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Ora, dite la verità, non vi sentite immensamente più sicuri sapendo che un esercito di ragazzini affolla le carceri pronto ad affinare inclinazioni delinquenziali?

Dal 1998 (primo dato storico registrato da Antigone) ad oggi non si erano mai registrati numeri così alti. E sarebbero potuti essere anche più alti senza la disposizione, fortemente negativa, che dà potere ai direttori di inviare i giovani adulti (ragazzi fino a 25 anni che hanno commesso un reato da minorenni) nelle carceri per adulti, interrompendo così relazioni educative importanti.
In linea con le aspettative più negative scaturite dall’approvazione del decreto Caivano e da un cambio di paradigma nella giustizia minorile, con un approccio maggiormente punitivo, il sovraffollamento sta iniziando ad arrivare anche negli IPM. Il modello della giustizia minorile in Italia, fin dal 1988, data in cui entrò in vigore un procedimento penale specifico per i minorenni, aveva sempre messo al centro il recupero dei ragazzi, in un’età cruciale per il loro sviluppo, nella quale educare è preferibile al punire, garantendo tassi di detenzione sempre molto bassi. “Quello che registriamo – spiega l’associazione Antigone – e che avevamo denunciato, sia durante le audizioni parlamentari svolte nel merito del decreto Caivano, sia nel presentare il nostro 7° rapporto sulla giustizia minorile (“Prospettive minori“) lo scorso mese di febbraio, è invece come si sia intrapresa una strada che cancella questi 35 anni di lavoro con la prospettiva drammatica e attuale di perdere ragazzi e ragazze per strada”.

Ora, dite la verità, non vi sentite immensamente più sicuri sapendo che un esercito di ragazzini affolla le carceri pronto ad affinare inclinazioni delinquenziali?

Buon giovedì. 

Michele Conìa: «Da sindaco vi racconto come l’autonomia differenziata rovinerà la Calabria»

«È una proposta irricevibile». Non usa mezzi termini Michele Conìa, avvocato, sindaco di Cinquefrondi (RC) e consigliere della città metropolitana di Reggio Calabria con delega ai Beni confiscati, periferie, politiche giovanili e immigrazione e Politiche di pace, riferendosi all’autonomia differenziata.  «Se questo inaccettabile progetto dovesse essere approvato, la situazione non potrà che peggiorare. I già esistenti divari territoriali si acuirebbero con un ulteriore indebolimento dei servizi fondamentali: dalla sanità all’istruzione, ai trasporti. L’autonomia differenziata, oltre che per il merito – spiega Conìa – è inaccettabile anche per la procedura parlamentare prevista per la sua approvazione: si prospetta come un progetto pressochè irreversibile, con l’emarginazione del Parlamento, declassato a ruolo meramente consultivo e di ratifica; inoltre le “intese” tra governo e Regioni avranno durata decennale e una modifica degli accordi potrà avvenire solo attraverso il reciproco consenso delle parti».

Michele Conìa, avvocato, sindaco di Cinquefrondi (Reggio Calabria)

Sindaco, lei lo scorso 14 marzo è stato audito in Commissione Affari costituzionali nell’ambito dell’esame del disegno di legge recante “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione”. Quali sono state le sue posizioni?

Ho ribadito con coerenza e profonda convinzione le motivazioni per cui vada portata avanti la lotta iniziata più di 5 anni fa, rimarcando con fermezza la contrarietà al disegno di legge sull’Autonomia differenziata, vero e proprio attacco all’unitarietà dei diritti sociali, destinato a produrre una cristallizzazione dei divari esistenti e un aumento delle disuguaglianze. Ho anche spiegato che sarebbe più opportuno parlare di Livelli uniformi di prestazione in quanto i Lep (Livelli essenziali delle prestazioni) sarebbero un’eguaglianza costruita sul minimo, che lascerebbe invariate le attuali e gravi disparità. Inoltre ho segnalato che, avendo intuito i gravi rischi per la democrazia e la vita economica e sociale del Paese, il comune che amministro, Cinquefrondi, è stato il primo in Italia che, nel dicembre 2018, ha adottato una delibera contro l’attuazione del federalismo fiscale e nell’aprile successivo ha avviato il ricorso contro il sistema di perequazione del Fondo di solidarietà comunale, invitando gli altri comuni a fare altrettanto e raccogliendo 600 adesioni.

Secondo lei, il dimensionamento scolastico, combinato con l’autonomia differenziata, potrebbe ledere il diritto costituzionale all’istruzione creando studenti e studentesse di serie A e di serie B?

Sì, io credo che crei penalizzazioni e diseguaglianze, basti pensare ai giovani che sono costretti a lasciare la Calabria per mancanza di opportunità, mentre oltre un terzo di quelli che rimangono non studia e non lavora. Inoltre, a partire dal prossimo anno scolastico 2024/2025, il decreto 127/2023 interministeriale, firmato dal ministro dell’Istruzione e del merito e dal ministro dell’Economia e finanze, darà applicazione al dimensionamento scolastico con l’individuazione dei criteri per l’assegnazione dei Dirigenti scolastici e dei Direttori dei servizi generali e amministrativi (Dsga), tenendo conto della popolazione scolastica regionale. A nulla sono valsi i ricorsi di Campania, Toscana, Puglia ed Emilia Romagna alla Corte Costituzionale che li ha respinti, e le numerose iniziative di protesta politiche e sindacali con manifestazioni studentesche. La disposizione prevede l’innalzamento del coefficiente ad un minimo di 900 studenti, rispetto agli attuali 600, per poter avere un proprio dirigente e Dsga con il conseguente accorpamento, soppressione e riduzione del numero delle autonomie scolastiche, in particolare nelle aree interne, periferiche e nei comuni montani. L’intera operazione genererà il taglio dei servizi di segreteria, del personale Ata, dei Dsga e frutterà un risparmio modesto: 88 milioni di euro a regime, nel 2032.

Con l’autonomia differenziata inoltre cosa accadrebbe?

L’autonomia regionale differenziata porterebbe alla frantumazione del sistema unitario di istruzione, minando nel contempo alla radice l’uguaglianza dei diritti, il diritto all’istruzione e la libertà di insegnamento (Costituzione, artt. 3, 33 e 34), ma subordinerebbe l’organizzazione scolastica alle scelte politiche, prima ancora che economiche, condizionando localmente gli organi collegiali. Tutte le materie che riguardano la scuola, e oggi di competenza esclusiva dello Stato o concorrente Stato -regione, passerebbero alle regioni, con il trasferimento delle risorse umane e finanziarie. Anche i percorsi Pcto (Percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento), di istruzione degli adulti e l’istruzione tecnica superiore sarebbero decisi a livello territoriale, con progetti sempre più legati alle esigenze produttive locali, così come sarebbero decisi a livelli territoriali gli indicatori per la valutazione degli studenti, con il reale rischio dell’abolizione del valore legale del titolo di studio. Anche le procedure concorsuali avrebbero ruolo regionale e più difficili diventerebbero i trasferimenti interregionali. Cosa resterà della contrattazione nazionale? Sarebbe destinato a mantenere una residuale funzione di cornice introducendo una versione regionale delle “gabbie salariali”, con i salari di alcune aree del nord che cresceranno, o resteranno stabili, e quelli del centro-sud che diminuiranno.

Non dimentichiamo poi le difficoltà di collegamenti tra comuni diversi e l’ insufficienza del trasporto pubblico…

I comuni interni, già colpiti da calo demografico e spopolamento, sono quelli più penalizzati perché poco collegati e lontano dai servizi. Inoltre moltissimi studenti e studentesse saranno costretti/e a spostarsi con un impatto negativo che comporta il progressivo impoverimento anche in termini di capitale umano dei nostri territori.

Se questo progetto di autonomia differenziata dovesse essere approvato, in che senso, secondo lei, aumenterebbero le distanze tra il Nord e il Sud e diventerebbero più profonde le attuali disuguaglianze sociali?

Le rispondo commentando i dati del recentissimo Rapporto Bes 2023 (Benessere equo e sostenibile), giunto all’undicesima edizione e diramato dall’Istat. L’analisi integrata dei principali fenomeni economici, sociali e ambientali offre dati allarmanti sulle condizioni economiche italiane. Nel 2023, il 22,8% della popolazione è risultata a rischio di povertà o esclusione sociale e il valore più elevato lo conquista il Mezzogiorno dove sono 866mila famiglie in situazione di fragilità economica. Secondo le analisi dell’Istituto, il rischio di povertà rimane alto per coloro che possono contare principalmente sul reddito da pensioni e/o trasferimenti pubblici (31,6%) mentre diminuisce per coloro che vivono in famiglie in cui la fonte principale di reddito è il lavoro dipendente (15,8% rispetto al 17,2% del 2022). Peggiora per coloro che svolgono un lavoro autonomo (22,3% rispetto al 19,9% nel 2022).

