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Giovanni Toti come un Formigoni qualsiasi

Come un Formigoni qualsiasi ora il presidente della Regione Liguria Giovanni Toti rischia di inciampare anche sulla sanità privata. In Procura giace un fascicolo che riguarda il governatore e il suo capo di gabinetto dimissionario Matteo Cozzani che indaga su presunti favori, ricambiati con finanziamenti, a quattro imprenditori della sanità privata. Lì dentro si ipotizza anche il reato di falso per avere gonfiato i dati della popolazione anziana in Liguria nel tentativo di accaparrarsi più vaccini durante la pandemia. 

Privatizzare la sanità per Toti è stato un dichiarato obiettivo politico. Un anno dopo la sua prima elezione il presidente ha voluto con sé l’allora direttore dell’Asl di Milano Walter Locatelli, molto vicino alla Lega, epigone del formigonismo più sfrenato nello scippo della sanità dal pubblico al privato. Il percorso è quello già visto purtroppo in Lombardia: tre ospedali pubblici messi sul mercato (Albenga, Bordighera e Cairo Montenotte) e analisi cliniche, esami diagnostici, visite specialistiche e gestione dell’assistenza domiciliare affidate al privato. I finanziatori (legittimi) di Toti sono ON Health Care Group del manager Filippo Ceppellini e di Billy Berlusconi nipote di Silvio, Servizi Sanitari srl, Gadomed, Hc Hospital Consulting, Santa Dorotea e Villa Montallegro e Casa della Salute. Il disastro è politico prima ancora che giudiziario, come sempre accade privatizzando la sanità: fuga dei pazienti in altre Regioni e liste di attesa impossibili nella sanità pubblica. Oltre a questo – come avevano già visto in Lombardia – c’è l’opacità nei rapporti tra Regione e imprenditori privati su cui indaga la Procura. La lezione di Formigoni in Lombardia non ci ha insegnato niente. 

Buon lunedì. 

Peppe Voltarelli: «Quello che serve oggi per fare arte è il coraggio di dire le cose»

Peppe Voltarelli

Dopo il Belgio, si trova in Francia per una tournée Giuseppe, Peppe, Voltarelli, quando lo raggiungo al telefono per farmi raccontare del suo ultimo lavoro, La grande corsa verso Lupionòpolis, secondo classificato al Premio Tenco nel 2023. (l’11 maggio è stato al Salone del libro e al Teatro Vittoria di Torino in occasione del premio speciale “InediTO RitrovaTO”, dedicato alla scrittrice Grazia Deledda, mentre il 13 maggio è al Teatro Cartiere Carrara a Firenze).

L’album è il risultato di un ottimo lavoro di produzione, registrato a New York da Marc Urselli, nello storico EastSide Sound di Manhattan. Ben orchestrato, coniuga la profondità della voce con sonorità cosmopolite. Tutto questo lo rende fluido e apprezzabile ed arriva con una godibile morbidezza. Quella che inizia come una semplice chiacchierata sull’album, oggi realizzato in formato fisico per Todo Modo Publishing, in collaborazione con l’etichetta discografica Visage Music, sfocia poi nella storia di una vita che inizia in un paese della Calabria per arrivare in varie parti del mondo, compreso il Brasile.

