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Difesa sì, difesi mai

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni

L’Italia si arma in silenzio, ma con disciplina contabile. Secondo l’Osservatorio Mil€x, la spesa militare “pura” salirà nel 2026 a 33,9 miliardi di euro: un miliardo in più in un solo anno. Non è un’urgenza, è una scelta politica. Il governo che taglia fondi a ospedali e scuole trova sempre un bilione in più per le armi.

Nel 2017 il bilancio della Difesa era di 19,7 miliardi. Oggi, sotto la direzione di Guido Crosetto, è cresciuto del 63%. Nel solo 2026 oltre 13 miliardi andranno in nuovi sistemi d’arma: droni, fregate, F-35, missili, progetti di “innovazione” che somigliano a un gigantesco sussidio alle industrie del settore. Il personale operativo costerà 12,3 miliardi, le pensioni 4,5, le missioni all’estero 1,18.

E non è finita. Mil€x ricorda che nel Documento di programmazione pluriennale sono già pronti altri 23 miliardi da attivare appena Bruxelles chiuderà la procedura per deficit eccessivo. Tradotto: austerità per i cittadini, ma nessun limite per i generali. La “difesa europea” diventa il paravento perfetto di un riarmo senza dibattito.

Il governo parla di sobrietà, ma la sobrietà vale solo per gli altri. Il rapporto spesa militare/Pil resta all’1,46%, ma solo perché le spese indirette – basi Nato, cybersecurity, fondi Ue – vengono lasciate fuori dal conteggio. Il trucco è antico: basta cambiare etichetta per far sparire le cifre.

Così il bilancio dello Stato diventa un arsenale a cielo aperto, lucido e in ordine. Le guerre si programmano come i piani di investimento, e l’unica certezza è che in Italia l’efficienza pubblica funziona solo quando si tratta di comprare armi. Tutto il resto può attendere.

Buon mercoledì.  

Contro la disinformazione climatica: il diritto di sapere la verità sul pianeta che cambia

Se nemmeno il caldo estremo della scorsa estate aveva fatto cambiare idea a chi nega l’emergenza climatica, forse non c’era più niente da fare.
O forse sì. Perché di fronte all’evidenza – fiumi in secca, grandinate record, incendi in tutto il Mediterraneo, temperature oltre i 45 gradi – c’era ancora chi andava in tv o sui social a parlare di “cicli naturali” o a sostenere che, in fondo, “ha sempre fatto caldo”; chi minimizzava, chi derideva. O, peggio ancora, chi insultava e chiamava “gretini” tutti quelli che cercavano di mettere in guardia dagli impatti del riscaldamento globale.
Era (ed è) la disinformazione climatica, una delle più pericolose forme di negazionismo contemporaneo: subdola, travestita da opinione, spesso amplificata da giornalisti compiacenti, da sedicenti “esperti” o da interessi economici – fossili al 100% – che della crisi ecologica non vogliono sentir parlare.

La disinformazione sfrutta diverse argomentazioni, ma una costante della vulgata negazionista è quella di bersagliare il pensiero scientifico e di delegittimarne il metodo.
In questo modo, si legittimano posizioni prive di fondamento che vengono poi rilanciate da media accondiscendenti.
Il risultato è che, una volta instillato il dubbio, diventa difficile sfatarlo. E ancora più arduo, per chi non è del mestiere, orientarsi tra la mole di dati, grafici e statistiche spesso in contraddizione, capire a chi credere, distinguere la verità dalla menzogna.

Così, in nome di una presunta “politica dell’equilibrio”, si è finito per mettere sullo stesso piano scienziati e ciarlatani. Eppure il dibattito sul clima è chiuso da tempo: oltre il 99% della comunità scientifica concorda sul fatto che il cambiamento climatico esiste ed è causato dalle attività umane, in particolare dall’uso dei combustibili fossili.
Ma continuando a dare spazio a tesi infondate e a chi nega l’evidenza, si è alimentata l’idea che la questione fosse ancora aperta.
Il risultato? Che la transizione ecologica continua a essere rinviata – e con essa anche la nostra sicurezza, ambientale e sociale.

Negli ultimi mesi, di clima si è parlato sempre meno: l’attenzione pubblica e politica si è spostata altrove, eppure gli eventi estremi, le alluvioni e la siccità continuano a colpire le nostre vite. La disinformazione non è un dettaglio: rallenta le politiche di decarbonizzazione, confonde l’opinione pubblica e ci fa perdere tempo prezioso.

Con la petizione Stop alla disinformazione climatica. Per un’informazione responsabile abbiamo lanciato una scommessa: tornare a parlare di emergenza climatica, e a farlo in modo scientifico, trasparente, documentato.
La petizione è stata presentata il 28 ottobre alla Camera dei Deputati, nella Sala Stampa di Montecitorio, per chiedere un impegno concreto delle istituzioni contro la manipolazione e la distorsione del dibattito pubblico sul clima.
L’abbiamo fatto da fuori, come attivisti, ricercatori, giornalisti e cittadini preoccupati per il futuro, ma con l’auspicio che anche il Parlamento faccia propria questa battaglia, discutendo e sostenendo le nostre proposte, a partire dall’istituzione di un Osservatorio nazionale sulla disinformazione climatica e da uno spazio settimanale dedicato alla crisi climatica nei telegiornali della Rai.

Abbiamo chiesto ai media di verificare le fonti, dare spazio alla comunità scientifica e smettere di ospitare tesi negazioniste in nome di un falso equilibrio.
Abbiamo proposto la creazione di un Osservatorio nazionale sulla disinformazione climatica, indipendente e partecipato, per monitorare i contenuti dei media, segnalare distorsioni e favorire un’informazione basata su dati verificabili.

Abbiamo chiesto alle istituzioni di riconoscere che la disinformazione è una minaccia reale, anche per la sicurezza collettiva, e di sostenere un impegno pubblico costante.
In questa direzione, abbiamo chiesto che la Rai in quanto servizio pubblico, garantisca uno spazio settimanale dedicato alla crisi climatica nei principali telegiornali, per aggiornare, informare e coinvolgere i cittadini.

E abbiamo chiesto ai cittadini di pretendere un’informazione all’altezza della crisi che stiamo vivendo, capace di orientare scelte consapevoli e di costruire un futuro comune più giusto e vivibile.

Il mondo sta attraversando una fase complessa: tra crisi geopolitiche, riarmo, indebolimento del multilateralismo, affaticamento democratico e ritorno di nazionalismi e pulsioni autoritarie – anche in Europa e negli Stati Uniti.
In questo scenario, il cambiamento climatico resta la sfida centrale del nostro tempo, ma non potremo affrontarla se i media smetteranno di raccontarla, o peggio, continueranno a distorcerla.

I giovani hanno dimostrato in questi mesi una forza straordinaria nel mobilitarsi per la giustizia e i diritti umani: quella stessa energia è essenziale per riportare il clima al centro del dibattito pubblico.
Solo con il loro impegno possiamo sperare di cambiare davvero le cose.

