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Senza atomica, come? La lezione di Pietro Greco

Il 25 gennaio 2025 il Bulletin of the atomic scientist ha spostato di un secondo in avanti le lancette dell’orologio dell’apocalisse, metaforica clessidra che dal 1947 misura il pericolo di un’ipotetica fine dell’umanità. Il Doomsday clock non è mai stato così vicino alla mezzanotte: 89 secondi. Un tempo che silenziosamente fotografa una drammatica realtà che, dopo la seconda guerra mondiale, dopo l’orrore di Hiroshima e Nagasaki, dopo la fine della guerra fredda, si pensava di non dover più rivivere: siamo a un passo dall’irreparabile. Passo che in questi otto mesi si è accorciato ulteriormente se pensiamo all’irrigidimento delle posture nucleari di Russia e Stati Uniti (guidati proprio da gennaio da Donald Trump), alla Cina che intensifica le minacciose pressioni su Taiwan, a Israele che rade al suolo Gaza, annette interi territori in Cisgiordania, bombarda l’Iran, il Libano, lo Yemen, al Pakistan e all’India di nuovo ai ferri corti per il Kashmir. Tutti Paesi, questi, per lo più guidati da destre reazionarie, autocrati o estremisti religiosi che hanno nel loro arsenale complessivamente migliaia di bombe atomiche. Nel 1986 gli Stati Uniti e l’Urss da soli avevano 63.500 testate. Oggi sono scese a 12mila, ma più di mille sono pronte al lancio in pochi minuti.

In questo scenario, leggere la lezione di Pietro Greco sulla bomba atomica è come aprire un manuale per capire la meccanica della paura e la sua capacità di piegare la scienza al potere. Stiamo parlando de L’atomica e le responsabilità della scienza, un prezioso saggio inedito del grande e compianto divulgatore scientifico prematuramente scomparso nel 2020, che intelligentemente L’Asino d’oro edizioni ha dato alle stampe. Introdotto da un appassionato intervento di Luca Carra, direttore di Scienza in rete, e la postfazione di tre fisiche: Ilaria Maccari, Alessia Nota e Giulia Venditti, L’atomica ripercorre la storia dell’arma nucleare dall’epoca di Hitler al presente, con un occhio sempre puntato sul nodo cruciale: l’urgenza di un’etica e responsabilità, ineludibili, nella ricerca scientifica. «La scienza può essere una forza di pace, a patto che sappia sorvegliare il proprio coinvolgimento strumentale con il potere» scrive Greco che nei suoi innumerevoli articoli per Left più volte in punta di penna ha messo in evidenza il ruolo di “arma di pacificazione di massa” che compete per natura alla ricerca scientifica, e di pacificatori agli scienziati e ai divulgatori.

Come in un romanzo il nostro autore riannoda i fili della storia a partire

Perché le guerre sono una truffa

La guerra è l’unica attività veramente internazionale, ed è anche l’unico affare in cui i profitti si contano in dollari, e le perdite in vite umane. Questa frase, tratta dal libro La guerra è una truffa del generale statunitense Smedley D. Butler, evidenzia con lucidità brutale la natura sistemica del conflitto armato nel mondo contemporaneo. La guerra non è più (o non è mai stata) solo una questione di valori, ideali o confini, ma un mercato globale, un settore industriale regolato da domanda, offerta e margini di profitto. La pace, se arriva, è poco più di una parentesi tra due cicli di produzione e vendita. A dimostrarlo non sono più solo gli attivisti o gli analisti critici, ma i numeri e i documenti ufficiali: dati di export, rotte degli armamenti, partnership militari, piani industriali. E dentro questo sistema perfettamente oliato, l’Italia è uno dei principali protagonisti. Mentre si proclama promotrice di pace e democrazia, continua a esportare armamenti a Paesi coinvolti in conflitti, repressioni o occupazioni. E lo fa senza interrogarsi troppo sull’utilizzo finale di quelle armi, purché i contratti siano firmati. Negli ultimi anni il mercato delle armi nel nostro Paese ha visto una crescita costante e significativa, diventando protagonista sia nella nostra economia che in quella globale. Solo nel 2023, l’Italia ha autorizzato esportazioni militari per 6,19 miliardi di euro, in netto aumento rispetto ai 5,18 miliardi del 2022 e quasi il doppio dei livelli del 2020, portandosi al sesto posto degli esportatori mondiali, secondo i dati dello Stockholm International Peace Research Institute (Sipri). A trainare il comparto è la spinta esplicita del governo, in particolare del ministro della Difesa Guido Crosetto, che da ex presidente dell’Aiad – la principale lobby del comparto bellico – è diventato il volto politico dell’industria armata. Crosetto, senza ipocrisie, ha dichiarato che «non possiamo permetterci di lasciare questi mercati ad altri». E così è stato. In un contesto globale in cui le tensioni commerciali tra blocchi geopolitici portano all’introduzione di dazi e restrizioni reciproche – basti pensare alla recente stretta Ue su auto elettriche cinesi o al ritorno del protezionismo Usa – il settore della difesa resta sostanzialmente escluso da questi attriti. Le esportazioni italiane di armamenti sono infatti regolate da accordi bilaterali o multilaterali che scavalcano le logiche doganali tradizionali, e i dazi applicati sulle forniture militari sono spesso nulli o marginali. I dati lo confermano: nel 2023, l’export militare italiano

