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Il punto è un altro. È che doveva essere meglio. Anche molto meglio

Il ministro Maria Elena Boschi ha detto, anzi ha ridetto, che il Pd «andrà avanti sulla strada del cambimento, il partito ha una grande responsabilità perché rappresenta il 41% degli italiani ed è l’unico partito in grado di cambiare il Paese e lo stiamo dimostrando con l’azione di governo». Che facciamo, le rispieghiamo che non è vero? Che quel 41% per cento è la metà di quella metà di italiani che hanno votato alle ultime Europee? No, basta. L’abbiamo fatto troppe volte. Lo sa anche lei.

Il problema è che sulla strada del cambiamento «decidere non è fascista». Lo ha detto Matteo Renzi alla direzione del Pd di lunedì scorso, anzi lo ha ridetto. Che facciamo gli rispieghiamo anche a lui che il problema non è mai stato “decidere” ma è il cosa decidere e il come che fa la differenza in democrazia? No, ciance e lungaggini inutili: «Se l’obiettivo è sempre trovare un contro-soggetto che co-decide, tratta e blocca, noi non avremo mai un sistema moderno ed efficiente. La legge elettorale conferisce a qualcuno il compito e il dovere di rimuovere gli alibi». Il cambiamento è moderno ed efficiente per il nostro premier. Tutto il resto è un alibi. Perché «il Porcellum è come la mistery box di Masterchef. Esce fuori dall’urna quello che non avevi scritto sulla scheda…».

Non è uno scherzo. E neanche un brutto sogno. È la «democrazia decidente» 2.0 made in Renzi. La politica non è mica il gioco dell’oca, ha detto alla platea. Lui alla casella 58 non ci vuole capitare. Perché indietro fino alla 1 non ci torna. Anzi va dritto spedito alla 63, fino alla vittoria. A costo di truccare i dadi. E cos’è la vittoria? «Ora è il momento di dire “Chi vince governa”. Punto». Un po’ come il vecchio «io pago, io pretendo. Punto». Semplice e compatto. Né dittatura, né democratura. Solo un presidenzialismo di fatto senza contrappesi. Una banalità dirlo ancora. Fiumi di inchiostro e piazze e palchi sono stati spesi. E allora chiudere tutto e in fretta, il 27 aprile in aula ed entro fine maggio si porta l’Italicum a casa. Punto.

Nel frattempo, nell’indeterminato campo della sinistra (in teoria pure quello di prima lo era!) l’unica cosa che ha fatto scalpore della piazza di sabato scorso sui nostri indimenticabili e imperdibili quotidiani e talk show, sono stati il bacio di Maurizio Landini a Susanna Camusso (che non ha ricambiato) e la frase urlata alla piazza del segretario Fiom: “Renzi è peggio di Berlusconi”. Scandalo. Piuttosto bisognerebbe pensare a Craxi o Fanfani, questo è stato il tenore del dibattito in questi giorni.

Io un po’ c’ho pensato. E il punto è un altro. Il punto è che doveva essere meglio. Anche molto meglio. In generale doveva essere meglio. Doveva essere meglio per la vita delle persone. Quelle vere in carne ed ossa. Dovevano essere più protette, più uguali, dovevano avere meno paura, vivere meno violenza. Ne avevano vissuta tanta in vent’anni, era il momento di cambiarle le loro vite. Lavoro, diritti, scuola, sapere, partecipazione, libertà, certezze pure.

E invece non lo è meglio. Ed è evidente che il problema è il meglio e la sua costruzione. Che ci mettiamo dentro al meglio? E poi come lo realizziamo? Contenuti, strumenti e metodo. In quel bacio non corrisposto tra Camusso e Landini, per me, non c’era ancora. Ma c’era un tentativo di “coalizione sociale”, coraggioso visto il clima nostrano, ma tutto da vedere. Entro la fine di maggio verrà stilata la “carta d’identità del movimento” con i valori di riferimento e gli obiettivi da perseguire. Studieremo, parteciperemo e ne scriveremo. «Prenderemo il meglio e lo consegneremo alla lotta», come dice Landini citando Neruda. Il giovane professore di Parigi, Ferragina, lo fa già su questo numero. Continua a dialogare a distanza col segretario della Fiom: recida il vecchio e proponga il nuovo. Contrapponga a Renzi e alla sua democrazia decidente, l’agenda dell”uguaglianza efficiente” della maggioranza. Non più invisibile.