L’autore: Giacomo Pellini è giornalista ed esperto dei temi dell’ambiente e del clima. È autore del libro Contro i mercanti del clima, edito da Left

 foto wikipedia

 

Sovranisti in seduta di autoconsolazione: Meloni ritrova Orbán

L’incontro tra Giorgia Meloni e Viktor Orbán a Roma è stato un esercizio di retorica diplomatica travestito da dialogo politico. La premier italiana si è presentata come garante dell’unità europea, ma ha evitato accuratamente ogni confronto reale con le posizioni di Budapest su Ucraina e Russia. Orbán continua a sostenere che «le sanzioni sono un errore», Meloni ripete che «l’Italia resta dalla parte di Kiev» – eppure entrambi sanno di convergere su un pragmatismo che guarda agli interessi economici e alle mosse di Donald Trump.

Dietro le dichiarazioni ufficiali, resta l’ambiguità. L’Italia non spinge più, da tempo, per un rafforzamento delle sanzioni, e la premier ha accolto l’alleato ungherese proprio mentre Bruxelles discute il nuovo pacchetto di misure contro Mosca. Orbán difende i suoi rapporti energetici con il Cremlino, Meloni li tollera in nome del “realismo”.

Sul piano politico, l’intesa è evidente: entrambi coltivano un’idea di Europa ridotta a somma di nazioni autosufficienti, utile solo quando finanzia l’industria della difesa o concede margini al potere interno.

Meloni parla da europeista, ma agisce da nazionalista opportunista. Cerca di compiacere Washington, non irritare Budapest e restare visibile a Bruxelles. È una politica che non decide: misura le convenienze, cambia lessico a seconda dell’interlocutore e chiama “coerenza” ciò che è soltanto calcolo.

In questo equilibrio instabile, l’Italia finisce per apparire come l’anello debole dell’Unione: cortese con chi la isola, silenziosa con chi la comanda. Una postura che non costruisce peso politico, ma solo dipendenza.

Buon martedì. 

 

Foto Gov

Brasile, il coraggio delle quilombolas: donne in prima linea nella difesa della terra e dei diritti

Secondo i parametri stabiliti dagli standard internazionali sui diritti umani, i quilombolas sono riconosciuti come gruppi etnico-razziali assimilabili ai popoli tribali.
Ogni comunità quilombola è caratterizzata da una propria storia unica, da un percorso specifico e da un forte legame con l’eredità nera della resistenza contro l’oppressione storica.
In Brasile si contano circa 1,3 milioni di quilombolas distribuiti in 1.700 comuni. Dal 2019 al 2024 sono stati registrati 46 omicidi di leadership coinvolte nella difesa dei diritti umani, come riportato dal progetto Resistenza Quilombola, sviluppato dal Coordinamento Nazionale delle Comunità Nere Rurali Quilombolas (Conaq) in collaborazione con Cospe (Cooperazione per lo Sviluppo dei Paesi emergenti).
Nello stesso periodo sono stati documentati 58 casi di minacce di morte, di cui 33 rivolte a donne leader delle rispettive comunità. In molti episodi, gli stessi agenti pubblici, spesso legati a grandi proprietari terrieri, sono responsabili della distruzione di abitazioni, coltivazioni e delimitazioni illegali delle terre, contribuendo a un clima di terrore diffuso tra le comunità.
Le origini di queste minacce risiedono nella brama incontrollata di sfruttare le ricchezze delle terre in mano ai quilombolas. Lottizzazioni abusive, estrazioni illegali di risorse naturali, omicidi e campagne intimidatorie mirano ad ostacolare chi lotta per i diritti di proprietà delle comunità e difende lo sviluppo sostenibile del proprio territorio.
Il rapporto Vite Interrotte1 (2025) rileva che la maggioranza delle vittime ricopriva ruoli di leadership o aveva legami stretti con figure strategiche della resistenza quilombola. Le loro lotte miravano spesso alla protezione della biodiversità e alla salvaguardia dei territori contro pressioni economiche esterne. In quasi il 48% degli omicidi documentati, i principali sospettati risultano essere pistoleri assoldati per esecuzioni pianificate da individui quasi mai identificati, spesso vicini di terra o proprietari terrieri coinvolti nei conflitti con le comunità.
Ad agosto 2023, Maria Bernadete Pacífico, conosciuta come Mãe Bernadete, è stata brutalmente assassinata con 25 colpi di pistola sul viso all’interno della sua abitazione, davanti ai nipoti. Figura spirituale e leader quilombola di riferimento per la CONAQ, l’omicidio della 76enne ha suscitato forte indignazione e una severa condanna da parte delle Nazioni Unite. Durante una visita ufficiale a Luanda, in Angola, il presidente Lula ha reso omaggio a Mãe Bernadete presso l’Assemblea nazionale.
Come guida del Quilombo Pitanga dos Palmares nello stato di Bahia, Mãe Bernadete aveva denunciato ripetutamente attività illegali come il disboscamento e l’estrazione non autorizzata nella sua comunità. La sua tragica fine segue quella di suo figlio, Flávio Gabriel Pacífico dos Santos, assassinato nel 2017 dopo aver denunciato narcotrafficanti e aziende coinvolte nella deforestazione del suo territorio.
Left ha intervistato la delegazione Conaq, al termine di un tour europeo dedicato al dialogo con università, centri di ricerca, commissioni tematiche dell’Onu e diverse istituzioni europee.
Per Nathália Purificação, giornalista proveniente dal quilombo Velho Chico, Stato di Bahia, nonché responsabile della comunicazione della Conaq, l’assassinio di Mãe Bernadete rappresenta un avvertimento diretto alle donne leader del movimento quilombola, che costituiscono attualmente la maggioranza della leadership e stanno ottenendo sempre maggiore visibilità.
Nathália evidenzia una differenza cruciale negli approcci tra le leadership femminili e quelle tradizionali maschili: le donne apportano uno stile più empatico e comunitario, fondato sulla cura e sul sostegno incondizionato a tutti i membri della comunità, spiega lei, utilizzando l’espressione “maternar o território”. Da leader anche spirituali legate alle religioni africane, le donne quilombolas sono spesso prese di mira da gruppi evangelici ostili, affrontando una percezione di “tempo limitato sulla Terra”, come una “data di scadenza” imposta sulle loro vite, più corta rispetto a quella degli altri.
Maria Aparecida Ribeiro de Sousa, coordinatrice nazionale della Conaq e del collettivo di donne quilombola, individua nell’agribusiness, nell’industria del legname e in quella mineraria i principali ostacoli per le comunità quilombola. Parlando della violenza sulle donne, sottolinea che anche nei quilombos si riscontra violenza domestica, spesso legata alla difficoltà degli uomini di accettare il ruolo di leadership assunto dalle loro compagne, scelto dalla comunità o legato alle loro radici africane. Spiega come, talvolta, i conflitti emergano quando gli uomini accusano le donne di trascurare i figli o le faccende domestiche a causa del loro impegno nel movimento. Questi, invece di vedere nelle partner una risorsa anche per sé stessi, le percepiscono come un ostacolo o una minaccia.
Come responsabile del progetto Resistenza Quilombola, il pedagogista José Maximino Silva osserva che, nonostante l’apertura al dialogo del governo Lula, rispetto a quello di Bolsonaro, non si sono evidenziati progressi significativi per le comunità. Sebbene il governo attuale abbia creato spazi di ascolto, spesso le richieste e i bisogni delle comunità non trovano un riscontro concreto. La debolezza dei programmi di protezione delle leadership quilombola, afferma Silva, risiede nei ritardi nell’applicazione delle leggi. “Sono programmi gestiti a livello dei singoli stati federati” spiega “e questa decentralizzazione si rivela spesso inefficace a causa dei legami tra il potere locale e la criminalità organizzata”.
Nathália Purificação evidenzia come i neri brasiliani, per sopravvivere, abbiano spesso rinunciato all’aspetto mistico delle culture africane. L’omicidio di Mãe Bernadete, ricorda, è stato influenzato non solo dalla sua lotta per la difesa del territorio, ma anche dai pregiudizi contro le sue credenze religiose. In questo contesto, José Maximino fa notare l’aumento significativo delle conversioni alle sette evangeliche nei quilombos, un fenomeno analogo a quello osservato tra le popolazioni indigene. Questo cambiamento ha causato un crescente isolamento degli anziani e di coloro che si rifiutano di abbandonare le proprie tradizioni e la loro storia.
C’è unità tra il movimento quilombola e gli altri movimenti di lotta per la terra, come quello indigeno, chiarisce Maria Aparecida Ribeiro de Sousa. In Amazzonia, ad esempio, ci sono quilombos riconosciuti dal governo, simboli di identità e resistenza comuni tra i popoli africani schiavizzati dai coloni e le popolazioni indigene locali. “La logica della separazione tra i movimenti non ci riguarda. Pur riconoscendo le particolarità di ciascuno, siamo uniti. È chiaro che le nostre rivendicazioni differiscono da quelle dei movimenti che emergono e combattono nelle realtà urbane; tuttavia, quando arriva il momento di scendere in strada, troviamo un punto di incontro e marciamo insieme”, conclude.