E qual è la situazione nella sua Calabria?

La deprivazione sociale e materiale cresce in Calabria più che in altre regioni. Se nella nostra regione, nel 2022, le persone povere si assestavano all’11, 8%, nel 2023 il numero è balzato al 20,7% . Mentre nel 2022 il 42% dei residenti era a forte rischio povertà o esclusione sociale, nel 2023 questo dato si è ulteriormente aggravato toccando punte del 48%. Un primo aspetto da non tralasciare è quello relativo alle condizioni delle famiglie: l’inflazione erode sempre più i redditi con una progressiva perdita di potere d’acquisto, spingendo verso la soglia della povertà un numero enorme di cittadini e cittadine che non riescono più ad affrontare le spese quotidiane, a pagare l’affitto, rinunciando persino a curarsi. A tal riguardo, il rapporto Bes, relativamente all’ambito sanitario, documenta che nel 2023 il 4,2% degli italiani ha dovuto rinunciare a visite mediche o accertamenti diagnostici per problemi economici: l’1,3% in più rispetto al 2022. Quello che maggiormente colpisce è che neanche chi lavora può considerarsi al riparo dal rischio di povertà assoluta. Il cosiddetto “working poor” è un altro fenomeno dilagante e allarmante. La fragilità economica è stata causata anche dall’aumento generalizzato dei prezzi arrivando all’assurdo paradosso, per cui le famiglie, nel 2023, pur riducendo i consumi, si sono ritrovate a spendere un + 9% rispetto all’anno precedente. Inoltre l’incidenza di povertà assoluta si conferma più marcata per le famiglie con almeno un figlio minore (12%). La fragilità economica continua a colpire duramente anche le famiglie straniere e i minori. Drammatico, infatti, anche il dato su questi ultimi con un’incidenza pari al 14%”.

Secondo lei, l’autonomia differenziata potrebbe indebolire anche il sistema sanitario?

Il Servizio sanitario nazionale già segnato da inaccettabili diseguaglianze regionali, rischierebbe il collasso. Incrociando i dati della Fondazione Gimbe e Svimez si registra una continua fuga dal Mezzogiorno per curarsi e il triste primato della migrazione sanitaria lo conquista la Calabria con picchi del 43% nella mobilità oncologica. Aumentano anche i “viaggi della speranza” dei pazienti in età pediatrica: nel 2020 la media nazionale si attesta all’8,7% con punte che arrivano al 30,8 % della Basilicata al 26,8% dell’Umbria e 23,6% della Calabria. In merito poi alla copertura per la prevenzione oncologica, la prima regione è il Friuli Venezia Giulia (87.7%) e l’ultima è nuovamente la Calabria dove solamente il 42,5% delle donne tra i 50 e i 69 anni si è sottoposta ai controlli. La regione Calabria devolve 77ml annui agli ospedali convenzionati accreditati privati della Lombardia. Infine un bambino nato nel 2021 in provincia di Bolzano ha un’aspettativa di vita di 67,2 anni mentre scende a 54,2 anni per un bimbo nato in Calabria.

Nell’ultimo e recentissimo Report Amministratori sotto tiro redatto dall’associazione Avviso Pubblico si apprende che la regione dove lei è amministratore, cioè la Calabria, è la più colpita e in 14 anni, dal 2010 al 2023, gli attacchi sono stati 801, con una media di 57 ogni anno e con un aumento, nel 2023, del 21% rispetto all’anno precedente. Lei ha mai subito attacchi e se dovesse essere approvata l’autonomia differenziata, secondo lei, potrebbero scatenarsi appetiti mafiosi?

Anche io come amministratore, e per la mia attività improntata alla trasparenza, alla legalità e lotta alla criminalità organizzata, ho subìto danneggiamenti in alcune proprietà di famiglia e minacce di morte con chiari messaggi intimidatori. Questi gesti vigliacchi non mi hanno piegato ma ho continuato a lavorare con maggiore vigore per trasmettere valori di legalità, impegno e coraggio e ispirando le nuove generazioni. Aggiungo che abbiamo modificato lo statuto del Comune rendendo obbligatoria la costituzione di parte civile in tutti i reati di criminalità organizzata ed episodi di violenza contro le donne. Il nostro borgo è stato riconosciuto dalla stampa nazionale come “modello Cinquefrondi” per le politiche di inclusione e per aver fatto dell’accoglienza e della cultura dell’antimafia il nostro tratto distintivo e la nostra forma di resistenza. In merito alla seconda parte della domanda, l’autonomia differenziata rappresenterebbe un pericolo per la tenuta Paese e del principio di uguaglianza riferito ai principali diritti costituzionali: salute, istruzione, università e ricerca, lavoro, previdenza, assistenza. Là dove il pubblico dovesse essere sostituito da politiche di esternalizzazione dei servizi e privatizzazione si allungherebbe l’ombra delle infiltrazioni mafiose e del fenomeno occulto, ma pervasivo, della corruzione non solo per gli ingenti flussi di denaro ma anche per mantenere consenso e controllo del territorio.

Michele Conìa ci saluta spronandoci a continuare la lotta: «Siate pur certi –  conclude il sindaco – noi non ci rassegniamo a un progetto che condanna i giovani e la loro speranza di futuro. Continueremo un’opposizione ferma e una lotta politica e sociale in difesa dell’universalità dei diritti, della coesione e solidarietà sociale nelle istituzioni e nelle piazze. Noi ci siamo sempre stati e lì ci troverete ancora».

L’autrice: Carmen D’Anzi è componente dell’Esecutivo nazionale del Comitato per il ritiro di ogni autonomia differenziata, l’unità della Repubblica, l’uguaglianza dei diritti

Nella foto: manifestazione per la sanità calabrese con il sindaco Michele Conìa e altri primi cittadini (da Fb Contro ogni autonomia differenziata)

 

Do you want to live forever? Il nuovo film di Guadagnino riflette sul tempo che passa

Tonio Kröger non giocava a tennis. Nemmeno Thomas Mann, a dirla tutta. Eppure, il romanzo del premio Nobel per la Letteratura nel 1929 potrebbe spiegare perché Luca Guadagnino è in testa al box office da un paio di settimane con l’ultimo film diretto. Che parla di racchette divelte dall’isteria di stare al mondo. Dove si invecchia a trent’anni. Rischiando, poi, di restare giovane per sempre. Forse, ognuno di noi è «un borghese su strade sbagliate». 

Il tempo passa. Senza fretta ma senza tregua, secondo un adagio spagnolo. Anche per chi vince tre Slam su quattro. Campioni o sparring partner non cambia la sostanza. I giorni rimangono contati comunque. Gli stimoli, invece, regalano l’illusione di fermare il momento. Se lo US Opencompleta il mosaico, meglio. È confortante ritirarsi senza rimorsi. Che sono assai peggio dei rimpianti. La donna nasce coach. L’uomo no. Entrambi, però, vorrebbero due vite dentro a un’esistenza sola. Ma mica si può? Sulla scacchiera alcune mosse escludono le altre possibili. Dicono che una relazione somigli a una partita. O viceversa. Zendaya è perfettamente calata nel ruolo. S’è allenata persino con Brad Gilbert, che riportò Agassi al primo posto del ranking mondiale dalla 122a posizione. Andre era scivolato lì. Tra Brooke Shields e Nick Bollettieri. 

I numeri fanno statistica. Si sa. Mentre il silenzio di una coppia, sovente, è un cattivo presagio. In fondo quanto vogliamo vivere davvero? Forse, dipende dai flashback. Specie se i giorni comprendono la colonna sonora di Trent Reznor. Tanto, alla lunga la mediocrità prenderà il sopravvento per entropia. Magari Anna Müller diventa imbattibile. Il futuro contempla l’imprevedibile. Ciononostante, meglio i figli di puttana che le acque chete. L’adolescenza precoce delude infinite promesse. Anzi, se qualcosa si smuove andrà storto come Legge di Murphy vuole. Chi si imbruttisce manco se ne accorge. Finendo per negare sordide gelosie. Shakespeare s’è inventato Iago già nel Seicento. L’anticipo nello sport, d’altronde, è tutto.