Fondatore, in quel di Bologna, nel 1990, della band folk-rock Il parto delle nuvole pesanti, a metà degli anni Duemila Peppe Volatrelli inizia una carriera da solista, oggi è al suo sesto album e ben tre Targhe Tenco. Numerose anche le collaborazioni e i riconoscimenti, tra tutti quella con Claudio Lolli, «un punto di riferimento», dice Voltarelli, ma anche con molti altri artisti italiani e internazionali. Ma lui, cantautore impegnato, nonostante le contaminazioni fuori dalla sua terra, a cominciare da quella di Firenze dove sceglie di vivere dopo Bologna, non abbandona il suo dialetto per raccontarci, anzi fotografare, le storie che lo circondano. Autore, cantautore, ma anche attore (tra le ultime cose, la serie Il Re, di Giuseppe Gagliardi) getta lo sguardo sul contemporaneo, quello italiano, soprattutto sul piano culturale, attualmente sostiene l’artista in una triste impasse soggiogato dal mainstream. Lui che al “sistema” non si è mai piegato, le sue storie le porta in giro con la speranza che iniziando a guardare altrove, e lo chiede a tutti noi, qualcosa possa cambiare. Alle brutte, c’è Lupionòpolis, ma non solo!
Esattamente, dove si trova Lupionòpolis?
Un piccolo villaggio del Paraná in Brasile, dalle parti di Londrina, dove ho scoperto che esiste un supermercato col mio cognome, allora ho cominciato a fantasticare sull’idea che, quando tutto mi sarebbe andato male, sarei potuto andare lì e chiedergli di lavorare, una cosa del genere. Poi ho pensato che ognuno di noi può avere il desiderio di trovare un posto nuovo dove scomparire e rinascere, trasformarsi, insomma vivere sotto mentite spoglie. Allora, ho immaginato una corsa che mi porti lì.
Per la tua storia, per la musica che fai, e che porti in giro, mi sembra che ci siano tanti villaggi che ti aspettano.
In effetti, questa grande corsa io l’ho iniziata con un produttore americano che si chiama Simone Giuliani, che mi ha arrangiato i pezzi, mi ha costruito la band. Tutto questo a New York, che per me, nato in un piccolo paese della Calabria, rappresenta un bel punto d’arrivo. Nel senso che c’è un posto dove la mia persona si sente a casa: quando ci sono andato per la prima volta, nel 2002, ho pensato che avevo sempre vissuto in quel luogo. Come mi è successo anche a Buenos Aires. Sono grandi metropoli dove la cultura non si sente subalterna, ma è rispettata, come dovrebbe essere insomma.
Però tutto ha inizio in Calabria, nel tuo paese di origine, poi Bologna, poi Firenze e il resto del mondo.
Torno sempre volentieri a Mirto Crosia, in provincia di Cosenza, dove sono nato, dai miei amici. Sono molto legato a quella terra. Dopo Bologna, dove sono andato per l’università, Firenze per fare un disco con la Bandabardò, che è stato il gruppo di amici che mi ha accolto lì come un fratello e quindi la mia vita è ricominciata. Firenze per me è un luogo ideale dove poter avere questa sorta di microclima umano, fatto di sostenibilità, di facilità di vita quotidiana, ma ha anche il vantaggio di essere una città internazionale. Quando stai via per 15/20 giorni, dall’altra parte del mondo, è un piacere tornarci. Però per me la cosa principale è che lì c’era un gruppo di amici che mi aspettava, che mi aspetta; che se ho bisogno so che c’è. Ecco per me questa è una cosa fondamentale.
Adesso sei ad un Festival chiamato “Canzoni&Parole” sulla canzone d’autore italiana nei teatri e nei licei parigini. Che tipo di pubblico partecipa?
C’è un bel rapporto con il pubblico anche all’estero; ci sono amici sostenitori che ti aspettano, ma anche persone autoctone. Abbiamo fatto molte cose belle sia dal punto di vista dei live, ma anche incontri come ad Anversa dove sono stato ospite all’università per un incontro sulla canzone italiana. Abbiamo fatto un po’ di discussione con gli studenti, insomma molto bello.
Che tipo di attenzione c’è soprattutto per la nostra cultura?
Per l’Italia ovviamente c’è sempre tanta curiosità e tanto interesse: sia per la musica che per la lingua. Quello che faccio io chiaramente ha una connotazione molto precisa perché io, scrivendo in dialetto, racconto spesso storie che riguardano un’Italia meridionale o comunque legata ai temi del lavoro, della solidarietà, del viaggio e chiaramente viene fuori un Paese, concedimi il termine, neorealista. Il pubblico è fatto di italiani che, vivendo all’estero, quando arriva un cantante italiano o se arriva il cantante italiano che loro seguivano anche in Italia, lo vanno a sentire e hanno questo rapporto d’affetto molto bello, molto passionale e poi c’è la fronda dei locali che praticamente una volta che tu torni nel paese dove sei già stato a suonare, ti segue comunque. Ho fatto, per esempio, un film in Germania (Doichlandia di Gagliardi ndr), e lì è rimasta, come dire, una parte di me; così come un album pubblicato in Francia, mi ha permesso di entrare nelle radio francesi, nel repertorio delle loro canzoni, nella critica. La mia figura di italiano è molto da italiano senza patria, rispetto all’identità classica magari seguita dalla corrente migratoria degli anni 60 50, legata all’italianità col tricolore, con la musica magari pop dei grandi nomi italiani.
Da tutto questo mondo che vai a scoprire, che cosa riporti nella musica che fai?
I viaggi sono materiale per la scrittura, che diventa un materiale molto vivo, molto suggestivo molto intenso. Però il mio confronto principale la mia antenna principale è sempre la mia terra, la mia lingua. Tutto questo mi permette di poter esprimere anche le mie critiche in maniera molto libera e di essere anche, per fortuna, ascoltato.
Italiano o straniero, che tipo è il tuo pubblico?
Ci sono molti giovani, ma anche gente più grande. Molti mi seguono da tanto tempo, quindi riconoscono i miei segni distintivi, la mia lingua, i miei simboli. Per esempio, un mio brano si intitola “Turismo in quantità” e nomino la bombola del gas, che è un oggetto di culto per noi cresciuti in un’epoca in cui ancora il metano non è arrivato nelle case, per cui ogni tanto mi capita, in giro per il mondo, quando becco una bombola del gas, di fargli una foto e quella bombola riporta un po’ il messaggio surrealista. La condivisione di un certo surrealismo è una caratteristica importante della gente che viene a sentire i miei spettacoli perché è la parte dove veramente si raggiunge l’estrema libertà espressiva. Puoi essere pungente però, nello stesso tempo, assolutamente disarmante, con un racconto che è anche un nonsense. Si stabilisce così con il pubblico un rapporto di fiducia perché non è più il pubblico fan, ma è complice, sta con te, ti guarda negli occhi, sa se stai bene. L’ho imparato con gli anni frequentando artisti straordinari come Claudio Lolli, che per me è stato un amico: una persona di una grandissima profondità e di una grandissima poetica, di analisi della realtà. Queste esperienze mi hanno dato la possibilità di distanziarmi da quella che è la corsa verso il mainstream, verso l’idea che avevo a 25 anni. Che è un po’ l’idea che abbiamo tutti. Adesso c’è una consapevolezza molto bella, che è quella della musica come necessità, di miglioramento delle qualità umane, della vita che poi è il rapporto con le persone, i rapporti con i luoghi, il rispetto per l’ambiente, l’amore per tutte le culture del mondo. Hai uno sguardo sul mondo per cui, tutto sommato, se quest’anno la radio non ti programma è relativo perché magari hai altre 30 radio nel mondo che ti passano. Se c’è una cosa che è importante avere oggi per fare arte è il coraggio: di dire delle cose, di non fermarsi sulla superficie, di cercare la qualità. Quando viene percepita, diventa un bene prezioso e per me è il massimo cui posso aspirare.
Qual è il tuo sguardo adesso sul nostro Paese, politica compresa?
Direi che sono sempre molto arrabbiato, ma la rabbia mi dà comunque la motivazione per scrivere, per viaggiare, per spostarmi, per schierarmi nelle cose. Però è una rabbia che si va a scontrare con una realtà anche molto complessa, quindi anche a livello politico negli anni Novanta per me era immediato il mio essere dalla parte dei Centri sociali, dalla parte degli amici dell’estrema sinistra, in questo momento chiaramente sento la mancanza del progetto politico, ma non penso di essere solo. Quindi sono sempre alla ricerca di temi, di figure, di discorsi, di cose che possano comunque indicarmi una strada; non dico che sogno di avere un grande leader, anche se mi piacerebbe. Sono sempre alla ricerca di qualcosa che mi ricorda un po’ un’idea di politica con cui poi sono cresciuto cioè che era una politica fatta da un collettivo, da un gruppo di persone dove c’era uno che era bravo in economia, uno bravo in amministrazione, uno bravo nell’analisi, uno bravo a parlare, uno bravo a scrivere insomma questa sorta di immagine un po’ vecchio stampo, di una vecchia sezione di partito, dove si macinavano idee. Sono arrivato a Bologna e nel 1990 c’è stata la Pantera. Ecco quell’idea di scambio, di dibattito politico eccetera, purtroppo in questo momento mi manca, ma penso manchi a tutti!
Qual è la cosa che ti fa più arrabbiare?
Per esempio non mi piace la politica spettacolo, l’antimafia spettacolo, mi piace ciò che ha una forte componente di autenticità. Però è bello incontrare persone che hanno il coraggio di battersi per le proprie idee, di persone che non cercano solo visibilità, di persone che non vanno a vivere la propria vita semplicemente per il consenso. Penso anche che la grande abbuffata di Internet, di digitale, social, eccetera, di questi anni sia al pari di quando è arrivata l’eroina: ci siamo buttati con avidità, ma quando questa cosa cambierà allora capiremo cosa succede e a me piace osservare e stare a guardare cosa succede.
E secondo te, invece, come siamo percepiti all’estero?
Malissimo! Da un lato c’è l’Italia, come dire, autoreferenziale culturalmente, il Paese che viene da trent’anni del dominio culturale delle reti Mediaset, e questa cosa più che venire percepita, non passa fuori, non funziona. Le proposte che ci sono all’estero sono plurime: c’è il mainstream, ma c’è anche altro che ha spazio nelle reti, nelle radio. Noi siamo percepiti come un Paese culturalmente statico, un Paese dove lavorano dieci persone, dove non c’è pluralismo culturale. Non è possibile che si riconoscano sempre gli stessi linguaggi. Da noi se diventi un cantautore, un regista che funziona, è molto facile che il giorno dopo ti propongono di condurre… il telegiornale. Andrebbe data più voce al pluralismo. Se pensi solo che negli ultimi 10 anni è stata smantellata tutta una rete di realtà, per esempio per la musica si suonava nei club, nei circoli e adesso non ci sono più. Tu mi puoi dire: vabbè, ma i tempi sono così, lo so però, come dire, allora facciamo le riserve come si faceva con gli Indiani d’America, i tempi sono così gli indiani stanno in riserva. Chi fa una musica che non è prodotta da quel produttore, lo mettiamo nella riserva! Noi siamo un Paese dove c’è ancora il monopolio culturale, questo è il problema. Può sembrare un discorso rétro, ma non lo è.
Come si cambia tutta una mentalità, una cultura?
Col quotidiano, cercando di dare degli esempi prima di tutto a te stesso e a chi ti sta vicino. Facendo cose che vanno in altre direzioni, scoprendo nuovi luoghi, nuovi approcci, nuovi linguaggi cioè nuove strade. Siamo diventati un Paese che vive sull’asse dell’alta velocità, tra Salerno e Torino. Tutto si muove a quel ritmo e tutti vogliono andare a quel ritmo, invece noi dobbiamo cominciare a immaginare che esiste un ritmo diverso, che esistono strade laterali, che esistono la Costa adriatica, l’Appennino, Le Madonie, che ci sta pure l’Aspromonte. Questo sguardo ci vuole!

