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Cala la produzione industriale, aumentano le ore di Cig. E il governo tace

Il Report “Congiuntura Flash”, pubblicato dal Centro studi di Confindustria, del mese di maggio presenta un’immagine molto chiara dell’andamento dell’economia italiana nel primo trimestre di questo 2024.
La possiamo immaginare come una foto in bianco e nero e senza sfumature. L’economia sì, cresce. Ma in modo pericolosamente disarmonico. Le prime righe del Report sintetizzano questo processo in modo lapidario: «Nel 1° trimestre 2024 il Pil italiano è cresciuto (+0,3%), anche se la produzione dell’industria e i consumi di beni si sono contratti. In positivo il turismo (su livelli record), i servizi (in moderata crescita) e l’export netto. Agiscono negativamente i problemi nei trasporti mondiali di merci, l’energia ancora cara, i tassi ai massimi. La fiducia di famiglie e imprese è in calo».

Sullo sfondo, il prezzo del petrolio, ancora alto seppur sulla via della moderazione e l’inflazione, bassa in Italia nel mese aprile, +0,8, ma la cui discesa si è fermata nell’Eurozona (+2,4%), con la “Core” – dalla quale è escluso l’andamento dei prezzi di beni energetici e alimentari – alta (+2,7%) rispetto alla soglia ottimale del +2,0%.
Il risultato di questo insieme è il calo della domanda interna, segnato dalla frenata dei consumi, in particolare di beni, confermata dalle vendite al dettaglio che vanno giù del -0,4% nel primo trimestre.

Vogliamo, però, qui concentrarci su un dato concretamente allarmante. Spiega il Report che «a marzo si è avuta un’ulteriore flessione di RTT nell’industria – il Real Time Turnover Index è un indicatore che traccia la dinamica del volume di attività economica in Italia, basato sui dati di fatturazione elettronica delle imprese, adottato dal Centro Studi Confindustria nel 2023 -, dopo quella lieve di febbraio; insieme al calo delle scorte, ciò è coerente con la riduzione registrata dalla produzione (-0,5% a marzo, -1,3% nel 1° trimestre). Per aprile, indicatori tutti negativi: l’HCOB PMI – che misura la salute dei settori manifatturiero e dei servizi – è scivolato di nuovo in area di contrazione (47,3 da 50,4) […] mostra un lieve peggioramento delle attese sulla produzione; continua l’altalena, su bassi livelli, della fiducia delle imprese manifatturiere».

Dati che sono, d’altronde, coerenti con quelli sulla Cassa integrazione elaborati dal nostro Centro Studi di Lavoro&Welfare, i quali registrano che, nel primo trimestre del 2024, sono state autorizzate oltre 135 milioni di ore di Cig, ossia il 7,03% in più rispetto allo stesso periodo del 2023.
Nel 2024, fino a marzo, i settori che richiedono più ore sono quello Meccanico, il Metallurgico, il Commercio, il Tessile e la Chimica.

Insomma, in questo momento la tenuta del Prodotto interno lordo del Paese è sostenuta, in sostanza, dal solo turismo e dai servizi. Per un Paese industriale come il nostro questo fatto dovrebbe far suonare forte l’allarme in tutto l’universo politico. Non abbiamo l’impressione che sia così.

IL FERMAGLIO di Cesare Damiano, già sindacalista e parlamentare in tre legislature, è stato ministro del Lavoro ed è presidente dell’associazione Lavoro & Welfare

Nella foto: manifestazione sindacale unitaria per il futuro di Stellantis, Torino, 12 aprile 2024 (Marioluca Bariona)

Quale modello di Europa vorrebbe l’estrema destra, Meloni getta la maschera

Meloni alla convention di Vox, frame video

Se in passato i membri dell’attuale governo, in vario modo, e i loro preoccupanti alleati europei affermavano di voler far uscire i rispettivi stati dall’Unione, ora non nascondono l’intenzione di cambiare l’Europa. Anche in campagna elettorale si sentivano spesso affermazioni come «per l’Europa la pacchia è finita», oppure «vogliamo un’Europa diversa». Il problema è che a parlare di Europa, proponendo linee di cambiamento pericolose, sono politici che non hanno accolto la lezione di Spinelli e di Ventotene, e che non si riconoscono pienamente nell’esperienza fondativa del progetto europeo, la resistenza e l’avversione a nazi-fascismo, e più in generale ogni forma di nazionalismo forte, causa di guerre e odi culturali insensati.
Se la presidente del Consiglio Meloni ha assunto almeno in apparenza, nelle situazioni internazionali più esposte, toni e atteggiamenti improntati a forme di maggior equilibrio, per gestire in modo camaleontico la diplomazia in vista del suo tornaconto, non ha però rinunciato al progetto di cambiare l’Europa a sua immagine, e lo si è visto continuamente. E nei giorni scorsi abbiamo assistito a un episodio di questo tipo che intristisce molto.
I ministri degli interni di 15 paesi Ue, fra cui l’Italia, non contenti del nuovo Patto su migrazione e asilo da poco approvato – che già va a ridurre drasticamente l’atteggiamento di solidarietà e umanità che dovrebbe invece guidare l’Europa – hanno inviato alla Commissione una lettera in cui auspicano l’adozione del modello Ruanda, come nella Gran Bretagna del conservatore Sunak.
Perciò, non solo esternalizzazione delle frontiere – senza curarsi del fatto che ci si affida a regimi autoritari come in Libia, Tunisia e Turchia – ma anche intenzione di esternalizzare lo smistamento – quasi i migranti per loro fossero una merce, soggetta a reso nel caso non vada bene per i nostri interessi. Sempre più con Meloni &Co si parla di Europa Fortezza.
Senza voler fare meccanici accostamenti, mi è tornato in mente, tuttavia, lo stesso libro da cui partiva il mese scorso un mio intervento sulle pagine di Left: LTI. La lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo, di Victor Klemperer. Lo studioso vissuto sotto il regime hitleriano annotava un’espressione centrale per la propaganda ideologica nazista, «la fortezza Europa», che doveva chiudersi, in uno spazio solo fisico (e perciò gretto e limitato), in cui riconoscersi ossessivamente, annullando ogni contatto con culture diverse per mantenere nell’isolamento la propria purezza e continuare la battaglia per annientare l’altro. Klemperer ricorda anche che nel 1938 i discorsi di Mussolini e Hitler alimentavano l’idea di un lavoro congiunto per il progetto di una nuova Europa, quella che abbiamo appena descritto.
Nonostante la distanza di anni, il libro mantiene la sua stringente attualità anche su questo punto. E, oggi come allora, certi leader politici non capiscono che lo spazio europeo è uno spazio mentale e culturale, dunque aperto, senza confini reali da imporre con la forza. Klemperer nelle pagine del taccuino torna con la mente ad alcune sue ricerche accademiche, sulla concezione di Europa nella cultura francese: da studioso aveva messo in luce come a definire quello spazio fosse uno “spirito” e non un’appartenenza territoriale, e proprio per questo si trattava di un’Europa estendibile, senza che ciò comportasse il rischio di perdita delle radici, anzi rinnovate e riscoperte nei vari incontri, proprio perché l’autentica immagine di Europa stava, sta e dovrebbe rimanere nei «termini di pacifismo, internazionalismo e umanità»

 

L’autore:Matteo Cazzato è dottorando in filologia all’Università di Trento

La biodiversità nel dibattito per le elezioni europee?

In Italia è a rischio il 46,3% degli ecosistemi naturali e seminaturali, ovvero circa un quinto di tutta la superficie del Paese. È quanto emerge dalla Lista rossa degli ecosistemi d’Italia, elaborata dall’unione internazionale per la conservazione della natura (Iucn), che si occupa di monitorare lo stato di salute delle specie e degli ambienti.

