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Meloni urla perché la manovra tace

C’è un nervosismo che trapela dalle parole di Giorgia Meloni, e non basta l’alzata di voce in Parlamento per mascherarlo. Massimo Franco sul Corriere della Sera parla di «toni virulenti per coprire le ambiguità sulla politica estera». È la fotografia di una premier che agita lo scontro con l’opposizione per evitare che si guardi dietro il sipario.

E dietro il sipario c’è una manovra finanziaria senza fiato: un manuale di sopravvivenza burocratica, nessun orizzonte sociale, tanta prudenza per non scalfire equilibri interni e un solo capitolo che cresce davvero, quello delle armi. L’Italia che doveva risorgere «potenza rispettata nel mondo» è rimasta una comparsa nei desiderata instabili di Donald Trump e nei compitini assegnati da Bruxelles. Meloni prova a mostrarsi ferma sull’Ucraina, ma deve continuamente rispondere ai maldipancia della Lega che in Aula contesta gli aiuti militari accusandoli di togliere risorse alla sanità. Se deve smentire Claudio Borghi in diretta è perché lo strappo rischia di diventare voragine.

Intanto, gli impegni simbolo evaporano: tagli alle tasse promessi a ogni telecamera, cantieri sbandierati e poi rinviati, salari reali fermi mentre l’inflazione rosicchia. La politica estera si riduce a faccette accanto ai potenti, tra una sigaretta e la posa successiva. L’idea di un’Italia guida si è rivelata una coreografia di immagini. La manovra, che dovrebbe essere la prova di maturità di un esecutivo, diventa un compitino di mantenimento. Meloni alza i toni per riempire un vuoto che cresce. E il vuoto, in politica, è l’unica cosa che non si può urlare via.

Buon giovedì. 

foto gov

In piazza c’è l’Italia che resiste al governo Meloni

Le ultime scene pervenute dalle piazze italiane rimettono sul tavolo un grosso interrogativo, che ha cominciato a diventare argomento di discussione fuoriuscendo dai soliti circoli accademici o “d’area”, che ruota intorno a un concetto, “repressione”. Il tema in realtà è stato dibattuto conquistando a poco a poco una platea più ampia partendo da ciò che ha rappresentato un punto di svolta, ovvero l’approvazione del cosiddetto “Decreto Sicurezza”, ormai legge.

Una legge che ha sollevato vari interrogativi, prima di tutto di ordine costituzionale: è possibile che anche la disobbedienza civile, come i sit-in per strada o sui marciapiedi, lo sciopero della fame in carcere, le azioni degli attivisti climatici, il tutto preceduto dalla famosa norma anti-rave, possano diventare, da esternazione di opinioni e azioni di dissenso, reati? Ed è possibile che nello scontro fra cittadino e forze dell’ordine, nell’eventuale processo, la tutela degli agenti sia affidata allo Stato, mentre il cittadino paga di tasca sua? Dov’è finito il principio squisitamente liberale dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge? O forse c’è qualcuno che gode di un principio di diseguaglianza, ma a proprio favore?

Naturalmente gli interrogativi non si fermano qui, ma sono già abbastanza numerosi, numericamente e qualitativamente, per mettere in luce quanto la fiducia collettiva della comunità nelle istituzioni e nelle sue rappresentanze d’ordine possano trovarsi, per la prima volta dopo decenni in questo Paese, distanti. Uno stato d’animo che ben risulta, solo per fare un esempio, da alcune riflessioni di un cittadino che si è trovato, con migliaia di persone, a manifestare a Udine il proprio dissenso per la partita Italia-Israele. Al di là della condivisione o meno delle posizioni espresse infatti, c’è qualcosa di diverso che emerge dalle sue considerazioni inviate al giornale, e che riguarda un tema delicatissimo, ovvero quello delle relazioni Stato-Cittadino. Un tema che in tempi non sospetti veniva declinato dall’ex giudice Beniamino Deidda, nei suoi interventi sul sistema sicurezza inaugurato dal governo, come un rischio di frattura della fiducia fra popolo e istituzioni. Un vulnus grave, in un sistema democratico almeno.

“Sarà ingenuità o semplice fortuna – scrive il nostro lettore, manager aziendale – ma in una quindicina d’anni di cortei e manifestazioni manganellate addosso, piene, dritte, sanguigne, io non le avevo mai prese. Ieri sera a Udine è successo per la prima volta (…) È successo mentre con un minuscolo gruppo di manifestanti di mezza età ci nascondevamo dietro alla pensilina dell’autobus tentando di parare i colpi secchi dell’idrante sparato a fiotti sulla folla. È successo mentre pensavamo di essere al sicuro, immobili, inermi, con le braccia alte sul vetro di sostegno della balaustra e a decine di metri dal cordone di sicurezza della Polizia di Stato (….) Quello che resta invece è la nitida convinzione che in piazza sia morto l’ennesimo brandello di libertà al dissenso, ammutolito sotto la pioggia battente di zelo violento e cameratismo tossico istituzionalizzato (…)”.

E’ su questo punto, sulla questione strutturale che riguarda la frattura che si sta producendo fra una massa che sente di avere il diritto di esprimere il dissenso e un sistema che invece si fa sempre più funzionale alla erosione-negazione del suo esercizio, con continue giustificazioni legate all’attività di gruppuscoli violenti, che ci rivolgiamo al sociologo Vincenzo Scalia, professore associato di Sociologia della devianza dell’Università di Firenze. Il tema è: quanto può reggere una democrazia alla riqualificazione del dissenso come reato? Il problema, tutto sommato, riguarda anche il consenso, partendo da un segnale inquietante per ogni democrazia, che possiamo sintetizzare così: piazze piene, urne vuote.

Intanto, per chiarire un punto di cui molto si parla ma spesso si dà per scontato, il primo passo è capire di cosa si sta parlando. “La repressione può essere definita come l’insieme di quelle pratiche che mirano a rimuovere o addirittura a soffocare del tutto ogni tentativo di manifestazione o espressione di un punto di vista diverso. O quantomeno di ridurlo”, spiega il professor Scalia. In sintesi, possiamo anche dire che è il tentativo di annullare il dissenso, ovvero il “sentire diversamente” di qualcuno rispetto a qualcosa. “Nell’accezione in cui la stiamo intendendo, la repressione è fare ciò (ovvero attivare strumenti contro il dissenso) facendo leva su mezzi di coazione. La repressione psicologica è altro”.

Tenendo conto di questo, il secondo passo, per capire il meccanismo che induce la gente a diffidare della politica intesa anche come istituzioni, potrebbe essere il seguente: c’è corrispondenza fra repressione e disaffezione alla vita democratica, il cui momento maggiore in un sistema costituzionale liberal-democratico universale sono le elezioni? Ovviamente, il tema è complesso, ed è in questo senso che considerazioni come quelle riportate poco sopra possono far suonare l’allarme. Ma è possibile che la crisi parta proprio dalla restrizione dello spazio del dissenso?

“Comunque sia, si allarga sicuramente il divario fra popolo e rappresentanza politica. Più c’è possibilità di esprimere le proprie posizioni e anche di rivendicarle, maggiori sono le possibilità che il dissenso venga incorporato all’interno delle istanze politiche, maggiore è la legittimità che i cittadini attribuiscono alle istituzioni. Viceversa, se questo processo si innesca al contrario, è ovvio che si va incontro a una delegittimazione da parte dei cittadini nei confronti delle istituzioni”. Basta vedere ciò che succede ad esempio in Irlanda del Nord, quando la minoranza cattolica repubblicana veniva repressa, suggerisce il professore. “Con il Bloody Sunday, l’Ira, considerata dai più un residuato bellico, conosce di colpo una seconda esistenza. Se nel ’72 si diceva “IRA I Ran Away”, dopo il Bloody Sunday la partecipazione alla lotta armata cresce esponenzialmente. I neri americani, dopo l’omicidio di Martin Luther King, ingrossano le fila del Black Panther Party”.