L’Adidas, per questo, premia i fuoriclasse del domani. In mezzo a richiami anni 80 smaccatamente subliminali. L’acqua Evian, le banane sdoganate da Chang al Roland Garros, i borsoni della Wilson.Non è product placement. Babolat, Prince, Head, fanno proprio sfondo. Come i roll up pubblicitari a fine gara. Coi loghi alle spalle durante le interviste televisive. I videogiochi della Namco e il web hanno mutuato la realtà. Se aggiungi qualcuno sui social, in pratica, gli stai chiedendo il numero. O almeno un contatto. Ovvio, le facce toste fa(ra)nno sempre alla vecchia maniera: un bigliettino di carta scritto a penna e infilato in tasca. Le emergenze notturne sapranno cosa farne.

Il regista palermitano è un intellettuale di sottrazione. Ben consapevole di strafare. L’edonismo “too much” dei suoi personaggi gli appartiene completamente. L’eccesso camp è compreso nel biglietto. Fa Cinema d’autore e di “genere” assieme. Osa e ammicca. Sembra Tomas Milian. Che passava dai set di Bertolucci e Antonioni a quelli diBruno Corbucci, per diventare “Nico Giraldi”. Ricorda l’indolenza passionale dei francesi meno noti, qui, in Italia. Rivette, Cantet, Audiard, Assayas. E François Ozon, soprattutto. Non lascia indifferenti. Mai. Non è da tutti dividere, con stile, senza clamori sguaiati. Riuscirci presuppone una grazia rassegnata/compiaciuta nient’affatto comune. «Fare un film vuol dire eliminarlo da te. E lasciarlo nel mondo. Quindi non esiste la sacralità di dover essere rispettati nell’aver fatto il film È un modo in cui tu ti porti nudo fuori. Quindi se un film non piace, non piace». 

Mike Faist e Josh O’Connor sono bravi sul serio. L’archetipo funziona. “Sputati” per la parte. Come la gomma ciancicata da Donaldson. Le grafiche accompagnano il narrato da déjà-vu analogico. Lo spettatore deve adagiarsi complice in poltrona. Assistere allo scambio insistito da fondo campo. Scoprire che nei motel di provincia le grassone difficilmente si fanno sedurre da carte a corto di credito. Le tipe rimorchiate su Tinder, probabilmente, si. Un lungometraggio d’azione sfiora sovente il posticcio. I momenti apicali avversano la noia. Il tie-break prova ad alternare col rimuginio. Quei manga giapponesi d’antan, un filo stucchevoli, la sapevano lunga. La palla di servizio fonde tensione e preludio. Il “braccino” è una metafora di casa. Crollare al secondo turno o al terzo set decifra la cartina di tornasole: magari sei una “fichetta” dal pisello grosso.

L’immediato degli sms è praticamente preistoria. «Abbiamo litigato, non vengo». Art l’avrebbe visualizzato anche coi segnali di fumo. «Nell’avversità dei nostri migliori amici troviamo sempre qualcosa che non ci dispiace». Le massime dei filosofi hanno il dono puntuale dell’attualità. I giovani crudeli devono essere egoisti. È previsto dal copione. L’infanzia rimanda rigurgiti sani e vigliacchi. Una macchina nel parcheggio vuoto basta a fare alcova.

 The dreamers, Dramma della gelosia e i Racconti morali chiudono il gioco dei rimandi (in)volontari. Che non escludono il contemporaneo contingente. Roger e Mirka Federer ispirano giovani sceneggiatori di sicuro talento. I Told Ya stampato in grigio melànge fa monito e cinegenia. Tra la Stanford University e i corridoi dellArthur Ashe. I fast-forward continui instillano dubbi. E nessuna certezza. Il finale aperto, confusamente concitato, allude a una possibile ri-let-tu-ra. Finché ci sono esisto. Devo scegliere? L’interrogativo sospeso nel vigore fragile dell’essere umani. Tra il paradosso del mentitore e la sindrome dell’impostore.

«Riesci a non distruggermi domani?»

Scoprire a 10 anni di essere fratello di una brigatista. Il memoir di Gianluca Peciola

In foto Ginaluca Peciola da bambino con il padre Giorgio Braghetti e con la madre Franca Peciola

Non basta il cuore, sono necessarie anche la forza e la lucidità per sostenere l’impatto emotivo provocato dal libro La linea del silenzio di Gianluca Peciola (Solferino edizione). Già presentato a Bologna,Milano,Palermo,Roma,Napoli, definito dal suo autore “romanzo di formazione”, questo testo dal titolo conradiano rievoca anni tempestosi della nostra Repubblica mentre in filigrana si svolgono rapporti affettivi personalissimi altrettanto coinvolgenti.Una famiglia, quella di Peciola, in cui la reverenza per il grande partito si mischia al buonsenso popolare e alla simpatia del carattere romano dei componenti, con i soprannomi che ricordano certi amatissimi film di Scola, la stessa onesta perseveranza, lo stesso humour.
Ma una rivelazione rompe l’atmosfera di racconto d’epoca: l’autore scopre all’età di dieci anni di essere il fratello di Laura Braghetti, componente della colonna romana delle Br, nel 1978 presente nel sequestro Moro, assieme a Moretti, Gallinari, Maccari alias ingegner Altobelli, nel covo di via Montalcino, l’unica ad opporsi alla condanna a morte del ministro, che a piazza Nicosia nel’79 irrompe nella sede della Dc e che 1980, sparò nell’omicidio del vicepresidente del Csm, Vittorio Bachelet.
Il segreto “traumatico” come dice l’autore, ne nasconde un altro: la madre, Franca, rivelandogli quella fraternità scomoda, ma amata, gli confida anche l’identità del suo vero padre, chiedendogli contemporaneamente di rispettare quella “linea del silenzio” cui tutta la famiglia si era attenuta, come una consegna.
«Il segreto per me più bruciante era quello su mio padre, per me atteso fino a quel momento e che rivelava in contemporanea una fraternità difficile», ci dice Gianluca Peciola, «mi sono sempre chiesto perché nessuno fino ad allora avesse voluto parlarne in famiglia». «Per Laura era diverso: avevamo una confidenza contenuta ma costante, quando c’era. Ma Laura c’era sempre più raramente, spariva per giorni e nessuno sapeva dove fosse».

Per un bambino nato intorno al 1970 fuori dal matrimonio, dal punto di vista dei diritti sociali, quelli erano anni difficili: la legge sul divorzio approvata nel ’74, la potestà maritale nel ’75, sull’uguaglianza dei coniugi, i figli nati fuori dal matrimonio erano illegittimi, secondo l’articolo 254, dare la legittimità sarà possibile molti anni dopo, nel 2012.
Giorgio Braghetti, padre legittimo di Laura e padre naturale di Gianluca, che tuttora porta il cognome della madre, era da lui conosciuto come zio Giorgio; zio acquisito in quanto la moglie Gina, madre di Laura, era la cugina di Franca. Gina muore presto e Giorgio, dopo un secondo matrimonio con un’altra donna (così dicono in famiglia), seguìto da una separazione, era rimasto solo. L’amore, all’interno della grande famiglia allargata, (il fantastico zio Angelo, grande lavoratore, fedele al partito, sua moglie, le due zie Gilda ed Ersilia) per quella donna onesta e lavoratrice, era sbocciato quasi naturalmente. Quando Gianluca aveva quattro anni, lo “zio Giorgio” morì.
Peciola scrive, una volta cresciuto, cominciava ad avere dei sospetti sulla sua origine, che c’era qualcosa che riguardava suo padre che non veniva detto. «Sì, mettevo insieme delle parole, delle frasi che non mi tornavano, spesso capitava che chiamassi papà mio zio Angelo. Annotavo su un quaderno impressioni e riflessioni». Era forse già l’inizio del libro?
«Forse. C’erano anche riflessioni sulla scuola, sulle scelte politiche, in quell’epoca erano importanti. Il libro l’ho iniziato molti anni fa, poi l’ho lasciato per lunghi periodi. Aspettavo il momento in cui maturasse dentro me il sentimento giusto per mettere in chiaro il rovello che mi portavo,. Mettere su carta mi ha aiutato a pensare, a cercare con più cura nella mia intimità”. Adesso, nella sua vita si svolgevano all’improvviso due vicende parallele: la ricerca di un padre assente e l’amore per una sorella travolta da ideali assolutistici, dalla folle idea che per cambiare la società si dovesse essere disposti a tutto.
«Due traumi», ripete Peciola, «legati tra loro, in una famiglia che mi ha dato molto, che mi spronava al rispetto degli altri, ma che non mi ha permesso di fare chiarezza sulle mie radici”. Il rapporto con Laura è sempre stato buono, prima più distante, quasi educazionale, poi affettivo nel vero senso del termine. Quello con mio padre mi è mancato molto, mi mancava quel senso di “fondazione”, malgrado la mia famiglia sia stata molto presente.