L’algoritmo che uccide

Alle 2.14 del 29 agosto del 1997, con un periodo di autoistruzione esponenziale di soli 25 giorni, Skynet, il sistema di difesa militare statunitense, sviluppato dalla società Cyberdyne divenuto autocosciente, decide di iniziare l’attacco all’umanità per autodifesa. I militari provano a disattivarla e Skynet decide l’attacco nucleare alla Russia per provocare la rappresaglia che avrebbe determinato il “giorno del giudizio”. Nella saga Terminator l’ultima resistenza umana è datata 2029. Capacità belliche, robotica avanzata, integrazione con capacità che oggi chiameremo “agentiche” (intelligenze artificiali che prendono il controllo di sistemi informatici connessi a rete) e capacità predittive su scenari complessi che sviluppano soluzioni per raggiungere i “propri scopi”, caratterizzano tutti gli scenari previsti nella letteratura e nella cinematografia fantascientifica distopica.

La novità dell’oggi è che questi fattori, oggi, sono tutti sul nostro tavolo!

L’idea della guerra si è trasformata nel tempo. Pur fondata sulla “difesa” o sulla “conquista”, le modalità concrete del conflitto ne hanno sempre influenzato le regole, che spesso assumevano un carattere, che paradossalmente, era definito etico. In passato, ad esempio. il codice cavalleresco imponeva limiti alla violenza e uno scontro più ritualizzato, riconoscendo ai civili e ai prigionieri un certo rispetto. Anche se ideale più che reale, questa etica riconosceva che, persino nella battaglia, l’umanità deve imporre dei confini per restare tale.

La potenza “meccanica” crescente degli armamenti spinse l’umanità a cercare la definizione di regole condivise anche per la guerra e le sue forme. La Convenzione di Ginevra, nata dopo la seconda guerra mondiale, stabilì regole fondamentali per limitare la brutalità nei conflitti, vietando torture e attacchi ai civili, e affermando che anche la guerra deve avere dei limiti condivisi.

Oggi, droni telecomandati e algoritmi assassini svuotano la guerra di ogni residuo codice morale. L’eccidio barbarico di Hiroshima e Nagasaki aveva smosso le coscienze a ricercare comportamenti condivisi e di controlli reciproci sul possesso, lo sviluppo e l’utilizzo di armi che potevano distruggere l’intera umanità.

Quelle stesse regole, oggi, vengono messe alla prova da droni autonomi e algoritmi privi di morale ed etica, spietati perché senza pietas, in un’epoca in cui la guerra rischia di diventare

L’offensiva di Netanyahu a Gaza, prove tecniche di sterminio 4.0

L’azione di Israele nella striscia di Gaza avviata come risposta all’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 costituisce una importante prova sul campo dell’utilizzo dell’Intelligenza artificiale (Ia) quale strumento di guerra. In un momento in cui l’intero mondo tecnologico sta volgendo senza remore il proprio interesse verso una prospettiva militarista, certamente in grado di mettere in moto un nuovo ciclo di accumulazione nella emergente conflittualità geopolitica, l’utilizzo massiccio delle tecnologie di Ia nel territorio palestinese configura una sorta di beta testing di quel che potrà accadere nelle guerre del futuro.

Un test su scala reale, dove verificare lo sviluppo delle tecnologie e valutarne l’efficacia direttamente sul campo. Abilitati dalla IA, sono stati prodotti almeno 70mila morti per lesioni traumatiche, di cui il 60% di donne e bambini. Il territorio palestinese è ora un campo di macerie dove vive una popolazione strangolata dalla fame. L’azione di sorveglianza verso la popolazione palestinese è realtà da tempo presente nello Stato di Israele, a Gaza e nei territori occupati. In un quadro dove la popolazione sorvegliata è considerata tutta potenzialmente nemica, riprese automatizzate e massivi data scraping, rastrellamenti di dati dalla rete e dalla telefonia cellulare, costituiscono una base di dati perfetta per il Machine learning (Ml), tecnologia software di apprendimento automatico alla base delle applicazioni di Ia. Utilizzando le tecniche Ml un modello informatico analizza e filtra i dati, identifica correlazioni e produce “decisioni” senza essere stato programmato esplicitamente per ogni scenario. Questo avviene attraverso ripetuti passaggi dei dati nei nodi di una “rete neurale informatica”, in seguito ai quali vengono valutate le correlazioni statistiche che producono il risultato finale. Come è facilmente intuibile, la qualità dei dati in ingresso svolge un ruolo fondamentale, tale che è stata definita una differenza tra quelli supervisionati e filtrati da un operatore umano, detti etichettati, e i dati grezzi, non etichettati.