Il paradosso insomma non è per niente un paradosso: l’esclusione violenta delle classi sociali che portano avanti richieste anche elementari come pace, lavoro, maggiore equità nella distribuzione della ricchezza e nelle chances, sicurezza tout court (anche questa è infatti nella sua declinazione ultima un’istanza sociale) crea rivalsa violenta. Gli esclusi dal sistema cercano di entrare nel sistema con altri mezzi. La debolezza apparente delle democrazie è anche la loro forza: essere capaci di inclusione sotto la credibilità di regole comuni. Ma se le regole vengono usate “contro”, classi sociali, gruppi di interesse, diritti, il magico gioco rischia di andare in frantumi.

Urne vuote segnale da non sottovalutare quindi? “Diciamo che il problema è più complesso di quanto appaia. La diserzione alle urne (evidente anche nell’ultima mandata elettorale della civilissima Toscana, ndr) può essere agganciato da un lato anche al riflusso che ha segnato il ritiro diffuso delle persone nel proprio privato in seguito alle sconfitte delle utopie dei movimenti degli anni Settanta; dall’altro lato, troviamo partiti che parlano di governo dell’esistente, di elettorato di opinione, creando una sfera che tende ad escludere fasce sempre più ampie di elettori. Ci chiediamo dunque il motivo per cui la gente vota di meno, ma va in piazza? Nelle piazze non c’è bisogno di una legge elettorale per partecipare, ci vanno tutti. Nelle urne ci sono leggi elettorali che ad esempio, mettono il limite della raccolta firme per presentare una lista, oltre al fatto che una campagna elettorale richiede non solo finanziamenti ma anche l’accesso a spazi che non sempre vengono concessi; di conseguenza, la gente va in piazza perché in piazza conta. Punto. Almeno fino a quando non metteranno il divieto di adunata sediziosa”.

“Whole”: un’esperienza interdisciplinare tra arte, performance e visione

All’Another Studio di Roma è andato in scena WHOLE 3:Pain(Ted) Love, terza parte di un ciclo ideato e organizzato dall’artista e produttore musicale Roberto Capanna (presente anche con proprie opere alcune delle quali inedite ndr), con la direzione artistica di Alice d’Amelia. Questa volta gli artisti e i performer si sono confrontati direttamente con il conflitto e l’elaborazione del dolore (Pain) in relazione all’amore (Love), ultimo capitolo necessario per l’articolazione di un macro-tema complesso che vuole affrontare le dinamiche del ciclo vita-morte-rinascita, focalizzandosi sulla elaborazione emotiva di questi momenti.

L’elemento centrale di Pain (Ted) Love Whole 3 è già nel titolo: un gioco di parole che lega intrinsecamente il dolore (Pain) all’atto di dipingere e all’amore (Love), inteso come “energia creativa e contrasto vitale”, che viene rappresentato, ma anche “agito” nelle performance degli artisti, (qui chiamati a presentare le loro opere in percorsi personali portando una propria specificità anche nella progettazione degli spazi ndr).

“Universal order” è una riflessione sulla condizione umana, un invito a riscoprire il legame invisibile che unisce ogni essere vivente. Autrice della tela (in foto) è Marilina Succo, attrice diplomata all’Accademia di arte drammatica con ruoli in film e fiction (La bella estate, Giustizia per tutti), attività che affianca stabilmente a quella di artista multimediale, passando dalla pittura alla scultura e al teatro, come testimonia anche la bella performance nella quale Marilina Succo strappa pezzo dopo pezzo uno striscione sul quale campeggia la scritta: Fino a che punto sei disposto a dire sì?, un suo lavoro in cui scava nella profondità dei rapporti.

Ma veniamo all’oggi, in questa nuova tela di Marilina Succo la ripetizione dei volti identici diventa simbolo dell’infinità dell’umanità, ma anche del suo cuore condiviso: un battito universale che pulsa al di là delle differenze. Ogni volto, pur nella sua apparente uniformità, ci ricorda che dentro ciascuno scorre la stessa scintilla di vita, lo stesso bisogno di amore, di riconoscimento e di appartenenza.

Al centro della composizione vi è un piramide, realizzata con un delicato filo di stoffa arancione, potente “metafora della stratificazione sociale”. Ma in questa rilettura, quel filo sottile può essere anche interpretato come il filo dell’amore che tenta di collegare i diversi livelli dell’esistenza umana.

“La sofferenza dei più vulnerabili non è più solo conseguenza di un sistema ingiusto, ma anche un richiamo al risveglio dell’amore: un invito a guardare l’altro non come un estraneo, ma come parte di noi” – scrive la Succo, suggerendo che: “Solo attraverso questo sguardo empatico – libero da giudizio e paura – si può intravedere la possibilità di una vera rinascita collettiva.”

Sveva Angeletti invece ha realizzato un’installazione ambientale  effimera, con cui si interroga sul fragile confine tra corpo ed emozione. La sua ricerca artistica affonda le radici nell’osservazione e nell’analisi delle relazioni interpersonali. I temi centrali della sua poetica sono il tempo e lo spazio, intesi come palcoscenici delle connessioni umane – in particolare tra gli attori che compongono il microcosmo del mondo dell’arte. Il suo tocco, ironico e provocatorio, incuriosisce lo spettatore e apre la strada a molteplici livelli di interpretazione: da un primo senso di divertimento ludico – un inganno visivo o un ricordo nostalgico – a una consapevolezza riflessiva che talvolta sfiora il disagio esistenziale.

In Ricordo le mani, la loro superficie l’artista, attraverso una narrazione intima, prende come punto di partenza la sindrome di Takotsubo (nota anche come “Cardiomiopatia da stress” o “Sindrome del cuore spezzato” , è una condizione cardiaca acuta e generalmente transitoria, scatenata da un intenso stress emotivo o fisico). In questa condizione, un dolore improvviso deforma il cuore, come se la materia stessa si piegasse al sentimento. Il lavoro si articola anche in un paesaggio sonoro che si diffonde dall’interno di alcuni vasi appesi al soffitto di una stanza vuota: un elettrocardiogramma che si trasforma in onde e battiti digitali. Un cuore che continua a parlare attraverso il suono della sua memoria.

Ed ecco MMarla (pseudonimo), una giovanissima artista romana. Il suo linguaggio artistico usa un oggetto quotidiano e apparentemente insignificante come lo scontrino come mezzo simbolico e concettuale. Per MMarla, l’arte è uno strumento libero e potente, capace di incarnare momenti e missioni di riscatto personale e collettivo. Lo scontrino nelle sue mani diventa una metafora di una società mercificata e, allo stesso tempo, una critica al consumismo dilagante e una denuncia della svalutazione della creatività.

L’evento Pain(Ted) Love Whole 3 si rivela, nella sua strutturazione, un esperimento curatoriale di successo nella gestione di un tema complesso. La direzione artistica di Alice d’Amelia ha saputo orchestrare un percorso in cui l’impatto critico non deriva dalla somma delle singole opere, ma dalla tensione dinamica e dalla complementarietà delle poetiche.

in apertura foto di Marlina Succo davanti al suo quadro, foto di Giacomo Nicita

L’autore: Lorenzo Pompeo è slavista, traduttore, saggista e docente universitario. Per i tipi di Left ha pubblicato il libro Carlo Levi, vita di un antifascista, medico e artista 

Senza le donne non ci sarebbe stata Resistenza

La partecipazione delle donne alla Resistenza ha sempre occupato un’area marginale rispetto alla Storia con la S maiuscola.Senza le donne non ci sarebbe stata la Resistenza”, ripeteva Lidia Menapace. “Abbiamo rischiato come gli uomini, ma allora in tanti ci guardavano male. E il giorno della Liberazione ci chiesero di non sfilare”. Oggi diamo per scontato i volti sorridenti e felici di donne che, in centinaia di foto, ci ricordano i giorni della liberazione e imbracciano i fucili accanto ai partigiani con cui hanno combattuto. Ma queste foto, per molti anni, sono state oscurate, dimenticate, a raccogliere polvere negli archivi.

