periodo che se ne può trarre è quella di un trasferimento, nei prossimi decenni, di una quota rilevante se non enorme della nostra sovranità democratica e delle risorse pubbliche a favore degli interessi del complesso militare-industriale-finanziario. Il tutto a seguito della pressione delle lobby delle armi, delle strutture militari (e non) della Nato e cavalcando le richieste esplicite ed interessate di Trump e dei suoi sodali a favore

Per una critica della ragione bellica

In tempi in cui il linguaggio della guerra sembra imporsi come unico vocabolario possibile della politica, il nuovo saggio di Tommaso Greco Critica della ragione bellica appena uscito per Laterza arriva come un controcanto importante, per provare a incrinare la retorica dominante che identifica il realismo con la resa alla logica delle armi. Il docente, ordinario di Filosofia del diritto nel dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Pisa, parte da un’intuizione semplice e radicale: l’essere umano non nasce bellicoso. La pace, intesa come non violenza, come rapporto e interesse verso l’altro non è un esito finale, remoto e sempre rinviato, ma la condizione originaria del nostro essere esseri umani. Quello che Greco ci propone con questo agile e incisivo libro è un rovesciamento dello sguardo che mette in crisi secoli di pensiero occidentale, da Hobbes in poi, in cui lo stato di natura era immaginato come guerra di tutti contro tutti. Homo homini lupus, l’ideologia che ci induce a pensare che senza una camicia di forza di regole ci sbraneremmo è un falso.

Greco ci ricorda che anche Montesquieu, sorprendentemente, vedeva nella pace la prima legge naturale. E ci mette in guardia dal “trucco” del realismo politico: selezionare la parte più cupa dell’esperienza umana e spacciarla per intera verità.

Il cuore dell’analisi è dedicato al “pacifismo giuridico”, particolarmente ripensando la lezione di Bobbio rovesciando il motto si vis pacem, para bellum in si vis pacem, para pacem. La pace non come tregua precaria ma come fondamento delle scelte politiche.

Da qui l’importante insistenza che Greco pone sul rilancio di ordinamenti sovranazionali come l’Onu, come Unione europea, nata contro i fili spinati: laboratori imperfetti ma indispensabili, da sviluppare ancora. L’ultimo capitolo, forse il più denso, è un atto d’accusa frontale contro la “ragione bellica” che si veste di necessità storica. La retorica della paura, ci fa notare Greco, produce un meccanismo di profezia che si auto avvera: la diffidenza reciproca conduce al riarmo e alla guerra preventiva. Una spirale che può essere spezzata solo riconoscendo che la pace non è vuoto fra due conflitti, ma “lavorio umano” continuo di dialogo, senza esorcizzare il conflitto, ma rendendolo occasione di confronto evolutivo nell’interesse pubblico e collettivo.

Ringraziamo Greco per questo suo invito a un esercizio laico di immaginazione politica: pensare la pace come principio, smontare la superstizione della guerra necessaria, rifiutare che la storia umana sia ridotta a cronaca di massacri.

È un libro di coraggioso controcanto che indica strade da percorrere: dal rafforzamento del diritto internazionale alle sanzioni come alternativa all’uso delle armi, fino alla costruzione di un “tabù della guerra” sul modello di quello che vieta la schiavitù. Una sfida culturale prima che politica. Perché, come scrive Greco, «le idee contano. E contano le persone che hanno idee».

 

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