Qui il video Au Cinema

Peppe Voltarelli [© Francesca Magnani]

Il caso Toti mostra la deriva politica delle Regioni. E quando saranno del tutto autonome?

Le prime pagine degli organi di stampa sono dedicate in questi giorni a Giovanni Toti, un presidente di Regione confinato ai domiciliari, assieme ad altri soggetti coinvolti in un possibile giro di corruzione. Le Regioni, con la loro tracotanza e famelicità, ed i loro presidenti, sono al centro del processo chiamato autonomia differenziata, capace di distruggere la Repubblica (e con essa l’intero Stato sociale). Avocano a sé poteri esclusivi in materie fondamentali per le nostre esistenze, poteri che utilizzeranno per devolvere al privato tutti i servizi fondamentali, rendendoci più poveri e povere, disuniti e disunite, diversificati nei diritti, trasformandoci in numeri e merci, pezzi di ricambio che se muoiono verranno subito sostituiti. E lo fanno evocando l’efficienza, ma quella che uccide come un rullo compressore, o la semplificazione, che taglia sulle regole che ci difendono, efficienza e semplificazione messe in atto dai cosiddetti “uomini del fare”: Toti è definito proprio così.

Sono quegli uomini del fare che vogliono “portare a casa” i risultati comprimendo la democrazia, come dimostra l’accelerazione che l’iter del ddl Calderoli sta subendo alla Camera, sempre in questi drammatici giorni: serve una bandierina, serve uno scalpo da poter ostentare. Serve velocità, ma diretta esclusivamente a consolidare poteri, privilegi. E sentendosi impuniti. Questo sono i Signori delle nuove Signorie che stanno prendendo forma. È l’evidenza dei dati a parlare: passati i tempi di Tangentopoli, i luoghi del malaffare non sono più collocati a livello centrale, nei ministeri e nel loro sottobosco, bensì nelle più democratiche periferie, nei tanto decantati luoghi della vicinanza tra la politica ed il territorio.

Il comodo racconto che vorrebbe disegnare le Regioni vicine ai cittadini e alle cittadine non è che pura strumentale finzione, laddove i soggetti realmente vicini alla politica delegata a guidare un territorio sono le lobbies economiche che in quel territorio pascolano. Da molti anni la geometria corruttiva si basa su un triangolo costituito da uno o più politici con ruoli istituzionali (eletti da cittadini e cittadine), qualche imprenditore di livello, alcuni funzionari compiacenti o complici: guadagni personali per tutti (maschile non casuale). E le materie di questo intreccio, sia per i Comuni che per le Regioni, sono legate agli assessorati più ambiti, lavori pubblici e sanità, ad esempio, dove il meccanismo degli appalti consente scorribande in territori governati dai potentati economici e dalle mafie.

Giovanni Toti si trova impigliato in questa rete, come altri celebri presidenti prima di lui: citiamo soltanto Roberto Formigoni (Lombardia), condannato a 5 anni e 10 mesi per corruzione, o Giancarlo Galan (Veneto), patteggiamento per corruzione a 2 anni e 10 mesi e 2,6 milioni di euro confiscati. Ma guarda caso, proprio le Regioni che hanno chiesto la differenziazione per prime, assieme all’Emilia Romagna. Saprà Bonaccini, di fronte a questa ennesima scivolata di un potere privo di morale politica, distanziarsi rinunciando alle pre-intese, come i vertici del suo partito hanno dichiarato di voler fare? Sapranno fermarsi le regioni già pronte dopo le prime tre? Parliamo della stessa Liguria di Toti, del Piemonte di Cirio, della Toscana di Giani (di, di, di… in senso davvero proprietario). E poi ricordiamo il mondo delle spese pazze, dell’impunità, del potere che ogni giorno ci dà piccoli e grandi esempi di sé. Perché si tratta proprio di questo, di potere, quel potere che, se non si sta abbastanza attenti o attente, seduce fino a spingere a siglare un patto faustiano con Mefistofele in persona.

Toti è quindi oggi un simbolo: non sappiamo come finirà, non possediamo sfere di cristallo né ambiamo a condannarlo; tuttavia, lui rappresenta in questo frangente ciò che le Regioni potrebbero diventare se venisse loro attribuito tutto il potere che il ddl Calderoli regalerebbe loro, mettendole nella possibilità di accaparrarsi le 23 materie e le centinaia di funzioni. Ma in questa vicenda c’è un altro tristissimo simbolo: la parola Esselunga. Tra i coinvolti nella vicenda Toti vi è Francesco Moncada, consigliere di amministrazione di Esselunga (risulta indagato ndr). Si tratta di velocizzare i permessi relativi a dei supermercati? Basta parlare con la persona giusta. Velocità, accelerazione: le stesse che uccidono attraverso la logica degli appalti e la riduzione delle tutele (che verranno regionalizzate anche loro). E a proposito di Esselunga non possiamo non pensare alle cinque vite spezzate nel cantiere a Firenze poco più di due mesi fa, su cui le indagini sono in corso. Una bilancia drammaticamente squilibrata: privilegio e potere da un lato, e un modello di “sviluppo” che produce sfruttamento e morte dall’altro.