Openpolis che ha analizzato i dati spiega che l’eco-regione adriatica è quella con più ambienti vulnerabili (94% degli ecosistemi). Seguono quella tirrenica e la padana, con rispettivamente l’87% e l’81% degli ambienti a rischio. Quest’ultima è l’area con la quota più elevata di ecosistemi in pericolo critico (il 14%) e l’unica in cui non è presente alcun ecosistema che possa essere considerato a basso rischio (il 18% non risulta censito). Le zone meno vulnerabili sono invece quelle montuose, in particolare l’ecosistema alpino, che per il 72% risulta essere a rischio basso o inesistente.

Secondo il Wwf, tra 1970 e 2018 il numero di specie a livello globale si è ridotto del 69%. L’Istat dice che quasi un quarto dei cittadini italiani considera la perdita di biodiversità una delle cinque preoccupazioni ambientali prioritarie. Si tratta di un numero altissimo, praticamente inesistente nel dibattito politico. Anzi, spesso quelle persone vengono additate come ecoterroristi, ambientalisti incalliti. Sono i famosi “signor no” a cui fa riferimento spesso e volentieri il ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture Matteo Salvini. 

Ci si aspetterebbe che poco prima delle elezioni – soprattutto elezioni così importanti come quelle europee – tutti i partiti facciano a gara per strumentalizzare il tema (in tempi di magra perfino una strumentalizzazione potrebbe essere un segno di vita). E invece niente. 

Buon lunedì. 

Nella foto: Valli di Comacchio (Carlo Pelagalli)

L’arte degli sciamani di comunicare l’invisibile

Negli spazi di Palazzo delle Albere a Trento e del Museo etnografico trentino San Michele, un grande progetto espositivo esplora da punti di vista diversi e complementari un tema affascinante come lo sciamanismo. Si tratta di un grande e originale percorso espositivo che vuole indagare un fenomeno complesso a partire dalle sue implicazioni con diverse discipline e chiavi di lettura: dall’etnografia alla storia delle religioni, dall’arte all’antropologia culturale, realizzato da diversi soggetti, dal Muse (il Museo delle Scienze di Trento) al Mart (Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto) al Mets (Museo etnografico trentino San Michele).
Gran parte dei reperti esposti provengono dalla collezione privata di Sergio Poggianella, un gallerista e collezionista d’arte il quale ha seguito un percorso unico nel suo genere che lo ha portato, a seguito di un incontro avvenuto in Siberia con uno sciamano durante un suo viaggio (in quella occasione ebbe l’opportunità di assistere a un rito sciamanico) a raccogliere e collezionare oggetti legati al mondo degli sciamani e successivamente a studiarli in modo rigoroso e sistematico. Questo incontro, che determinò una svolta radicale nei suoi interessi e nella sua vita professionale avvenne nel 2000, quando, in occasione di un viaggio a Budapest, conosce l’antropologo e presidente dell’International Society for Shamanistic Research (ISSR) Mihály Hoppál, grazie al quale viene invitato a Yakutsk, in Siberia, in occasione della conferenza internazionale “Musical Ethnographhy of tungus-manchurian peoples” organizzata nell’agosto dello stesso anno dall’Acccademia delle scienze della Repubblica di Sakha, o Jakuzia (il ramo siberiano dell’Accademia Russa delle Scienze).
A raccontare il suo incontro con lo sciamano è lo stesso Poggianella in una lunga intervista raccolta in un video proiettato in una sala della mostra. A partire da quel momento, oltre a collezionare oggetti legati al mondo degli sciamani, Poggianella ha cominciato a studiarlo in modo approfondito (nel 2008 si laurea in Scienze Antropologiche ed Etnologiche presso l’Università Bicocca di Milano). Nel 2013, per raccogliere la collezione, che nella sua sezione dedicata all’arte sciamanica dell’Eurasia attualmente conta oltre 3000 reperti, è stata creata la fondazione Sergio Poggianella, dalla quale provengono i pezzi esposti nella mostra Sciamani.

Nella sezione ospitata dal Museo etnografico trentino di San Michele sull’Adige, alcuni oggetti legati al mondo degli sciamani (principalmente maschere e amuleti) sono disseminati tra le sale dedicate al mondo delle tradizioni popolari del Trentino, allo scopo di creare un dialogo tra mondi lontani, ma uniti dal profondo e arcaico legame con la natura all’insegna di un comune panteismo cosmico. «I popoli siberiani non distinguono tra il materiale e lo spirituale, tra l’animato e l’inerte (..) La minima particella di un tutto possiede un’anima» scrive Ugo Marazzi nell’introduzione a Testi dello sciamanesimo siberiano e centroasiatico.
Nella sede di Trento, che ospita la parte più importante della mostra, i reperti esposti sono accompagnati da un ampio e approfondito apparato didattico, che accompagna il visitatore in un viaggio all’interno del mondo sciamanico. Il piano superiore del Palazzo delle Albere invece è dedicato agli artisti contemporanei che in modo diretto o indiretto si sono riferiti a quel mondo.
La prima difficoltà con cui si sono dovuti confrontare i curatori della mostra (tra loro figura anche l’antropologo Massimiliano Nicola Mollona dell’Università di Bologna), era proprio quello di organizzare una materia così vasta e complessa e renderla fruibile anche al più vasto pubblico di non-specialisti. Quello degli sciamani rappresenta un mondo vastissimo, che non possibile nemmeno circoscrivere in un preciso orizzonte spazio-temporale. Non è possibile stabilire una data di inizio neanche in modo approssimativo, Si tratta inoltre di un mondo esistente e vivo anche nella contemporaneità, che coesiste con quello globalizzato. Anche dal punto di vista geografico, non può essere confinato a una precisa regione. Infatti sono fin troppo evidenti le sue connessioni con analoghe tradizioni del mondo animista africano o dell’America pre-colombiana. E d’altronde è possibile intravedere alcune affinità anche con le radici più arcaiche del mondo mediterraneo o di quello nord-europeo dei Celti, degli Slavi e dei Germani.

I reperti esposti nella mostra sono antichi e contemporanei allo stesso tempo (in una sezione si fa un interessante raffronto con le primissime rappresentazioni dell’uomo, le stilizzazioni dei graffiti rinvenuti nelle caverne dove si ritrovavano gli uomini nella preistoria), ma concepiti esclusivamente per la celebrazione di riti, e non per essere esposti in un museo o catalogati in un archivio. Tuttavia è presente ed evidente anche un elemento estetico, che può giustificare la loro inclusione in una collezione di oggetti d’arte. Del resto sono stati gli artisti del novecento che si sono ispirati, in tempi e modi diversi, ad alcuni aspetti dello sciamanesimo (il concetto stesso di “performance” rimanda in modo diretto o indiretto ai riti degli sciamani, come testimoniano i riferimenti nella sezione dedicata agli artisti contemporanei alle figure di Marina Abramovic e Joseph Beuys, che hanno fatto della performance il loro principale mezzo di espressione artistica). Quindi è il nostro concetto stesso di arte che si è esteso fino a ricomprendere dentro i suoi confini anche elementi del mondo sciamanico, nel quale, tra l’altro la donna da sempre gode di pari diritti di cittadinanza rispetto all’altro sesso. Lo sciamano infatti può essere uomo o donna. La cosa curiosa è che nelle regioni dell’Asia dove il fenomeno è testimoniato, il termine per indicare la sciamana è sempre lo stesso (udayan presso gli Iacuti, utayan presso i Turchi sud-siberiani, uduyan/udagan presso i Mongoli e udagan/odigon presso i Buriati), mentre quello per indicare lo sciamano varia tra le diverse popolazioni (ciò ha fatto ipotizzare una origine femminile dello sciamanesimo).
Occorre infine sottolineare un aspetto fondamentale del mondo sciamanico: il valore “terapeutico” del rito (ma anche in questo caso è possibile scorgere una possibile connessione con le origini del teatro, compreso quello greco antico). Non è uno spettacolo fine a se stesso quello che mette in scena lo sciamano, non è una rappresentazione, ma è un vero e proprio viaggio in una dimensione “altra” allo scopo di compiere un atto terapeutico. Tuttavia non è un atto privato, ma si svolge in pubblico, all’interno della comunità nella quale lo sciamano è riconosciuto tale. I primi testimoni europei che ebbero la possibilità di assistervi parlarono prima di possessione diabolica, poi di manifestazioni isteriche. Successivamente alcuni studiosi hanno messo in relazione con altri fenomeni legati allo stato psicofisiologico della trance.