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Le sculture sociali di Joseph Beuys nella mostra milanese “Icona per un transito”

La rivoluzione siamo noi. Perché la creatività non è un dono divino riservato a pochi, ma una caratteristica dell’essere umano. E si può sviluppare, sperimentando nuovi linguaggi ed in ricerche di gruppo. Ne era convinto Joseph Beuys (1921-1986), punto di riferimento dei movimenti di rivolta giovanile nella seconda metà del ‘900, personaggi carismatico anche se non privo di ombre: durante la seconda guerra mondiale si arruolò nell’aviazione tedesca e, dopo quella tragica esperienza, divenne un paladino del pacifismo e un fautore dell’arte come strumento di intervento sociale.

Una mostra milanese dal titolo Icona per un transito e un’iniziativa editoriale di Castelvecchi ora invitano a tornare ad approfondirne la figura e il ruolo di maieuta per un’intera generazione di artisti che in comune avevano ideali ambientalisti e l’uso di materiali poveri come legno, terra, feltro, pietra, grasso, fasce di cotone.

Questo tipo di poetica, politicamente impegnata e al tempo stesso minimalista, fu sviluppata dall’artista tedesco in maniera dialogica attraverso una serie di incontri e interviste che Castelvecchi ora ripropone nell’interessante volume: Joseph Beuys, Cos’è l’arte?, curato da Volker Harlan.

Il risultato di quelle sperimentazioni invece si può vedere negli spazi di Montrasio Arte a Milano dove celebri opere di Beuys come Difesa della Natura, Tutti gli uomini sono artisti, Kunst=Kapital dialogano con altrettante opere di Salvatore Scarpitta (1919- 2007), artista italo americano  lanciato da Leo Castelli e affine a Beuys per energia creativa e fiducia nella forza sociale dell’arte. Curata da Luigi Sansone la mostra è aperta fino al 3 aprile e riporta in primo piano l’esperienza della seconda guerra mondiale che vide i due artisti su fronti opposti.

Dopo la guerra, l’arte povera di Beuys, che mescolava sperimentazione e riferimenti alla tradizione letteraria e filosofica tedesca (da Schiller a Hölderlin, da Kirkegaard a Steiner) ebbe un grande successo internazionale e in particolare in America. Anche perché, come ricostruisce Demetrio Paparoni ne Il bello, il buono e il cattivo (Ponte alle Grazie) indagando i rapporti fra arte e potere, «gli Usa impegnarono molta energia e molto denaro perché l’arte nord americana affermasse il suo predominio sul mondo. E quella politica culturale, sortì buoni risultati anche nella Germania dell’ovest dove gli artisti della generazione di Beuys furono largamente influenzati dalla scuola di New York».

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Citofonare Renzi

Il 6 aprile di sei anni fa L’Aquila tremava. Sei anni dopo L’Aquila teme. Teme di non tornare più alla vita.

Siamo tornati nella città con la macchina fotografica di Stefano D’Amadio che per Left ha realizzato un reportage e con le parole di Angela Ciano che ci ha accompagnato tra i vicoli di un “non luogo” abitato da operai, tecnici, capocantieri. “I mangiapolvere”, come li chiama il professor Colapietra.

La ricostruzione delle facciate procede ma è una ricostruzione sbagliata. Perché ha allontanato invece di riavvicinare, di unire la cittadinanza dispersa nelle new town di berlusconiana fattura. «La ricostruzione ha un carattere antiquiario, non c’è recupero urbano e sociale. Non c’è più quotidianità a L’Aquila…» racconta il professore, memoria storica della città e testardo abitante del centro storico. «Non ho mai voluto abbandonare i miei libri e i miei gatti». Leggerete la sua storia e le parole di Fabrizio Barca intervistato da Raffaele Lupoli, unico ministro (della Coesione territoriale dal 2011 al 2013) ad aver lavorato ad una strategia per il recupero della città: da una ricostruzione “autoritaria” era necessario passare a un vero proprio piano di sviluppo “da dentro” che mettesse in connessione natura e centri di competenza. Ma Renzi latita, così come una nuova regia per la città.

E poi tanto altro, Milano e cosa resta degli arancioni dopo la rinuncia di Giuliano Pisapia; una lunga e ragionata intervista a Sergio Cofferati che non risparmia critiche all’attuale segretario Cgil e fa il suo in bocca al lupo alla Coalizione sociale di Maurizio Landini; il gioco dell’oca delle leggi sulle Unioni civili, tra rinvii e stop con ritorno al via e apparenti lieti fine.