L’autrice: L’avvocata per i diritti umani Claudiléia Lemes Dias è scrittrice e saggista. Tra i suoi libri Le catene del Brasile (L’Asino d’oro ed.) e il nuovo Morfologia delle passioni (Giovane Holden ed.)

Sete d’acqua, sete di democrazia. La rivoluzione silenziosa dell’Eswatini

Mentre percorriamo la strada sterrata che da Siteki si inoltra nell’altipiano di Lubombo, Richard solleva una mano dal volante per indicarmi alcune persone poco distanti da noi. In una pozza di fango, tra le sterpaglie dei campi dell’arido inverno sudafricano, una donna sta china con i piedi nell’acqua. Vicino a lei, due bambini fanno la spola tra la pozza e una carriola, portando dei secchi di plastica, per lo più rotti, che la donna riempie con l’acqua putrida che esce dal fango. Acqua verde, opaca e maleodorante, raccolta dal terreno tra pezzi di tronco e rifiuti messi lì da qualcuno per evitare che le bestie calpestino la preziosa sorgente. Tutto intorno l’altipiano appare deserto, povere case a qualche centinaio di metri, qualcuno a piedi in lontananza. L’acqua è poca nella stagione secca e questa donna, come molti altri nelle aree rurali dell’Eswatini, cammina per chilometri tutti i giorni, con i bambini e la carriola, per trovarla.

Richard mi spiega queste cose mentre scendiamo dal fuoristrada e ci avviciniamo alla signora. A sentire l’odore che ci avvolge quando arriviamo alla pozza verrebbe da pensare che quell’acqua sia per le bestie, se non fosse che la donna alza il secchio appena riempito, lo avvicina alle labbra e beve un sorso prima di rimettersi a pescare tra la terra e i rifiuti quell’acqua che servirà per le bestie, ma evidentemente anche per la famiglia. Dopo aver scambiato qualche parola, salutiamo la donna e i bambini mentre riprendono la raccolta. La scena che ci lasciamo alle spalle è una delle tante che, tra queste montagne, raccontano di una situazione molto articolata e complessa.

L’accesso all’acqua potabile è uno dei grandi temi dello sviluppo dell’Africa e si ricollega spesso a problematiche sociali e politiche ben più profonde; il Regno di Eswatini, incastonato nella zona montuosa tra Sudafrica e Mozambico, è paradigmatico. Ultima monarchia assoluta del continente, sconta l’incapacità di rispondere alle necessità di servizi di base dei suoi abitanti, dispersi nelle aree rurali lontane dalle principali città. Circa un quarto della popolazione vive fuori dai contesti urbani, in zone caratterizzate da un tasso di povertà e da una disoccupazione strutturale molto elevati, a cui va aggiunta la quasi totale mancanza di servizi pubblici che dovrebbero garantire diritti di base come l’accesso alle cure, l’istruzione e la distribuzione dell’acqua potabile. In assenza di un serio intervento pubblico, i servizi essenziali sono spesso forniti dalle organizzazioni umanitarie internazionali, che si sostituiscono di fatto a quella che dovrebbe essere l’azione governativa e che generano così una dipendenza strutturale dagli aiuti dall’esterno. Oltre a condizionare politicamente il Paese, questa situazione diventa ancora più problematica con la riduzione dei finanziamenti alle organizzazioni internazionali e ai progetti di sviluppo che si sta verificando negli ultimi anni.

L’atto più clamoroso è quello della chiusura dell’Usaid a opera del presidente americano Trump all’inizio del suo secondo mandato, ma anche l’Unione europea sta progressivamente riducendo gli stanziamenti, rischiando così di generare crisi molto gravi in contesti vulnerabili come nel caso dell’Eswatini. Da queste dinamiche emerge come necessario un approccio non assistenzialista dell’intervento umanitario che permetta di generare pratiche e servizi garantiti nel lungo periodo, questione fondamentale nel caso della fornitura dei servizi essenziali. Per capire l’importanza dell’accesso all’acqua potabile bisognerebbe sentire l’odore di quell’acqua che potabile non è, e bisognerebbe vedere gli sguardi persi di quei due bambini con i secchi in mano per capire cosa significa vivere con meno di un dollaro al giorno.