In un quartiere come era il Quarto Miglio, definito “ibrido” perché di tradizione popolare ma anche abitato da borghesi e piccolo borghesi, diventava difficile il rapporto con i vicini di casa, gli amici di zio Angelo fervente comunista, la disapprovazione di una comunità che si aiuta ma che è pronta al giudizio, l’imbarazzo nei giorni del rapimento, l’inizio della rottura con alcuni abitanti di quel territorio, la realtà che imponeva la scelta tra stare con il partito o con le Br, il suo rifiuto per quella violenza, l’autonomia di scelta nella sua vita politica, l’amore per le donne della sua famiglia allargata. E se non bastasse, quello che lui definisce «amore assoluto» per quella sorella che lo esortava a studiare, a scegliere un buon liceo, a comprendere che solo con la cultura si poteva battere il nemico e che continuerà come sorella maggiore. «Io sono cresciuto nel rapporto con lei», nonostante il carattere sporatico degli incontri, afferma Peciola, «e con me stesso ,nei colloqui avuti con lei dentro il carcere. Mi diceva di leggere Gramsci, ma anche Il giovane Holden di Salinger, si preoccupava che la mia preparazione fosse completa per affrontare la vita e il lavoro. Ma soprattutto mi parlava di mio padre.Mi raccontava di quanto ero stato amato da lui, cose che nessuno aveva saputo dirmi prima. Paradossalmente tutto quanto mi era mancato fuori da quelle mura, nella vita normale, lo acquistavo lì dentro, in quei dialoghi nel carcere».
Prima in quello di Voghera, poi in quello di Latina, di Roma, infine nei brevi incontri in casa quando, dopo il 1994, Laura si occupava delle condizioni degli altri detenuti, e aveva un permesso per uscire, tornando alla sera a Rebibbia. Nella casa sulla Laurentina, dove la famiglia si era trasferita, con la malinconia di chi si è reso conto di aver sbagliato, «sono qui a passeggio con te»,gli dice in quell’occasione la sorella, «prendiamo questo sole, il clima è tiepido, sopra ci aspettano per pranzare…» e continua «abbiamo tenuto Moro cinquanta giorni in uno spazio di neanche cinquanta metri quadri: lo Stato borghese pur nella sua crudeltà, è stato più generoso.. …» e poi «non si realizza nulla di buono se le premesse sono quelle che abbiamo creato con quei morti e la scia di dolori lunga chissà fino a quante generazioni».
Una testimonianza struggente e amarissima ad un fratello finalmente ri-conosciuto, libero dal silenzio nel quale era stato costretto, avviluppato dentro un mistero senza ragione. Una storia potente da romanzo russo, dove i sentimenti filiali e quelli legati alla fraternità si danno la mano continuamente nello svolgimento delle vicende. Una madre presente e silenziosa «vedova in ombra», dice lui, un padre, nato nel suo stesso giorno, stimato per la sua storia partigiana, testimoniata dai documenti Anpi, rimpianto, disapprovato per non essersi imposto nel suo ruolo prima di morire, e dopo, forse, irrazionalmente, per averlo “punito” morendo.
Per questo lei parla di romanzo di formazione ? Torniamo a chiedere a Peciola.
«Si, intendo dire non solo di formazione personale, la rielaborazione di sentimenti contrastanti, di identità negate, di distanze necessarie da prendere anche da chi amiamo, ma anche il riconoscimento della mia abilità di mettere insieme ricordi, memoria delle sensazioni, persino delle foto guardate tante volte, studiate, per cercare una ragione a quella distanza imposta. Per me questo libro rappresenta la chiusura di un cerchio, la ripresa di una figura fondamentale che mi è mancata, era una necessità “riparatoria”, la riparazione di un torto che sento di aver subito».
Ha dedicato il libro a sua figlia, come mai? «è stato un atto paterno, il bisogno di affermare la mia verità. Come dirle che questa è la mia storia e la nostra storia. Volevo sapesse chi era mio padre, chi era stato suo nonno. Una pacificazione con le mie, le nostre fragilità».

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Gianluca Peciola

 

 

 

 

In apertura Gianluca Peciola da bambino con il padre Giorgio Braghetti e sua madre Franca Peciola.

Non li votano nemmeno i parenti

Il candidato alle elezioni europee Pietro Fiocchi vi sarà capitato di vederlo se abitate in una sua circoscrizione elettorale. Nel manifesto il candidato di Fratelli d’Italia imbraccia un fucile e punta direttamente in faccia i malcapitati che lo osservano. Niente di nuovo, Fiocchi a Natale aveva riempito la sua Lecco con manifesti in cui appariva seduto su un poltrona con dietro un albero addobbato con bossoli colorati. 

Fiocchi è l’ex presidente e membro del consiglio d’amministrazione di Fiocchi of America Inc., la divisione americana dell’azienda. Cacciatore convinto, Fiocchi è uno dei tanti feticisti delle armi e del suo uso di questa destra che si sogna trumpiana. 

Qualche giorno fa Pietro Fiocchi è stato criticato nientedimeno che dal cugino Stefano Fiocchi, presidente del Consiglio di amministrazione della Fiocchi spa, che ha chiarito come il meloniano sia “solo un socio di minoranza della Giulio Fiocchi Holding. Non supportiamo e non finanziamo in alcun modo la sua campagna elettorale“. Non solo, Stefano Fiocchi in un’intervista al Corriere della sera ha spiegato che il parente “è stato invitato formalmente a evitare riferimenti alla società“. I cartelloni? “Un’immagine da cui ci dissociamo“, dice Stefano Fiocchi. 

Un candidato politico che vorrebbe una seggiola a Bruxelles che non verrebbe votato dai parenti ma che inevitabilmente prenderà i voti di parecchi esaltati è una fotografia paradigmatica di quest’epoca politica in cui si esagera per farsi notare, con buona pace della credibilità personale e della dignità, mentre i capi partito (in questo caso la presidente del Consiglio Giorgia Meloni) imbarcano voti senza proferire verbo. 

Buon mercoledì. 

Nella foto: frame del video di Pietro Fiocchi per gli auguri di Natale 2023

Liliana Segre: «Il premierato ha aspetti allarmanti, non posso tacere»