Negli esteri Maziyar Ghiabi ci racconta le banlieu parigine dopo Charlie Ebdo, dove tra islamofobia e violenza nasce il Red star football club e poi Bosnia e Yemen, nuova polveriera del Medio Oriente. In cultura Piero della Francesca, scienziato-artista e la grande mostra a lui dedicata inaugurata a Reggio Emilia; le meravigliose immagini delle grotte di Latmos. L’intervista ad Edgar Reitz nella quale ci racconta la storia dell’Altra Heimat, quando nel XIX secolo i tedeschi erano costretti a migrare in cerca di fortuna e per chiudere la musica dei Negrita. Buona lettura!

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“La gatta” Vittoria Puccini a teatro non graffia

Il recente decreto ministeriale sul teatro sembra riorganizzare il sistema spostando gli enti da una casella all’altra (teatri nazionali, teatri di rilevante interesse culturale ecc.), senza affrontare veramente nessun nodo, a partire dalla scarsità di fondi per un settore, importante per la vita culturale, sempre sul punto di implodere.

Non giovano alla situazione operazioni come quella della Gatta sul tetto che scotta, compiuta dalla Fondazione Teatro della Pergola, di recente assurta a teatro nazionale. Il testo del 1955 di Tennessee Williams, uno spaccato di ferocie personali e familiari nell’America del grande sogno post-bellico, è stato allestito con gli Ipocriti (sussidiarietà pubblico-privato?) scegliendo un volto televisivo come Vittoria Puccini per il ruolo di Maggie, interpretato da Liz Taylor nel film del 1958.

La regia è stata affidata ad Arturo Cirillo, artista impegnato da anni in un lavoro tra tradizione e innovazione e nella costruzione di una compagnia di attori-autore di notevole presenza e inventiva scenica che una volta si sarebbe detta «di complesso» (dai begli affondi su Molière ma anche su Ruccello e su autori del novecento sono emersi nomi carisma- tici come Monica Piseddu). In questo spettacolo (visto al Duse di Bologna) Cirillo costruisce il cast intorno alla protagonista, affidando il ruolo di Brick, il marito alcolizzato, a un tormentato Vinicio Marchiori, quello del padre a un perentorio Paolo Musio, circondandoli di bravi comprimari.

In una stanza da letto dai colori carichi che in certi momenti si apre su una macchia di verde selvaggio, calca i toni sulla rivelazione delle falsità, delle ipocrisie, delle avidità che governano i rapporti parentali. Quello che non funziona è Vittoria Puccini, che sembra compitare, con voce affaticata, una parte senza vita, mandata rigidamente a memoria. Il fatto che su di lei si incentri quasi tutta la prima ora di spettacolo sposta anche il seguito più sul melodramma che sull’epifania espressionista.

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Manoel De Oliveira, il regista che amava le donne

Autore di straordinaria forza poetica, il regista Manuel de Oliveira, scomparso oggi a 106 anni, ha attraversato ottant’anni di storia del cinema, lasciandoci una quarantina di film, fra i quali molti capolavori. Leone e Palma d’oro alla carriera a Venezia e a Cannes,  è stato premiato con il Leone d’argento a Venezia per La divina commedia (1981) e ha ricevuto il premio della giuria a Cannes per La lettera (1999).

Ma il maggior riconoscimento viene forse dal pubblico e dalla critica più colta che ha saputo apprezzare l’originalità del suo modo di fare di immagini, ma anche lo spessore letterario delle sue storie e la sua capacità di raccontare la vita interiore dei personaggi.

Al centro della filmografia di questo appassionato e gentile cineasta portoghese c’è una profonda “indagine” dell’universo femminile. De Oliveira ha saputo tratteggiarne la complessità. I suoi film portano in primo piano il diverso da sé, affascinante e sconosciuto, la bellezza sensibile delle donne. E, talora, anche la violenza invisibile della pazzia.