Basterebbe questo per rendersi conto di quanto siano importanti i progetti che cercano di porre rimedio a situazioni simili. Di queste dinamiche parlo con Richard Masimula, coordinatore per l’elaborazione dei piani locali di adattamento e per la componente acqua in Eswatini, mentre riprendiamo la strada. Richard lavora per Cospe, un’organizzazione di cooperazione internazionale attiva qui e in molti altri Paesi, con progetti a sostegno delle comunità rurali e con iniziative di inclusione, giustizia sociale e di partecipazione democratica. Lavora da anni con le comunità di queste zone, sembra conoscere ogni persona e ogni buca che incontriamo lungo la strada di sassi e polvere. Dopo pochi chilometri Richard mi indica un’altra pozza. Attorno, un altro mondo. Una ventina di persone, uomini e donne, giovani e meno giovani, con fango e polvere mischiati addosso. In mano hanno badili, picconi, pezzi di stoffa. Alcuni vestono di stracci o con i vestiti della festa. Due di loro hanno giacche blu da lavoro, sono infangati come gli altri e ai piedi hanno stivali di gomma bucati, parte di una divisa che li distingue dal resto del gruppo: sono i due tecnici del servizio idrico pubblico per le zone rurali, il Rural Water Supply.

Sono qui per trasformare l’acqua putrida delle fonti in acqua pulita, potabile, per tutta la comunità. Non con un miracolo, ma applicando conoscenze e tecniche per costruire filtri di terra e pietre. Richard mi accompagna verso il campo mentre indossa anche lui la giacca da lavoro. Camminando, mi descrive cosa stiamo per vedere. Strutture apparentemente rudimentali di terra e pietre: la costruzione dei filtri si basa sull’impiego di materiali reperibili in loco e sulla trasmissione di competenze che permettano agli abitanti di replicarli e manutenerli, senza dipendere dall’aiuto di altri. Per cominciare, una volta individuata la fonte e liberata dalle sterpaglie, si scava un piccolo canale per indirizzare l’acqua verso una pozza scavata appositamente alcuni metri più a valle. Lungo il canale vengono messe delle pietre, in modo che l’acqua corrente, passandovi in mezzo, depositi sabbia e terra.

Nella pozza viene posizionato il filtro vero e proprio, un cilindro di cemento riempito di pietre: l’acqua, con l’aiuto della fisica, lo riempirà dal fondo e sgorgherà da un tubo. Pulita. Da qui proseguirà il suo percorso verso le vasche di raccolta e verrà controllata e analizzata periodicamente per assicurarne la potabilità. Bastano pochi giorni per costruire un filtro, il lavoro è faticoso e completamente manuale, ma la sincera e numerosa partecipazione della comunità permette di distribuire bene gli sforzi. «Oggi c’è poca gente», mi dice una donna mentre mi passa vicino, «perché c’è il consiglio della comunità». Mi fa capire che di solito sono persino di più. Nel silenzio della campagna, rotto solo dalle voci e dal lavoro della terra, sembrano non percepirsi altre questioni che, soprattutto nelle città, risuonano in modo più evidente ma che hanno comunque riflessi nelle periferie.

L’Eswatini sconta problemi politici profondi, emersi con forza nelle violente proteste del 2021. Giovani sempre più istruiti ma senza lavoro e senza prospettive hanno iniziato a chiedere riforme e un’apertura delle istituzioni in senso maggiormente democratico e partecipativo. La monarchia ha risposto con una sanguinosa repressione e con la persecuzione degli attivisti coinvolti nelle proteste. Alcuni sostengono che la violenza della polizia e dell’esercito sia stata dovuta a una sostanziale incapacità, da parte del governo, di ascoltare le istanze della popolazione, abituato com’è a prendere ordini ed eseguire le direttive della Corona. Dalle proteste è emersa una richiesta di partecipazione che non è stata colta, che resta latente e che dovrà svilupparsi tentando altre strade, più graduali ma più radicali nelle premesse politiche. In questo senso la presenza di organizzazioni come Cospe assume un’importanza non solo economica, ma anche sociale e politica, che riguarda l’introduzione e il sostegno di dinamiche partecipative che emergono come istanze nella società civile, nelle città come nelle zone rurali.

Nelle città il fermento è più evidente e si esprime in organizzazioni e movimenti civili e culturali, pur senza sfociare in esplicite richieste politiche, essendo i partiti formalmente vietati dalla legge. Nelle campagne la situazione è più complessa, in quanto la necessità di soddisfare i bisogni primari sembra prendere il sopravvento sulle altre questioni. Considerare solamente questo aspetto nell’analisi e nell’intervento significherebbe ricadere in un assistenzialismo fine a sé stesso. La lungimiranza del lavoro che si svolge qui sta invece nel connettere le questioni di base con le istanze partecipative attraverso pratiche che permettono di esprimere e soddisfare entrambe queste necessità.

È sufficiente passare una giornata nei campi, tra questa gente, per rendersene conto. Nonostante le persone al lavoro siano molte, pochi parlano e anche la voce dei tecnici si sente di rado: non c’è bisogno di molte indicazioni, ognuno sembra sapere cosa deve fare. La loro presenza è però importante: quando non ci sono, la qualità e i ritmi di lavoro calano, probabilmente perché manca una guida pratica. Per ovviare a questo, al gruppo di lavoro vengono lasciati dei compiti che saranno verificati al giro successivo, tipicamente dopo una settimana: terminare la posa delle pietre, piantare i pali per i recinti, proteggere le opere con i teli impermeabili. Più delle indicazioni è importante l’esempio che i tecnici danno agli altri. Attraverso la loro pratica instancabile fanno percepire l’urgenza di quello che stanno facendo, di un progetto che avrà un impatto enorme sulla salute e sul futuro della comunità. Insegnando il lavoro a chi li segue, trasmettono competenze e conoscenze tecniche, ma anche un’attitudine al lavoro collettivo, alla cura dei beni comuni e all’autoresponsabilizzazione.

Il coinvolgimento attivo dal basso fa sì che questo tipo di progetti abbiano profondi impatti sociali. I fondi per implementarli, pur arrivando da organizzazioni non governative internazionali (in questo caso dalla cooperazione tedesca del Giz – Deutsche Geselleshaft fur internationale Zusammenarbeit), vengono impiegati sulla base di valutazioni delle necessità locali, attraverso pratiche partecipative e di risk assessment per i vari territori: si individuano zone a rischio e si progettano soluzioni che siano in grado di ridurlo. L’accesso all’acqua potabile è uno dei maggiori fattori di rischio per la salute collettiva nelle zone rurali. Nella progettazione dei filtri la scelta è quella di intervenire coinvolgendo gli attori direttamente interessati, gli abitanti stessi, in modo da ridurre la dipendenza dagli aiuti esterni e generare pratiche che possano essere replicate e sviluppate dalla comunità stessa.