Non si sa molto sulle tecniche utilizzate a Gaza. È verosimile che sia stata utilizzata una modalità chiamata “apprendimento positivo non etichettato”, tecnica che utilizza le caratteristiche dei dati etichettati per cercare di identificare modelli nel più ampio insieme, contenenti dati non etichettati. In una sorta di rastrellamento informatico, partendo da dati

All’attacco nel nome di dio

Nelle attuali 55 aree di scontro armato e conflitto del mondo, le guerre di religione apparentemente, non sono certo le preponderanti. La religione in quanto tale, d’altro canto, non è la reale causa delle guerre. Ma è principalmente ciò che – a determinate condizioni – serve per motivare gli esseri umani a combattere, offrendo manodopera essenziale a chi la guerra la vuole per ragioni sempre ed esclusivamente economiche, come il controllo o il maggior possesso di risorse e territori.

Il credo religioso, la fede, sono gli strumenti per convincere milioni di disperati ad andare a combattere, nella speranza della “salvezza eterna” e, magari, di un pezzetto di terra o bottino. Possono creare l’elemento chiave per ogni guerra, ciò che davvero è necessario per farla esistere: il consenso. Senza consenso, senza sostegno, le guerre finiscono prima di cominciare. È indispensabile, sempre, che i cittadini o i sudditi – il sistema politico-istituzionale conta poco – sostengano l’idea della guerra e si dimostrino disponibili ad andare a combattere. Nei secoli, le religioni questo lavoro di persuasione lo hanno fatto benissimo.

Hanno convinto masse di esseri umani ad andare ad uccidere o a morire. Le religioni, per i fedeli, sono la voce e il volere di un dio e diventano motivo di redenzione, riscatto e certezza di un futuro ultraterreno migliore del presente di fame e sofferenza. Oppure, incarnano l’ideale di un popolo eletto dell’unico dio, destinato ovviamente a prevalere su tutti gli altri. Di fatto, sono una risposta semplice e pratica alla miseria e danno corpo alla necessità degli esseri umani di avere una speranza nel futuro.

Così, la guerra può diventare “santa”,quindi ancora più terribile e totale. Si creano armate formidabili di fanatici senza scrupoli, attorno alle guerre sante. Il nemico religioso si trasforma, sempre, in qualcuno che si può e deve distruggere, perché immondo, impuro, indegno. Può essere abbattuto senza sentire alcuna colpa o rimorso, anzi con la certezza di una qualche probabile ricompensa ultraterrena.

Tutto questo si moltiplica nelle “religioni rivelate”, quelle in cui un solo dio parla agli uomini attraverso un libro, che diventa lo strumento per definire regole, modi di vita, leggi. Ho usato volutamente

“Professionista d’altri tempi”: quali tempi, quale professione

Vedo gli Emilii Fede di oggi stracciarsi le vesti per l’Emilio Fede di ieri. È la liturgia consueta: il necrologio come candeggio, la memoria selettiva come editing d’emergenza. Si celebra il “professionista d’altri tempi”, ci si commuove per la voce roca e la sigla del Tg4, si stende un telo sul resto. Eppure quel resto è la sostanza: condanne definitive, dall’affare Ruby bis al tentato ricatto, l’uso sistematico del mezzo come clava politica, le sanzioni per squilibri informativi. Non si tratta, come potrebbe apparire, di un inciampo: è un vero e proprio modello. E quel modello non è scomparso, ha solo aggiornato il software.

I professionisti del lutto televisivo lo sanno benissimo. Perché l’Emilio Fede celebrato oggi fu anche il perfetto prototipo di una tv che confonde notizia e cortigianeria, cronaca e tifoseria, servizio pubblico e servizio al potente di turno. La par condicio violata, le campagne a senso unico, la narrazione costruita come sceneggiatura d’azienda: tutto questo non è archeologia. È la grammatica quotidiana di molte reti, profili, testate. Cambiano i toni, si addolcisce l’ironia, si spostano le piattaforme: l’impianto resta.

C’è da capirli, quelli che oggi piangono: ai tempi pagavano molto meglio. Ma il dividendo non fu solo in busta paga. Fu il capitale simbolico di una stagione in cui la fedeltà valeva più della verifica, la linea editoriale più del codice deontologico, l’audience più della realtà. Chi oggi fa finta di dimenticare racconta soprattutto se stesso. Il modo migliore per commemorare un giornalista non è il panegirico: è l’inventario. E l’inventario, nel caso di Fede, insegna una cosa semplice: quando l’informazione abdica, la propaganda prende il timone. Ieri, come oggi.

Buon giovedì

foto wcommons

Perché leggere ancora, anche se i libri non fermano i proiettili

Fu Paul Auster, tra i tanti, a domandarsi a cosa serva l’arte della scrittura in quello che siamo soliti chiamare “il mondo reale”. Affermò che i libri non sfamano certo i bambini, non fermano i proiettili, non impediscono alle bombe di uccidere i civili. Che sia davvero così lo si vede facilmente in tanti contesti bellici.

Lo scrittore americano Chris Hedges, ad esempio, in una lettera a Refaat Alareer, poeta palestinese e professore di letteratura, scritta dopo la sua morte (Alareer fu ucciso in un raid israeliano a nord di Gaza nel dicembre 2023), si domanda: “Perché gli assassini temono i poeti?”. Hedges ricorda all’amico scomparso che lui non era un combattente, che non portava armi con sé, ma che si limitava a scrivere parole su carta. Perché allora andarlo a stanare scientemente per ucciderlo? La risposta sconsolata che Hedges si dà è questa: quando nel mondo c’è troppa crudeltà e sofferenza, la poesia è “il triste lamento degli oppressi”. Considerazione desolante quanto vera, che mi ricorda quella forse un po’ più ottimista di un mio maestro, Declan Kiberd, secondo cui le parole sono “le uniche armi dei disarmati”.