Come pochi altri Manol de Oliveira ha saputo rappresentare la violenza invisibile dell’anaffettività, quella algida bellezza, dietro la quale si nasconde una micidiale assenza di emozioni. Basta pensare, per esempio, a un film come Belle toujour, (2006) in cui ha ripreso e rielaborato il tema del celebre film di Buñuel Belle de jour (1967) che aveva come protagonista Catherine Deneuve. Un’opera breve, a macchina ferma, un saggio magistrale di scavo nell’animo dei protagonisti (Bulle Ogier e Michel Piccoli) che per tutta la durata del film si guardano a distanza e sembrano giocare al gatto col topo.

In questo film il regista portoghese immaginava che il vecchio amante riuscisse a ritrovare la donna che viveva chiusa in un albergo a Parigi potendo finalmente parlare con lei durante una cena a lume di candela. La donna “scandalosa” di una volta gli confesserà di volersi ritirare in convento per espiare. Passando così da una vita dissoluta a una vita solo spirituale. Due esperienze all’apparenza opposte ma – ci lascia intuire il regista – ugualmente caratterizzate dall’assenza di ogni “sentire”.

E come non ricordare a questo proposito un capolavoro come Francisca (1981), ultimo capitolo di una tetralogia iniziata con Passato e presente (1971) e proseguita con Benilde e la vergine madre (1974) e Amore di perdizione (1978), in cui tratteggia con uno stile quasi da cinema muto il naufragio nell’oppio di un giovane dandy che rapisce la bella e vergine protagonista. Uno dei fili rossi che attraversa tutta la filmografia di De Oliveira è il vitale, eppure talora sanguinoso, rapporto uomo – donna; che in forma di conflitto di genere e di classe ritroviamo in O principio de incerteza (2002). Ma importante nel suo lavoro di cineasta e nella sua esperienza di vita in quanto oppositore al regime di Salazar è stato anche il tema del recupero della memoria, personale e collettiva. Svolto in chiave intimistica in Viagem ao Princípio do Mundo (Viaggio all’inizio del mondo, 1997) e Porto da Minha Infância (2001) e in chiave di rivisitazione storica e critica in film come, per esempio, Palavra e Utopia (Parole e utopia, 2000).

In particolare è uno straordinario viaggio nella storia delle civiltà del Mediterraneo Un film falado (2003) in cui il regista rilegge in profondità la vicenda dell’Occidente attraverso lo sguardo di una archeologa e altri personaggi femminili a bordo di una nave da crociera che si ferma nei porti storici del Mare Nostrum. E si potrebbe continuare a lungo tanto è ricca l’opera che Manol de Oliviera ci ha lasciato, da quel Faina Fluvial con cui esordì nel 1931 fino all’ultimo corto O velho du restelo, una riflessione sulla sulla letteratura iberica, tra Luis de Camoes e Cervantes, presentato fuori concorso proprio all’ultimo Festival di Venezia. Per questo, volendo rendergli davvero omaggio, non possiamo che concludere invitando i nostri lettori a vedere direttamente o a rivedere i suoi film.

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Benvenuti a Expo 2015 la fiera dell’ipocrisia

Il pianeta degli obesi e quello dei denutriti, le food corporation e i piccoli produttori locali, i semi antichi e i robot che servono ai banchi del supermercato. Nel milione di metri quadri che dal primo maggio ospiterà Expo 2015 c’è posto per tutto. E il contrario di tutto. Un mix di ingredienti controversi conditi in salsa italiana: inchieste della magistratura, consumo di suolo agricolo e perfino una società civile divisa nel giudizio e nelle modalità di “presidiare” l’evento.

Quello che non manca, di sicuro, sono i grandi sponsor, ognuno con la sua declinazione dello slogan “Nutrire il pianeta, energia per la vita”. Il tema del cibo “tira” e gli organizzatori rivendicano con orgoglio di aver raccolto cifre record: oltre 370 milioni di euro tra sponsorizzazioni e partnership, a fronte dei 50 milioni di dollari del budget di Shangai 2010 e dei 180 milioni di dollari preventivati per il prossimo appuntamento di Dubai, nel 2020.