Signor Presidente, Care Colleghe, Cari Colleghi, continuo a ritenere che riformare la Costituzione non sia una vera necessità del nostro Paese. E le drastiche bocciature che gli elettori espressero nei referendum costituzionali del 2006 e del 2016 lasciano supporre che il mio convincimento non sia poi così singolare.
Continuo anche a ritenere che occorrerebbe impegnarsi per attuare la Costituzione esistente. E innanzitutto per rispettarla. Confesso, ad esempio, che mi stupisce che gli eletti dal popolo – di ogni colore – non reagiscano al sistematico e inveterato abuso della potestà legislativa da parte dei Governi, in casi che non hanno nulla di straordinariamente necessario e urgente.
Ed a maggior ragione mi colpisce il fatto che oggi, di fronte alla palese mortificazione del potere legislativo, si proponga invece di riformare la Carta per rafforzare il già debordante potere esecutivo.
In ogni caso, se proprio si vuole riformare, occorre farlo con estrema attenzione. Il legislatore che si fa costituente è chiamato a cimentarsi in un’impresa ardua: elevarsi, librarsi al di sopra di tutto ciò che – per usare le parole del Leopardi – “dall’ultimo orizzonte il guardo esclude”. Sollevarsi dunque idealmente tanto in alto da perdere di vista l’equilibrio politico dell’oggi, le convenienze, le discipline di partito, tutto ciò che sta nella realtà contingente, per tentare di scrutare quell’ “Infinito” nel quale devono collocarsi le Costituzioni. Solo da quest’altezza si potrà vedere come meglio garantire una convivenza libera e sicura ai cittadini di domani, anche in scenari ignoti e imprevedibili.
Dunque occorrono, non prove di forza o sperimentazioni temerarie, ma generosità, lungimiranza, grande cultura costituzionale e rispetto scrupoloso del principio di precauzione. Non dubito delle buone intenzioni dell’amica Elisabetta Casellati, alla quale posso solo esprimere gratitudine per la vicinanza che mi ha sempre dimostrato. Poiché però, a mio giudizio, il disegno di riforma costituzionale proposto dal governopresenta vari aspetti allarmanti, non posso e non voglio tacere.
Il tentativo di forzare un sistema di democrazia parlamentare introducendo l’elezione diretta del capo del governo, che è tipica dei sistemi presidenziali, comporta, a mio avviso, due rischi opposti.
Il primo è quello di produrre una stabilità fittizia, nella quale un presidente del consiglio cementato dall’elezione diretta deve convivere con un parlamento riottoso, in un clima di conflittualità istituzionale senza uscita. Il secondo è il rischio di produrre un’abnorme lesione della rappresentatività del parlamento, ove si pretenda di creare a qualunque costo una maggioranza al servizio del Presidente eletto, attraverso artifici maggioritari tali da stravolgere al di là di ogni ragionevolezza le libere scelte del corpo elettorale.
La proposta governativa è tale da non scongiurare il primo rischio (penso a coalizioni eterogenee messe insieme pur di prevalere) e da esporci con altissima probabilità al secondo. Infatti, l’inedito inserimento in Costituzione della prescrizione di una legge elettorale che deve tassativamente garantire, sempre, mediante un premio, una maggioranza dei seggi a sostegno del capo del governo, fa sì che nessuna legge ordinaria potrà mai prevedere una soglia minima al di sotto della quale il premio non venga assegnato.
Paradossalmente, con una simile previsione la legge Acerbo del 1923 sarebbe risultata incostituzionale perché troppo democratica, visto che l’attribuzione del premio non scattava qualora nessuno avesse raggiunto la soglia del 25%. Trattando questa materia è inevitabile ricordare l’Avvocato Felice Besostri, scomparso all’inizio di quest’anno, che fece della difesa del diritto degli elettori di poter votare secondo Costituzione la battaglia della vita. Per ben due volte la Corte Costituzionale gli ha dato ragione, cassando prima il Porcellum e poi l’Italicum perché lesivi del principio dell’uguaglianza del voto, scolpito nell’art. 48 della Costituzione. E dunque, mi chiedo, come è possibile perseverare nell’errore, creando per la terza volta una legge elettorale destinata a produrre quella stessa “illimitata compressione della rappresentatività dell’assemblea parlamentare” ?
Ulteriore motivo di allarme è provocato dal drastico declassamento che la riforma produce a danno del Presidente della Repubblica. Il Capo dello Stato infatti non solo viene privato di alcune fondamentali prerogative, ma sarebbe fatalmente costretto a guardare dal basso in alto un Presidente del Consiglio forte di una diretta investitura popolare.
E la preoccupazione aumenta per il fatto che anche la carica di Presidente della Repubblica può rientrare nel bottino che il partito o la coalizione che vince le elezioni politiche ottiene, in un colpo solo, grazie al premio di maggioranza.
Anzi, è addirittura verosimile che, in caso di scadenza del settennato posteriore alla competizione elettorale, le coalizioni possano essere indotte a presentare un ticket, con il n° 1 candidato a fare il capo del governo ed il n° 2 candidato a insediarsi al Quirinale, avendo la certezza matematica che – sia pure dopo il sesto scrutinio (stando all’emendamento del Sen. Borghi) – la maggioranza avrà i numeri per conquistare successivamente anche il Colle più alto. Ciò significa che il partito o la coalizione vincente – che come si è visto potrebbe essere espressione di una porzione anche assai ridotta dell’elettorato (nel caso in cui competessero tre o quattro coalizioni, come è già avvenuto in un recente passato) – sarebbe in grado di conquistare in un unico appuntamento elettorale il Presidente del Consiglio e il governo, la maggioranza assoluta dei senatori e dei deputati, il Presidente della Repubblica e, di conseguenza, anche il controllo della Corte Costituzionale e degli altri organismi di garanzia. Il tutto sotto il dominio assoluto di un capo del governo dotato di fatto di un potere di vita e di morte sul Parlamento.
Nessun sistema presidenziale o semi-presidenziale consentirebbe una siffatta concentrazione del potere; anzi, l’autonomia del Parlamento in quei modelli è tutelata al massimo grado. Non è dunque possibile ravvisare nella deviazione dal programma elettorale della coalizione di governo – che proponeva il presidenzialismo – un gesto di buona volontà verso una più ampia condivisione. Al contrario, siamo di fronte ad uno stravolgimento ancora più profondo e che ci espone a pericoli ancora maggiori. Aggiungo che il motivo ispiratore di questa scelta avventurosa non è facilmente comprensibile, perché sia l’obiettivo di aumentare la stabilità dei governi sia quello di far eleggere direttamente l’esecutivo si potevano perseguire adottando strumenti e modelli ampiamente sperimentati nelle democrazie occidentali, che non ci esporrebbero a regressioni e squilibri paragonabili a quelli connessi al cosiddetto “premierato”. Non tutto può essere sacrificato in nome dello slogan “scegliete voi il capo del governo!” Anche le tribù della preistoria avevano un capo, ma solo le democrazie costituzionali hanno separazione dei poteri, controlli e bilanciamenti, cioè gli argini per evitare di ricadere in quelle autocrazie contro le quali tutte le Costituzioni sono nate.

Il senso di Pechino per la scienza, raccontato da Simone Pieranni

Dalla fama di “fabbrica del mondo” al ruolo di gigante high-tech, la Cina ha attraversato un cambiamento epocale, trasformandosi nella seconda potenza mondiale. Oggi attraverso il nuovo libro Tecnocina: Storia della tecnologia cinese dal 1949 a oggi (Add editore) di Simone Pieranni, uno dei più attenti studiosi italiani della Cina, ci possiamo immergere nella storia della Repubblica Popolare, squarciando quel sistema di pensiero chiamato “orientalismo” che spesso porta a perpetuare stereotipi e distorsioni di un Paese e di una cultura che oramai è divenuta fondamentale, per chi vuol comprendere “i fatti del mondo”.
Questo viaggio nella storia contemporanea cinese avviene attraverso vicende prima ignorate, con protagoniste storie di donne e uomini finora trascurati. Il racconto del giornalista (fondatore di China files e ora in forze a Chora media) dipinge un quadro di epiche scoperte e tumultuosi stravolgimenti politici, riflettendo su idee brillanti e colossali fallimenti. In occasione della seconda ristampa di Tecnocina  e di due presentazioni a Roma e a Ivrea, l’abbiamo intervistato.