Ancora meno nota o, meglio, meno battuta, è la produzione resistenziale d’autrice. Ma sfogliare Scritture partigiane. La resistenza nella letteratura d’autrice, edito da Stilo Editrice, saggio di esordio di Annachiara Biancardino direttrice di Les Flaneurs Edizioni, ci restituisce, per fortuna, pagine dense e non comuni di una narrativa dalle linee particolari, emotivamente cariche e suggestive, lontane dalla retorica tradizionale perché, dice Biancardino nell’introduzione, “la produzione delle donne si colloca in una posizione di frontiera: da un lato, contribuisce a tramandare una memoria indispensabile per la nostra identità nazionale, dall’altro, la rielabora criticamente, denunciando le diseguaglianze (in primis di genere) che la caratterizzano. Il doppio movimento di conservazione e di sovversione la rende un osservatorio privilegiato per l’analisi del legame tra narrazione e memoria, privato e politico, Storia e storie.”

Le pagine di Scritture partigiane non rappresentano, quindi, un semplice viaggio nella Resistenza, non sono racconti di fatti o gesti eroici, ma una raccolta di memorie che assorbono vita e calore dagli aspetti intimi e privati, annodandosi al periodo storico. Una capacità di raccontare, al femminile, il modo in cui la vita partigiana viene vista e vissuta.

Una visione decisamente alternativa alla narrazione tradizionale maschile che Biancardino esplora nei testi, noti e meno noti, scelti per raccontare la sua Resistenza. Sfilano, in un ordine significativo che arriva fino ai giorni nostri. L’Agnese va a morire di Renata Viganò, tra le pagine più belle e convincenti dell’esperienza umana e storica uscite dalla Resistenza; le testimonianze autobiografiche di Ada Prospero Gobetti in Diario partigiano e di Gina Lagorio in Raccontiamoci com’è andata; Dalla parte di lei di Alba De Cespedes e Tetto murato di Lalla Romano, che hanno in comune, nella diversità, quello di riuscire a coniugare la dimensione intima, privata con quella politica della lotta antifascista. E infine i romanzi contemporanei di Paola Soriga, Dove finisce Roma, di Nicoletta Verna, I giorni di vetro e di Simona Baldelli Evelina e le fate che ci aiutano a comprendere quanto dell’eredità partigiana possa tornare a vivere nella letteratura dell’oggi.

La cultura della Resistenza mi ha sempre appassionato – mi racconta l’autrice – così come sapevo, nella produzione letteraria e non solo, della mancanza di considerazione, di rispetto nei confronti delle donne. Mi era nota attraverso gli uomini, per esempio Beppe Fenoglio che ne I ventitré giorni della città di Alba racconta proprio di come alle partigiane veniva chiesto di non sfilare con i partigiani per le celebrazioni del 25 aprile.

Scriveva Fenoglio: “Con gli uomini sfilarono le partigiane in abiti maschili e qui qualcuno fra la gente cominciò a mormorare: ‘Ahi! povera Italia!’ Perché queste ragazze avevano delle facce e un’andatura che i cittadini presero tutti a strizzar l’occhio. I comandanti, che su questo punto non si facevano illusioni, alla vigilia della calata avevano dato ordine che le partigiane restassero assolutamente sulle colline, ma quelle li avevano mandati a farsi fottere e si erano scaraventate in città”.

Poi ho letto – continua Biancardino – lo splendido saggio di Benedetta Tobagi, La resistenza delle donne (Einaudi), che ho amato tantissimo. Tobagi, per me, è una delle scrittrici da prendere in massima considerazione, oggi, e ho cercato di seguire la traccia del suo lavoro, ma nella letteratura. Per deformazione professionale vado sempre a cercare temi trattati in un’ottica letteraria e volevo trovare un saggio che affrontasse gli stessi contenuti, ma in questa prospettiva. Non esiste. Quindi, un po’ per egocentrismo, un po’ perché ho pensato ad una frase di Toni Morrison che gli autori con cui lavoro citano spesso: “se c’è un libro che vuoi leggere e non lo trovi, lo devi scrivere tu”, ho fatto mio il principio ed eccomi qua.

Come hai scelto le autrici?

Io non sarei stata in grado di operare una scelta, perché le autrici di questo genere in realtà sono molte, alcune amatissime come Joyce Lussu, sulla quale peraltro è stato scritto parecchio. Ma io non volevo creare un canone, semmai realizzare un viaggio personale e concentrarmi su scrittrici dimenticate, poco note o addirittura mai conosciute. Viganò, per esempio è famosa ma dimenticata, sembra che i ragazzi non la conoscano affatto; Gina Lagorio è un’autrice di nicchia, poco frequentata. Questo è un motivo. Un altro è che, siccome era difficile fare una selezione per nome, ho scelto quegli aspetti dell’esperienza partigiana che mi hanno particolarmente colpito come il maternage, la post-memoria, l’idea del sacrificio, e quindi le scrittrici che si prestavano meglio a indagare questi temi.

A proposito di temi, tu parli della staffetta come una “maschera tradizionale” associata di solito nella cultura di massa alla Resistenza femminile.

Una delle cose che mi ha sempre colpito è che, quando si parla delle donne partigiane e vai a guardare le locandine dei film o le copertine dei libri, c’è sempre questa immagine della donna in bicicletta, la staffetta. La bicicletta è diventata il simbolo della resistenza femminile. “Maschera” perché le staffette partigiane hanno dovuto spesso, mettere una maschera, “recitare” o “improvvisare” nelle missioni più rischiose, come quella di truccarsi prima di mettere una bomba, come raccontò Teresa Mattei in una trasmissione televisiva. Per carità, è tutto giusto, è tutto corretto, ma le donne hanno fatto anche altro. Il fucile potrebbe essere un altro simbolo, perché le donne hanno combattuto, hanno lottato sulle barricate. Ada Prospero Gobetti sapeva sparare già dalla Prima guerra mondiale. Anche la penna può essere un simbolo, visto che molte di loro hanno scritto, hanno lasciato testimonianze. Non si possono creare stereotipi, quello della staffetta non è l’unica dimensione femminile di lotta possibile.

Anche il rifiuto della armi può essere una forma di ribellione non violenta oppure la cura dell’altro, il maternage, aspetti che tu ricordi.

Credo che il maternage – che è un aspetto legato a doppio filo con quello della maternità – sia il tema più diffuso nella memorialistica resistenziale ma anche il più delicato. In quasi tutte le testimonianze delle donne c’è questo richiamo forte. Sia tra le combattenti che tra quelle che non hanno combattuto necessariamente con le armi, l’accoglienza dei rifugiati, dare loro da mangiare, prendersi cura in generale degli uomini, dei partigiani era un fenomeno diffuso e acclarato. I partigiani erano felicissimi di fare le riunioni a casa di Ada Prospero, perché erano famosi i suoi spaghetti. Però questo del maternage, dell’atteggiamento materno, può diventare un tema scomodo, sul quale bisogna stare attenti e riflettere, perché rischiamo, anche questo caso, di creare un altro stereotipo e rinchiudere la donna al suo interno. E’ un tema sentito in tutte le donne che lo hanno vissuto, molte lo hanno rivendicato con forza, come Ada Prospero, nella cui scrittura emergono immagini della femminilità, della maternità intesa come accoglienza, molto belle e intense. Ma anche in questo caso vale il discorso che ho fatto per la staffetta: il maternage è una delle dimensioni femminili possibili, non l’unica. Altrimenti, una realtà come quella della procreazione, normalissima nella vita, rischia di diventare una convenzione precostituita. Dare la vita poi, nel senso di generare, se ci pensiamo può avere anche un altro significato, che è legato alla morte.