Lo sciamanesimo è un fenomeno vivo e attuale che ha attraversato tutti i secoli di storia del pensiero umano dalle origini ai giorni nostri e che non smette di meravigliare per le sue, vere o presunte, guarigioni, incuriosire gli studiosi, ispirare gli artisti di tutto il mondo e che da poco è oggetto di studi e di ricerche, del quale si potrebbe e dovrebbe parlare ancora a lungo.
Agli organizzatori di questa mostra va il merito di avere puntato i riflettori su un fenomeno antichissimo, che continua a mettere in discussione lo statuto, le demarcazioni e i limiti di diverse discipline e campi di studi: dalla proto medicina alla storia dell’arte, dalla storia delle religioni all’antropologia culturale, dalla storia della scienza alla filosofia.

 

Come funziona il sistema TeleMeloni

Per capire il funzionamento della Tv pubblica, ai tempi di TeleMeloni, non dobbiamo partire dalla censura che si è abbattuta contro lo scrittore Antonio Scurati alla vigilia del 25 aprile, festa nazionale che celebra la Liberazione dell’Italia dal nazi-fascismo.

Certo, l’episodio ha fatto il giro del mondo. Si è conquistato le prima pagine dei quotidiani.
Scurati, autore di una tetralogia dedicata al fascismo e a Mussolini, vincitore nel 2019 del più importante premio letterario italiano, il Premio Strega, aveva firmato un contratto per recitare un monologo sul 25 aprile durante il programma del canale pubblico Rai3, Che sarà.
Il giorno precedente alla messa in onda, la conduttrice Serena Bortone viene a sapere che il contratto è stato annullato per decisione aziendale. In una mail dei vertici Rai, emersa successivamente, si scopre che la scelta si deve a “motivi editoriali”.

Malgrado i tentativi di giustificazione dell’azienda pubblica, che cerca di ricondurre il mancato intervento a ragioni di carattere economico, a un mancato accordo sul cachet di 1.800 € richiesto da Scurati, è chiaro che a dare fastidio è stato il contenuto di quel monologo.

Scurati parte dall’omicidio Matteotti, il parlamentare socialista ammazzato il 10 giugno 2024 da sicari al soldo di Mussolini, per proseguire con la definizione del fascismo come di un “fenomeno di sistematica violenza politica omicida e stragista”. Chiedendosi, a quel punto, se Meloni & Co. Avranno il coraggio di riconoscerlo una buona volta. “Tutto, purtroppo, lascia pensare che non sarà così. […] Finché quella parola – antifascismo – non sarà pronunciata da chi ci governa, lo spettro del fascismo continuerà a infestare la casa della democrazia italiana” (qui il testo del monologo).

Troppo, evidentemente, per l’ultradestra di governo che continua a tener fede al motto del partito neofascista Movimento sociale italiano – nella cui giovanile Meloni si è formata: «Non rinnegare, non restaurare». Soprattutto, viene da dire, “non rinnegare”.

Il miglior modo di capire, infatti, non è inseguire ciò che fa rumore, ma provare ad ascoltare ciò che passa in silenzio.
Perché, come scriveva Kapuściński, «il silenzio è un segnale di disgrazia, spesso di un crimine. … Tiranni e occupanti hanno bisogno del silenzio per nascondere il loro operato. Basta osservare il modo in cui i vari colonialismi hanno mantenuto il silenzio, con quanta discrezione lavorasse la Santa Inquisizione … . Dagli stati dove le prigioni sono piene emana un gran silenzio».

Partiamo dunque da ciò che raramente si racconta e che però succede in Rai da un anno e mezzo a questa parte, da quando cioè Fratelli d’Italia ha vinto le elezioni del settembre 2022 e ha nominato uomini di fiducia nei posti chiave dell’azienda pubblica.
In Italia, infatti, dal 2015 la Rai è passata dal controllo del Parlamento a quello dell’esecutivo. Si è dunque legato un pezzo del potere mediatico al potere governativo. Per opera di chi? Non della cattivissima ultradestra, ma della “presentabile” socialdemocrazia in salsa italiana, di quel Partito Democratico, erede del Pci, all’epoca capitanato dall’enfant prodige Matteo Renzi (oggi a capo di un piccolo partito di centro).

Sono utili le parole di due dipendenti Rai, pronunciate in occasione dello sciopero dell’Usigrai, sindacato dei giornalisti del servizio pubblico, del 6 maggio scorso.
Una protesta che metteva insieme ragioni di carattere sindacale – stabilizzazione dei precari, concorsi per nuove assunzioni, ecc. – e la difesa della libertà di espressione e di informazione.

Enrica Agostini, del Comitato di redazione di Rai News 24, ha dichiarato di non aver “mai subito delle pressioni e delle censure come quelle che sto subendo in questo periodo”.
Proseguendo: “Non abbiamo dato la notizia di Lollobrigida in treno (quando il ministro dell’Agricoltura, cognato di Giorgia Meloni, fece fermare un treno a una stazione non prevista perché rischiava di arrivare in ritardo a un appuntamento istituzionale, abusando così del suo ruolo) se non dopo molte ore, dopo che il CdR di cui faccio parte aveva scritto una nota molto dura”.

Terminando, asserisce che capita spesso che i vertici impongano titoloni per esaltare Meloni, come nel caso dell’ampio spazio dato all’articolo del britannico Telegraph del 3 aprile (“L’Italia di Meloni sta facendo ciò che la disperata Gran Bretanga può solo sognare”).
Uguale risalto dato, certo casualmente, ben 3 giorni dopo il titolo del Telegraph, anche dai quotidiani dell’ultradestra di proprietà del parlamentare leghista e grande proprietario di cliniche private, Angelucci.

Non siamo ancora ai livelli della “velina” che il 4 luglio 1938 il Minculpop, il ministero della Cultura Popolare, il Ministero della Propaganda di Mussolini, inviava alla stampa, invitandola a “notare come il Duce non fosse affatto stanco dopo quattro ore di trebbiatura”, ma pian piano rischiamo di avvicinarci.

Federica Bambogioni, giornalista del Tg2 di Rai2, ha evidenziato invece il tentativo di un superiore di far eliminare o minimizzare in un servizio Tv il dato relativo al calo degli italiani in partenza per le vacanze a causa di inflazione e ristrettezze economiche.
Un po’ come quando il 12 novembre 1941, con la guerra mondiale che già mordeva, il Minculpop intimava la stampa di “non occuparsi in alcun modo delle ‘code’ (per i generi alimentari)”.

Le testimonianze di Agostini e Bambogioni potrebbero essere derubricate a episodi minori. Il problema, però, sta nella ripetitività, nella sistematicità di tali comportamenti. Non più singoli episodi, ma anelli di catene che danno forma a un “sistema”. A TeleMeloni, per l’appunto.