Purtroppo, agli occhi degli oppressori, gli oppressi non devono avere né armi né parole. Non devono avere voce. Il loro grido è il silenzio. E ahimè, a volte capita che quel prezioso silenzio sia il nostro, più che il loro. È vero, come diceva Auster, che le poesie non fermano né i proiettili né le bombe. Ma io vorrei dire qualcosa di più. È altrettanto vero il contrario: a volte le poesie, le bombe e i proiettili li attirano; li guidano.

Possiamo girarci attorno ma il punto resta sempre quello, e riguarda il binomio utilità-inutilità legato alla parola letteraria. Soprattutto, concerne la questione se quel che è per definizione inutile come l’arte, serva. Un’arte serva non serve a nessuno, potremmo ribattere – continuando a giocare con le parole. Ma è poi davvero così? Infatti, a servire, spesso è proprio l’arte serva, non quella libera o liberata.

Servo o non servo, questo è il dilemma. Un dilemma singolare, ma non solo. Può essere anche plurale: servi o non servi? E per giunta non fa distinzioni di genere: serve o non serve? A dirla tutta, come si vede è una domanda ambigua dal punto di vista grammaticale, perché rimescola in un unico calderone sostantivi che sono verbi e verbi che sono sostantivi. E poi, è una questione intricata dal punto di vista filosofico, forse perché connessa alla nostra potenziale utilità nel mondo.

Possiamo infatti accontentarci, come esseri umani, di quel che ci porta principalmente vantaggi materiali? Possiamo ridurre quello che siamo, o quel che pensiamo di essere, a ciò che ci è utile in senso pratico e non curarci, o curarci meno, di tutto il resto? O, al contrario, è ancora possibile ipotizzare una preminenza nelle nostre vite di ciò che è invisibile, immaterico, intangibile? Possiamo, ad esempio, ritenere che un politico dotato di una discreta vita interiore (di per sé invisibile) sia in grado di agire meglio per il bene comune rispetto a chi questa profondità la dileggia e la calpesta giorno dopo giorno? Dobbiamo rassegnarci a considerare destinata al fallimento l’idea di un mondo governato anche da filosofi, artisti o poeti? Forse sì, forse no.

Ma allora, se leggere libri non serve a diventare potenti, a fare successo (e “c’è qualcosa di volgare nel successo,” diceva Oscar Wilde…), se leggere libri non serve a diventare ricchi e famosi e non serve neppure a farci sentire meglio o a essere felici, a cos’è che serve davvero? L’imprenditore di cui sopra dirà: leggere libri non serve e basta. Ergo, se io leggo libri, “io non servo”.

Attenzione, però. Dire “io non servo” non significa soltanto questo. Può anche indicare che di fronte a un comando, a un ordine, io posso sempre obiettare o disobbedire. Posso dire “io non servo”, ovvero “io non servirò”, “io non sarò un servitore”…

Da “Lezione 1: La profezia, ovvero Oscar Wilde”
Nella Ballata del carcere di Reading Oscar Wilde vergò quella che potremmo definire un’autoprofezia: “E lacrime straniere riempiranno per lui / l’urna della pietà da tempo infranta.” Oggi alla sua tomba – non più nel cimitero di Bagneux dove si trovava inizialmente (settima fila, diciassettesimo riquadro, undicesima tomba), ma a Père-Lachaise – si recano in tanti, tra cui molti stranieri in visita a Parigi. Ma al suo funerale, il 3 dicembre del 1900, erano presenti solo pochi amici e qualche giornalista. Secondo André Gide, dietro la bara economica c’erano sette persone, ma è probabile che ve ne fosse qualcuna in più. A trasportare il feretro fu un carro funebre malconcio con sopra impresso il numero tredici.

Anni dopo, il grande poeta portoghese Fernando Pessoa, che fu anche astrologo, come dimostrano migliaia di carte, lavorò molto sulle interpretazioni astrali della vita di Wilde. Cercò di individuare quali incroci tra i pianeti e il sole si fossero verificati in occasione degli eventi più importanti del suo percorso; e del grande irlandese stilò anche alcuni oroscopi. Pessoa era ossessionato da talune figure di letterati venuti prima di lui, come Dante, Shakespeare, Milton, Baudelaire e appunto Wilde, e studiava le loro mappe astrali quasi a voler provare tesi strane legate a trasmigrazioni. Con Shakespeare, ad esempio, probabilmente dovette accorgersi che, stando a una certa mappatura che utilizzava, la posizione del sole rispetto ai pianeti al momento della morte del drammaturgo corrispondeva esattamente a quella occupata dallo stesso astro nel giorno della sua nascita. Aveva condotto studi astrologici comparativi su Dante e Shakespeare, come per dimostrare che lo spirito dell’uno si fosse incarnato nell’altro.