Cioè?

Quello di “dare la vita” per un ideale, di sacrificarsi, di morire. E’ un fatto che mi intriga, mi affascina non solo in relazione alle partigiane, ma in generale nei confronti della sfera femminile. Nel libro ho sottolineato come questi aspetti si fondono soprattutto ne “L’Agnese va a morire”. La protagonista diventa staffetta partigiana e poi “mamma Agnese”, prendendosi cura dei partigiani ma è consapevole, fin dai primi istanti, che andrà a morire. C’è un modo femminile diverso nell’affrontare la lotta e l’ho trovato descritto molto bene e in maniera esplicita nel romanzo di Nicoletta Verna “I giorni di vetro”. Verna è molto brava ad analizzare la differenza tra l’approccio femminile, donne che usano i sentimenti come carburante dell’azione, e quello maschile, che invece li rigetta. La dimensione affettiva delle donne, che riempie anche il maternage, è un altro aspetto da non sottovalutare così come la sessualità e la relazione uomo-donna nel partigianato. All’interno della Resistenza si è creata una specie di rivoluzione culturale in questo senso che, secondo me, ha fatto da apripista per quello che riguarda il rapporto fra i sessi. E’ un aspetto molto interessante da considerare. Noi donne siamo abituate a legare le nostre conquiste, le nostre consapevolezze al movimento femminista degli anni settanta, ma ignoriamo o non valutiamo sufficientemente che, se quegli anni sono stati cruciali per l’emancipazione femminile, lo si deve al contributo fondamentale delle partigiane, delle militanti, delle sindacaliste degli anni precedenti.

Nel tuo percorso narrativo, sei partita da autrici “storiche “ come Renata Viganò per arrivare a quelle più recenti, come Paola Soriga, Nicoletta Verna e di Simona Baldelli, trattando di un tema come la Resistenza che appartiene ad un periodo storico ben preciso e delimitato, e di cui molti non hanno memoria o al peggio, l’hanno persa. Che cosa è rimasto oggi della storia? Possiamo ritrovarla?

Io ho studiato da contemporaneista perché amo la letteratura contemporanea, altrimenti non avrei fatto l’editrice. E per me, studiare la scrittura contemporanea significa andare a scoprire le ricadute del passato nel presente. Con la scelta dei temi, di cui parlavo, ho cercato di andare all’origine, partendo dalla memorialistica, dalla letteratura resistenziale, per arrivare a ciò che resta nel presente. E ho notato che c’è un ritorno di interesse. Io ho fatto delle scelte tra le scrittrici, come dicevo, ma ce ne sono moltissime che si stanno interessando alle storia delle partigiane. Questo secondo me è molto significativo non solo perché stiamo vivendo una pessima stagione politica, ma anche perché c’è l’esigenza di recuperare una sorta di genealogia sommersa. E’ vero che a scuola ci hanno fatto studiare la Resistenza attraverso Calvino, Fenoglio, Pavese ma la mia formazione da scrittrice poi la faccio per i fatti miei, vado a recuperare la storia, la memorialistica.

Sono rimasta colpita dal titolo del romanzo di Walter Siti, Resistere non serve a niente (2012) che tra l’altro è un autore che a me piace molto, ed ho fatto una riflessione che non so quanto sia fondata. Un libro con quel titolo – qualche decennio prima – sarebbe stato criticato per un’associazione politica che però , in questo caso non è stata fatta. Perché è un titolo ed evidentemente la parola è stata completamente slegata dal contesto politico. Così come mi colpisce che oggi i ragazzi parlino di “resilienza” e non di “resistenza”. Io insegno alle matricole (Lingua italiana nella Ssml, Bona Sforza di Bari, ndr.), ragazzi che vanno dai 19 ai 25 anni al massimo. Nelle situazioni più disparate, per esempio la paura di un esame, dicono “Eh professore, dobbiamo essere resilienti!” Cioè, fanno una perifrasi, quando invece dovrebbero usare in modo naturale “dobbiamo resistere”. “Resistenza” è una parola che non appartiene al loro vocabolario ed è una grossa perdita, più che lessicale, semantica. Sono più che presa da questi argomenti che mi stimolano e sono alla base del mio metodo di lavoro.

Cosa ti aspetti dal tuo libro?

Spero di essere stata abbastanza brava nel creare qualcosa che aiuti ad allargare gli orizzonti di studio e non semplicemente ad aggiungere dei nomi ad una lista. A far scoprire aspetti sconosciuti, a risignificare, risemantizzare una storia. E’ il mio primo obiettivo e spero sia evidente. Il secondo è che le ragazze leggano e apprezzino questo lavoro, visto che prima ho parlato dei miei studenti. Questo lavoro lo dedico a loro con le parole di Alba De Cespedes: “alle ragazze, quelle con una ‘sensibilità pericolosa’ che si cercano nei libri e si specchiano nelle parole.”

In foto partigiane a Brera il 25 aprile 1945 wikipedia

Cisl, il nuovo statuto non scritto: vietato dissentire dalla premier

Ci sono sindacati che nascono per difendere chi critica il potere, e poi c’è la Cisl che oggi sembra premiare chi con il potere ci va a braccetto. Il caso raccontato da Domani in un articolo firmato da Daniela Preziosi è più di una vicenda disciplinare: è un test di resistenza democratica dentro un’organizzazione che si autodefinisce “pluralista”. Francesco Lauria, studioso del lavoro e figura interna di primo piano, rischia il licenziamento per aver osato sfiorare l’intoccabile: criticare il governo di Giorgia Meloni.

L’aggiornamento di un libro sulla storia della Cisl, con qualche passaggio critico verso l’esecutivo, diventa il casus belli di un procedimento che profuma di epurazione. Le pagine vengono “bonificate”, ma al ricercatore piovono 25 contestazioni, sospensioni cautelative, accuse perfino estratte da conversazioni private registrate e trasformate in armi disciplinari. Un clima da sorveglianza interna che in molti raccontano come «Germania Est».

Mentre ex segretari storici come Giorgio Benvenuto e Savino Pezzotta parlano di un «deterioramento delle tradizioni democratiche» della confederazione, la segretaria Daniela Fumarola tira dritto. È la stessa Cisl che oggi fa da sponda a Palazzo Chigi, con l’ex leader Luigi Sbarra comodamente arruolato come sottosegretario. Criticare Meloni nella “sua” casa sindacale non è più dissenso: è un rischio professionale.

Se un sindacato espelle chi contesta il potere politico a cui si avvicina, non sta solo tradendo la sua storia. Sta dicendo ai lavoratori che la libertà di parola è tollerata solo se applaude. E questa piccola storia è la fotografia perfetta del momento. 

Buon mercoledì

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Il basket è solo una scena del crimine. L’ideologia è il movente che nessuno nomina

Nel day after dell’omicidio di Raffaele Marianella, i politici hanno trovato subito il colpevole perfetto: lo sport “deviato”, le “frange violente del tifo”, la “malattia degli ultras”. Ministri e capigruppo hanno parlato di “barbarie dei tifosi”, di “criminalità da stadio”, di “emergenza sportiva”, come se bastasse recintare i palazzetti per arginare il male. Il frame è comodo: il tifo come patologia, il basket come territorio contaminato. Tutto dentro una comoda emergenza sportiva.

Poi scorri le biografie dei fermati e capisci che qui lo sport non è il punto di partenza, ma l’alibi. Manuel Fortuna, Kevin Pellecchia e Alessandro Barberini, arrestati per l’assalto al pullman in cui è stato ucciso Marianella, gravitano da anni in ambienti dell’estrema destra reatina. Almeno due di loro risultano legati all’associazione “La Roccaforte Rieti”, un gruppo che fa raccolte alimentari “solo per italiani” e diffonde simbologie fasciste. Nei profili social emergono immagini di Mussolini e slogan contro il 25 aprile. 