Un approccio di questo tipo ha effetti diretti sulla popolazione non solo in termini di salute, ma anche di riduzione di vulnerabilità sociali e politiche, spesso causa ed effetto del disagio. Comunità resilienti, partecipi e più sane hanno un minor impatto in termini di sanità pubblica e di dipendenza dagli aiuti governativi, spesso completamente assenti e messi in ginocchio dalla riduzione degli aiuti internazionali su cui si basava il sistema pubblico. Il governo stesso tende ad appoggiare queste iniziative, come testimonia la presenza dei tecnici del Rural Water Supply. Di fatto il sistema pubblico viene sollevato da oneri di cui non riesce o non vuole prendersi carico e, al tempo stesso, accetta più o meno tacitamente che nuovi valori e nuovi modelli di partecipazione vengano sviluppati o incentivati. Talvolta ostacoli e intromissioni derivano dalle autorità locali, in quanto percepiscono queste iniziative come qualcosa che le scavalca: l’attivazione dal basso per far fronte a problemi quotidiani delegittima un’autorità che non è in grado di risolverli.

Un ultimo aspetto fondamentale da considerare è quello dell’indipendenza dagli aiuti. Importare tecnologie aliene obbligherebbe a far sempre affidamento su entità esterne per il funzionamento e la manutenzione degli impianti. Questo sarebbe problematico sia a livello di singolo progetto, in quanto metterebbe a rischio la continuità di un servizio essenziale, sia a livello aggregato: un Paese che si basasse su questo sistema diverrebbe dipendente dagli aiuti e dall’intervento esterni, che potrebbero diventare strumenti di influenza politica e ingerenza economica, quando non fonti di vera e propria dipendenza se considerati su larga scala. In questo senso l’influenza dei Paesi occidentali, i maggiori investitori in progetti di sviluppo, si può rilevare in vari modi. L’ultimo e più eclatante episodio riguarda i rapporti con gli Stati Uniti: recentemente cinque migranti detenuti nelle carceri americane per gravi reati sono stati deportati in Eswatini.

Come riporta Afp, questi prigionieri sono stati messi nelle stesse carceri dei parlamentari imprigionati per le proteste del 2021, rivelando quindi un’ulteriore problematica di tutela dei diritti umani nel Regno. Emerge quindi come necessario prestare la massima attenzione nel programmare interventi che non vadano ad alimentare queste dinamiche e che rendano possibile uno sviluppo indipendente e partecipativo. Quando il sole comincia a calare nessuno si è ancora fermato per riposare né per mangiare. Un po’ di stanchezza si comincia a percepire sui volti e la luce mette in risalto il sudore sulla pelle dei visi. Mi dicono che le tonalità di pelle più scure sono associate alla povertà, al lavoro all’aperto, nei campi. Qui effettivamente sono tutti molto scuri e molto abili nel lavoro della terra.

A fine giornata hanno fango ovunque, chi ha gli stivali li ha pieni, chi è a piedi nudi è come se avesse gli stivali, tanto è spesso lo strato di fango. Le mani fanno un tutt’uno con la terra, le lavano nell’acqua sporca e le asciugano strofinandole sulle cortecce degli alberi. Gli sguardi sono sereni, come quelli di chi ha fatto un buon lavoro. Mentre dal vicino villaggio arrivano alcune donne con le pentole a segnare la fine della giornata, l’ultima questione è quella della protezione delle fonti e dei filtri. L’impianto viene sigillato con teli, terra e argilla, in modo che le piogge non vadano a contaminare l’acqua di sorgiva; vengono tagliati alberi e fronde per coprire temporaneamente le zone di lavoro. Tutto attorno verranno piantate le reti per evitare il calpestìo delle bestie e delle persone di passaggio. All’interno della recinzione si lasceranno crescere gli alberi e tra pochi mesi si vedrà ben poco di quel che è stato fatto in questi giorni. Se ne vedranno gli effetti per molti anni a venire. Sebbene possa sembrare un piccolo spaccato di una realtà complessa, da questo punto di osservazione si possono vedere molte cose.

Si può osservare un Paese che cambia dal basso, dalle comunità che lo compongono. Comunità che sviluppano ed esprimono valori e istanze costruite nella vita quotidiana, che diventano necessità e patrimonio comune; principi che, pur non essendo urlati nelle piazze, entrano a far parte della cultura collettiva, della pratica di tutti i giorni, e così sedimentano e diventano base di partenza per le generazioni future.

Testo e foto di Nicola Bonardi

 

Indipendenza ma fino a un certo punto: la privacy con tessera politica?

Il 22 ottobre 2025, il componente del Garante per la protezione dei dati personali, Agostino Ghiglia, entra nella sede nazionale di Fratelli d’Italia in via della Scrofa 39. La sera stessa il collegio del Garante vota per la maxi-multa da 150 mila euro nei confronti della trasmissione Report e del suo giornalista Sigfrido Ranucci. 

Ghiglia spiega che il motivo dell’incontro era una presentazione libraria con Italo Bocchino e che ha soltanto «incrociato» Arianna Meloni. La sera successiva, l’autorità che dovrebbe garantire imparzialità sancisce però contro una trasmissione colpita da intimidazioni: Ranucci è stato attaccato, il giornalismo è sotto pressione. Eppure quel voto arriva. Ghiglia precisa che il procedimento è stato istruito, che c’è contraddittorio, che il diritto alla riservatezza dell’articolo 15 della Costituzione è coinvolto.

Apparentemente tutto nella norma. Ma restano due domande. Primo: quanto pesa l’immagine del membro dell’authority che entra nella sede del partito che quel giorno approva la sanzione? Secondo: quando la distanza istituzionale non è solo formale, ma sostanza, quali garanzie restano? Le associazioni dei giornalisti definiscono «inquietante» la coincidenza.

Chi difende la multa (come il direttore Gennaro Sangiuliano) la considera inevitabile. Ma l’apparato delle garanzie non è solo un contenitore tecnico: è anche una percezione pubblica. E se la percezione è che la prossimità politica precede un provvedimento sanzionatorio, la fiducia nella decisione si frantuma. Il diritto alla riservatezza, vitale, non si conterrà in un foglio tecnico: ha bisogno di istituzioni che non diano l’impressione di aver preso il caffè prima di deliberare.

In democrazia non basta che le regole vengano rispettate: occorre che si veda che la regola ha valore indipendente dai soggetti. Perché quando l’authority visita il partito e il partito vede l’authority, la normalità diventa simbolo — e il simbolo conta assai più dei pezzi di carta.

Buon lunedì. 

 

Foto WP

Il coraggio promesso, la resa firmata: così l’Europa svende il suo futuro verde

È tempo di chiamare le cose con il loro nome: l’Unione europea mostra una vigliaccheria strutturale nei confronti dell’ambiente, ritirandosi dietro la solita scusa della “competitività”. Il Consiglio europeo ha ufficializzato la frenata nell’attuazione del Green Deal: gli obiettivi climatici diventano «mezzi pragmatici e realistici», la riduzione del 90% delle emissioni entro il 2040 viene svuotata da clausole di revisione e crediti internazionali, pronti a coprire ritardi strutturali.

La retorica ambientale cede il passo alla deregolamentazione. Diciannove Stati membri, Italia in prima fila, hanno chiesto una “semplificazione” normativa che si traduce nello smantellamento delle tutele ambientali e sanitarie. I governi rivendicano il prolungamento del motore a combustione oltre il 2035 e nuovi margini per i biocarburanti: la transizione ecologica viene trattata come un vezzo costoso da sacrificare sull’altare delle lobby industriali.