Usava inoltre l’astrologia, Pessoa, per dar conto della vita e della morte dei suoi eteronimi, ossia delle persone, o maschere, a cui attribuiva le proprie poesie, tutte nate e morte in precisissime circostanze astrali. Tentava, infine, di predire anche il proprio futuro e calcolare la sua possibile data di morte. Fernando Pessoa sarebbe morto il 30 novembre del 1935. Oscar Wilde aveva lasciato il mondo il 30 novembre del 1900.

Wilde e Pessoa sono artisti della maschera, che vissero appieno la frizione neoplatonica dei contrari, ovvero la contraddizione che dà forza e significato alla vita. Wilde, in virtù di questi attriti, fu amato con passione e pure odiato con veemenza. Sfidò la morale del tempo e ne subì le conseguenze. “Chi vive più di una vita / più di una morte deve morire,” scrisse nella Ballata, ma poi ebbe in sorte di “sopravvivere” alla propria dipartita, forse solo grazie al coraggio con cui affrontò la condanna. Una condanna a due duri anni di lavori forzati per l’accusa di atti osceni gravi – reato che puniva i rapporti omosessuali tra uomini, anche se consensuali. Scontata la sentenza, fu costretto a fuggire all’estero in bancarotta, dimenticato dai tanti amici di un tempo e da una società che aveva assistito all’intera parabola della sua vita, dalla fama al dileggio fino all’ignominia.

Eppure ora, come suggerisce il biografo Richard Ellmann, noi “ereditiamo la sua battaglia mirata a realizzare finzioni supreme nell’arte, a legare l’arte al cambiamento sociale, a far incontrare l’impulso individuale e quello sociale, a salvaguardare quel che è eccentrico e peculiare da tentativi di standardizzazione ed epurazione, a rimpiazzare una morale improntata alla severità con una dettata dall’empatia”…

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LA MOSTRA In apertura, un’immagine di Euro Rotelli dedicata a Paul Auster. A Sacile (PN), la mostra New York, Paul Auster and me, un racconto fotografico di circa 90 immagini in bianco e nero che conduce il pubblico a perdersi tra le strade di Manhattan, senza itinerari prestabiliti: un invito a vivere la città più che a visitarla che trasforma la metropoli americana in un intreccio di letteratura e immagini. New York, Paul Auster and me è aperta a Sacile, a Palazzo Ragazzoni, da sabato 13 settembre fino al 5 ottobre, il progetto è a cura di Elena Cantori. Rotelli ha intrapreso questo percorso ispirandosi in particolare alla Trilogia di New York, dando forma visiva alle suggestioni dello scrittore recentemente scomparso.

Trump vs Maduro. Marines e navi da guerra all’attacco del Venezuela per uccidere

Prosegue in Venezuela, nella caserma dove si trova la tomba di Hugo Chávez, il processo di arruolamento alla Milicia Nacional Bolivariana, braccio dell’esercito creato nel 2008 dall’ex presidente scomparso.
Iniziata il 23 agosto, la chiamata alle armi avviene a fronte dell’enorme dispiegamento di forze militari statunitensi, già approdate in acque internazionali, alle coste del Paese. In merito ai reportage della stampa sudamericana, chiamati da Maduro a prepararsi per l’eventuale arrivo degli 8.000 Marines spediti dagli Stati Uniti, ufficialmente per operazioni contro il narcotraffico, ad arruolarsi sono perlopiù civili di ogni età, che però (dettaglio non trascurabile) non hanno mai impugnato un’arma.
Secondo quanto dichiarato da Maduro, l’obiettivo è quello di schierare circa 4,5 milioni di miliziani “in difesa della patria”, munendo contadini e operai di fucili e missili, “per difendere il territorio, la sovranità e la pace del Venezuela”. La replica di Trump non si è fatta attendere. La mattina del 3 settembre ha comunicato di aver dato l’ordine di affondare una nave al largo della costa venezuelana adducendo come motivazione che a bordo vi fossero “narcoterroristi”. Il presidente Usa ha anche affermato che il cartello a cui erano affiliati gli 11 uomini dell’equipagigo uccisi nell’attacco operi “sotto il controllo di Nicolas Maduro, responsabile di omicidi di massa, traffico di droga, traffico sessuale e atti di violenza e terrorismo negli Stati Uniti e nell’emisfero occidentale”.

Il video dell’attacco diffuso sui canali social di Trump

“Ci dobbiamo preparare al peggio? Sempre. È una nostra condizione per affrontare qualsiasi cosa accada, per quanto difficile possa essere”, ha affermato il Ministro dell’Interno, nonché Segretario generale del Partito Socialista Unito del Venezuela (PSUV), Diosdado Cabello, nel corso del suo programma settimanale Con el mazo dando, trasmesso dalla tv di Stato. La platea era composta prevalentemente da militari, civili in abiti mimetici, oppure con bandiere e simboli del Partito. Gli esperti registrano che l’eccessivo dispiegamento di Forze militari, schierate dal presidente USA, sarebbero tuttavia incompatibili con il proposito di contrastare il traffico di sostanze stupefacenti verso gli Stati Uniti; in tal senso, navi equipaggiate con decine di missili BGM-109 Tomahawk a nulla servirebbero, oltre a intimidire il regime.
Il numero di Marines coinvolti nell’Operazione, al momento, ammonta a 4.500 uomini, in procinto di raddoppiare, senza contare le navi da comando e supporto anfibie USS Fort Lauderdale e USS San Antonio, la portaerei USS Iwo Jima e un’altra equivalente, la USS Boxer, che trasporterebbe dei caccia, in arrivo proprio nelle prossime ore. L’aggiunta di un sottomarino nucleare, inoltre, farebbe presagire l’effettivo tentativo di un cambio di regime con la forza, mettendo in subbuglio l’intera regione.