L’autrice: Dianella Pez fa parte del Comitato Friuli Venezia Giulia per il ritiro di ogni autonomia differenziata, l’unità della Repubblica e l’uguaglianza dei diritti 

Nella foto: Giovanni Toti al convegno dei giovani imprenditori di Confindustria, Rapallo, 2016 (wikimedia)

Cara ministra Roccella le studentesse sono stanche delle sue parole offensive

“Sul mio corpo decido io”: queste sono state le parole scritte sui cartelloni dalle studentesse che ieri hanno contestato la ministra Eugenia Roccella agli Stati Generali della Natalità a Roma. Sembra surreale che ci sia ancora bisogno di affermare una frase tanto semplice, eppure c’è.

C’è perché solo poche settimane fa, il 16 aprile è stato approvato il decreto Pnrr che permette e agevola la presenza di associazioni antiabortiste e cattoliche all’interno dei consultori.

I consultori sono spazi di autodeterminazione, scelta consapevole e accesso alla salute sessuale e riproduttiva per tutte. Questi spazi non possono essere riempiti da chi molesta, perseguita, insulta e giudica le persone che vogliono interrompere la propria gravidanza.

Anche questo dovrebbe essere un concetto semplice da capire: se si vuole garantire un diritto non basta tutelarlo sulla carta ma bisogna rimuovere gli ostacoli sostanziali che lo impediscono.

Già dalla campagna elettorale la presidente Meloni ha ripetuto più volte che da parte sua non c’è mai stata «nessuna volontà di modificare la 194 ma quella di applicarla interamente», pensando che questa frasetta retorica bastasse ad ingannare tutte quelle ragazze e donne che sanno benissimo quanto possa essere difficile abortire anche con questa legge.

Non dovrebbero stupirsi quando noi giovani donne ci preoccupiamo per la nostra salute e i nostri diritti e ci arrabbiamo per le continue prese in giro di questo governo, ci offendiamo per una Ministra il cui compito dovrebbe essere quello di tutelare la parità di genere, che invece afferma «è molto più difficile trovare un ospedale dove partorire piuttosto che un ospedale dove abortire». Parole come queste, in un Paese in cui il 65% dei medici sono obiettori di coscienza, è semplicemente oltraggioso.

Gli stati generali della natalità avevano come obiettivo quello di discutere e mettere in luce l’emergenza demografica che vive da anni il nostro Paese.

Ancora una volta vediamo come questa destra misogina incolpi indirettamente le donne di questa crisi, semplicemente perché esercitano un diritto.

Se davvero Giorgia Meloni vuole impedire che una donna sia «costretta ad abortire» aumenti la spesa sociale, si occupi di disoccupazione femminile e gender pay gap, tolga il carico di cura sempre e solo sulle spalle delle donne, aumenti le tutele per la maternità ed elimini i costi legati all’istruzione.

Invece di attaccare e definire «spettacolo ignobile» la contestazione delle ragazze agli Stati generali della Natalità, la presidente del Consiglio Meloni dovrebbe interrogarsi sul perché delle ragazze così giovani abbiano sentito la necessità di esprimere un concetto così semplice «sul mio corpo decido io» davanti alla loro Ministra.

Da anni noi studenti e studentesse chiediamo che venga introdotta l’educazione sessuo-affettiva nelle scuole e invece ci si risponde con attacchi al nostro diritto di decidere sui nostri corpi, con slogan e festival propagandistici come gli stati generali della natalità.

Se oggi la Ministra non è riuscita a finire il suo intervento è perché le studentesse di questo Paese sono stanche delle sue parole offensive.

Dopo aver gridato alla censura per la contestazione di ieri oggi vediamo come un’altra volta gli studenti e le studentesse di questo Paese vengano repressi violentemente ogni volta che provano a esprimere pacificamente la loro opinione. Se ieri ad un gruppo di studentesse che hanno alzato la voce per contestare la ministra Roccella è stato detto di non rispettare il diritto degli altri di esprimere un pensiero, cosa dirà la presidente Meloni alla polizia che oggi ha spaccato le teste di ragazzi che stavano manifestando pacificamente contro gli Stati Generali della Natalità? E cosa dirà a quei ragazzi? Siamo davvero noi i violenti censori in questo Paese?

Europee, 100mila firme per Pace Terra Dignità che correrà in tutte le circoscrizioni

Pace Terra Dignità sarà presente alle elezioni europee, in tutte le circoscrizioni.
È un fatto importante. Non perché c’è una lista in più ma perché questa è la lista che pone al centro della campagna elettorale la guerra alla guerra. Cioè la vera questione, direi l’incubo, che i cittadini europei, e non solo, hanno nelle loro vite. E rispetto a cui dovrebbero potersi pronunciare.
Come noto la strada per Pace Terra Dignità non è stata facile. Centomila firme raccolte in tre settimane, dopo che un decreto, a elezioni convocate, aveva tolto il diritto che Rifondazione comunista portava con sé di esenzione come partito europeo. Pace Terra Dignità ha voluto chiedere una larga convalida democratica e l’ha avuta. Passando anche per un rigetto iniziale che, con rispetto, alla mia lettura di ex parlamentare che ha fatto leggi appariva errato e che il dispositivo del Tar, che consiglio di leggere, ha rovesciato restituendo il diritto ai centomila e a tutti.

Focalizzarsi sulla guerra oggi è fondamentale. Dopo due anni di massacri tra Russia e Ucraina, con la partecipazione attiva e fondamentale di Nato e Ue. Di fronte al genocidio in Palestina, con complicità ed omissioni scandalose. Di fronte al rischio che ogni linea rossa sia superata e deflagri un conflitto incontrollabile. Mentre le scelte economiche guardano tutte alle produzioni belliche, pagate dalla austerità che torna a colpire i cittadini, garantendo profitti crescenti a tutte le multinazionali delle armi. Mentre si vuole militarizzare le società, addirittura le scuole, reprimere il dissenso, costruire nazioni suprematiste fondate sull’odio, fare guerra alla guerra è fondamentale.

Purtroppo tutto ciò viene da lontano. Dal non aver voluto costruire quella casa comune europea e quel nuovo ordine mondiale democratico che chiedevano Gorbaciov, Brandt, Palme, Berlinguer. Dalla pretesa di vincere fomentando conflitti. Dalla dipendenza dal grande impero del mercato finanziario che si ciba di guerre tra i nuovi imperi feudali. In questo la Ue ha tradito non il sogno ma l’impegno europeo alla Pace. Guerra e ritorno all’austerità sono il cemento di una maggioranza di élites e nazionalisti che sta in realtà insieme perché non corrisponde alla maggioranza dei cittadini. È in questo quadro che le destre sono tornate protagoniste nell’epoca del revisionismo storico. Ma non possono essere certo contrastate stando con chi, la maggioranza di Ursula von Der Leyen, procede nelle scelte belliciste e neoliberiste. La Ue ha scelto il riarmo e la guerra come scenario. I rapporti e le esternazioni di Letta, Draghi, Monti lo dicono a chiare note. Se i cittadini non si pronunciano su questo, contro di questo, a che serve fare una campagna elettorale e votare?