In pochi anni l’emergenza climatica, che era stata il cuore politico dell’Unione, è stata inghiottita da una sequenza di crisi: pandemia, guerra in Ucraina, fiammate sovraniste. Il Green Deal sopravvive come reliquia verbale mentre l’Europa firma contratti per il gas liquefatto americano, riapre centrali a carbone, indebolisce i vincoli sull’agricoltura. È un ritorno all’ideologia che nega la scienza, pur sapendo che l’attuazione piena delle normative ambientali esistenti potrebbe garantire risparmi annuali per 180 miliardi in costi sanitari e ambientali, contro gli appena 8 miliardi promessi dalla “semplificazione”.

La vigliaccheria europea non è assenza di dichiarazioni, ma rinuncia sistematica. Il tradimento non è episodico: è un metodo. L’Europa che si vantava di essere faro climatico ha preferito l’ombra corta dei compromessi, scegliendo di arrendersi proprio mentre la scienza chiedeva coraggio.

Buon venerdì.

Meloni al Consiglio europeo, foto gov

Israele liberi Marwan Barghouti, il Mandela palestinese

Mentre scriviamo è in atto a Gaza una fragilissima tregua pomposamente definita “pace di Trump”, che ha permesso la liberazione di ostaggi e prigionieri e ridotto i raid israeliani, ma che non sembra poter prefigurare alcun futuro. Come noto finora, al di là della mediazione con Hamas, a riunirsi sono stati esponenti di numerosi Paesi, ma non ha trovato spazio la voce del popolo palestinese e delle sue rappresentanze. Quella più autorevole, che forse potrebbe influire positivamente è rinchiusa da 23 anni nelle carceri israeliane. Parliamo di Marwan Barghouti, leader di Al Fatah, riconosciuto tanto a Gaza che in Cisgiordania, ma persino in Israele e nel resto del mondo, considerato il “Nelson Mandela” palestinese.
Di recente è partita la raccolta, lanciata su change,org da numerose personalità del mondo della sinistra (l’elenco dei primi firmatari è contenuto nell’appello) che mentre scriviamo ha superato i 12 mila sottoscrittori e sottoscrittrici. Anche in altri Paesi sono partite simili petizioni e/o appelli, firmati da figure intellettuali, parlamentari di vari Paesi, esponenti delle comunità ebraiche unite da un comune punto di vista: occorre un reale percorso di pace.
Bisogna interrogarsi sulle ragioni per cui Barghouti sia così importante e per quali motivi sia stato escluso dall’elenco dei prigionieri liberati da Israele in cambio della restituzione degli ostaggi presenti a Gaza mentre altre persone, imputate e condannate per reati ben più gravi, siano tornate in libertà. Secondo molte fonti, palestinesi, israeliane e anche provenienti da diversi contesti internazionali, Barghouti, è in grado, per la sua storia coerente ma anche grazie al carisma conquistato, di poter sedere ad un tavolo negoziale, di poter risultare decisivo in un reale e duraturo processo di pace. Occorre quindi inquadrare meglio la sua figura.
Marwan Marghouti, è’ nato nel 1959 a Kobar, nei pressi di Ramallah in una famiglia comunista ed è entrato in Al Fatah a 15 anni. Tre anni dopo venne arrestato, durante una sommossa. Durante la sua prima esperienza di detenzione imparò l’ebraico, che parla correttamente (lingua che ha poi insegnato in questi anni in carcere, con l’idea che sia fondamentale per la conoscenza reciproca). Dopo il suo rilascio si laureò in storia all’Università di Bir Zeit (un tempo chiamata “la rossa”), e prese una seconda laurea in scienze politiche con un Master of Arts in relazioni internazionali.
Quando iniziò la “Prima intifada”, altrimenti detta “la rivolta delle pietre”, animata soprattutto da giovani, alla fine del 1987, ne fu tra i promotori. Questo gli costò l’espulsione in Giordania da cui tornò solo nel 1994 dopo la firma degli accordi di Oslo per cui, anche da Amman, si spese molto. Nel 1996 venne eletto nel Consiglio legislativo palestinese (Plc), con un approccio improntato al dialogo e al processo di pace. Rapidamente scalò la gerarchia palestinese, imponendosi sul notabilato che aveva già perso in autorevolezza, fino a diventare segretario generale di al Fatah per la Cisgiordania. Leader come il Presidente Arafat e lo stesso Abu Mazen, già lo guardavano come proprio possibile successore.
Come noto gli accordi di Oslo si rivelarono un fallimento, non fermarono la costruzione di insediamenti in Cisgiordania, vere e proprie colonie illegali anche per l’Onu, abitate per lo più da persone di religione ebraica ma provenienti dall’est Europa, che lentamente acquisirono gran parte delle terre migliori dei villaggi palestinesi, definendo proprie vie di comunicazione e determinando un regime di vero apartheid.
Le violenze continue portarono alla seconda intifada, molto più dura perché alle pietre sostituirono le armi da fuoco e gli attentati, in una guerra di liberazione comunque asimmetrica. Anche Marwan Barghouti sperimentò una profonda delusione e si mise capo del “Tanẓīm-Fatḥ”, una sorta di braccio armato da cui poi si distaccò per formare, secondo le accuse israeliane, le Brigate dei Martiri di al-Aqsa. Queste formazioni, malgrado il nome che evoca la moschea di Gerusalemme, erano il coagulo di gruppi, secolarizzati che ben poco avevano a che fare con la logica del martirio islamista. Nel 2002 iniziarono a colpire obiettivi militari, poi furono accusate di attacchi contro civili tanto da essere inserite nella Black list di Usa e Ue. Marwan Barghouti, ammise apertamente il diritto al ritorno alla lotta di resistenza, anche armata, e venne considerato, dai tribunali israeliani il capo di queste strutture. Prima di essere arrestato, in un’intervista, pubblicata dal Washington Post, dichiarò: “Non sono un terrorista, ma non sono neppure un pacifista. Sono semplicemente un normale uomo della strada palestinese, che difende la causa che ogni oppresso difende”. Del resto il diritto alla resistenza è garantito anche dalla Convenzione di Ginevra e da numerose carte costituzionali financo, alla Dichiarazione di indipendenza degli Usa e dalle leggi israeliane, secondo cui difendersi è un dovere. L’Onu che opera per prevenire ogni conflitto e/o violenza, con la Risoluzione 37/43 dell’Assemblea Generale, adottata nella 90ª seduta plenaria del 3 dicembre 1982, menzionò esplicitamente il diritto alla ribellione o resistenza.
Questo non ha impedito di accusare Barghouti come mandante di 5 omicidi, e di condannarlo ad altrettanti ergastoli nonché a numerosi ulteriori anni di detenzione. Il tutto in totale assenza di prove anzi, durante i dibattimenti di cui Barghouti non ha mai riconosciuto la legittimità, gli elementi a suo discarico non furono mai ammessi come probatori. Quello che invece è provato è che ben prima, nel 2001, era stato sventato il tentativo di assassinarlo, ordito dall’apparato militare israeliano e dai servizi segreti, che praticano da sempre l’omicidio extragiudiziale come forma di azione preventiva verso coloro che ritiene nemici, sia nei territori occupati che in ogni angolo del pianeta, almeno dal 1972.