In questo quadro, la portavoce della Casa Bianca, Karoline Leavitt, si è rifiutata di rispondere alle domande sul vero scopo delle azioni militari statunitensi nei Caraibi.
Ha ribadito, però, che il governo Trump non riconosce Maduro come legittimo presidente del Venezuela, classificandolo “latitante dalla giustizia statunitense.
“Quest’azione, imprudente e irresponsabile, mette a rischio non solo il Venezuela, ma tutti i Paesi dell’America Latina e dei Caraibi. Non è solo una minaccia per il nostro Paese, ma per tutti”, ha sottolineato l’ambasciatore venezuelano a Trinidad y Tobago, Álvaro Sánchez Cordero.
La possibilità di un’invasione imminente, e non solo di una semplice intimidazione, viene paventata anche dall’opposizione, dentro e fuori dal Paese. L’ex sindaco di Caracas, Antonio Ledezma, ad esempio, ha riferito all’emittente colombiana Blu Radio che gli Stati Uniti non dispiegano navi da guerra al largo delle coste caraibiche perché i Marines “vadano a vedere i delfini”.

Sfuggito al regime di Maduro, Ledezma, che vive a Madrid, appartiene alla lunga schiera degli oppositori arrestati senza alcun capo di accusa, come il cittadino italiano Alberto Trentini, cooperante veneziano. Denunciato a più riprese da Human Rights Watch e Amnesty International, il regime di Maduro mantiene nelle sue carceri ben 816 prigionieri politici; stando ai dati dell’ONG Foro Penal, vi sono 720 uomini e 96 donne, di questi, 676 sono civili e 170 militari, mentre la sorte di 45 detenuti è sconosciuta. Quattro di loro sono adolescenti, di età compresa tra 14 e 17 anni, arrestati durante la repressione delle proteste seguite alle elezioni presidenziali del 28 luglio 2024. Per la maggior parte, gli oppositori sono chavisti, anche sindacalisti, critici del regime, dunque accusati di “terrorismo” e “tradimento della patria”, ma senza alcuna prova.

Gli USA e la nuova escalation
Il 7 agosto, l’amministrazione di Donald Trump ha aumentato a 50 milioni di dollari la ricompensa per informazioni che portino alla cattura di Maduro, accusato di guidare il cosiddetto Cartel de los Soles, termine coniato dalla stampa, che si riferisce alle stelle dorate indossate sulle spalline dei generali della Guardia Nazionale Bolivariana (GNB). Fu utilizzato per la prima volta nel 1993, quando due generali della guardia, il capo della squadra antidroga Ramón Guillén Dávila e il suo successore, Orlando Hernández Villegas, furono indagati, processati, ma poi assolti per traffico di sostanze stupefacenti.
Per Jeremy McDermott, co-fondatore e co-direttore di InSight Crime, una fondazione che studia la criminalità organizzata nelle Americhe da decenni, Maduro non sarebbe il capo dell’organizzazione, perché non si tratta di un gruppo con una gerarchia definita, bensì di una “rete di reti”, che facilita il narcotraffico e ne trae profitto, composta da membri dei più diversi strati militari e politici del Venezuela.
Dello stesso avviso è Phil Gunson, analista senior dell’International Crisis Group. “Non esiste nulla del genere, quindi Maduro non può certo essere il loro capo” dichiara l’esperto. Secondo le sue fonti, ciò che emerge in Venezuela è la “complicità tra individui legati al potere e alla criminalità organizzata”, eppure “non sono mai state presentate prove dirette e incontrovertibili” di un’organizzazione criminale “tipica”, come quelle presenti in Messico o Colombia, con una gerarchia scrupolosa.

Per il governo degli Stati Uniti, invece, Nicolás Maduro e il suo vice, Diosdado Cabello, ne sarebbero i capi, responsabili perciò del diretto arruolamento di dipendenti statali e militari per distribuire sostanze stupefacenti in Europa e negli Stati Uniti. Oltre a questa equazione, che già di per sé è complessa, il Cartel de los Soles avrebbe siglato alleanze con gruppi armati illegali colombiani, come l’Ejército de Liberación Nacional (ELN), considerato uno dei gruppi di guerriglia più longevi dell’America Latina.
L’ELN opera principalmente nelle zone montuose e remote della Colombia, nonché al confine con il Venezuela, come Catatumbo (Norte de Santander), la regione del basso Cauca di Antioquia e il sud di Bolívar.