E per ogni tentativo censorio che trova opposizione e resistenza, ce ne sono sicuramente molti di più che vanno a segno. A maggior ragione quando indirizzati a giornalisti precari, quindi con le spalle meno coperte. Non a caso, Macheda, segretario del sindacato dei giornalisti Usigrai, durante la giornata di sciopero sottolineava l’importanza della rivendicazione della “stabilizzazione … perché anche in una giornata come questa devono andare in onda, perché il rischio è quello di perdere la paga giornaliera …, ma in un clima come questo anche di vedersi al prossimo giro detto ‘guarda, non abbiamo bisogno di te’”.

Un altro tassello su cui si sta cercando di costruire l’egemonia dell’ultradestra nella Tv pubblica è la distruzione della forza sindacale dei giornalisti Rai. Tradizionalmente c’è stata un’unica organizzazione a rappresentarli, Usigrai (che può contare circa 1.600 iscritti sui poco più di 2mila giornalisti Rai). Da dicembre 2023, però, le cose sono cambiate ed è entrato in scena un nuovo sindacato: UniRai.
Uno strano sindacato, a dire il vero. Nato su input di Giampaolo Rossi, direttore generale Rai, cioè di uno dei nuovi vertici aziendali di nomina governativa. Uomo di fiducia che per Meloni cura da sempre gli affari interni alla Tv pubblica. I due sono legati dalla militanza giovanile nel post-fascista Msi, quello della fiamma di Mussolini da tenere viva. Sezione Colle Oppio, per l’esattezza.
Uno strano sindacato, se è vero che dei 350 iscritti che dichiara, quasi la totalità sarebbero quadri, dirigenti, capistruttura.
Ancora, uno strano sindacato ad ascoltare le dichiarazioni di Vittorio Di Trapani, presidente della Federazione nazionale della stampa italiana ed ex segretario Usigrai: “Non ho memoria di una organizzazione, che si dichiara sindacato, che inviti i propri iscritti a rinunciare al giorno di riposo, a cambiare i turni di lavoro per mettersi a disposizione di direttori e dirigenti, tentando così di depotenziare lo sciopero proclamato da una sigla sindacale”.

E, in fondo, è la stessa UniRai a rivendicare la messa in onda di Tg1 e Tg2, sebbene in edizione ridotta e rimaneggiata, grazie alla propria azione di “crumiraggio”: “Oggi è caduto un muro. È la fine del monopolio …. Oggi è una giornata storica per la Rai. Chi pretendeva di imporre la sua visione alla totalità dei giornalisti Rai è stato sonoramente sconfitto”.

A lavorare contro lo sciopero, però, non c’è stato solo il boicottaggio interno dei crumiri. Si aggiunge lo scetticismo generato in tanti, all’esterno della Rai, verso un sindacato e un corpo lavoratori che troppo spesso in passato sono rimasti fermi e silenti quando pure si registravano pressioni e censure.
A marzo 2022 a finire vittima della censura del Tg1 fu addirittura Papa Francesco per il suo discorso contro le spese militari. E, all’epoca, non c’erano certo al governo i nipotini del Duce, ma sua eccellenza Draghi.
Un presidente del Consiglio che, a proposito di “inchini” dei giornalisti, non era certamente secondo a Giorgia Meloni. Basti ricordare gli applausi preventivi di tanti giornalisti il 21 dicembre 2021, all’ingresso di Draghi nella sala stampa dove avrebbe dovuto tenere la conferenza di fine anno. Non certo il comportamento che ci si aspetterebbe da “cani da guardia del potere”.

Le critiche a TeleMeloni, tra l’altro, aprono il rischio di scenari tutt’altro che democratici. Per contrastare infatti la stretta dell’esecutivo sulla Tv pubblica, stanno tornando con forza sulla scena politica le posizioni di quanti da tempo chiedono “fuori la politica dalla Rai” o, più esplicitamente, la privatizzazione della Rai.
Di fatto questo passaggio segnerebbe la consegna del servizio pubblico nelle mani di presunte entità indipendenti – che poi indipendenti non sono mai, rispondendo a poteri meno pubblici di quelli politici – o di nuovi privati, ancor più svincolati da ogni possibile forma di controllo popolare e democratico.

Oltre a porre nuovamente la Rai sotto controllo del Parlamento, togliendola dalle mani del governo, ciò che occorrerebbe è una riflessione sulla censura e sull’esclusione quotidiana che soffrono ampi settori della nostra società, a partire dalle classi lavoratrici e popolari. Un’enorme maggioranza che non ha capitali per costruire media di respiro nazionale e che sempre meno si vede rappresentata dalla Tv pubblica.
Sarà forse giunto il momento di pensare a nuove strade? Qualche tempo fa, in Argentina, fu avanzata una proposta che prevedeva la tripartizione del “campo mediatico”: un terzo al pubblico, un terzo ai privati, un terzo a media popolari, finanziati anche dallo Stato. L’obiettivo era infrangere il “latifondo mediatico” che consegna il potere di Tv e stampa nelle mani di pochi operatori che, uniti a grandi gruppi industriali e finanziari e ai principali gruppi politici, costituisce la trama di potere che soffoca gli spazi di democrazia e libertà per la maggioranza della nostra gente.

Questo articolo di Giuliano Granato (portavoce di Pap) è pubblicato in collaborazione con Canal Red, fondato e diretto da Pablo Iglesias

Nella foto: Giorgia Meloni, frame del video di Fratelli d’Italia, 15 maggio 2024

Storia di Muhammed, afgano “deportato forzato” dal Pakistan

Dalla fine di ottobre 2023 ad oggi sono più di mezzo milione gli afgani espulsi dal Pakistan perché senza documenti validi. Tra di loro, molte famiglie che erano nel Paese da più di vent’anni, fuggite dall’Afghanistan a più ondate dopo le invasioni da parte dell’Urss e Usa, o a seguito della prima ascesa al potere dei talebani. Tra di loro, anche la famiglia di Muhammed, rifugiata senza dimora nella terra che li ha visti crescere.

Muhammed all’ingresso del cortile dove vive con la sua famiglia a Spin Boldak, provincia di Kandahar, Afghanistan (foto Guglielmo Rapino)

Muhammed ha uno sguardo profondo e muove in continuazione le mani ossute quando parla. La pelle è quella indurita tipica di chi ha passato anni tra i campi di mandorlo del sud e le labbra insecchite non smettono di aprirsi in sorrisi pieni d’intesa.
Ci spalanca il cancello di ferro arrugginito del cortile e le pupille profonde si rabbuiano mostrandoci le capanne di plastica e bastoni di legno davanti.
“Qui ci vivono più di venti famiglie, una ottantina di persone. Da quando siamo stati cacciati sono passati quattro mesi. Sopravviviamo alla giornata e bruciamo nelle stufe quello che troviamo per strada. Il freddo si sente uguale, soprattutto prima dell’alba”.
Muhammed è emigrato in Pakistan insieme alla famiglia ventidue anni fa, quando l’invasione statunitense ha acceso l’eco di un nuovo conflitto e la sicurezza nel sud del Paese era tornata ad essere un miraggio lontano. Si è portato dietro ogni cosa, consapevole che le speranze di rientrare si sarebbero spente presto sotto macerie e ritmi di mitra.