Altro che pulsione sportiva impazzita: questa violenza ha radici ideologiche, si alimenta in circuiti neofascisti che cercano legittimazione mimetizzandosi nelle curve. Ma su questo governo e maggioranza tacciono. Nessuno ha osato pronunciare la parola “estrema destra”, nessuno ha collegato il masso lanciato contro un parabrezza con un clima politico che da anni strizza l’occhio a certe simbologie.

Trasformare un omicidio a matrice neofascista in un problema di ordine pubblico sportivo è l’ennesimo modo per non guardare dove brucia davvero: nelle curve usate come palestra dell’odio politico. E in un Paese che finge di non sapere chi lancia i sassi.

Buon martedì 

L’israeliano Hadas, fondatore di Crime Minister: «Vi dico perché Netanyahu è il vero pericolo per Israele»

Dopo due anni di guerra a Gaza e di migliaia di vittime civili, Israele si confronta con una frattura profonda: quella tra sicurezza e democrazia, tra consenso e dissenso. Mentre il governo Netanyahu consolida il suo potere, anche alla luce dell’eredità politica dell’accordo di Trump, l’attivismo civile cerca ancora uno spazio per esistere. In questo scenario, la testimonianza di Ishay Hadas – figura di primo piano dell’attivismo politico contro il governo Netanyahu e tra i fondatori del movimento Crime Minister – offre uno sguardo dall’interno su un Paese attraversato da proteste, repressione e domande aperte sul futuro della democrazia.

Lei è tra i fondatori dell’associazione Crime Minister. Può raccontarci com’è nato il gruppo e quali sono i suoi obiettivi principali?
Il movimento Crime Minister è nato quasi per caso, da una piccola protesta che abbiamo organizzato anni fa a Petah Tikva, vicino a Tel Aviv, contro la corruzione e contro il governo Netanyahu. All’inizio eravamo pochi, e la risposta delle autorità è stata durissima: cercavano in tutti i modi di fermarci. Ma non ci siamo lasciati intimidire. Abbiamo fatto ricorso alla Corte Suprema e, passo dopo passo, siamo riusciti a far sentire la nostra voce. Da lì è nata l’idea di creare un movimento vero e proprio: Crime Minister. Le prime manifestazioni a Tel Aviv, poi quelle a Gerusalemme, davanti alla residenza del Primo Ministro, hanno portato in piazza decine di migliaia di persone ogni settimana. È stato un periodo intenso, pieno di tensione con la polizia ma anche di grande energia civica. Per due anni abbiamo mantenuto viva la protesta, e credo che il nostro contributo sia stato decisivo nella caduta del governo Netanyahu. Quando è arrivato il governo Bennett abbiamo sperato in un cambiamento, anche nella proposta di limitare i mandati a due, ma purtroppo la legge non è passata. Poco dopo, Netanyahu è tornato al potere, questa volta con una coalizione estremista e religiosa che ha cercato di indebolire la Corte Suprema e i pilastri della nostra democrazia. Negli ultimi anni abbiamo continuato a scendere in piazza per difendere i valori democratici e sostenere le famiglie colpite da queste politiche. Oggi viviamo un periodo molto complesso, tra tensioni politiche, crisi sociali e un mondo che cambia rapidamente. È un periodo difficile, ma la società civile deve continuare a vigilare e a partecipare attivamente per proteggere i valori democratici.

È molto attivo nelle proteste pubbliche: organizza e partecipa a manifestazioni, trasmette in diretta tramite social come Facebook o Instagram, ed è stato arrestato in alcune occasioni. Quali erano le accuse a suo carico e in che modo la legge israeliana disciplina la partecipazione alle proteste pubbliche?
Negli ultimi anni in Israele sono state approvate leggi come la cosiddetta legge Shabbat, che conferiscono alla polizia poteri molto ampi. Purtroppo, alcune decisioni del governo e di ministri estremisti hanno ridotto l’indipendenza della polizia: invece di agire in modo neutrale per garantire la sicurezza dei cittadini, la polizia viene spesso usata per intimidire e arrestare chi protesta. Veniamo arrestati frequentemente: ci prendono, ci rilasciano, e i giudici non sempre ci danno ragione. Nonostante ciò, le nostre proteste non sono mai state violente. Tuttavia, cercano continuamente modi per fermarci e colpire chi guida le manifestazioni. Con l’entrata in vigore della legge Shabbat, la situazione può diventare ancora più difficile. Non sappiamo esattamente dove ci porterà tutto questo, ma c’è un rischio concreto che il governo tenti di trasformare Israele in un regime autoritario. Il mio primo arresto risale a quasi nove anni fa, durante una manifestazione a Haifa, senza alcuna motivazione valida. Da allora ho continuato a partecipare e organizzare proteste, e spesso siamo riusciti a far valere i nostri diritti grazie al sostegno dei cittadini. Ma purtroppo, la repressione sta peggiorando progressivamente.

 Il suo attivismo ha spesso utilizzato i social media per comunicare direttamente con il pubblico. Secondo lei, il giornalismo tradizionale sta riuscendo a raccontare correttamente le proteste e le tensioni politiche?
I social media sono fondamentali per chi, come me, vuole comunicare direttamente con le persone. Il problema è che i media tradizionali tendono a “normalizzare” tutto. Se non sei un attivista e ti limiti a seguire le notizie, puoi avere l’impressione che tutto sia normale, ma in realtà nulla lo è. I giornali e le televisioni mainstream spesso non raccontano la vera storia. La maggior parte dei canali principali trasmette notizie in modo “ragionevole”, ma con una forte inclinazione politica. Ad esempio, il Canale 2 e la pubblica televisione sono molto vicini al governo e spesso presentano i fatti in maniera parziale. Il Canale 14 è apertamente politico, e la sua copertura è fortemente orientata, senza approfondire le questioni critiche o le proteste. Questo vale anche per la stampa scritta: i giornali mainstream tendono a presentare la situazione come se fosse normale, minimizzando la gravità dei problemi politici e delle tensioni sociali. Per questo i social media diventano uno strumento indispensabile: permettono di raccontare ciò che realmente sta accadendo, senza filtri né mediazioni.

In Israele vivono circa due milioni di arabi che sono anche cittadini israeliani. Alla luce di leggi come la Legge sullo Stato-Nazione del popolo ebraico (2018) e della Nationality and Entry into Israel Law, lei ritiene che esista oggi una piena uguaglianza di diritti tra ebrei e arabi? Quali cambiamenti politici o legislativi sarebbero necessari per realizzare una cittadinanza realmente paritaria?
Ovviamente no. La piena uguaglianza di diritti tra ebrei e arabi non esiste. Se cittadini arabi, musulmani o israeliani si oppongono alle guerre o alle politiche del governo, rischiano di essere arrestati o addirittura uccisi più facilmente rispetto ad altri. La maggior parte delle persone accetta questa situazione come normale, e questo include anche giudici e istituzioni israeliane. Nei territori occupati, la situazione è ancora più grave: i diritti della popolazione palestinese non sono riconosciuti, vengono perseguitati, uccisi e costretti a fuggire senza che il governo offra alcuna protezione efficace. La soluzione dovrebbe essere politica e pacifica: io credo che solo la soluzione dei due Stati possa garantire un futuro stabile. Ma la maggior parte degli israeliani sembra preferire la comodità dell’indifferenza o del silenzio, ignorando che nei territori ci sono circa tre milioni di persone senza diritti istituzionali adeguati. Alla base di tutto c’è il razzismo.