“Il Venezuela, ormai, è diventato uno Stato narco-terrorista, che persiste a collaborare con le FARC e l’ELN per inviare quantità record di cocaina dal Venezuela e dalla Colombia ai Cartelli messicani, che continuano a entrare negli Stati Uniti in volumi senza precedenti”: queste le parole del direttore della DEA, Terry Cole, il 21 agosto.
A gennaio, il presidente colombiano Gustavo Petro ha dichiarato lo “stato di emergenza” nella frontiera con il Venezuela a causa dell’intensificarsi della violenza nel delta del fiume Catatumbo. Gli scontri tra l’Esercito di Liberazione Nazionale (ELN) e il Fronte 33, un gruppo dissidente delle defunte Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (FARC), hanno causato decine di morti, per non parlare di oltre 32.000 sfollati. A quel punto, Petro ha interrotto i colloqui di pace con l’ELN, classificandolo come gruppo criminale e terrorista.
In seguito, il governo colombiano ha schierato ben 300 unità delle Forze speciali al fine di neutralizzare gli scontri nella zona e contribuire a garantire la sicurezza dei civili. Ciononostante, la misura è stata ritenuta insufficiente dalle comunità e dai leader sociali, che l’hanno aspramente criticato nel corso di una visita. Giovedì scorso, Petro ha annunciato l’invio di 25.000 militari a Catatumbo, a seguito dei 15.000 militari già spediti da Maduro, subito dopo l’annuncio dell’invio di navi da guerra dagli Stati Uniti.
Colombia e Venezuela condividono un confine lungo e travagliato di oltre 2.200 chilometri.
Intervenendo durante una riunione di Gabinetto dedicata alle questioni di sicurezza, Petro ha sottolineato che gli Stati Uniti rischiano di provocare un disastro con il loro ultimo dispiegamento navale nei Caraibi. “Stanno trascinando il Venezuela in una situazione simile a quella siriana, con l’aggravante del coinvolgimento anche della Colombia”, disse.
Petro ha altresì sollevato lo spettro dello sfruttamento delle risorse, suggerendo che il dispiegamento militare statunitense è motivato dal controllo delle vaste riserve di petrolio e minerali del Venezuela. “Si approprierebbero delle ricchezze del sottosuolo e dei minerali, e questo significherebbe più morte che vita”, ha aggiunto.

La maggior parte del traffico di droga via mare arriva negli Stati Uniti attraverso il Pacifico, e non l’Atlantico, dove Trump ha schierato le navi statunitensi. L’Office on Drugs and Crime dell’ONU, nel documento intitolato Global Cocaine Report, del 2023, cita dati della stessa DEA statunitense a dimostrazione del fatto che il 74% della cocaina che approda in Nord America, proveniente dal Sud, viene trafficata attraverso il Pacifico; in più, gran parte della roba arriva attraverso i Caraibi clandestinamente.
In risposta alle manovre militari statunitensi, martedì 26 agosto, il Venezuela ha lanciato un appello all’ONU. Nello specifico, in un comunicato, il Ministro degli Esteri Yván Gil ha espresso la sua preoccupazione per le azioni intraprese dall’amministrazione Trump contro il Paese. In questo scenario, lo schieramento militare degli Stati Uniti “costituisce una grave minaccia alla pace e alla sicurezza regionali”, una decisione che contraddice l’impegno storico delle Nazioni “alla risoluzione pacifica delle controversie” ha puntualizzato.

Trump e il ritorno alla Guerra fredda: colpire il regime di Maduro per demarcare il territorio
Tra il 2018 e il 2019, la frequente presenza di aerei militari russi in Venezuela, per eseguire manovre militari a Caracas in caso di un eventuale attacco armato contro il Paese, aveva suscitato forti reazioni nel primo governo Trump. Mike Pompeo, l’allora Segretario di Stato, aveva definito l’operazione “uno scambio tra due governi corrotti che sperperano denaro pubblico.
In particolare, nel 2019, Trump aveva annunciato il sostegno degli USA a Juan Guaidó, il deputato di Estrema destra autoproclamatosi presidente del Venezuela, nonché forte sostenitore di un intervento militare statunitense nel Paese. Convinto di aver piazzato un suo fantoccio, il presidente statunitense aveva dichiarato l’apertura di “una nuova epoca in America Latina”, secondo cui, “nel Venezuela e in tutto l’emisfero occidentale”, il Socialismo sarebbe stato sepolto.

Il Consigliere per la sicurezza nazionale del primo governo Trump, John Bolton, aveva escluso l’ipotesi di un intervento militare per rovesciare Maduro, forse convinto che i militari, schierati a fianco del regime, avrebbero accolto l’ultimatum dato da Donald Trump alle Forze armate di Caracas, voltando le spalle al caudillo.
Dopo il fallimento del tentato golpe, Maduro non mancò di sottolineare il forte sostegno, anche militare, ricevuto dalla Russia. Così, il 5 luglio scorso, durante le celebrazioni per il Giorno dell’Indipendenza del Venezuela, il dittatore dichiarò che il suo governo avrebbe promosso lo sviluppo di sistemi missilistici e antimissile con l’aiuto di Putin. L’annuncio, non confermato però dalla Russia, è stato rafforzato da una parata, che ha esposto le attrezzature militari acquisite dal Cremlino, durante il boom petrolifero.
Fatto sta che, a oggi, il Venezuela detiene la più grande riserva di petrolio al mondo, con circa 303 miliardi di barili.