Simone Pieranni, il suo libro è basato sulla storia di alcuni scienziati. Perché ha scelto questo specifico modo di raccontare la tecnologia cinese?
Attraverso le storie delle persone, si riesce a ricreare il contesto nel quale avvengono tutte una serie di scoperte e innovazioni. Quindi, secondo me, è un modo più semplice e anche più empatico per entrare all’interno di storie che altrimenti rischiano di essere molto tecniche e di far perdere di vista quello che era il contesto umano, soprattutto nei primi tempi della Repubblica Popolare. Per fare un esempio, gli scienziati che tornano dall’Occidente per contribuire alla creazione della Nuova Cina non hanno una vita semplicissima, la loro storia personale aiuta anche a capire come alcune innovazioni e scoperte abbiano una rilevanza ancora maggiore proprio perché all’interno di un contesto molto complicato.
Nel suo libro, molte donne sono presentate in contesti storici precisi, mentre sembra che nella narrazione contemporanea se ne parli meno. C’è una motivazione storica o culturale dietro questo fenomeno?
Nella storia della Cina, le donne hanno svolto un ruolo molto importante nel campo della scienza e della tecnologia, specialmente nella prima fase. Nonostante gli errori compiuti da Mao Zedong, è evidente che in quel periodo ci sia stata un’emancipazione delle donne. Oltre alla celebre frase di Mao secondo cui «le donne sono l’altra metà del cielo», vi erano vecchi valori confuciani paternalistici e patriarcali contro cui Mao aveva deciso di combattere. Questo cambiamento ha consentito a molte donne di accedere a studi e obiettivi scolastici che precedentemente non avevano, facilitando il loro successo soprattutto nel campo della scienza e della tecnologia. Anche se nel panorama politico cinese ci sono poche donne in ruoli di comando, nell’ambito scientifico esse rimangono comunque molto importanti.
Esiste un punto di svolta significativo nella storia della tecnologia cinese?
Il punto di svolta più significativo è probabilmente quello degli anni Ottanta, quando nasce il programma chiamato 863, che di fatto liberalizza il settore della ricerca scientifica, consentendo agli scienziati di avere il comando della situazione. Mentre in precedenza, soprattutto durante l’epoca maoista, era la politica a guidare il timone della ricerca, dagli anni Ottanta in avanti comincia una fase nella quale il Partito comunista arretra un po’ rispetto agli scienziati, ai quali dà completamente la responsabilità di indicare gli obiettivi e di organizzare anche il modo attraverso il quale ottenerli.
Quali sono secondo lei i punti fondamentali della visione della tecnologia in Cina. Ci sono differenze con quella europea o statunitense?
Ovviamente, il Partito comunista cinese ha sempre avuto un forte supporto propagandistico e mediatico, utilizzando la ricerca, l’innovazione e il progresso tecnologico come simboli del progresso generale della Cina. Inizialmente, questi sono stati presentati come strumenti per alleviare le sofferenze della popolazione cinese, poi per migliorare le condizioni economiche e infine per rendere la Cina più forte anche a livello internazionale. Soprattutto nell’ultimo periodo, secondo me, c’è una differenza molto evidente. Ad esempio, per quanto riguarda l’intelligenza artificiale, permane questo atteggiamento ottimista da parte dei cinesi, che hanno visto questo progresso avvenuto soprattutto negli ultimi 30 anni come un miglioramento fondamentale nella loro vita. Di conseguenza, c’è una visione tutto sommato ottimistica, rispetto magari a una visione più cupa che possiamo avere noi.
Può fare una previsione rispetto a quello che viene chiamato conflitto dei superconduttori fra Cina Taiwan e Usa? Nello specifico quanto reggerà lo “scudo di silicio” taiwanese prima che i cinesi raggiungano tecnologicamente (e fisicamente) l’isola?
La previsione non è difficile da formulare, perché è abbastanza universalmente accettato che le restrizioni commerciali imposte alla Cina non porteranno a un blocco indefinito. Inizialmente, queste restrizioni hanno danneggiato la Repubblica Popolare, ma adesso ha capito come riorganizzarsi. Ad esempio, in questo momento si punta molto sull’utilizzo di chip di qualità inferiore che possono essere acquistati in maggior quantità, ma combinandoli riescono comunque ad ottenere capacità considerevoli. Questo è ciò che viene comunemente definito come “ciclo”, e viene visto da tutti come il modo in cui la Cina ha affrontato efficacemente questa sfida. Inoltre, la Cina sta facendo molte sperimentazioni con nuovi materiali conduttivi, il che porta a sviluppi interessanti che potrebbero risolvere questo problema nel lungo termine. Quindi, sebbene temporaneamente la situazione possa risultare fastidiosa per la Cina, è probabile che il problema venga risolto. Questo non è un mio pensiero personale, ma è condiviso da molti osservatori del settore.
Spesso in ambito tecnologico si dice che gli Stati Uniti inventano, l’Europa regolamenta e l’Asia (Cina) migliora. Qual è il contributo complessivo della Cina alla scienza e perché sembra essere sottovalutato, soprattutto nella storia occidentale?
Purtroppo il contributo sottovalutato non è solo quello della Cina. Noi abbiamo una visione molto eurocentrica, ma anche dall’Africa, dall’America Latina e da altre zone del mondo arrivano dei contributi scientifici molto importanti, anche recenti. Siamo noi che non li vediamo, ma il resto del mondo va avanti e le comunità scientifiche lo sanno benissimo.
Della triangolazione mi sembra che l’unica cosa che per ora rimanga sia la regolamentazione dell’Unione europea. È proprio questo che è cambiato. La Cina, a un certo punto, si è piazzata nella posizione degli Stati Uniti, e questo è ciò che ha creato lo sconvolgimento che ha portato allo scontro tecnologico e commerciale. L’esempio principale è TikTok. Nel momento in cui un algoritmo “made in China” diventa l’applicazione più scaricata in Occidente, ecco che questa triangolazione probabilmente possiamo dire che appartiene al passato.
La tecnologia è vista come un mezzo di libertà nell’Occidente, mentre in Cina si pensa che sia sinonimo di sorveglianza e controllo. È una visione giusta o parziale?
È una visione parziale perché la tecnologia è sorveglianza e controllo ovunque. Dipende da chi la usa; la tecnologia non è neutra, e quindi dipende da chi la utilizza, sia in Cina che in Occidente. È chiaro che in Cina, essendoci un partito unico che fa del controllo sociale e della sorveglianza uno dei suoi elementi distintivi, grazie alla tecnologia, diciamo, non può procedere in maniera più spedita e viene facilitata nel fare ciò. Tuttavia, in Cina, la tecnologia è vista molto di più dai cinesi come un mezzo per semplificare e migliorare la vita. Quindi, è una visione un po’ nostra quella di considerare che in Cina sia sinonimo di sorveglianza e controllo, anche perché in Cina, nel momento in cui di recente il settore, ad esempio, di estrazione dei dati e di riconoscimento facciale mancava completamente di un quadro normativo, ci sono state molte proteste da parte degli utenti cinesi e alla fine si è provveduto a perimetrare quell’area. Quindi, in realtà, c’è molta più dialettica in Cina di quanto pensiamo, e la visione che sia solo sorveglianza e controllo è totalmente parziale e molto poco accurata.
Una visione positivistica della scienza ritiene che con l’aumentare del benessere di un popolo, anche grazie alla tecnologia, questo tenda a chiedere più diritti. Questa visione della storia e della società è europocentrica o è replicabile anche per un Paese come la Cina?
Si è sempre pensato che il benessere debba portare per forza alla democrazia, e la Cina è proprio il Paese che smonta questa lettura. È uno Stato autoritario che ha saputo creare molta ricchezza, quindi non ha assolutamente alcun bisogno, almeno fino a prima del Covid, neanche di esprimere chiaramente esigenze di democratizzare il proprio sistema politico. Anzi, la crisi della democrazia occidentale è un tema di cui si discute molto in Cina. Questo non significa che naturalmente molti cittadini cinesi preferirebbero avere un sistema multipartitico con delle venature democratiche, ma almeno fino a prima del Covid, per i cinesi tutto sommato non era un problema avere una limitazione di quelle che per noi sono libertà. Dopo il Covid, questo è un po’ cambiato, perché i lockdown hanno messo di fronte al problema anche chi percepiva l’esistenza del partito, ma tutto sommato non era infastidito più di tanto nella sua vita quotidiana. Adesso si apre tutta una nuova partita, ma che non ha niente a che vedere con un’eventuale diatriba tra sistema autoritario e democrazia. Si parla sempre un po’ di aggiustamenti e di una richiesta generale al Partito comunista di allentare eventualmente alcune delle sue capacità di essere particolarmente autoritario, ma non è il momento propizio per questo perché Xi Jinping non ha assolutamente l’idea o l’intenzione di cambiare il suo approccio, almeno stando a quello che sappiamo.

Dal vivo: il 14 maggio ore 18.30, Simone Pieranni presenta Tecnocina a Roma, al Caffè Letterario Horafelix
2 giugno  sarà Ivrea, al festival  La Grande Invasione 

Il ripudio totale di ogni guerra salva la democrazia. Il nuovo libro di Domenico Gallo

In occasione dell’uscita del nuovo libro del giurista Domenico Gallo Guerre (Delta3edizioni) pubblichiamo la presentazione firmata dalla costituzionalista e docente universitaria Alessandra Algostino

Il testo di Domenico Gallo è un percorso che attraversa due guerre, quella tra Russia e Ucraina e il conflitto israelo-palestinese, andando alla ricerca delle loro radici, decodificandone il contesto e immaginando soluzioni oltre il buio della violenza bellica. È limpida, sin dalle prime righe, la forte opzione pacifista dell’autore; è un pacifismo non arreso, che coniuga al disincanto di una interpretazione divergente rispetto al dilagare della «narrazione bellicista» la ricerca di vie concrete per uscire dalla guerra, nella consapevolezza che «se si oscurano le cause che hanno portato alla scoppio del conflitto, … come si fa a rimediare agli errori commessi per impostare un nuovo criterio di convivenza pacifica?».
Affiora, quasi naturalmente, dalla messa a nudo dei fatti, il nesso tra pace e democrazia, che sottintende il suo opposto, il legame fra guerra ed autoritarismo: «la dottrina democratica non è fatta per arrestarsi e per concludersi alle frontiere nazionali. È verità ormai troppe volte tragicamente scontata che totalitarismo e dittatura all’interno significano inesorabilmente nazionalismo e guerra all’esterno» (Piero Calamandrei, Costituente italiana e federalismo europeo, settembre 1945, ora in Id., Opere giuridiche, III, Diritto e processo costituzionale, edizione Roma TrE-Press, Roma, 2019, p. 212).