Chi scrive ha proposto lungamente una sola lista per la Pace. È stato detto di no e mi sembra un grave errore e una responsabilità che si è assunto chi si è negato a questa prospettiva. Per me la guerra alla guerra meritava, e merita, tutto l’impegno. Dalla transizione ecologica, ai migranti, all’aborto tutto è importante ma tutto è negato dalla guerra e dalla militarizzazione delle società. Io che sono contro la guerra sono certo contro Putin ma altrettanto contro la Nato e contro la scelta della Ue di alimentarla ad oltranza. Sono contro Meloni e Orban ma anche contro la maggioranza di Ursula von Der Leyen bellicista e neoliberista. Né “putiniano”, né “sinistra dell’Occidente, della Nato e di Von Der Leyen”. Con i cittadini, per la Pace e per liberare l’Europa.

Nella foto: raccolta delle firme in Sicilia (Fb Pace terra dignità)

Vi auguro di essere contestati ancora di più, ancora più forte

Il potere che si lamenta di essere censurato è un’illogica barzelletta che però non fa ridere perché ha molto a che fare con la violenza. Siamo certi che la ministra per la Famiglia, la natalità e le pari opportunità Eugenia Maria Roccella sappia bene la differenza tra una censura e una contestazione. Se non fosse così sarebbe troppo ignorante per stare dove sta. Si tratta quindi di un’evidente mala fede – questa no, non ci stupisce – perfettamente in linea con il vittimismo di un governo che vorrebbe essere contro-potere mentre gestisce il potere, desiderio tipico di tutti i reazionari. 

Per poter censurare bisogna innanzitutto ricoprire un ruolo di comando. Se dall’alto l’ordine di zittire viene calato verso il basso siamo di fronte a una censura. È una censura quando pezzi di governo o i suoi servi sciocchi impediscono la libertà di parola ai giornalisti, agli scrittori, agli artisti, agli intellettuali, ai lavoratori, più generalmente ai cittadini. La ministra potrebbe quindi essere censurata da qualcuno più alto in grado, solo quello. 

Negli altri casi si tratta di contestazioni, sano conflitto che nutre e che svela una democrazia. È un’enorme puttanata anche la frase che circola in queste ore “andate a contestare dove non è concesso”. Se non fosse possibile dissentire si attiverebbero tutti i i meccanismi necessari per ristabilire la democrazia. Non sapere governare il dissenso dice molto dell’ignoranza e dell’incapacità di gestire il potere. 

Auguro alla ministra Roccella e a tutti i ministri che vorrebbero imporre visioni non condivise di essere contestati ancora di più, ancora più forte, per prendere coscienza del ruolo che ricoprono. 

Buon venerdì.   

Nella foto: frame del video della contestazione studentesca agli Stati generali della natalità, 9 maggio 2024

Nadia Urbinati: «Gli studenti nei campus protestano per ideali di giustizia, rischiando il proprio futuro»

Columbia University, protesta degli studenti per il cessate il fuoco a Gaza

«L’adesione dei giovani a questa contestazione non è mossa da interessi personali. Questo è il dato che ci dovrebbe impressionare positivamente. Sono giovanissimi, non fanno i calcoli sulle convenienze. Sono l’anima buona della nostra società, e i vertici dell’ateneo hanno commesso un’azione arbitraria». Testimone dal vivo di quanto sta accadendo, la politologa Nadia Urbinati, che insegna teoria politica alla Columbia University di New York da 28 anni, è netta nel valutare con noi la realtà della protesta studentesca in atto contro Israele e pro palestinesi: «C’è una situazione di grande dissenso interno, di vera contestazione. Il rettorato ha preso decisioni senza consultare il Senato, violando il regolamento interno e i diritti costituzionali che la Columbia si è data nel Sessantotto. In seguito alle dimostrazioni e ai tumulti di allora – ci spiega – venne istituito appunto un Senato accademico con la funzione di ispezionare, collaborare ed essere guida per i docenti, nonché punto di riferimento per il presidente che non ha una funzione dispotica ma deve operare insieme al Consiglio di amministrazione e al Senato stesso».

Il clima è pesantissimo, e la scelta della rettrice Nemat Shafik di fare intervenire la polizia ha trasformato il campus nel teatro di uno scontro davvero alla Fragole e sangue: disordini, spray al peperoncino, mazze e bastoni, arresti. «Viviamo una situazione da stato di emergenza, da stato militarizzato», dice la Urbinati, che non nasconde la sua grande preoccupazione: «Sono molto pessimista sull’evolversi della situazione, molto complessa e poco chiara. Si respira una grande tensione. Per poter entrare nel mio ufficio l’altra mattina ho dovuto girare per ore nell’ateneo cercando un varco libero». L’intervento delle forze dell’ordine ha innescato una «escalation generata», spiega la professoressa, scavando un solco tra i vertici dell’ateneo e uno schieramento composto sia da docenti, trattati come dipendenti senza diritto di parola sulle decisioni prese, e sia da studenti da cui era partita una reazione pacifica al disastro umanitario legato alla guerra in Medio Oriente.

Giovani che vedono i morti di Gaza e alzano la voce, in quella che ha assunto i connotati di una protesta globale e che dilaga in tutte le università: dalla Francia al Messico, passando per la Germania e l’Italia. Negli Stati Uniti sono sessanta le università e i college che stanno partecipando al movimento in solidarietà con la causa palestinese e per chiedere che vengano sospesi i legami scientifici e finanziari tra gli atenei stessi e Israele. Negli ultimi giorni più di duemila giovani sono stati arrestati, e il dibattito è sempre più acceso sui limiti del diritto di parola e le accuse di antisemitismo.

«Il movimento legato alla denuncia della sofferenza del popolo palestinese a Gaza diventa un punto rappresentativo di altri problemi che ci possono essere nelle nostre società. Non è solo la questione palestinese. Quella fa da punto focale per altri problemi», ci dice la politologa Urbinati. Un dissenso che arriva da lontano: «Non ci ha colto proprio di sorpresa. Il movimento già esisteva a partire dal 2018 quando cominciarono le contestazioni per la sindacalizzazione del lavoro precario dei contrattisti, dei dottorandi. Dopo tre anni di blocco, hanno ottenuto diritti sulla sanità e altri legati al mantenimento e all’istruzione dei figli».

Il movimento di oggi è nato all’indomani del 7 ottobre. «Prima con le contestazioni nei confronti del conflitto nella Striscia di Gaza e poi, via via, anche per errori compiuti dalla rettrice, ha scatenato una polemica che non si è mai interrotta da novembre. Insomma, questo movimento trasversale e cosmopolita era già visibile da tempo». Esiste, sì, una forma di internazionalismo, risponde la politologa alla nostra domanda. «Ed è molto forte. In Europa – approfondisce Urbinati – molto più che negli Stati Uniti c’è una condizione di intervento diretto dei governi e delle polizie di Stato. Si pensi alla Germania. I campus americani sono privati per cui lo Stato non entra, sono autogestiti. In questi casi i problemi sorgono per le persone non adatte che governano come nel caso del nostro rettore. Qui non è lo Stato che impone la polizia, viene chiamata, nelle università pubbliche europee è lo stato che manda la polizia, perché le università non sono autonome».