In Cisgiordania e in Israele le divisioni etniche e religiose sono spesso profonde, e alcuni osservatori parlano di un vero e proprio colonialismo moderno. Secondo lei, quali passi concreti potrebbero favorire una convivenza reale tra israeliani e palestinesi, senza gerarchie di cittadinanza o discriminazioni sistemiche?
Il problema è molto complesso. La maggior parte delle persone su entrambi i lati, quando capisce che le soluzioni attuali non funzionano, si rassegna e cerca di vivere pazientando. Ma questa “pazienza” non risolve nulla. In Israele ci sono i coloni estremisti, religiosi e messianici, mentre dall’altra parte ci sono gruppi jihadisti. Con queste posizioni estreme da entrambe le parti, non vedo come si possano fermare i conflitti o trovare una soluzione concreta. È una situazione profondamente radicata e difficile da risolvere.

Come attivista impegnato per la democrazia e i diritti civili, quale significato attribuisce oggi all’idea di uno Stato palestinese?
Credo che bisognerebbe risolvere la questione dei collegamenti tra il West Bank e Gaza che attualmente sono divisi dalla terra israeliana. Potrebbero e dovrebbero essere collegati, magari da una strada o da un tunnel : sono meno di 40 chilometri di distanza tra le due aree palestinesi e quindi è tecnicamente è fattibile. Penso che questa possa essere la soluzione, anche se non sappiamo quanto tempo ci vorrà e quante vite saranno perse nel frattempo. La guerra religiosa non può durare per sempre.  All’inizio, il conflitto era soprattutto nazionale: i sionisti non erano religiosi, e c’era una vera disputa sulla terra tra gli ebrei e gli arabi che vivevano qui. Già all’inizio del XX secolo si cercava una soluzione, e nel 1948, con la decisione delle Nazioni Unite, Israele ottenne uno Stato. Da allora, però, i conflitti non sono mai finiti: nel 1967 i messianici ebrei cercarono di ottenere ancora più terra, e la situazione è rimasta complessa. Oggi la demografia gioca un ruolo importante. I palestinesi stanno diventando più moderni e hanno meno figli rispetto ai messianici ebrei, che spesso hanno famiglie molto numerose. In totale, ci sono circa 2 milioni di palestinesi a Gaza, 2 milioni di cittadini palestinesi in Israele, altri 4 milioni in Cisgiordania, per un totale di circa 8 milioni di palestinesi. Dall’altra parte, ci sono circa 8 milioni di ebrei. È praticamente uno scontro 50-50 sulla stessa terra molto piccola. Quindi sì, i palestinesi hanno pieno diritto a uno Stato. Come si arriverà a realizzarlo? Questa è una domanda aperta. Nessuno può dirlo con certezza. Possiamo solo sperare e cercare soluzioni pratiche e pacifiche.

Che ruolo può avere l’attivismo nel denunciare le disuguaglianze etniche e sociali senza essere percepito come anti-israeliano?
Quando critichi le politiche o denunci le disuguaglianze, spesso vieni etichettato come “anti-israeliano” o addirittura “antisemita”. Questo vale anche per chi è israeliano e un buon cittadino. Basta esprimere certe opinioni per essere considerato un traditore. Il problema non riguarda solo il governo, ma anche una parte della popolazione comune. Circa il 30-35% degli israeliani pensa che i palestinesi non meritino uno Stato e che non dovrebbero mai averne uno. È una mentalità radicata: ormai sono passati più di 50 anni dal 1967, e molte persone si sono abituate a questa realtà. La nuova generazione spesso non comprende la differenza tra Israele prima del 1967 e la situazione attuale in Cisgiordania. Per molti, tutto dovrebbe essere ebraico, senza spazio per la pluralità o per i diritti dei palestinesi. Denunciare le disuguaglianze in questo contesto è quindi un atto difficile, ma necessario.

Le operazioni israeliane contro Hamas vengono presentate dal governo come misure necessarie per la sicurezza nazionale. Lei ritiene che queste operazioni abbiano davvero aumentato la sicurezza del Paese?
Al contrario, penso che abbiano ridotto la sicurezza di Israele. Negli ultimi 30-40 anni, Israele ha perso popolarità a livello internazionale, ma oggi la situazione è peggiore che mai. Questo è molto negativo per noi: Israele non può sopravvivere isolato dal resto del mondo, dovrebbe essere un Paese moderno, collaborare con tutti i Paesi sviluppati. Altrimenti rischia di diventare come il Sudafrica sotto l’apartheid, e ciò minaccia la sua stessa esistenza. Riguardo ai palestinesi, l’organizzazione di Hamas è un gruppo di fanatici che educa e radicalizza le persone. La situazione diventa quindi uno scontro tra estremisti: da una parte Hamas, dall’altra gli estremisti messianici israeliani. La maggior parte degli israeliani vive in condizioni confortevoli e non vuole affrontare la realtà sul terreno: pensano di poter controllare i palestinesi all’infinito, ma non è così. Queste operazioni militari non risolvono il problema. Al contrario, alimentano ulteriormente l’estremismo, indeboliscono la sicurezza e peggiorano l’immagine di Israele nel mondo. Lo si vede anche nelle manifestazioni internazionali, come quelle pro-palestinesi anche in Italia: le operazioni militari aumentano il risentimento e la tensione globale, e quindi la sicurezza reale del Paese diminuisce.

Lei è anche produttore televisivo e doppiatore nel cinema. Secondo lei, il settore culturale e mediatico può avere un ruolo attivo nel promuovere la convivenza tra le comunità, la democrazia e i diritti civili in Israele?
Ci stiamo davvero impegnando, ma la realtà è difficile: molte persone non sono aperte a questo tipo di messaggi. Gli estremisti, in particolare, rifiutano qualsiasi dialogo. Io stesso non sono un estremista, ma in Israele, se parli di pace o di diritti civili, vieni facilmente considerato un traditore o un estremista. Questo vale anche per gli artisti: attori, cantanti, persone del settore culturale spesso hanno paura di esprimere le loro opinioni su temi politici o sociali. È una situazione che non è affatto naturale in una democrazia perché limita la libertà di parola e la capacità del settore culturale di promuovere convivenza, democrazia e diritti civili.

Gli Stati Uniti hanno sempre avuto un ruolo centrale nel processo di pace in Medio Oriente, e l’accordo di Trump ne è un esempio evidente. Come valuta oggi l’influenza americana in Israele e nei territori palestinesi? E quale ruolo pensa possa avere oggi l’Europa nel processo di pace tra israeliani e palestinesi?
Trump è un personaggio imprevedibile, un folle e tutti lo sanno. Ha preso il controllo della destra e di Netanyahu e oggi Israele sembra quasi una colonia degli Stati Uniti. Ci sono simboli, bandiere, ma vedremo cosa succederà nei prossimi giorni e a Sharm El Sheik. Per anni abbiamo capito che Israele non avrebbe lasciato volontariamente i territori occupati. Forse ora la pressione esterna potrebbe costringerci a fare passi concreti verso la pace. Sarà molto difficile, ma forse è l’unica possibilità che possa funzionare. È un prezzo da pagare, e dobbiamo vedere come evolverà la situazione. Per quanto riguarda l’Europa, credo che stia facendo tutto il possibile, ma potrebbe fare di più. La pressione internazionale è necessaria: finché gli israeliani possono muoversi liberamente e senza conseguenze, difficilmente ci saranno cambiamenti. Per troppi anni si è parlato, si è discusso, ma la situazione è rimasta invariata, e in molti casi è peggiorata.