Distribuzione della ong Intersos di kit per l’inverno con bombole del gas, coperte e oggetti di prima necessità a più di mille famiglie, tra cui la maggior parte rimpatriate dal Pakistan, a Qalat, provincia di Zabul (foto Guglielmo Rapino)

In Pakistan ha iniziato una nuova vita, tirato su un piccolo commercio di alimentari e dato alla luce un paio di figli. Una vita come tante, scandita dal tempo stretto di una povertà che non ha fatto mancare l’indispensabile; fino a quando ad ottobre dello scorso anno il governo pakistano ha deciso di espellere tutte le persone afgane prive di documenti.
Senza porsi l’impiccio di chiedere da quanto tempo fossero nel Paese, senza domandarsi cosa sarebbe avvenuto di loro una volta tornati in una terra divenuta sconosciuta dopo decine d’anni d’esilio.
Un “piano di deportazione forzata”, come è stato definito dai rappresentanti dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, che ha gettato nel baratro di una scelta senza speranza un milione e 400mila persone, che vivono nel Paese da decenni pur non avendo mai avuto accesso alla documentazione legale.
Così, d’emblée, senza grandi complimenti, Muhammed e la sua famiglia di otto persone si sono ritrovati costretti a lasciare quella che per ventidue anni è stata la loro casa.

Tornati in Afghanistan con l’inverno alle porte, non hanno trovato altro riparo se non un cortile scoperto e un tetto di plastica; una latrina da dividere con settanta persone e la necessità costante di arrangiarsi per rimediare un piatto di patate e pane secco a fine giornata.
“Non sappiamo dove andremo. Per ora siamo qui, ci aiutiamo e ci aiuta Allah. Domani vedremo che fare”.

La risposta delle organizzazioni internazionali non si è fatta attendere. Sin dal primo periodo dell’emergenza tra novembre e dicembre 2023, sono stati allestiti due campi per rifugiati nelle città di confine di Torkham e Spin Boldak. Sotto il coordinamento dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), più di quindici organizzazioni non governative hanno preso parte a un comitato di intervento offrendo cure mediche di emergenza e pacchetti di aiuti economici per far fronte almeno alle prime esigenze legate al rientro.

Nonostante l’intervento realizzato grazie ai finanziamenti internazionali in coordinamento con le autorità governative, le risorse non sono sufficienti per far fronte all’ondata di rifugiati. Il rischio maggiore è legato alla cronicizzazione della situazione. La vita in campi profughi informali come quello alla periferia di Spin Boldak può comportare l’aumento del rischio di diffusione di epidemie di tubercolosi e colera, oltre a gettare soprattutto i bambini sotto i cinque anni nel pericolo costante di uno stato di malnutrizione acuta.
Secondo un report diffuso dalla ong Islamic Relief, quasi un terzo dei nuovi rimpatriati soffre di grave carenza di cibo e quasi due su tre riferiscono problemi di salute come diarrea e altri disturbi gastrointestinali.

I mezzi con cui le famiglie afgane deportate rientrano dal Pakistan. Campo di Takhtapol, provincia di Kandahar (foto Guglielmo Rapino)

“La situazione è disperata, la maggior parte delle persone ci ha detto che sono state costrette a lasciare il Pakistan in poche ore e abbandonare dietro di sé beni e risparmi”, ha dichiarato Maria Moita, capo missione dell’Oim in Afghanistan.
Come Muhammed, sino ad oggi sono mezzo milione gli afgani espulsi dal Pakistan da novembre e costretti a vivere da rifugiati nel proprio Paese.
Mezzo milione di vite scandite dal ritmo spezzato dell’urgenza di sopravvivere alla giornata. Mezzo milione di storie umiliate da un ritorno a casa senza alcuna casa.
Nel silenzio di un mondo assuefatto da turbini di notizie, preoccupazioni internazionali e malcelati interessi, gli occhi profondi di Muhammed raccontano la tragedia muta dell’ennesima sconfitta a cui un paio di mani ossute piene di fare non sanno arrendersi.

In apertura: Le tende di “casa” di Muhammad e la sua famiglia (foto di Guglielmo Rapino)

Piantedosi ha passato l’aspirapolvere

Vi sono nell’immaginario domestico queste scenette che funzionano molto bene in certi film leggeri in cui la moglie si lamenta del marito che non fa mai niente a casa. Solitamente si vede lei rientrare sfinita da una giornata di lavoro e dalla cura dei figli mentre lui sta spaparanzato sul divano difronte alla televisione, meglio con una birra in mano, meglio ancora con una maglietta troppo corta che gli scopre l’adipe. Quando lei, solitamente sovraccarica di borse, chiude la porta di casa si ferma sull’uscio accigliandosi mentre osserva il coniuge con guardia di rimprovero. Di rimando il marito comincia a elencare le missioni compiute. Ho passato l’aspirapolvere, ho messo i piatti nel lavello, ho sistemato quell’interruttore che da tempo immemore non accendeva più. La comicità sta nella pomposità con cui il marito inerme racconta l’espletamento di minuscoli doveri quotidiani.

Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi da mesi si è rarefatto nelle dichiarazioni pubbliche e nelle presenze sui media. Le malelingue dicono che sia un commissariamento dolce voluto dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni dopo alcune uscite infelici del ministro. Ogni mattina Piantedosi, come quel marito sul divano, sui suoi social ci elenca con fare teatrale le sue piccole faccende domestiche. Ieri ha scritto: “È stato rimpatriato in Tunisia un estremista islamico, che ho espulso per motivi di sicurezza dello Stato e prevenzione del terrorismo. L’uomo, entrato illegalmente in Italia, aveva infatti manifestato il proposito di commettere un attentato suicida nel nostro Paese”. Notare la prima persona singolare (“ho espulso”) e l’aura solenne nonostante la bazzecola. L’effetto è lo stesso del marito sul divano. 

Buon venerdì. 

«Con il premierato addio ai poteri dell’opposizione. E addio dissenso». L’allarme di Nadia Urbinati

«Quella di oggi in Italia è la democrazia del ceto medio, di chi ha una stabilità sociale ed economica. È la democrazia del 50 per cento, cioè di quell’unica parte di cittadini che va a votare. Una democrazia spaccata». È una visione forte quella di Nadia Urbinati, docente di Teoria Politica alla Columbia University, intervenuta al dibattito sul tema della mancata rappresentanza nella democrazia, insieme a Valentina Pazè, autrice del saggio I non rappresentati. Esclusi, arrabbiati, disillusi (Edizioni Gruppo Abele, 2024), presentato al Salone internazionale del libro di Torino.
Due voci che si sono alternate per delineare i tratti di un vero processo di regressione della democrazia rappresentativa messa in crisi, in prima battuta, da un’offerta politica inadeguata che si mischia con l’erosione del consenso. «Il voto è un potere che fa molto male perché le decisioni che ne scaturiscono porteranno a delle leggi e le leggi dobbiamo rispettarle tutti, che ci piacciano o meno, che votiamo o meno. E il potere è uno strumento che può far male e può far bene». Ma chi usa oggi questo strumento? «Chi ha una buona posizione sociale, come per esempio, chi è già ingranato nell’organizzazione del lavoro – spiega -. Se pensiamo invece ai più poveri, ai lavoratori precari, ai rider e a tutte le categorie più a disagio ci rendiamo conto che sono soli e isolati. Allo stesso tempo, secondo diversi studi, le organizzazioni sociali, come i sindacati, ma anche i quartieri o la Chiesa, un tempo punto di riferimento per queste persone, stanno decadendo. Il cittadino solo diventa quindi un’unità tra milioni, e ha la percezione di non avere nessun potere di cambiare le cose. Anche perché i partiti non dialogano con il singolo individuo, ma fanno riferimento a gruppi di interesse».

Alle ultime elezioni amministrative del 2021, l’80% di cittadini benestanti ha votato mentre di quelli poveri (non solo per un dato economico, ma anche per isolamento sociale) solo poco più del 25%. La flessione della partecipazione elettorale è la dimostrazione che la democrazia senza organizzazioni si rivela un bluff, sostiene Urbinati. «È il sociale che si organizza e si trasforma in voto. Non a caso alle conquiste importanti, come lo stesso suffragio universale – afferma – si è arrivati dopo lunghi decenni di azioni con i sindacati, le cooperative. Questo significa che i partiti non sono un male necessario, una sorta di disgrazia che ci è capitata. I partiti sono una necessità per la democrazia partecipata e rappresentativa di molti e non di pochi».