L’accademica italiana si sofferma poi sul metodo repressivo con cui si sta intervenendo sulle iniziative di ribellione delle frange più giovani della popolazione. Nel campus newyorkese come nel resto del mondo: «Questa è come una prova generale di tante altre forme di intervento che in Italia si chiamano della governabilità. Qui l’hanno messa in atto. È un tipo di governo che i campus americani consentono perché sono organizzazioni private, sono multinazionali. Non è forma di governo politico ma di dominio perché hanno interessi molto corposi da difendere e l’aspetto educativo e il rapporto con gli studenti è secondario. Lo ha dimostrato il comportamento della rettrice. È un metodo di intervento sulla società che può essere applicato in altri ambienti, in altre situazioni, in altri stati. L’Italia fa parte di questo: è un Paese autoritario in cui la polizia viene scatenata appena dieci persone si riuniscono in una piazza. È un metodo che da ora in poi sarà sempre più esteso, metodo di dominio di una parte sull’altra, è arbitrario e gerarchico».
Giovani e ribellione di fronte alle ingiustizie riportano alla memoria vecchie pagine di storia, ma Urbinati rifiuta un parallelismo con il Sessantotto: «È una comparazione azzardata. Alle rivendicazioni del Sessantotto si è arrivati dopo le azioni degli studenti socialisti, le rivendicazioni dei diritti civili, le lotte dei neri con Martin Luter King. C’è poi un elemento particolare di quella contestazione nei campus americani: quando il Governo impose a tutti i cittadini americani maschi dall’età di 18 anni l’arruolamento obbligatorio per andare a combattere in Vietnam, gli studenti si ribellarono. Quella fu una ribellione politica ma anche legata a personali esigenze e posizione di timore per la propria vita e il proprio futuro. In quelle contestazioni c’era insomma un interesse diretto. La contestazione alla Columbia del Sessantotto fu una vera rivolta. Arrivò la polizia chiamata dal rettore dopo giorni di agitazioni, cioè quando già la situazione era molto compromessa. Qui invece è avvenuto qualcosa di diverso: questo movimento non ha legami diretti con gli interessi degli studenti. È puramente politico e teorico, o se si vuole ideologico. Non c’è nessun legame a convenienze personali».
Ragione per cui trova insensato che «da parte della stampa italiana ci sia quasi ironia o sarcasmo nei confronti di questi ricchi studenti delle università private. Sono posizioni ingiuste e assurde che non prendono in considerazione che i ragazzi arrestati o sospesi si sono giocati il futuro e non solo a Columbia. perché non verranno più presi da nessun campus. Hanno rischiato il loro futuro. Non hanno fatto i conti su quello che a loro conveniva o meno. La loro adesione spontanea dovrebbe essere messa al centro di ogni considerazione».
Nella Columbia University la polizia resterà nel campus fino al 17 maggio, due giorni dopo la cerimonia delle lauree di circa 15mila studenti in linea con la richiesta formulata dalla presidente Nemat Shafik.

L’amore al tempo dell’intelligenza artificiale

Immagino che Calvino de Le città invisibili avrebbe accolto con grande interesse Lettere a una fanciulla che non risponde, l’ultimo romanzo – sorprendente, va detto subito – di Davide Orecchio (edito da Bompiani), dove il protagonista è un robot, ovvero una macchina che scrive lettere d’amore. Non corrisposte. L’intelligenza artificiale che interpreta un sentire umano perduto per sempre in questo mondo capovolto e probabilmente senza speranza alcuna se non quella di restare, finché durerà, in questa posizione. A faccia in giù, senza risposta. Dove il sentimento primario dell’amore è disintegrato nelle mille. Quella macchina, il robot innamorato, “ama” una donna che non ha mai avuto e scrivendo tenta di mantenere un legame che possa restare nel tempo. Nero su bianco. Soltanto per lui, ultimo romantico, un robot, sul pianeta. Lo fa, appunto, col mezzo più antico: la lettera. Lettere, sono 12, scritte in quel futuro di fantascienza, con carta e inchiostro. Livia, la fanciulla silenziosa, legge. Non risponde al nostro soldato innamorato, ma commenta a proposito di un amore di gioventù, anche questo perso. L’unico amore “umano” che sta nel libro. «Gli strumenti usati dal robot sono una risma di carta, un pennino e l’inchiostro – riflette con noi Orecchio -. Mezzi preistorici, come li definisce la macchina, facendo riferimento al suo tempo, che è un tempo alternativo al nostro, tanto che questi strumenti destano ironia e stupore. Lui, il robot, versa in uno stato di completa disperazione. Invia lettere senza sapere neppure se la destinataria leggerà. Continua comunque a inviarle, imparando la scrittura con questi mezzi rudimentali perché non ha altro modo di comunicare. Impara a scrivere, tiene in vita il “rapporto”. È un modo per restare vivi, come in Mille e una notte, l’archetipo è quello». Un substrato psicologico, sul quale si sviluppa la narrazione, che rievoca l’attesa. «A me piaceva anche fare attrito ironico tra il mondo fantascientifico e l’inserimento di elementi non tecnologici. Non un atto nostalgico – commenta Orecchio – ma un piacere nel provare a utilizzare uno strumento letterario che è il romanzo epistolare, tassello importante nella tradizione romanzesca occidentale. Mi piace la comunicazione epistolare, il racconto attraverso la lettera, ci sono due parti che si raccontano il mondo quindi ho dato sfogo al desiderio di utilizzare questo territorio letterario. Raccontare con penna e carta è anche una critica implicita al modo in cui si usano le parole nel mondo digitale in maniera più veloce, più superficiale, più sintetizzata. La destinataria a margine delle lettere annota delle osservazioni con la penna». La storia si intreccia con un’altra storia. Quella di un amore adolescenziale vissuto dalla donna, appunto. Un racconto, perciò, su due piani. «E trentanove note a margine sono i commenti che la fanciulla fa alle lettere che riceve e non sembrano essere un dialogo con la macchina che scrive. L’amore e l’affetto che le lettere che la donna riceve manifestano in maniera esorbitante le risvegliano la storia, e qui siamo in piena malinconia e nostalgia, di questo primo amore vissuto in un anno di liceo. Rievoca ricordi lontani, istigata dal sentimento delle missive che riceve. Da un lato è una donna crudele perché ha piantato in asso questa macchina né da una risposta ai suoi scritti, c’è un’estrema crudeltà che spesso è un ingrediente di una storia che finisce. Dall’altro anche lei inizia a ricordare il suo amore, l’unico avuto nei confronti di un essere umano». Torniamo, appunto, qui. All’amore, secondo Davide Orecchio, di questo tempo perduto. È dura da digerire scoprire che viviamo in un posto dove non c’è più spazio per i sentimenti, ma anche mettersi di fronte allo specchio tutti quanti. Soprattutto chi non è capace di quel salto di maturità necessaria a mantenere viva una relazione. «È una riflessione quasi cinica sui sentimenti di oggi – spiega infatti lo scrittore –. Ci disfiamo delle persone, ecco. Quello raccontato è un rapporto strumentale, ma è più sotto traccia rispetto a un altro. Il robot è l’interprete di un’identità maschile. È anche un uomo a tutti gli effetti che fallisce nella relazione con la sua compagna perché non è all’altezza di questo rapporto, del bisogno di cure che ha lei quando si ammala. Quando subentra la malattia questo amore deve evolvere anche in accudimento. Lì la macchina-uomo sbaglia tutto, al punto da spaventare questa donna e spingerla a mandarlo via». 
Del futuro delle relazioni sentimentali, Orecchio immagina «un domani in cui possa esserci una relazione molto simbiotica tra essere umano e macchina. Certo questo non appartiene ai prossimi dieci o quindici anni, ma ad un tempo molto più distante da noi. Forse cinquanta, sessant’anni. Quello che però mi sembra interessante non è la paura della macchina, dell’intelligenza artificiale, dell’estraneo a noi che siamo umani ma la possibilità che le macchine possano portare dentro di sé qualcosa di umano. Il robot del romanzo è una macchina che “si umanizza”, ecco, e questo penso che accadrà se si dovranno soddisfare bisogni di compagnia che inevitabilmente porteranno dentro una componente di umano. Si potrebbe aprire un territorio sconfinato anche di soluzioni di tantissime solitudini. Il nostro mondo multimediale e digitalizzato è estremamente solitario. Potrebbe essere la soluzione ad un problema grave della nostra società». Da brividi, se ci pensiamo. E l’ignoto spaventa sempre. Dalla lettura del romanzo, l’arcano sembra rinnovarsi. «Degli elementi sociali dell’intelligenza artificiale, della sostituzione di un’attività umana da parte delle macchine siamo consapevoli – sottolinea l’autore –. C’è un rischio di progressiva inutilità dell’essere umano in tante sue mansioni che non sono necessariamente professioni o mestieri ma anche elementi che creano l’identità dell’essere umano stesso. Riguarda tutto, dai lavori creativi fino alle fabbriche. Questo mi preoccupa. Un mondo in cui la macchina ci ruberà gran parte delle attività e ragioni di essere». Pensiamo dunque al cinema. Ci sono tanti esempi di pellicole sul rapporto tra esseri umani e robot, e il romanzo sembra muoversi lungo un comune fil rouge. «Ci sono tanti film che mi hanno affascinato – ricorda Orecchio –. Tra tutti Intelligenza Artificiale di Spielberg dei primi anni 2000. Un capolavoro. Quel bambino-macchina perdutamente innamorato della madre che viene cacciato, espulso da casa e passa tutto il resto della sua vita a inseguire questo grande amore perduto. È un innesco forte della mia immaginazione rispetto a questi temi e a questo libro. C’è un clima fantascientifico cinematografico prima che letterario che ha influenzato moltissimo me e quelli della mia generazione». Con questo libro e con l’autore delle lettere, facciamo uno straordinario viaggio in quel futuro distopico che c’attende, con un occhio, come si diceva a Calvino e un altro al Cavazzoni di Guida agli animali fantastici, un mondo fatto di macchine, animali, i maiali per esempio, che lavorano nei cantieri edili, oppure struzzi a tre gambe ed esseri multiarto. Sullo sfondo, un clima di soprusi e violenza. Una fotografia che è già qui, appena fuori dalle nostre porte. Come salvarsi? Con l’arma più vecchia dell’universo: l’amore.