L’attenzione privilegiata alle guerre interseca l’analisi dei pericoli che il «vento sovranista» porta con sé, sospingendo la democrazia verso «un altro pianeta, che non è più quello della Repubblica fondata sulla Costituzione nata dalla Resistenza». Come netta è l’opzione pacifista, altrettanto è chiara la scelta per una democrazia (la democrazia vive aggettivata) nella quale centrale è l’equilibrio dei poteri (fra legislativo ed esecutivo, ma senza dimenticare l’indipendenza del potere giudiziario) come la tutela dei diritti di tutti, in primis i soggetti fragili, quali le persone migranti.
Si coglie il coinvolgimento di Domenico Gallo per le vicende umane, la passione per l’umanità, per le persone che stanno dietro l’apparenza da videogioco della guerra («duecentomila giovani, russi ed ucraini spazzati via, cancellati per sempre i loro sogni e la loro vita»): «se scompare il fattore umano la storia precipita nella barbarie». È una passione critica e partigiana, con i piedi saldamente poggiati sul sentiero della pace e della democrazia.

Nel testo, che si pone in continuità con i precedenti libri (Il mondo che verrà, 2022 e Guerra Ucraina, 2023, entrambi Delta 3 Edizioni), si snodano gli avvenimenti lungo l’arco del 2023, con un approccio che non è mai mero racconto, descrittivo, ma costante analisi critica, una lettura dei fatti altra rispetto a quella dominante.
Edward W. Said (Representations of the intellectual, 1994, trad. it. Dire la verità. Gli intellettuali e il potere, ed. Feltrinelli, Milano, 2014, p. 26), ragionando sul ruolo dell’intellettuale, scrive: muovendo dal fondamento dei «principi universali» per cui «tutti gli essere umani hanno diritto di aspettarsi dai poteri secolari o dallo stato modelli di comportamento dignitosi in fatto di libertà e giustizia», il compito è «sollevare pubblicamente questioni provocatorie», «sfidare ortodossie e dogmi», «trovare la propria ragion d’essere nel fatto di rappresentare tutte le persone e le istanze che solitamente sono dimenticate oppure censurate».
In questo orizzonte si situa lo sguardo di Domenico Gallo, che assume l’abito del disertore rispetto alla costruzione mediatica e interpretativa dominante e omologante, dove la logica dicotomica della guerra espelle il ragionamento in termini di complessità come l’analisi che muove dalla profondità della storia.
Esplicita la distanza da un approccio semplificatore e appiattito sul presente Gallo laddove, ragionando sul futuro dell’Ucraina, propone di andare a ritroso («se la guerra è iniziata il 24 febbraio, la pace ha cominciato ad estinguersi molto tempo prima») e ricostruisce la storia e il ruolo della Nato («il fatto che per oltre 25 anni gli Usa hanno praticato una nuova guerra fredda per umiliare ed isolare la Russia»). Comprendere il contesto antecedente il 24 febbraio 2022 è fondamentale per riprendere la strada che aveva portato, nel 1975, alla Conferenza di Helsinki sulla sicurezza e cooperazione in Europa: «La visione del futuro può nascere solo da una revisione critica del passato, dal ripudio di una politica orientata a costruire l’ostilità nei rapporti fra le nazioni, a perseguire la “sicurezza” di una parte (la nostra) a danno dell’altra parte, incrementando le minacce militari e l’assedio geopolitico al “nemico”».

Ad essere rifiutati sono la «mitologia della vittoria» e il «furore bellico», che evocano tenebre e olocausto nucleare, la copertura ideologica della guerra e delle «azioni più atroci e disumane, che [ne] costituiscono l’essenza» attraverso il richiamo a «valori assoluti», la necropolitica praticata nei confronti delle persone migranti. Ad essere evocate sono espressioni come «cessate il fuoco», «negoziati», «blocco della fornitura di armi»; ad essere argomentato è il rispetto del diritto internazionale così come una interpretazione del principio pacifista coerente con il dettato e la ratio dell’articolo 11 della Costituzione, con il rifiuto delle letture riduttive e strumentali della norma.
Ragionando di guerra, un inciso: anche in relazione alle persone migranti, alle quali Domenico Gallo non manca di dare attenzione, si può ricorrere al termine “guerra”. È una guerra condotta su un fronte interno, laddove lo straniero è il nemico, sul quale sperimentare politiche di criminalizzazione ed esclusione e scaricare la rabbia sociale; e su un fronte esterno, con le politiche di esternalizzazione delle frontiere, che nell’ansia di difendere i confini, neutralizzano il diritto di asilo e delocalizzano tortura e morte.
Decostruire le narrazioni dominanti, così come contestualizzare i fatti nei tempi lunghi della storia, significa compiere un’opera di demistificazione prodromica e indispensabile per immaginare, e costruire, una visione alternativa del mondo: occorre «fare i conti con la realtà» e «articolare un progetto di futuro».
Senza passato, si indebolisce la critica dell’esistente e si rinchiude l’orizzonte del futuro nella perpetuazione di un eterno presente.

Il libro percorre, come anticipato, il 2023, dai giorni che ne precedono l’avvio, rilevando immediatamente come sia «difficile ripetere i soliti riti propiziatori perché all’orizzonte infuria un tempesta che non accenna a placarsi». È una tempesta esterna, che ha il suo occhio del ciclone nella guerra in Ucraina, ed interna, con un triplo fronte: presidenzialismo, riforma della giustizia e autonomia differenziata.
Il primo capitolo si focalizza sulla guerra ucraina, con un quadro che non può che essere fosco sin dalle prime pagine, dalle riflessioni sull’anno che verrà; sarà buio con la tragedia che si consuma a Gaza, sotto gli occhi strabici di un mondo che ancora indossa lenti coloniali, applicando in senso selettivo il diritto internazionale.
Al conflitto in Medio Oriente è dedicato il secondo capitolo, ma le tensioni e le contraddizioni della democrazia israeliana relative sia alla riforma della giustizia voluta da Netanyahu sia alle pratiche di apartheid nei confronti dei palestinesi sono rilevate da Gallo già prima del 7 ottobre. È un esempio, quest’ultimo, di come il testo colga elementi lasciati ai margini dall’informazione mainstream, con una attenzione sia alla letteratura (il commento, ad esempio, al testo di Benjamin Abelow, Come l’Occidente ha provocato la guerra in Ucraina, Fazi, 2023) sia a fatti non rilevati o “liquidati” sbrigativamente (per tutti, cito il piano di pace cinese relativo alla guerra russo-ucraina presentato il 24 febbraio 2023).

Nel seguire, con partecipazione, la guerra contro il popolo palestinese (è innegabile che non sia una guerra solo contro Hamas, dopo più di 30mila morti, dei quali il 70% donne e bambini, bombardamenti indiscriminati, privazioni di acqua, luce, gas, comunicazioni; per tacere – per non tacere – delle violenze compiute in Cisgiordania e del regime alle quali sono soggetti i palestinesi in Israele), Domenico Gallo denuncia come «falsa» la «narrazione dominante di uno Stato democratico costretto a stroncare un terrorismo diabolico che minaccia la sua stessa esistenza. Per quanto le incursioni compiute da Hamas il 7 ottobre possano facilmente essere assunte nella categoria del terrorismo e ricadere nel catalogo dei crimini contro l’umanità, non si può ignorare il fatto che esiste un popolo oppresso e uno Stato oppressore». In questa prospettiva viene richiamato il diritto internazionale, quello di ultima istanza, il diritto internazionale umanitario nei conflitti armati, come quello che sancisce il diritto all’autodeterminazione dei popoli, e si situano le riflessioni in ordine alla «spirale di violenza», alle ragioni dell’umanità ma anche della convenienza politica, l’accorata denuncia del genocidio in atto a Gaza. E appare la ricerca di soluzioni, che non si possono limitare alla tregua umanitaria, ma esigono un cessate il fuoco, come terreno sul quale progettare un intervento delle Nazioni Unite: «la Striscia di Gaza deve essere sottratta al controllo di Israele» e affidata «ad una missione civile e militare delle Nazioni unite» che «dovrebbe promuovere la creazione, in attesa di una soluzione definitiva, di una sostanziale autonomia e autoamministrazione della Striscia di Gaza».

Nel testo si incontra non solo una critica dell’esistente, ma anche l’indicazione per cambiare il presente, proiettandosi così verso un altro futuro: «È questo il momento di definire un progetto che superi non solo il conflitto in armi, ma quel sistema di dominio e di contrapposizione politica e militare che ha generato la guerra e sta distruggendo l’Europa. È il momento di pensare che un altro mondo è possibile e di progettarlo».
Sono parole che Domenico Gallo declina in relazione alla guerra e alla pace e che, a partire dalla consapevolezza che la violenza, le atrocità e la sopraffazione proprie della guerra appartengono allo spazio del dominio, possono essere lette come emblema della necessità di costruire relazioni sociali, politiche, e, last but not least, economiche, che si fondino sull’uguaglianza e sull’emancipazione, della singola persona come dei popoli. Il che implica il ripudio della guerra, come il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese, e, sul fronte interno, la difesa dei diritti dal loro svuotamento, privatizzazione e riduzione a privilegio con il progetto di autonomia differenziata, la netta opposizione a riforme costituzionali ispirate alla figura del capo come la lotta contro politiche sociali autoritarie e repressive verso il dissenso e il disagio sociale. Implica, ancora, la critica radicale ad un modello di sviluppo, fondato sulla diseguaglianza e la sopraffazione (della persona, come della natura), ovvero al capitalismo, nelle sue radici così come nella odierna versione neoliberista, strutturalmente competitiva e violenta.