Durante questi lunghi anni trascorsi in carcere, più volte, anche recentemente, è stato vittima di abusi e violenze da parte del personale carcerario. L’essere considerato, diverso dai vertici dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), spesso accusata di debolezza e corruzione, lo hanno reso un simbolo e un punto di riferimento. Un “eroe nazionale” che, una volta libero e in condizione di svolgere attività politica, sarebbe forse il solo in grado di coagulare tanto le forze del radicalismo islamista quanto quelle più laiche. La sua voce riunificherebbe due territori separati in questi anni non solo a causa dell’occupazione e dei conflitti: la Striscia di Gaza, o quello che ne resta, su cui ha pesato il dominio di Hamas e la Cisgiordania in cui ancora vige l’autorità dell’Anp.
Nonostante i lunghi periodi di isolamento in carcere, Barghouti è stato anni fa fra i promotori di un documento, dei Prigionieri Palestinesi (o Documento di riconciliazione nazionale), sottoscritto da esponenti di Hamas, Fatah e Jihad islamica, che invocava la creazione di uno Stato palestinese indipendente con Gerusalemme Est come capitale e confini basati sulle linee del 1967. Il suo volto è raffigurato in murales tanto in Cisgiordania che a Gaza. Le notizie che arrivano in questi giorni, da un fratello, da suo figlio, da sua moglie, Fadwa Barghouti che è anche l’avvocata che lo difende nonché dirigente politica, parlano di un uomo che non si è arreso.
Secondo un alto funzionario di Al Fatah, Awni Almashni, “Per molti palestinesi il suo rilascio potrebbe essere il metro per decidere il successo o il fallimento di questo accordo”.
Le ragioni per cui non viene liberato non sono giuridiche ma prettamente politiche, lo si evince per numerose ragioni. Numerosi leader israeliani, non certo quelli del governo dell’ultradestra che lo vorrebbero forse morto, per far ripartire la carneficina e giustificare l’annessione dell’intera Cisgiordania o al massimo in esilio in un Paese lontano, affermano chiaramente che Barghouti è la persona con cui dialogare e cercare un’intesa che scongiuri il proseguo della guerra, ma questo segnerebbe la fine di Netanyahu e del suo governo. C’è chi già da molto tempo sembra pensarla in maniera diversa.
Già nel 2007, l’allora vice primo ministro israeliano Shimon Peres, dichiarò che in caso di vittoria alle elezioni avrebbe firmato il perdono per il prigioniero. Vinse ma non mantenne tale promessa.
Il movimento israeliano pacifista Gush Shalom chiede continuamente la sua scarcerazione e, nei giorni scorsi, ha tentato di porre il problema anche Il presidente del Congresso Ebraico Mondiale, Ronald Lauder, offrendosi di partecipare alla fase dei negoziati a Sharm El Sheikh e chiedendo esplicitamente che Barghouti venisse inserito nella lista delle persone da liberare. Col pretesto di non poter rischiare una spaccatura interna, il governo israeliano ha impedito tale intervento ma, pare certo che sia stato lo stesso Netanyahu a negare ogni ipotesi di liberazione.
Va anche detto che la liberazione di Marwan Barghouti porterebbe ad un rimescolamento nella leadership palestinese. Hamas troverebbe un uomo disponibile al dialogo e alla riunificazione fra i diversi movimenti, ma anche colui che potrebbe segnare il declino del partito islamista, le cui scelte politiche e militari hanno già incontrato opposizione soprattutto a Gaza. La stessa Anp dovrebbe rivedere i propri ruoli e definire quello che non è solo un cambio generazionale.
E mentre dalle prigioni in cui viene spostato Marwan Barghouti, giungono notizie pessime di nuove aggressioni da parte dei carcerieri, che ne mettono in pericolo la vita – ne ha subite almeno 4 in un anno senza ricevere cure mediche – e mentre non è neanche chiaro se sia ancora nell’inferno di Megiddo (nord di Israele) o in altra struttura, forse la spiegazione più netta della sua situazione ci giunge da un giornalista italiano molto affermato. Si tratta di Paolo Mieli che, intervistato da Lilli Gruber nella sua trasmissione ha recentemente affermato “Marwan Barghouti va liberato, ma non adesso. Va liberato come Mandela, […] Altrimenti, se lo liberiamo subito, è uno che può creare molti problemi a Israele”. Ad avviso non solo di chi scrive, questa è l’essenza di un pensiero colonialista, condivisa non solo in Israele: è il più forte a fare la legge, a dettare le condizioni, a decidere tempi e dignità di chi è oppresso. Un tempo in Israele, l’allora primo ministro, poi Nobel per la Pace, Yitzhak Rabin, assassinato nel 1995 da un estremista di destra israeliano, affermava che “la pace si costruisce negoziando con il nemico, non con gli alleati”. Ora si preferisce tenere il nemico in catene, segno del reale momento di pericolo che sta vivendo tutto il pianeta.
Anche per questo ci si deve augurare che, in quanto anticorpi al tentativo di impedire ogni reale processo che porti a pace e giustizia, proseguano le mobilitazioni contro lo Stato di Israele e il suo governo, attraverso il boicottaggio, la solidarietà attiva, le piazza, le migliaia di bandiere che sventolano ormai in ogni città del pianeta. Per fermare il disastro va riconosciuto lo Stato di Palestina, vanno liberati tutti i quasi 10 mila detenuti politici, non solo Marwan Barghouti e devono intervenire gli organismi sovranazionali. La raccolta di firme, ripetiamo attraverso Change.org è un atto individuale che acquista valenza collettiva. Che in tante e in tanti firmino e diffondano la proposta.

foto di Barghouti quando fu arrestato, fonte wikipedia commons

Gaza nello sguardo di due donne libere

Alla festa del cinema di Roma nella sezione Special Screenings è stato presentato Put your soul on your hand anda walk che vuol dire “metti la tua anima nelle tue mani e cammina”, frase pronunciata nel film da Fatem, una fotoreporter palestinese che vive al nord di Gaza. Il titolo del film nasce proprio da un rapporto epistolare moderno fatto di videochiamate tra due donne, la regista iraniana Sepideh Farsi e Fatem. Il film inizia con il 7 ottobre 2023, giorno dell’attacco di Hamas a Israele, la regista si ispira alla guerra che lei, oggi in esilio in Francia, ha vissuto da adolescente in Iran. In lotta con continue domande Farsi cerca di entrare a Rafah dall’Egitto per parlare con rifugiati palestinesi e grazie a un contatto conosce la fotoreporter ventiquattrenne Fatem Hassouna.