Il canto popolare di Giovanna Marini che ha fatto la storia

 

Per chi come me è cresciuto negli anni Ottanta quando il “movimento” era rifluito, e in giro non si cantava più, sono stati i dischi a far conoscere, e amare, il canto sociale e il canto popolare. Il mio primo album in assoluto fu un cd di Caterina Bueno allegato a questa rivista quando si chiamava Avvenimenti; subito dopo conobbi le due collane che hanno fatto la storia della musica popolare del canto sociale italiano: la collana folk della Fonit Cetra e i Dischi del Sole. I Dischi del Sole erano stati fondati all’interno delle edizioni Avanti!, e il primo disco fu Bella ciao, nel 1965.

Negli anni Novanta il catalogo dei Dischi del Sole venne acquisito dall’etichetta Ala Bianca, che dopo averlo reso disponibile in digitale, ha ristampato dodici album storici. Sono dodici scrigni preziosi di memorie e di canzoni pronte all’uso. Sì, perché è l’uso ciò che le contraddistingue: tanto il canto sociale che il canto popolare esistono in relazione a una funzione, entro un contesto che li produce e gli dà senso. Perciò non si può che accogliere con gioia la riapparizione di Addio Lugano bella, la straordinaria raccolta di canti anarchici, Ci ragiono e canto (lo spettacolo di Dario Fo), La veglia di Caterina Bueno, Fiaba grande di Ivan Della Mea, I treni per Reggio Calabria di Giovanna Marini. E proprio con Giovanna – con la quale ebbi la fortuna di condividere il palco per il cinquantesimo anniversario del Nuovo canzoniere italiano – ho fatto una chiacchierata a proposito di questo evento discografico.

Hai detto una volta che la testimonianza più grande che lascia l’esperienza dei Dischi del Sole è quella dell’amore e della passione per le cose che facevate: il vostro scopo non era di vendere dischi, ma di far memoria. Ivan Della Mea diceva la stessa cosa, da un punto di vista più “materialistico”: le condizioni materiali di produzione erano quello che erano, con le ristrettezze economiche, i pochi denari, il “buona la prima” in fase di registrazione…
Sì, certamente era sempre una cosa fortunosa. Non avevamo affatto l’abitudine di curare i dischi con sovra incisioni, postproduzione, come si fa per i dischi da vendere. Per noi quello era materiale da archiviare, da ricordo.

Mentre invece la tradizione musicale popolare negli Stati Uniti aveva una considerazione diversa: tu fosti lì a metà degli anni Sessanta, e ai tuoi occhi risaltò bene la differenza.

Sì, negli Stati Uniti è molto differente, basta paragonare i Dischi del Sole con la storica etichetta Folkways, che aveva grandi distribuzione e vendita. Fare canzoni e dischi solo per passione in America non esiste. C’è la passione, ma prima c’è la marcia del capitale. Io ero lì a metà degli anni Sessanta, e vedevo bene la differenza. Negli Stati Uniti non si potevano fare dischi come, che so, Il cavaliere crudele, che in un anno vendette 25 copie. Valeva anche per Woody Guthrie: prima di tutto, è un prodotto che deve vendere. Per noi non era così, i Dischi del Sole sono prima di tutto il frutto della nostra passione e del nostro amore.