Se decadono i partiti, decade anche la democrazia e il nostro Paese, in questa fase, si sta muovendo su un crinale pericoloso perché non ci si identifica più nei partiti e, di contro, la politica non è capace di dare risposte alle persone che vivono in condizioni di vita difficile. Quelle persone che Valentina Pazè fa rientrare sotto la definizione di “non rappresentati”, che disertano il voto perché convinte dell’inutilità del gesto. «La politica nella forma della partecipazione non è più percepita come un veicolo di emancipazione sociale – spiega l’autrice -. Partecipare in democrazia significa riconoscersi nel soggetto collettivo. E allo stesso tempo assistiamo alla ritirata dei partiti dal loro compito rappresentativo». Nel saggio si riflette anche su altre categorie di chi non vota. Si può pensare, per esempio, a chi non ha accesso al voto, gli “esclusi di diritto” come le persone straniere. E tornando al binomio democrazia-rappresentanza, «si considera democratica – dice – la rappresentanza quando pensiamo, per esempio, a un Parlamento che effettivamente rispecchia le posizioni di tutta la cittadinanza, soprattutto se eletto con un sistema elettorale proporzionale».

Questo sistema si oppone, secondo la filosofia politica, alla democrazia maggioritaria, dove la rappresentanza delle parti viene sacrificata per trovare una maggioranza solida, con l’obiettivo di dare stabilità politica al governo. Un sistema fintamente democratico: «Una singola persona – prosegue l’autrice – non può mai rappresentarci tutti, anche se dice di farlo. Un singolo individuo può essere rappresentativo solo in senso simbolico, come quando Donald Trump dice me, the people ovvero “io, il popolo”. Siamo in una fase di crisi dei partiti e della politica, e tendiamo quindi ad andare verso forme di rappresentanza simbolica che di per sé non hanno nulla di democratico».

L’eventuale introduzione del premierato, oggi ancora sotto forma di disegno di legge costituzionale e approdato di recente in Senato, orienterebbe proprio al modello maggioritario di democrazia. La riforma Meloni prevede infatti l’attribuzione di maggiori poteri al presidente del Consiglio e l’introduzione della sua elezione diretta. «Il potere e la funzione del voto verrebbero completamente sviliti da questa riforma», dice da parte sua, e a chiare lettere, Nadia Urbinati. «Perderemmo la rappresentatività perché si vota solo per avere una maggioranza, e questo già purtroppo sta avvenendo con le nostre leggi elettorali malsane. L’opposizione non avrebbe alcun potere. Andrebbe in crisi il potere di garanzia del presidente della Repubblica – afferma Urbinati – che è rappresentativo di tutta la nazione perché non è eletto dai cittadini. Stiamo parlando di una demolizione sistemica della democrazia parlamentare».

Perché difendere la democrazia parlamentare? «La democrazia presidenziale o con un capo è esposta naturalmente al populismo e ai plebiscitarismi, insomma a forme autoritarie. Il collettivo parlamentare è importante perché rappresenta coloro che hanno votato. Nel sistema parlamentare il voto ha due poteri: il potere di formare una maggioranza, e il potere di farsi rappresentare in Parlamento. Con il premierato (che è una forma di esecutivo, autoritaria, di dispotismo eletto che andrebbe chiamato maggioritariato) il voto varrebbe solo per formare una maggioranza granitica che non consentirebbe all’opposizione di fare il proprio lavoro. Questo è un deprivare i cittadini di tanti poteri, della parola, dell’opposizione, del dissenso. Se facciamo fatica oggi ad avere una televisione italiana pluralista, figuriamoci dopo. Se dovesse andare in porto il premierato saremo sulla falsariga di modelli autoritari e poco flessibili».

Qualche spiraglio di speranza per ristabilire il dialogo tra società civile e politica Valentina Pazè lo intravede nelle esperienze in cui i cittadini tornano ad aggregarsi, con un avvertimento però: «È confortante la reazione recente degli studenti definiti per anni come apatici – afferma – ma bisogna combattere il mito del cittadino apolitico. Penso alla democrazia deliberativa e a certe sue interpretazioni e alla democrazia basata sul sorteggio. Esperimenti a livello cittadino per cui si colloca l’assemblea cittadina tramite sorteggio e si discute su varie tematiche. Una trentina di persone affiancati da un facilitatore e con la presenza di esperti che arrivano ad emettere qualche decreto. Sono novità che suscitano entusiasmo ma sono forme di fuga dalla politica verso una visione tecnocratica, razionalistica. Si assume che ci sia un’unica risposta corretta ai problemi. Bisogna fare attenzione a non cadere nella trappola del mito del cittadino comune bravo e onesto contro i politici cattivi. Intravedo uno spiraglio di speranza nelle forme di attivismo che si organizzano nella forma classica della partecipazione».

Anche Nadia Urbinati esterna il suo scetticismo su modalità che «possono rivelarsi utili ma non per sostituire o deresponsabilizzare chi deve prendere decisioni sulle leggi o in Parlamento, nelle regioni o nei comuni. Ci possono dare indicazioni utili su quello che si potrebbe fare. Avere funzioni ausiliarie ma non decisionali. Ad esempio potrebbero essere utilizzate dai partiti per capire qual è la percezione che c’è nella società su un determinato argomento».

Nella foto: Il governo presenta le riforme istituzionali alle opposizioni, 9 maggio 2023 (governo.it)

Sud, zona economica speciale: il nuovo scambio ineguale

Il 17 maggio si terrà un’assemblea pubblica a Reggio Emilia sull’autonomia differenziata nel corso della quale sarà presentato il libro collettaneo di Left Repubblica una indivisibile euromediterranea. Pubblichiamo un estratto del saggio di Natale Cuccurese, presente all’incontro.

Da qualche settimana a questa parte tutta la stampa propaganda le Zes (Zone economiche speciali) e il ministro Fitto in una nota indica che la Commissaria europea alla concorrenza Margrethe Vestager «ha accolto positivamente la proposta» sulle Zes «superando le attuali 8 zone economiche speciali già previste e istituite per rafforzare il sistema e sostenere la crescita e la competitività del Mezzogiorno».
Lo schema è sempre il solito: propagandare un provvedimento in teoria utile per il Mezzogiorno (così come in precedenza si è fatto per il ponte sullo Stretto, il Pnrr o con la Cassa per il Mezzogiorno) per poi bloccare i fondi, spostarli e continuare ad usare il Mezzogiorno come discarica terzomondista a disposizione dello sfruttamento programmato a favore delle industrie e imprenditori, in prevalenza del Nord, e di multinazionali straniere. Ricordate le “cattedrali nel deserto”? Bene, qui se possibile è ancora peggio.

La premier Meloni ha inoltre colto l’occasione per sfruttare antropologicamente l’assist fornito da questa ennesima giravolta di Stato dichiarando: «Per il Sud basta assistenzialismo, ma lavoro e crescita» Non si capisce bene in quale periodo sia avvenuto l’assistenzialismo di Stato, visto che il Rapporto Eurispes Italia 2020 certifica in ben 840 miliardi di euro (solo nel periodo 2000-2017) la sottrazione al Mezzogiorno di risorse dovute in base alla percentuale di residenti (34%) dallo Stato e distratte dai governi del centrosinistra-centrodestra a favore dei territori della “locomotiva”.