Pensa che le proteste avvenute a livello internazionale abbiano contribuito a trovare una stabilizzazione del conflitto? Ha inoltre contatti con attivisti italiani o europei?
No, al contrario. Per la maggior parte degli israeliani queste proteste non sono state percepite come un segnale positivo; anzi, le disprezzano. Dicono che non sono giuste, considerano filo-palestinesi chi le sostiene e spesso non comprendono la situazione reale. Va detto però che lo scopo di queste manifestazioni non è convincere gli israeliani, ma fare pressione sui loro governi. In teoria dovrebbe servire a influenzare le politiche israeliane, ma negli ultimi 40-50 anni i risultati sono stati deludenti. Si parla molto, si discutono le cose nelle altre stanze del potere, ma alla fine quasi nulla cambia. Quanto ai contatti con attivisti italiani o europei, non ci sono collegamenti diretti. Potrei dialogare con attivisti australiani o inglesi, ma collaborare apertamente con chi organizza raduni anti-israeliani in Europa potrebbe farmi perdere visibilità qui in Israele. Nonostante questo, continuo a sostenere da anni la mia posizione: due Stati. È ciò che ripeto sempre, e spero che alla fine il popolo israeliano e i palestinesi lo capiscano. [Traduzione di Simone Conti]

L’autrice: Giuliana Vitali è giornalista e scrittrice. È appena uscito il suo “Nata dall’acqua sporca” (Giulio Perrone editore)

La pace dimenticata: l’Ucraina e il tramonto della diplomazia europea

La guerra in Ucraina è stata molto spesso un fenomeno incompreso, soprattutto dall’opinione pubblica, a causa della narrativa focalizzata sulle questioni militari. Incauti e improvvidi commenti hanno contribuito a ridurre il conflitto a un mero aspetto militare. Tuttavia questa guerra, prima ancora che un fatto militare, rappresenta l’evoluzione di rapporti diplomatici, dinamiche economiche ed equilibri informativi e di cyber-tecnologie. L’aspetto militare e strategico sono solo l’ultimo stadio della crisi ucraina e della desolante gestione da parte della Nato e dei Paesi occidentali. L’Alleanza atlantica è complice dell’imbarazzante sconfitta in Iraq, che ha causato la nascita del sedicente Stato islamico e l’avvento al potere di un governo jihadista in Siria. Ha dovuto abbandonare frettolosamente l’Afghanistan nel 2021, incalzata dalle forze talebane dopo vent’anni di occupazione iniziata nel 2001, e ora si appresta a essere ulteriormente umiliata in Ucraina.

Il potere militare e strategico dell’Alleanza è indiscutibilmente superiore a quello dei suoi avversari, eppure dal 1991 a oggi viene puntualmente sconfitta. Questa è la riprova che le guerre contemporanee non dipendono dal potere militare se non in minima parte. Gli aspetti militari dei conflitti attuali sono assolutamente secondari rispetto a quelli economici. Al momento dell’invasione dell’Ucraina, in pochi avrebbero scommesso sui risultati ottenuti da Mosca. Eppure la Federazione russa ha saputo adattare la propria economia allo sforzo bellico e intessere relazioni diplomatiche che l’hanno condotta a stabilizzare la situazione: il punto in cui è probabilmente più razionale ottenere una pace che deprivi l’Ucraina di parte del proprio territorio e sancisca la sconfitta dell’Occidente. Le forniture di armi all’Ucraina e l’addestramento dei militari ucraini non sono mai state la soluzione al conflitto, ma solo un palliativo per resistere in attesa di una soluzione diplomatica. La Russia ha dimostrato un notevole adattamento all’escalation occidentale e mantiene in stato di allerta perenne le difese aeree orientali.

Investire in riarmo anziché in iniziative economiche e diplomatiche per isolare Mosca porta solo a un ulteriore e pericoloso innalzamento della tensione. L’estremizzazione militare del conflitto corrisponde a una volontà occidentale di esasperarlo; la realtà è che questo conflitto è molto meno militare di come viene presentato all’opinione pubblica. Il tragico errore di basare la risposta alla guerra sull’aumento degli sforzi militari è evidente nel deludente utilizzo degli armamenti occidentali da parte dell’Ucraina. L’episodio degli F-16, tanto reclamati dal governo Zelensky e rivelatisi fallimentari, è emblematico. Il conflitto in Ucraina ha causato la morte di almeno 400.000 persone tra ucraini e russi e la devastazione di un intero Paese che era partner economico di molti Stati europei. Eppure in Occidente la guerra viene rappresentata essenzialmente in funzione di se stessa, e le notizie che fanno audience sembrano essere solo le provocazioni russe nei paesi est-europei e i rischieramenti dell’Alleanza atlantica a ridosso delle frontiere russe.

Da un certo punto di vista, sembra addirittura più matura l’operazione propagandistica russa, controllata dal regime, che ha fatto evolvere i temi da un’iniziale guerra per la «liberazione» dei cittadini russi e russofoni in Ucraina alla necessità di contrastare gli ideali decadenti dell’Occidente, rispetto alla superficiale analisi occidentale. Dopo quasi quattro anni di guerra, è forse il caso di ammettere l’ennesima sconfitta occidentale, causata anche dal fraintendimento della guerra come episodio isolato e prettamente militare. Questo è necessario per evitare il rischio di ripetere la débâcle afghana, maturata dopo vent’anni di sangue, distruzione e incapacità di ricostruire un paese. In questa necessaria presa di coscienza non bisogna accanirsi solo contro la Nato, efficiente ma obsoleta in un mondo rivoluzionato rispetto al secolo in cui nacque l’Alleanza. Occorre anche prendere atto del deserto diplomatico ed economico che si è creato attorno al decadente mondo occidentale, a causa dell’impasse europea. Un mondo ormai chiuso nelle sanzioni, nell’orrore per l’immigrazione e nell’ignoranza sbandierata come metodo di governo.

 

Foto di Myko Makhlai su Unsplash

Quando il potere si sceglie il giornalista: benvenuti nel feudalesimo mediatico

Da giorni i giornalisti del Sole 24 Ore sono in sciopero perché la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha preteso l’ennesima intervista cucita su misura da una collaboratrice esterna (Maria Latella), scavalcando la redazione. Lo denunciano nel comunicato sindacale: siamo arrivati al punto in cui «gli intervistati si scelgono gli intervistatori» e le redazioni vengono umiliate.

È l’immagine plastica di un potere che non sopporta domande, solo inchini. Meloni ha costruito la sua narrazione rifiutando i confronti ostili, vantandosene perfino davanti ai leader mondiali. Intanto chi prova a raccontare ciò che disturba viene intimidito, travolto da querele temerarie o costretto a difendersi in tribunale. E se non basta, come nel caso di Sigfrido Ranucci, si passa alle minacce, alle campagne d’odio, perfino alle bombe recapitate come avvertimenti.

Nel frattempo una larga fetta di giornalismo si adegua: c’è chi fa da megafono, chi da cerimoniere, chi da cameriere. C’è un giornalismo che appare nei video istituzionali come fondale, mentre la premier si auto-intervista tra applausi preconfezionati. La propaganda chiama queste cose “dialogo con gli italiani”. È solo monologo col potere.

Mentre i cronisti che resistono vengono lasciati soli, lo Stato che dovrebbe proteggerli applaude la premier che aggira le redazioni. E così il giornalismo italiano è messo davanti a un bivio: essere vassallo o essere bersaglio.

In questo clima, chi sceglie di restare libero deve sapere che non gli verrà perdonato. Ma è l’unico modo per non smettere di essere giornalisti.

Buon lunedì.