Da qui entriamo nel viaggio, fatto di videochiamate poco nitide, connessioni che saltano e un inglese essenziale ma che basta a farsi capire ed empatizzare. Diventano amiche, telefonata dopo telefonata e anche lo spettatore lo diventa delle due donne, tirando un sospiro di sollievo ogni qual volta la regista videochiama Fatma sotto le bombe di Gaza e lei risponde, appare nello schermo, è lì viva, incredibilmente sorridente perché come dice la fotoreporter “non possono sconfiggerci, non abbiamo niente da perdere”.
La differenza tra loro è che Sepideh è fuggita dall’Iran a18 anni, non potendoci più tornare altrimenti rischierebbe l’incarcerazione; Fatem vorrebbe conoscere il mondo ma non è mai uscita da Gaza, mentre sogna di poterlo fare su di lei a pochi metri cadono le bombe che uccidono i suoi vicini di casa, la sua nonna, i suoi amici, è impegnata a resistere, a trovare  del cibo, capire come ricaricare il suo telefono e i suoi strumenti da lavoro per poter continuare a fotografare quello che sta avvenendo.

E’ doloroso vedere il volto di Fatem cambiare con il passare dei mesi, il sorriso aperto e curioso dei primi tempi, l’ironia su come sistemare lo hijab, una battuta sulla voglia di cioccolata, tutto si fa sempre più assente, fino a comunicare alla regista di non riuscire a rispondere alle telefonate, in alcuni giorni, perché l’assenza di cibo la rende poco lucida e presentabile, parla di depressione e l’incapacità di alzarsi dal letto per il rumore degli aerei e dei droni sulla testa da mesi, 24 ore su 24 che ti massacrano il cervello, non ti fanno più pensare, piangere, reagire, ma ti rendono soltanto spettatori inermi.

La regia è composta dalle riprese che Sepideh fa con il suo il telefono, spezzoni di servizi giornalistici da Gaza, alternate tra le loro quindici conversazioni, avvenute tra aprile 2024 e aprile 2025, le fotografie che Fatem scatta ai gazawi, tra macerie e la ricerca di una “quotidianità” e canzoni mandate alla regista tramite vocali whatsapp.  E’ un reportage di campo ma tutti questi elementi lo rendono molto di più, siamo testimoni di una storia di umanità tra due donne che diventano amiche nonostante il contesto e che purtroppo non si incontreranno mai. Il film è stato presentato a Cannes in anteprima, poche settimane dopo Fatem non ha più risposto a quelle videochiamate, morendo nel cuore della notte.

Consola miseramente vedere che Fatem avesse saputo qualche giorno prima che il suo volto, le sue foto e tutta la sua storia sarebbero stati proiettati sullo schermo di uno dei più grandi festival del mondo, mi piace pensare che nelle notti più dure cara Fatem il tuo pensiero felice a cui aggrapparti fosse stato proprio questo. Noi siamo qui oggi ad applaudirti forte nella sala dell’Auditorium della Festa del cinema di Roma, con il cuore a pezzi e con il volto della regista Sepideh tra le sue ginocchia che commossa dall’affetto della platea sventola la bandiera della Palestina.

Foto courtesy produzione

 

Così la “guerra utile” viene usata per imporre lo stato d’eccezione

La condizione attuale delle democrazie liberali non può essere letta unicamente nei termini di una crisi contingente, è piuttosto un processo di smantellamento lento e strutturale dei suoi presupposti fondativi. Il principio di separazione dei poteri, cardine dello Stato di diritto, risulta progressivamente eroso da forme di concentrazione decisionale in capo all’esecutivo, spesso legittimate in nome dell’efficienza o della rapidità d’azione.

Contestualmente, la laicità dello Stato – quale garanzia di neutralità dell’ordinamento rispetto a visioni etiche e religiose particolari – viene intaccata attraverso una crescente permeabilità del diritto alle morali maggioritarie, che condizionano le scelte legislative e le politiche pubbliche. In tale quadro, il controllo del cosiddetto quarto potere, la stampa, assume una funzione strategica: non più spazio pluralistico di opinione pubblica critica, ma terreno di omologazione narrativa e riduzione del dissenso, mediante concentrazioni editoriali e dispositivi di influenza informativa. Il processo è lento, spesso impercettibile nella quotidianità, ma produce effetti di lungo periodo che riconfigurano l’assetto democratico in senso plebiscitario.

La negazione o minimizzazione della crisi climatica si inserisce in questo disegno di ridefinizione dell’agenda pubblica: ciò che dovrebbe costituire un’emergenza globale viene declassato a tema opinabile, spostato fuori dal perimetro della responsabilità politica cogente. La rimozione della questione ambientale consente di evitare la trasformazione dei modelli economici e giuridici che essa imporrebbe, perpetuando uno status quo compatibile con gli interessi consolidati.

Da questo contesto discende la nascita di un nuovo paradigma: lo stato d’eccezione come forma ordinaria di governo. L’emergenza, anziché rappresentare una sospensione temporanea del diritto per far fronte a un pericolo concreto e delimitato, diventa meccanismo permanente di regolazione dei conflitti sociali. Le restrizioni delle libertà civili e politiche vengono giustificate in base a un principio di “responsabilità collettiva”, che sposta il baricentro dalla tutela delle garanzie individuali alla conformità a un bene pubblico definito dall’autorità. La logica dell’eccezione sostituisce gradualmente la legalità ordinaria, generando un diritto flessibile, adattabile e sottratto a un controllo giurisdizionale pieno.

In questo scenario, assume rilievo il fenomeno della “guerra utile”, intesa come strumento funzionale al mantenimento dello stato d’eccezione. Il conflitto armato non è più concepito come evento tragico da risolvere nel più breve tempo possibile, ma come condizione geopolitica da stabilizzare in forma di congelamento permanente. L’esempio del conflitto in Ucraina è emblematico: la mancata prospettiva di una soluzione negoziata produce un fronte che non avanza e non arretra, mentre il lessico bellico permane come giustificazione per la compressione delle libertà, l’aumento della spesa militare e la subordinazione delle politiche interne a esigenze di sicurezza.

La pace non viene espulsa solo come esito, ma come categoria giuridica potenzialmente idonea a ricondurre il potere entro limiti normativi, e per questo sostituita da formule ambigue che evitano la chiusura del conflitto: “guerra congelata”, “pace armata”, “pace sporca”, espressioni che mantengono l’eccezione in vita sotto una veste semantica attenuata.

La democrazia liberale sopravvive formalmente, ma perde progressivamente la sua sostanza garantista, sostituita da un modello emergenziale che trasforma l’eccezione in regola e la partecipazione in adesione. Il diritto, da limite al potere, diventa il suo strumento di perpetuazione.

 foto Filip Andrejevic