Nei Dischi del Sole c’erano sia canzoni popolari (l’attività di ricerca e di riproposta, come si diceva) sia canzoni d’autore. Il comun denominatore era che si trattava di canzoni d’uso. Tanto è vero che a volte non si percepiva dove finisse la canzone popolare e iniziasse quella d’autore.
E’ vero. Canzoni che ho scritto poi sono diventate popolari, le cantano pensando che siano popolari… “Una morte di Gesù”, ad esempio, oppure “Addio addio amore”.

Vuoi raccontarcela nel dettaglio la storia di “Addio addio amore”? È una storia davvero esemplare dello spirito dell’epoca.
Sarà stato il 1960, era prima che iniziassi a fare ricerca, andavamo al mare di Ostia con Bruno Trentin e la sua famiglia, lì sentii cantare una canzone che mi piacque molto. Passò del tempo, dimenticai la melodia, e mi rimase in testa un arpeggio in minore, una successione di quattro note. Andando a Spoleto per fare lo spettacolo Bella ciao io, non avendo canzoni popolari da cantare ne scrissi due in macchina mentre Teresa Bulciolu guidava, annotandomi qualche parola e qualche nota. A Spoleto la cantai questa, mettendo insieme le poche parole che mi ricordavo della canzone di Ostia con quelle di un vecchio canto abruzzese dove si menzionavano l’oliva e la ginestra. Ed è venuto fuori “Addio addio amore”. Poi quando abbiamo fatto il disco di Bella ciao, per i Dischi del Sole, Gianni Bosio mi chiese se ero iscritta alla Siae, e io dissi di no, senza sapere che avendo fatto il conservatorio lo ero. Così nel disco risultò come canzone popolare. Peraltro non la pensavo come una “composizione”: venivo da una famiglia di musicisti dove queste erano giusto quattro note, se avessi detto a mia madre che l’avevo composta mi avrebbe risposto “Non farmi ridere! Si compongono le fughe, i preludi! Mica quattro note che ti vengono in mente!”. Questa era la mia idea… Fatto sta che un giorno incontrai alla Siae Mimmo Modugno, che era dispiaciuto perché non sapeva che quella canzone l’avevo scritta io, così lui, pensandola canzone popolare, l’aveva presa e ci aveva scritto sopra “Amara terra mia”, che divenne un grande successo.

Hai detto che nel canto popolare, quello che fa da discrimine è il come lo si prende e l’uso che se ne fa. Del resto il canto popolare ha costitutivamente a che fare con la reinvenzione continua della tradizione, con la variazione, col ritornello… E dunque: come bisogna prenderlo?
Ti faccio un esempio. Noi abbiamo fatto una ricerca sui monti del Pollino in Calabria, una zona molto isolata, dove ricerca non era stata fatta. Non avevo mai sentito cantare così, delle grida altissime con una specie di scala discendente e un basso continuo, una forma di discanto, che il vescovo non voleva si cantasse durante la processione perché lo trovava un canto pagano. È questo il canto contadino che mi appassiona, il canto pastorale fatto solo su due tre suoni codificati, scelti, rituali, da cui si è sviluppata la musica classica. Oppure il canto sardo per falso bordone, che ho trovato a Bosa, canti di pastori, fatti per emozionare, che stanno dentro quel contesto: come fai a riproporli estraendoli da quel contesto, fuori da quei Paesi arroccati sulle rocce da cui si vede il mare, se magari hai una faccia slavata da borghese, che non dice niente? Ci vuole un grande studio, per farlo, un grande lavoro. Questo è il canto di cui si discute se proporlo o non riproporlo. Altra cosa è la forma canzone, di grandi autori come Alfredo Bandelli o Ivan Della Mea, che loro sembravano nati con Puccini dentro, con Mascagni, con l’opera, quella era la loro estrazione; o anche col varietà e il vaudeville come Pietrangeli.

Però tu hai fatto tanti dischi di canzoni, e in particolare uno come I treni per Reggio Calabria, che per me è il capolavoro assoluto, una pietra miliare della musica italiana, e quelle sono canzoni una più bella dell’altra.
Sono canzoni, sì, però a impronta classica. Carpitella mi diceva che in certi pezzi ci sentiva Bach e Rossini: io quello ho in testa… Tutti abbiamo in testa qualcosa che poi ci esce fuori.

Un’altra cosa che caratterizzava in maniera forte il gruppo che ruotava attorno ai Dischi del Sole è l’estrazione sociale. C’erano persone che venivano dalla borghesia, di alta cultura, come te, Pietrangeli, Della Mea, e quelli che venivano da ambiente contadino, come la Daffini, la Balistreri, il gruppo di Piadena.
C’era una divisione di classe sociale, ma ci sentivamo tutti sullo stesso piano. Anzi, c’era una sorta di venerazione per chi era portatore di una tradizione contadina.

Anche Caterina Bueno veniva da una famiglia borghese.
Sì, aveva due genitori molto colti, ma lei si sentiva molto meglio nelle sue cantine frequentate da contadini e operai che non nei circoli intellettuali. Faceva ricerca anche perché nei luoghi contadini e proletari si sentiva più accolta, più amata.

Intervista pubblicata su left il 25 maggio 2018

Lo scrittore e musicista Marco Rovelli è l’autore, fra molto altro, dell’album Bella una serpe con le spoglie d’oro, dedicato a Caterina Bueno, in cui ha ripreso i canti popolari toscani d’amore, di lavoro e di protesta.

 

Ma i programmi elettorali per le europee?

La legge elettorale per le elezioni europee che si svolgeranno l’8 e il 9 giugno non prevede l’obbligo per i partiti di presentare il programma elettorale. Pagella politica ha pubblicato i programmi presentati finora, mentre la campagna elettorale è già iniziata da un bel pò. Si ritrovano solo i programmi elettorali di Forza Italia-Noi moderati, di Azione, della lista Pace terra dignità di Michele Santoro e della lista Libertà di Cateno De Luca. 

Gli altri partiti politici sono in campagna elettorale senza avere ancora reso pubblico ciò che vogliono fare in Europa. Molti di loro lo pubblicheranno a breve (quelli di Fratelli d’Italia sono incagliati sulla guerra in Ucraina, ad esempio) e molto probabilmente qualcuno ne farà a meno. Secondo il direttore di Pagella politica Giovanni Zagni «forse è meglio così: nella politica italiana si ha la distinta sensazione che gli impegni presi per iscritto, pubblicamente, in modo netto siano da evitare». L’assenza di un programma scritto permette comunque ai partiti di presentare candidati con idee sostanzialmente opposte su alcuni punti cruciali, Le elezioni diventano così un’adesione ideale – più che programmatica – all’una o all’altra parte, con profili sempre già vicini alla tifoseria. 

Queste prime settimane di campagne elettorale hanno offerto un dibattito molto povero sui temi europei, come se le competenze del Parlamento europeo fossero sovrapponibili a quello nazionale. Così la politica diventa, ancora una volta, un’ossessiva carrellata di influencer. 

Buon giovedì.