Solidarietà della redazione di Left ai colleghi del Sole24 ore

 

Foto Gov

Con la rivista “Zona Franca” la letteratura torna a farsi spazio libero e sociale

Una bella notizia, dal 20 ottobre riprende a vivere con il nome di Zona Franca la storica rivista Zona letteraria, diretta da Giuseppe Ciarallo, per le edizioni Mompracem, dirette da Paolo Ciampi. Ecco l’editoriale del direttore

Forse non tutti sanno che la famosa battuta di Alberto Sordi ne Il marchese del Grillo, “Io so’ io, e voi non siete un cazzo!” è presa pari pari da un verso contenuto nella poesia Li soprani der monno vecchio (I sovrani del mondo antico) del più grande poeta romano Giuseppe Gioacchino Belli. Come appare chiaro, il sonetto in questione vuole evidentemente rimarcare la distanza abissale, e la contrapposizione, che corre tra chi detiene il potere (qualsiasi potere) e il popolo, soprattutto se governato da istituzioni corrotte. E qui mi fermo in quanto non voglio svelare oltre il macrotema degli articoli che troverete tra queste pagine.
Venendo al dunque, come la mitologica fenice, il nostro semestrale di letteratura sociale rinasce dalle proprie ceneri dopo la chiusura della precedente esperienza (Zona Letteraria) dovuta al perdurare della pandemia di covid, che per tutto il 2020 e il 2021 impedì all’editore dell’epoca e ai redattori di diffondere la rivista tramite presentazioni, cene con l’autore, e altri canali “in presenza”.
Ho parlato non a caso di rinascita perché Zona Franca, questa la testata che abbiamo scelto per la nuova esperienza editoriale, non nasce dal nulla ma ha nobili origini e salde radici. Alla fonte di questo esperimento letterario c’è l’intuizione di Stefano Tassinari, scrittore, poeta, intellettuale, agitatore culturale scomparso nel 2012, che verso la fine del 2008 chiamò intorno a sé numerosi suoi amici scrittori, poeti, commediografi, al fine di creare una rivista, partendo dallo specifico letterario e all’interno di una dimensione collettiva, che fosse strumento utile e necessario a riaccendere un dibattito riguardo ai grandi temi sociali, culturali e politici.
Nell’intento di perseguire quel medesimo obiettivo, Zona Franca è il frutto di un fausto incontro tra il vecchio collettivo di Zona Letteraria e un gruppo di scrittori con a capo Paolo Ciampi, narratore, intellettuale e deus ex machina di Itaca, attivissimo salotto letterario in Firenze, e annessa casa editrice “I libri di Mompracem”. Dall’unione di queste due anime vede la luce questo nuovo progetto culturale che vuole, con tutte le sue forze, parlare di società, politica, e della vita reale di un’umanità sempre più in crisi, attraverso il filtro, o la lente d’ingrandimento, della letteratura e dell’arte in generale.
I conflitti sociali, le migrazioni, la Storia e le storie, i cambiamenti di costume, lo stravolgimento ambientale, l’ombra incombente dell’autoritarismo, le guerre, l’attualità e il passato, di questo si occuperà Zona Franca, offrendo narrazioni diverse da quelle che, per un appiattimento generale su posizioni di comodo, ci vengono quotidianamente propinate.
Una breve presentazione del progetto: Zona Franca (sottotitolo “LibRivista semestrale di letteratura sociale”), come appare chiaro avrà cadenza semestrale, con un’uscita in aprile e una in ottobre. In formato libro, la rivista sarà costituita all’incirca da una ventina di articoli e altrettante illustrazioni – realizzate da alcuni dei più noti illustratori italiani capitanati da Lido Contemori – sulla base di una tematica che il collettivo redazionale deciderà di volta in volta. Alcuni “pezzi” verranno inseriti nelle rubriche “Dal mondo” (con articoli relativi a scrittrici e scrittori di altre culture rispetto alla nostra), “Altri linguaggi” (nella quale verranno esplorate forme d’arte diverse dalla letteratura, come la musica, la fotografia, la pittura, il fumetto, la street art, ecc.) e “Ripescaggi” (ove si parlerà di autrici, autori e libri che, secondo il nostro parere, sono ingiustamente caduti nel dimenticatoio e meriterebbero di essere riproposti al grande pubblico).
Per il numero d’esordio, il collettivo redazionale ha deciso di concentrare il proprio sguardo sulle due visioni opposte con le quali ci si rapporta – forse fin dalla nascita dell’umanità – alla vita sociale. Il titolo che abbiamo scelto per il primo numero, “Io vs. Noi”, riassume in sé i due modelli, antitetici, inconciliabili, con i quali si può guardare all’altro da sé: da un lato una concezione individualistica, di chiusura, esclusivamente basata sulla difesa del “proprio orticello”, comprese le patologie legate all’io (hikikomori, disturbo narcisistico, misantropia), l’altra collettivistica, solidale e attenta ai bisogni di ognuno, soprattutto delle fasce più deboli. Senza dimenticare che esistono vari esempi di “io” positivi, come la ricerca spirituale o l’ascetismo (non necessariamente religioso), e di “noi” tossici, come i nazionalismi, i sovranismi, i suprematismi, quelli che si rifanno a un deleterio “spirito di corpo” o tutti quei raggruppamenti escludenti, che solitamente si mettono in contrapposizione ad altri “noi”, trasformandosi reciprocamente in “loro”. In questa categoria non si può non annoverare le religioni, principalmente le tre monoteiste, che se da un lato invocano l’amore universale, al contempo diffondono concetti altamente divisivi come quello di “popolo eletto”, di “fedeli e infedeli”, e il più pericoloso di tutti “Dio è con noi”, che creano barriere insormontabili nei confronti di tutti gli “altri”.
Ci piace pensare che tra i “noi” virtuosi ci sia il collettivo di questa rivista, formato da singole individualità unite nel dar corpo a un progetto utile a un necessario dibattito su tematiche che riguardano svariati aspetti della vita sociale.
A proposito dell’argomento cardine di questo numero, e della sua espressione più alta, il “noi” dell’amore in tutte le sue espressioni, mi piace ricordarne la più bella definizione mai vergata nella storia umana. E la mano è quella del Sommo Poeta, che nella sua Comedia, verso 81 del IX canto del Paradiso, scrive: «s’io m’intuassi, come tu t’inmii».
Ecco, quel m’intuassi e quel t’inmii sono l’immagine perfetta della compenetrazione; è il dolce, vicendevole addentrarsi nel cuore e nella mente di un’altra persona, senza annullarsi in lei, ma entrando in punta di piedi e con rispetto nel suo animo, permettendo all’altr* di fare la stessa cosa con noi. Perché alla base di un amore deve esserci necessariamente la reciprocità: «s’io m’intuassi, come tu t’inmii».
In una società che ormai sa dire soltanto «io», avremmo tanto bisogno di tornare a «intuarci» col resto del mondo.
Ma veniamo a Zona Franca. In questo numero si parlerà dei danni dell’esaltazione thatcheriana dell’individualismo, del “bar” come luogo eccellente per esercizi di solitudine o per incontri sensazionali, dell’egoismo anarchico negli scritti di Max Stirner, dell’esperimento sociale di una piccola comunità sulle colline modenesi, della narrativa del misterioso scrittore B. Traven, dell’esperienza e dell’eredità della Beat Generation, della necessità di un rinnovato immaginario comune per costruire il noi, di Sante Notarnicola e del laboratorio di poesia nel carcere di Firenze, di retorica dell’appartenenza, miccia di ogni conflitto; si troveranno riflessioni su Giuseppe Pontiggia e il suo Nati due volte, sulla musica della Liberation Music Orchestra di Charlie Haden e Carla Bley, sull’opera cinematografica del regista Jordan Peele, sulle pellicole che hanno affrontato il tema dei genocidi, sui collettivi femminili di poesia, sulla nascita dell’arte tra mito e storia, sull’inclusività e l’attenzione al sociale nella Spagna di oggi, sul rischio della dissolvenza dello ‘stare in presenza’ tipico dei social, sull’Intelligenza Artificiale come contrapposizione umano/digitale, su individualità e impegno collettivo nella Cina dell’ultimo secolo; potrete inoltre leggere le interviste alla scrittrice Maria Rosa Cutrufelli, allo scrittore e regista cinematografico Michele Mellara e alle lavoratrici dello stabilimento industriale “La Perla” di Bologna, in lotta per la difesa del loro posto di lavoro.
Un doveroso ringraziamento va alle autrici e agli autori dei testi, alle illustratrici e agli illustratori che ci hanno fatto dono dei loro lavori e – in particolare – all’editore, che da subito ha abbracciato in maniera entusiastica questa stimolante avventura.
Null’altro da aggiungere. Buona lettura.

 

Illustrazione di Contemori per Zona Franca

Qui sotto la cover del primo numero