Per la cronaca, le Zes sono aree geografiche dotate di legislazione economica differente dalla legislazione dei Paesi a cui fanno capo e vengono istituite per attrarre investimenti stranieri sul modello “neoliberista”, con una riduzione dei termini non solo per i procedimenti amministrativi, ma persino di tutti i procedimenti ambientali (Via, Vas, ecc.) allo scopo di “fare presto”. Nella gestione di queste aree con agevolazioni fiscali bisogna però stare molto attenti perché il rischio concreto è quello di distruggere l’ambiente e il paesaggio. Se non fosse ancora chiaro, è anche per questo che ad esempio tempo fa in Assemblea regionale siciliana è stato presentato il disegno di legge per smantellare le Sovrintendenze e, in generale, per eliminare i controlli sulle attività economiche nelle aree vincolate. Ad un osservatore attento non sfugge il fatto che le due Zes siciliane, che ora saranno abolite e integrate, sono molto ampie e inglobano zone archeologiche e, in generale, di pregio. In questi casi, avere le mani libere agevola gli investitori internazionali e affaristi vari, che non arrivano per fare beneficenza, ma solo per fare affari.

Ne sa qualcosa la Cina, che è stato uno dei primi Paesi a sperimentare le Zes e nelle cui aree in questione ha sviluppato un inquinamento ambientale spaventoso. Zes sono presenti da anni in India, in Russia, in Kazakistan, in Corea del Nord, nelle Filippine. La prima area Zes fu in Irlanda nel 1959. In nessun Paese esiste un’area così vasta come quella proposta dal ministro Fitto, mischiare aree metropolitane sviluppate con altre depresse effettivamente non sembra una grande idea. Nella sua forma attuale l’Unione europea ha previsto la possibilità di creare delle Zes dal 2013, e l’Italia si è adeguata con il decreto legge 91 del 2017, poi con un successivo regolamento nel 2018 e infine nel 2021 per tenere conto del Pnrr. Nel primo Dl, quello del 2017, è scritto che per Zes «si intende una zona geograficamente delimitata e chiaramente identificata» in cui «le aziende già operative e quelle che si insedieranno possono beneficiare di speciali condizioni, in relazione alla natura incrementale degli investimenti e delle attività di sviluppo di impresa» Uno dei criteri è anche che nella zona in questione ci sia almeno un’area portuale.

L’impresa che investe in una Zes deve impegnarsi a mantenere aperte le attività per un certo numero di anni (7/14). E dovrà effettuare le assunzioni tra i residenti dell’area Zes o nei comuni vicini. Le Zes, di fatto, sono aiuti di Stato camuffati. Infatti quasi tutti i Paesi della Ue che hanno istituito le Zes, fino ad oggi, hanno chiesto deroghe all’articolo 107 del Tfue (Trattato sul funzionamento dell’Unione europea). In tutti i Paesi del mondo dove ricadono le Zes a decidere sono gli Stati. Nell’eurozona decidono i burocrati della Ue e gli Stati non contano nulla, le regioni ancora meno. Il resto al momento sono solo chiacchiere, se non che è evidente l’assist europeo a favore del prosieguo dell’autonomia differenziata, non a caso Calderoli esulta.

A fare del Mezzogiorno un’unica grande zona economica speciale al posto degli otto piccoli distretti, ci ha pensato il ministro Fitto, che vuole accentrare nelle sue mani a Roma tutte le politiche di coesione, togliendo ogni potere alle regioni del Sud, ma contemporaneamente dare sterminati poteri alle regioni del Nord approvando in Cdm il Ddl Calderoli sull’autonomia differenziata. «La questione della Zes unica va inquadrata in un contesto più ampio di spesa dei fondi strutturali e di attuazione del Pnrr: le verifiche fatte ci dicono che dobbiamo avviare una nuova fase basata su un disegno unico di rilancio del Mezzogiorno». Così di colpo vengono cancellate le 8 Zone economiche speciali gestite a livello locale da altrettanti commissari e viene costituita una Zes unica gestita direttamente da Palazzo Chigi. Praticamente, un percorso di autonomia differenziata all’incontrario: il potere dello Stato in materia di politica economica – con le decisioni relative agli investimenti pubblici ma anche privati – viene accentrato invece che essere decentrato con un’autorizzazione unica che deve passare da Palazzo Chigi al Dipartimento di Coesione da richiedere anche da parte del più piccolo paesino del Mezzogiorno: non sembra una semplificazione ma l’esatto contrario.

È stato così pubblicato in Gazzetta Ufficiale 19 settembre 2023, n. 219, il decreto legge 19 settembre 2023, n. 124 che prevede: l’istituzione dall’1 gennaio 2024 della nuova Zona economica speciale per il Mezzogiorno, denominata “Zes unica” che comprenderà i territori delle regioni Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sicilia e Sardegna; l’istituzione di una cabina di regia Zes presso la presidenza del Consiglio dei ministri, con compiti di indirizzo, coordinamento, vigilanza e monitoraggio. In realtà questo gioco a rimpiattino, cioè abolire le vecchie Zes e far partire la Zes unica, è utile anche per fare ripartire, come al gioco dell’oca, tutto dal via. Bloccando gli investimenti, i fondi europei, i Fsc (Fondi per lo sviluppo e la coesione), assieme a tutti gli investimenti immateriali connessi o consequenziali (in turismo, cultura, ricerca scientifica, aiuti alle imprese, ecc.) già programmati.

Nella foto: il porto di Taranto

(estratto dal saggio di Natale Cuccurese, presidente nazionale del Partito del Sud pubblicato nel libro di dicembre 2023 di Left Repubblica una indivisibile euromediterranea)

Il libro di Left nella libreria qui (al numero 60)

 

 

 

Il libro sarà presentato il 17 maggio a Reggio Emilia

 

 

Le ribelli, scienziate contro ogni forma di pregiudizio

Oggi le donne possono votare, iscriversi all’università, scegliere liberamente quale percorso professionale intraprendere. Godono, almeno sulla carta, degli stessi diritti degli uomini. Se si guarda la realtà per quella che è, però, ci si accorge che le cose stanno diversamente. Le discriminazioni hanno cambiato forma, sono spesso meno evidenti rispetto al passato, ma esistono ancora e possono avere effetti devastanti. Un esempio è il gender gap, cioè il divario di genere, presente nelle aziende e nelle università. A parità di mansione e di anzianità lavorativa le donne guadagnano in media meno degli uomini; quando riescono a emergere, poi, devono fare i conti con il cosiddetto “soffitto di cristallo”, una sorta di barriera invisibile che impedisce loro di raggiungere con la stessa facilità della controparte maschile posizioni di potere e di prestigio.
In un articolo pubblicato nel 1993 sulla rivista Social Studies of Science, la storica della scienza Margaret W. Rossiter ha sviluppato il concetto di “effetto Matilda” (da Matilda Joslyn Gage, autrice di un importante pamphlet femminista pubblicato nel 18702). L’effetto Matilda indica la tendenza a sottovalutare o a sminuire i risultati scientifici conseguiti dalle donne. È stato dimostrato che le ricerche condotte da scienziate suscitano in media meno interesse e vengono citate con minor frequenza rispetto a lavori analoghi realizzati da uomini; quando l’importanza di una scoperta compiuta da una donna è innegabile, invece, questa viene spesso attribuita a un collega maschio. L’effetto Matilda ha segnato la carriera di molte grandi scienziate – da Nettie Stevens a Rosalind Franklin, da Cecilia Payne Gaposchkin a Wu Jianxiong – le quali spesso si sono viste negare un premio Nobel che sarebbe spettato loro di diritto; ma a subirne gli effetti sono state e sono tuttora anche migliaia di ricercatrici sconosciute che vedono il loro lavoro ignorato o svilito a causa di questo pregiudizio.