Si tratta di mantenere, con Walter Benjamin (über den Begriff der Geschichte, 1940, trad. it. Sul concetto di storia, a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Torino, Einaudi, 1997, p. 15), «gli occhi spalancati» dell’Angelus Novus, sugli orrori della storia, e del presente, ma, allo stesso tempo, la «speranza materialisticamente concepita» (Ernst Bloch, Il principio speranza, 1959, trad. it v. 1, Sogni a occhi aperti, Mimesis, 2019, p. 235).
La speranza si accompagna alla tensione verso il cambiamento; il realismo demistificante assume un abito costruttivo; la consapevolezza dell’oscurità e della tragedia dei tempi non impedisce di mantenere aperto l’orizzonte: «se il barometro del tempo politico volge a tempesta, non è questo il momento di abbandonarsi allo sconforto. Al contrario è proprio nelle situazioni più disperate che in ciascuno di noi può venire fuori un’energia insospettata».

 

 

 

 

 

Nella foto in apertura, civili palestinesi dopo un attacco aereo israeliano a Gaza, 8 ottobre 2023

Torcere le leggi per scavallare i diritti

L’Egitto? È un Paese sicuro nonostante le persecuzioni accertate, nonostante l’utilizzo della tortura, nonostante le forme di detenzioni degradanti, nonostante Giulio Regeni che purtroppo è uno dei simboli di tutto questo, nonostante il rapporto di Amnesty International che scrive di “migliaia di persone critiche verso il governo o percepite come tali rimanevano arbitrariamente detenute e/o perseguite ingiustamente. I casi di sparizione forzata e di tortura e altro maltrattamento sono rimasti dilaganti”. 

Tunisia? È un Paese sicuro nonostante nel 2023 “sono continuate le gravi violazioni dei diritti umani, comprese le restrizioni alla libertà di parola, la violenza contro le donne e le restrizioni arbitrarie dovute allo stato di emergenza del Paese”, come scrive Human Rights Watch (Hrw), World Report 2023).

Il governo italiano ha aggiornato la lista dei Paesi sicuri (dm 7 maggio 2024): Albania, Algeria, Bangladesh, Bosnia-Erzegovina, Camerun, Capo Verde, Colombia, Costa d’Avorio, Egitto, Gambia, Georgia, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Nigeria, Perù, Senegal, Serbia, Sri Lanka e Tunisia. L’elenco torna utile alle politiche di respingimenti illegali di Giorgia Meloni e probabilmente all’Unione europea che verrà. Legalizzare l’inferno però non lo rende vivibile. È solo un gioco sporco di riabilitazione per oliare i rimpatri. 

Assistiamo all’ennesima torsione delle leggi per scavalcare i diritti, è bastato un colpo di penna, ed è tutto così degradante che non vengono le parole per scriverlo.

Buon martedì. 

Il divorzio, il referendum e tutte le ragioni del No

Nel dibattito politico e giornalistico torna spesso la polemica della tragicità del terrorismo degli anni Settanta e delle opposte ragioni nella valutazione di un periodo drammatico per il nostro Paese. Raramente emerge quanto sia cambiato, anche in quella terribile emergenza, sia nelle condizioni sociali che nella crescita culturale e giuridica rispetto al passato. A cominciare dalle condizioni delle donne che erano state coinvolte e protagoniste di quello straordinario sommovimento giovanile, studentesco e sindacale e contro la guerra, degli anni Sessanta. Lotte che senza respiro le donne italiane, dell’Udi in particolare dopo la Resistenza e la Costituzione, avevano instancabilmente continuato a proporre per attuare i principi costituzionali di emancipazione e parità: dal diritto alla scuola e alla materna, al diritto ai nidi – per cui si lottava da dieci anni -, fino al lavoro, alla pensione per le casalinghe, all’abolizione del coefficiente Serpieri e molte altre proposte per creare nuovi servizi e allargare una nuova coscienza del proprio diritto personale e collettivo in una democrazia finalmente compiuta che fuoriusciva non solo dal Codice Rocco, ancora esistente decenni dopo la fine del fascismo, ma anche da una delle forme più arretrate della storia italiana.
Nel 1970 la legge 898 dell’1 dicembre introduce il divorzio con la proposta Fortuna-Baslini. Legge immediatamente contestata da parte democristiana e conservatrice oltre che dal Msi e da parte della Chiesa che cercò soluzioni per bloccare quei partiti che l’appoggiavano, come il Psi il Pci, i Radicali e liberali e le voci del mondo cattolico di base e più vicino al Concilio Vaticano II. Fu un momento di grandi discussioni, incontri e scontri, ma che si concluse con la scelta di sottoporre la legge a un referendum abrogativo, il primo in assoluto. Quello del 12 maggio 1974 infatti è passato alla storia come il primo referendum abrogativo della Repubblica. Si presentarono alle urne oltre 33 milioni di elettori, pari all’87,72% degli aventi diritto. Si votò nei giorni 12 e 13 maggio. Gli italiani che dissero “No” all’abrogazione della legge sul divorzio furono oltre 19 milioni, pari al 59,26%, superando di gran lunga coloro che votarono “Sì”, appena oltre i 13 milioni, pari al 40,74%.
La legge sul divorzio era frutto di una maturazione della società che diventava sempre più consapevole riguardo a valori e diritti. A votarla in Parlamento era stato un ampio schieramento che riuscì a mettere in minoranza gli oppositori: dalla Dc ai monarchici e al Movimento sociale italiano. Tuttavia, appena poche ore dopo l’approvazione legislativa, venne subito annunciata, da parte di un comitato di ispirazione cattolica, la raccolta, per la successiva presentazione, delle firme con le quali attraverso il referendum abrogativo avrebbero chiamato gli italiani ad esprimersi su questo provvedimento normativo. Nel segreto delle urne, gli italiani e le italiane, quattro anni dopo, non ebbero dubbi nel confermare, a grandissima maggioranza, nonostante tutta la propaganda terroristica scatenata sulla dissoluzione della famiglia e la debolezza femminile se il divorzio fosse rimasto come principio di una visione laica contro l’indissolubilità del matrimonio.
Alla legge sul divorzio, nota come legge Fortuna-Baslini, che erano stati i primi firmatari, si era giunti in un contesto storico e sociale in cui aveva già preso piede un cambiamento di mentalità. Dalla seconda metà degli anni Sessanta, questo contesto culturale con una concezione laica dei diritti andò affermandosi, caratterizzando i movimenti dei diritti civili degli anni Settanta. Attraverso questo referendum, all’epoca molto discusso, gli elettori ratificarono la legge sul divorzio, riconoscendo dunque allo Stato il diritto di fissare le regole sullo scioglimento dell’unione coniugale, che fino a quel momento era stato riservato esclusivamente ai tribunali ecclesiastici della Sacra Rota. L’esito di quel referendum ebbe un peso fondamentale nella concezione stessa della famiglia, salvaguardando il diritto di scelta e riconoscendo quello di abbandonare, in qualsiasi momento, situazioni coniugali infelici, spesso segnate da violenze e sopraffazione.
I problemi giuridici della famiglia sono stati sempre presenti tra i temi affrontati dall’Udi come problemi essenziali per una modifica della condizione femminile. Per la stessa ragione, non stupisce che l’Udi fu la prima organizzazione femminile ad aprire un dibattito sui problemi del divorzio. Ciò avvenne nel Congresso del 1964 con Giglia Tedesco. Nelle tesi erano prospettate le motivazioni pro e contro il divorzio; il Congresso decise di attuare una consultazione, che avvenne mediante un questionario Udi. Al termine della consultazione, ebbe luogo il seminario del 1966, come si può vedere dagli Atti conservati in Archivio, che si concluse a favore della legge di divorzio. La scelta fu a favore di una posizione politica e non ideologica: a sostegno, cioè, del divorzio come istituto civile.

L’autrice: Vittoria Tola è responsabile nazionale dell’Udi (Unione donne in Italia)

(estratto dall’introduzione al libro di Left La battaglia sul divorzio. Dalla Costituente al referendum)