Moneta sonante che arriva da colossi come Finmeccanica, Intesa San Paolo, Fiat Crysler Automobiles, Enel, Samsung, Tim. Ma anche da big dell’alimentare come l’official soft drink partner Coca Cola, che annuncia di voler raccontare nel suo “padiglione corporate” «il proprio modello di sostenibilità, basato sulla promozione di stili di vita attivi, l’importanza di un’alimentazione equilibrata, l’innovazione di prodotto e confezioni, la protezione dell’ambiente». Poi, ci saranno Nestlé in veste di water partner con il marchio San Pellegrino, Coop con il supermercato del futuro, Illy caffè e Birra Moretti e, ultimo in ordine d’arrivo, McDonald’s. Il colosso degli archi dorati annuncia il suo ingresso in pompa magna, precisando che l’80% dei prodotti che serve lungo lo Stivale è made in Italy e che «sposa i valori di Expo 2015» con un progetto dedicato ai giovani agricoltori italiani. Anche in questo caso il padiglione-ristorante, il più grande dell’Expo con i suoi 300 posti, «rappresenterà una vetrina non solo sull’azienda, ma sulle filiere agricole italiane partner del marchio globale, per raccontare la storia di un sistema composto da McDonald’s, gli imprenditori locali e il mondo agricolo».

Vittorio Agnoletto, che con Emilio Molinari ha ironizzato sulla presenza di McDonald’s paragonandola alla nomina di Erode a testimonial dell’Unicef, commenta: «Ci sono tutte le premesse perché l’Expo si riveli soltanto un gigantesco spot dell’industria globale del cibo». L’ex europarlamentare critica «l’imbroglio culturale che Expo porta con sé, con l’uso spregiudicato del termine “sostenibilità” e un furto del linguaggio nei confronti dei movimenti che lo contestano».

Made in Italy dove?

«Sarà un grande successo e ci consentirà di presentare l’Italia al mondo. Questo con buona pace di tutti i gufi». Per Matteo Renzi l’esposizione universale è la vetrina del made in Italy, lo ha ribadito il 13 marzo a Rho Pero dal palco allestito in mezzo ai cantieri, davanti a una delegazione dei cinquemila operai impegnati nel tour de force per ridurre i ritardi dei lavori. Qualche cantiere chiuderà a Expo in corso e alcune opere vedranno la luce soltanto dopo la fine dell’esposizione. Per questo la macchina organizzativa, ha già avviato le procedure per un intervento di camouflage, accorgimenti scenografici che serviranno a mettere una toppa visiva dove ci sono opere incompiute. Per salvare l’immagine della «cattedrale laica» – per usare la definizione di Matteo Renzi – servirà un maquillage da oltre un milione di euro.

Ne va dell’immagine dell’intero Paese e per tutelarla il premier sfoggia tutto il suo “expo-ottimismo”: «Expo non è più la fiera degli scandali: quella pagina lì è chiusa». Parole incaute, per almeno due motivi: perché le indagini dei mesi scorsi sono ancora aperte; e perché due giorni dopo averle pronunciate, la procura di Firenze ha fatto arrestare quattro persone per la gestione illecita di appalti relativi alle grandi opere, tra cui la Tav e per l’appunto Expo.

Uno degli arrestati – assieme a un collaboratore e a due imprenditori – è Ettore Incalza, dirigente e, dopo il pensionamento, consulente del ministero delle Infrastrutture (in carica ininterrottamente da quando era in carica Pietro Lunardi). Le carte dell’inchiesta fanno riferimento anche al ruolo che avrebbe avuto l’attuale titolare delle Infrastrutture Maurizio Lupi nel garantire a Incalza la guida della struttura tecnica di missione per le grandi opere, minacciando addirittura una crisi di governo pur di garantirgli il posto. Dall’indagine emergono «influenze illecite sulla aggiudicazione dei lavori di realizzazione del cosiddetto Palazzo Italia Expo», il cui termine lavori era già slittato dal 16 dicembre scorso al prossimo 18 aprile. Un altro scandalo italiano e una nuova figuraccia globale a meno di un mese e mezzo dall’inaugurazione. Non intendeva certo questo il premier quando ha dichiarato: «Facciamo vedere al mondo di che cosa è capace l’Italia».

Un ventaglio di opposizioni

Inchieste e contraddizioni hanno anche dato vita a diverse posizioni in seno alla società civile. «A maggior ragione adesso – aggiunge Vittorio Agnoletto – rivolgiamo un appello alla riflessione a quanti, impegnati in prospettive alternative alla globalizzazione alimentare, hanno dato la loro adesione, seppure in forme diverse, al contenitore Expo, fornendole l’alibi di un impegno sociale per il bene comune del quale francamente si fatica a trovarne traccia». Oltre alla posizione intransigente e non dialogante dei NoExpo, c’è chi ha scelto di raccogliere la sfida – a questo scopo è nata la fondazione Triulza – accettando di portare le proprie ragioni dentro l’Expo, che per la prima volta nella storia riserva una vetrina alla mobilitazione dal basso.