Sophia Jex-Blake

Com’è facile intuire, l’applicazione di un doppio standard, ovvero la tendenza a trattare in maniera diversa uomini e donne che si trovano in situazioni simili, non riguarda solo l’ambito scientifico, ma è pressoché universale. E a farne le spese sono sempre le donne.
In molti libri scolastici per l’infanzia la rappresentazione femminile è ancora stereotipata e legata a una visione antiquata della società; l’uomo lavora, pensa e produce, mentre la donna è innanzitutto e soprattutto una mamma, accudisce la prole e si occupa delle faccende domestiche. Nei manuali di storia, scienze o filosofia le donne non sono contemplate, e se compaiono è solo all’interno di box e schede di approfondimento. Una sorta di riserva indiana.
A volte il sessismo è quasi invisibile, altre volte è palese e colpisce con violenza, ma c’è sempre. È onnipresente e pervasivo. Sul lavoro e dentro casa, nella vita privata e in quella pubblica, le donne non sono mai davvero al sicuro. In tutti i sensi. Il sessismo non alimenta solo stereotipi e pregiudizi, non riduce solo gli spazi di autonomia e libertà, ma trasforma anche il corpo femminile in un bersaglio costantemente preso di mira. Non esiste una donna che nel corso della propria vita non sia stata molestata almeno una volta; si va dalle battute sessiste mascherate da complimenti alle aggressioni fisiche vere e proprie, fino ad arrivare a stupri e femminicidi. Chi minimizza o giustifica battutine e commenti, accetta implicitamente un retroterra culturale fatto di violenza e sopraffazione. Non a caso si parla di rape culture, ovvero “cultura dello stupro”.

S.Josephine Baker

La cultura in cui ci troviamo a vivere è definita da tanti elementi, compreso il linguaggio. Sessismo e discriminazioni di genere possono essere veicolati anche dal modo in cui usiamo le parole. Nella lingua italiana,
per esempio, questo avviene attraverso l’uso del maschile sovraesteso. Per fare un esempio, quando durante una conferenza o un’assemblea ci si rivolge a tutti i presenti, anche se le persone che partecipano hanno al 99% un’identità non maschile, il messaggio che viene involontariamente veicolato è «se non sei un uomo conti di meno, e io con le mie parole posso renderti invisibile». Lo spazio linguistico è, come ogni altro ambito umano, dominato dal maschile. Prova ne è l’asimmetria linguistica in cui tante persone incorrono quando devono nominare professioni associate a potere o prestigio sociale. Sopra ho citato il caso delle “donne scienziate”. È un problema culturale. Oggi parole come ministra, sindaca e avvocata hanno iniziato a diffondersi, seppur a fatica, mentre altre – medica, architetta, ingegnera, magistrata, notaia – fanno ancora fatica a imporsi.

Sembra che la piena parità di genere sia un miraggio lontano. La discriminazione, però, è un prisma a molte facce. Il sistema in cui ci troviamo non esclude e opprime solo le donne, ma chiunque non faccia parte del gruppo dominante. Le caratteristiche necessarie per far parte di questo gruppo sono facilmente intuibili. Bisogna essere maschi, bianchi ed eterosessuali. La categoria umana meno svantaggiata, oggi come ieri, è sempre la stessa.
«Tutto molto interessante, ma di cosa parla questo libro?». Semplice, parla esattamente di questo, cioè di patriarcato e sessismo, rapporti di potere e intersezionalità. Non lo fa in maniera diretta, ma attraverso le storie di otto donne vissute tra la fine dell’Ottocento e i giorni nostri. Brevi biografie di scienziate che sono state anche attiviste, femministe, pacifiste, tutte in un certo senso queer e rivoluzionarie. Ribelli. Ciascuna a modo suo, ciascuna seguendo una traiettoria esistenziale unica e irripetibile. Persone diverse, diversissime tra loro, ma con in comune un tratto importante: il coraggio di sfidare lo status quo e di spendersi per una società più giusta, equa e aperta.
Da Sara Josephine Baker, in prima linea nella lotta per il rinnovamento della sanità pubblica, a Laura Conti, partigiana, medica e ambientalista. Da Sophia Jex-Blake, che condusse una battaglia per l’accesso delle donne agli studi universitari in medicina, a Kathleen Yardley Lonsdale, cristallografa e riformatrice carceraria. Da Evelyn Hooker, che si spese per la depatologizzazione dell’omosessualità, a Lynn Conway, informatica transgender licenziata dall’IBM per aver voluto essere sé stessa. Da Roger Arliner Young, zoologa afroamericana alle prese con il sessismo e il razzismo del suo tempo, a Lilli Schwenk Hornig, una delle pochissime donne coinvolte nel Progetto Manhattan, che si rivolse al presidente Truman per chiedergli di non far esplodere le bombe a Hiroshima e Nagasaki.
Ho scritto questo libro cercando di non dimenticarmi mai chi sono e al tempo stesso allontanandomi il più possibile da me stesso. Da una parte ho affrontato ciascuna storia senza far finta di avere un punto di vista neutrale sulle cose e sul mondo. Non sono un algoritmo o un chatbot basato sull’intelligenza artificiale; sono un essere umano, esattamente come le persone di cui racconto la storia. Ho un corpo, un passato, delle idee che si sono formate nel tempo e mi hanno spinto a scrivere il libro che avete tra le mani. In un certo senso, però, decidere di adottare una prospettiva transfemminista e intersezionale mi ha consentito anche di essere altro da me. Sono stato una donna nera della classe operaia di inizio Novecento, una obiettrice di coscienza quacchera, una donna transgender che cerca di gridare al mondo la sua identità, una ragazza dell’alta borghesia ottocentesca. Ho capito che nessuna storia è lineare, nessuna vita banale, nessuna conquista definitiva. Può sembrare assurdo, ma le vicissitudini di una donna vissuta centocinquanta anni fa possono dire molto di chi siamo noi adesso, come individui e come società.
Scrivere questo libro è stato come prendere la cartina del Mar Mediterraneo che avevo davanti agli occhi da sempre e guardarla da un’altra angolazione. Spero che per chi legge l’effetto possa essere lo stesso. Ruotiamo lo sguardo, tutte e tutti. Ruotiamo la mappa, ruotiamo il mare.

Il festival scienza e virgola

Simone Petralia presenta il libro Le ribelli (Scienza express) venerdì 17 maggio alla ottava edizione di Scienza e Virgola (Monfalcone, ISIS Buonarroti). Il Science and Media Festival è promosso dalla SISSA Trieste per la direzione artistica di Paolo Giordano e la direzione scientifica di Nico Pitrelli. “Diversità” è la parola chiave di questa edizione, che si apre giovedì 16 maggio con un dialogo fra Olivia Laing e Chiara Valerio intorno alla “libertà” attraverso la “scrittura”, condotto da Paolo Giordano. Il festival è in programma fino al 21 maggio a Trieste e in molte sedi del territorio: sei giorni di incontri, dialoghi, eventi esperienziali e un vastissimo focus dedicato all’editoria scientifica. Per l’occasione Olivia Laing in anteprima nazionale presenta il nuovo libro Il giardino contro il tempo (Il Saggiatore). Paolo Giordano sarà anche in dialogo con la psicoterapeuta Stefania Andreoli che racconta il nuovo saggio “Io, te, l’amore. Vivere le relazioni al tempo del narcisismo” e con la giornalista Cecilia Sala sui temi de “L’incendio”. Al festival i nuovi libri di Filippo La Porta – Giuseppe Mussardo e del docente della Sorbona Daniel Andler su AI, e ci sarà l’astrofisica di Harvard Lisa Randall, considerata l’erede di Stephen Hawking, intervistata dalla divulgatrice scientifica Barbara Gallavotti. Il programma su Scienzaevirgola.it