Secondo un rapporto pubblicato dall’ONG Transparency Venezuela, si è protratto il commercio di petrolio con la Russia, nonostante le sanzioni dell’Office of Foreign Assets Control (OFAC). Inoltre, la China Concord Resources Corp ha iniziato a sviluppare due giacimenti petroliferi venezuelani, pianificando di investire più di 1 miliardo di dollari in un progetto che produrrà 60.000 barili di petrolio greggio al giorno, entro la fine del 2026. In tutto ciò, i dazi del 25% applicati dagli USA a chi compra petrolio o gas dal Venezuela sono stati sostanzialmente ignorati dai Paesi appartenenti al BRICS.
In questo contesto, la posizione del Brasile sulla delicata situazione è di massima cautela.
Nonostante il governo Lula non abbia riconosciuto la legittimità della rielezione di Maduro, vi è comunque il fondato timore che l’instabilità politica e militare del vicino si aggravi, provocando l’aumento del flusso migratorio verso il Brasile e la Colombia, due dei Paesi più colpiti dalla grave crisi umanitaria ai confini con il Venezuela.
Finora, però, il governo Lula non ha reso dichiarazioni ufficiali riguardo l’escalation tra i due Paesi. Anche l’Uruguay e il Cile, due Paesi a guida progressista, che non esitano a condannare il regime di Maduro, non si sono pronunciati. Argentina, Paraguay, Equador e Peru, guidati da partiti di destra, hanno etichettato il Cartel de los Soles un’organizzazione terrorista, affinché potessero facilitare un’eventuale collaborazione statunitense, con conseguenze imprevedibili per l’intera America Latina.

Il giocattolo di Salvini trema: il Ponte non è una spesa militare

Toh, che sorpresa! La Nato vuole i soldi veri, niente finanza creativa. A Bled, il 2 settembre, l’ambasciatore Usa presso la Nato Matthew Whitaker ha gelato i contabili di Palazzo Chigi: l’obiettivo del 5% chiesto da Trump riguarda «specificamente la difesa e le spese correlate», non «ponti privi di valore strategico-militare» né scuole. Traduzione: stop a infilare il Ponte sullo Stretto nel capitolo Difesa per far quadrare i numeri. 

Per Meloni è un problema politico e contabile. Per mesi il governo ha ammiccato alla classificazione “strategica” dell’opera da 13,5 miliardi, arruolando il cantiere nella retorica della sicurezza nazionale e internazionale; Salvini ha parlato di «doppio uso», civile e militare, per spingere la pratica. Ora Washington risponde che la lista della spesa è fatta di truppe, mezzi, munizioni, e cyberdifesa. Il resto sono «stravaganti opere di ingegneria». 

E così il Ponte, da scorciatoia contabile, torna a essere quello che è: un gigantesco impegno di cassa senza marchio Nato. In soldoni, costa il doppio: perché l’Italia dovrà mettere i 13,5 miliardi sull’infrastruttura e, in aggiunta, trovare risorse vere per colmare il divario verso il 5% del Pil. Fine dell’alchimia. Inizia la responsabilità: dire agli italiani chi paga, con quali priorità e perché l’emergenza vera — salari, scuole reali, sanità — viene sempre dopo il giocattolo del «bambino Salvini».  Da Bled la smentita: la Nato vuole capacità reali, non slogan; i conti truccati non fanno deterrenza.

Buon mercoledì. 

Trump, il «capolavoro» che regala a Xi le chiavi del mondo

Donald Trump rivendica «l’arte dell’accordo», ma a forza di trattare per la foto di copertina ha dato a Xi Jinping le chiavi dell’ordine globale. L’incontro con Putin, venduto come discontinuità, ha sdoganato il Cremlino dall’angolo delle sanzioni e consegnato a Pechino un partner rivitalizzato, libero di giocare la partita anti-occidentale senza pagare il prezzo dell’isolamento. Il risultato non è una pace: è una resa.

Il «capolavoro» è tutto qui. Trump ha smontato, pezzo dopo pezzo, il perno atlantico costruito dagli Stati Uniti. Ha messo in saldo la sicurezza europea e trasformato l’Ucraina in moneta di scambio, mentre Xi e Putin incassano il dividendo: un asse che propone un nuovo ordine, meno regole condivise e più sfere d’influenza.

Il resto è propaganda. Mentre a Washington si celebra l’«accordo storico», a Mosca si brinda alla fine dell’isolamento: a Putin è bastato presentarsi per tornare interlocutore inevitabile. A Pechino, invece, si pianifica. La Cina ottiene tempo e margini: guida il sud globale, attira capitali fuori dal dollaro, fissa norme alternative per infrastrutture e tecnologie. E gli alleati europei restano senza bussola, costretti a negoziare da deboli su energia e sicurezza e tecnologia. E l’Europa paga il conto: una Nato più fragile, mercati nervosi, diritti ridotti a pedine sulla scacchiera delle concessioni.

Non è realpolitik: è miopia. Un presidente che scambia le luci del palco per politica estera ha regalato ai rivali ciò che inseguivano da anni. Chiamarlo capolavoro è corretto solo se si aggiunge l’aggettivo: fallimentare.

Buon martedì. 

 

Foto di rob walsh su Unsplash