In mezzo, tra le due posizioni, si colloca una parte dei movimenti sociali, produttori e consumatori critici che hanno dato vita al Comitato per l’Expo dei popoli. Se i NoExpo hanno reciso ogni cordone con l’Esposizione universale, così non è per Expo dei popoli: «È l’occasione di portare i nostri temi al centro del dibattito, un luogo di comunicazione politica in cui rappresentare una posizione diversa: la nostra», spiega il portavoce Giosuè De Salvo. «Sapevamo benissimo che Expo avrebbe rappresentato la società così com’è, quella che non ci piace e che vogliamo cambiare. Era del tutto scontata la discesa in campo di Mc Donald’s, Coca Cola e Nestlé. Sono loro, al momento, a dominare questo mondo, perciò saranno loro i protagonisti».

Partecipare al dibattito, quindi, con l’obiettivo di ristabilire la democrazia rispetto al cibo e al modo in cui il cibo arriva dalla terra al piatto. E con parole d’ordine chiare: sovranità alimentare e giustizia ambientale. Il comitato muoverà i suoi primi passi a Genova il 21 marzo e a Napoli ad aprile, per giungere al forum internazionale che si svolgerà dal 3 al 5 giugno a Milano presso la Fabbrica del vapore, dove chiamerà a raccolta oltre 150 delegati da tutto il mondo.

Sono passati 16 anni dalla nascita del “popolo di Seattle”, quello del movimento No global. Della stagione delle reti e dei Forum mondiali, oggi rimane un arcipelago di movimenti sociali in crisi, che ragionano in termini di sopravvivenza, «perciò fare rete di questi tempi è antistorico, ma paradossalmente è ancora più urgente di 15 anni fa». Fare rete, appunto. Non farla potrebbe significare lasciare che a dominare – incontrastati o quasi – siano i sistemi alimentari delle multinazionali. Quelli che persino le Nazioni Unite hanno definito «rotti», perché rispondono solo a logiche di profitto.

Tanti no per un sì Attivisti, movimenti. E, soprattutto, produttori: contadini, pescatori, allevatori. Sono tante le buone esperienze nel Belpaese, ma come si fa a metterle insieme fino a crearne un modello? «È questa la sfida», risponde il portavoce di Expo dei popoli. «Perché siamo sì portatori di buone pratiche ma, innestata sulla buona pratica, c’è una riflessione politica: garantire i diritti fondamentali quali acqua, terra, sementi e il diritto al cibo». Un modello che sia alternativo – e competitivo – rispetto a quelli oggi predominanti «Gli attuali sistemi alimentari si sono “rotti” perché sono funzionali solo alla massimizzazione dei profitti di pochi e non garantiscono un diritto al cibo di qualità a tutti gli altri».

Gli attori del settore privato che controllano la filiera del cibo dal campo al piatto si contano davvero sulle dita di qualche mano: solo sette imprese controllano il mercato delle sementi, un pugno di corporation trasforma il cibo, da Nestlé a Coca Cola, e sono poche quelle che lo distribuiscono. «Il risultato è che alcune grandi imprese fanno man bassa della terra, accaparrandosene la proprietà», denuncia De Salvo. «Questa concentrazione di potere crea un’urgenza democratica». Come reagire allo strapotere dei colossi? I piccoli produttori lo fanno già, ognuno nel suo territorio. Quello che fanno i bio-produttori è un po’ come inserire la propria salute e quella del pianeta tra le voci di bilancio della propria impresa. A differenza di chi prenderà parte a Expo, «chi aderisce a Expo dei popoli ha nel suo conto economico un fattore legato al suo ruolo sociale», precisa l’economista Andrea Di Stefano. Il limite è quello che la natura impone, anche al capitalismo. «Introiettare la sfida vuol dire porsi l’interrogativo di come poter essere sostenibili non avendo come unico obiettivo quello di massimizzare il profitto e crescere permanentemente».

Le regole del gioco

Le reti sociali hanno già stabilito le regole del gioco, adesso devono essere in grado di trasformarle in regole dell’economia. E per effettuare – finalmente – il salto di qualità servono strumenti pratici. Ma che non siano gli incentivi, avverte Andrea Di Stefano: «Stiamo ancora pagando i costi di un approccio troppo finanziario e poco industriale. La risposta fondata sul ricorso agli incentivi ha prodotto una serie di distorsioni, adesso anche l’Ue deve darsi nuove regole. Quella impostazione poteva essere utile in una prima fase, ma manca di un respiro di lungo periodo».

Quello che serve, suggerisce l’economista, è «l’adozione di regole e standard elevati, come è stato fatto su alcuni temi ambientali». Un esempio si può leggere nel contributo di Mariana Mazzuccato che, nel libro Lo Stato innovatore (2014) riafferma il ruolo decisivo delle istituzioni pubbliche nel farsi carico del rischio d’investimento iniziale all’origine delle nuove tecnologie. «Adesso si tratta di rivendicare un’innovazione sul fronte sociale e ambientale che sia ispirata alla stessa filosofia», è sicuro Di Stefano.

Ma a guardare l’atteggiamento delle istituzioni, specie quelle europee, si riscontra una certa schizofrenia. Da una parte l’Unione prova a definire nuovi profili normativi, che rispondono alle logiche delle reti sociali. Dall’altra tratta con il Nord America, anche segretamente, il Ttip (il Trattato di liberalizzazione su commercio e investimenti), che mette in pericolo la stessa sovranità degli europei. «Non lo sappiamo ancora, ma il rischio è elevatissimo», precisa Di Stefano.

Quello che è certo è che si delinea lo scontro tra le due diverse concezioni, reti sociali o multinazionali? La partita non è affatto chiusa. E le regole sono ancora da costruire. In questo quadro, Milano è solo una delle tappe di mobilitazione internazionale. La discussione sui temi macroeconomici si sposterà a New York – dal 25 al 27 settembre – dove l’Assemblea dell’Onu analizzerà i risultati conseguiti nella lotta alla fame e alla povertà e discuterà i piani e gli obiettivi futuri. Poi a Parigi – il 7 e 8 dicembre – alla Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Cop 21), dove è in ballo la possibilità di un cambio di paradigma nella lotta agli sconvolgimenti del clima. Intanto, nel mondo si contano 800 milioni di uomini e donne malnutriti.

Che fine ha fatto Occupy Wall Street?

«I love you». Con queste parole, ripetute come un’onda dall’human mic, Naomi Klein ha iniziato il suo intervento davanti a migliaia di persone a Zuccotti Park, a poche settimane dall’inizio dell’accampamento di Occupy Wall Street, il 17 settembre 2011. «We found each other» – ci siamo trovati – era questa la sensazione che respirava Naomi Klein in quello spazio che, a pochi metri dal centro della finanza globale, tentava di costruire un mondo altro e faceva vivere pratiche che il mainstream voleva impossibili.

Zuccotti Park – ribattezzata Liberty square dagli occupanti, recuperando il nome antico e precedente alle tracce di speculazione edilizia che hanno trasformato quello spazio pubblico in “spazio pubblico di proprietà privata” – era il luogo in cui centinaia di persone vivevano notte e giorno, insieme, condividendo spazi e servizi, provvedendo alle necessità gli uni degli altri, modificando l’immaginario di chi partecipava alla protesta e di chi vi assisteva. Non era una protesta come quelle a cui eravamo abituati, contro un obiettivo specifico, con rivendicazioni chiare e leader riconosciuti e riconoscibili. Occupy Wall Street è nato da un appello online partito dal Canada a metà di quell’anno incredibile che è stato il 2011, cominciato con la fuga di Ben Ali da Tunisi, dopo settimane di proteste nelle strade, e passato per le piazze occupate del Cairo e di Madrid.

Un nuovo modo di protestare è nato, e da quelle esperienze Adbuster ha preso ispirazione, a luglio, per invitare a scendere per le strade di Manhattan, e andare a piantare le tende là dove la crisi, che ancora oggi ci attanaglia, era nata: a Wall  Street. Quella piazza occupata stava là a ricordare al mondo e ai suoi potenti che, per quanto fosse negato, era possibile immaginare alternative. «Avete rotto un tabù», disse il filosofo Slavoj Žižek intervenendo in quella piazza, «come nei cartoni animati quando il personaggio continua a correre finché non si accorge di avere il vuoto sotto, la vostra presenza qui sta dicendo ai potenti di Wall Street “Ehi! C’è il vuoto sotto di voi!”».

La prima, grande e irreversibile vittoria di Occupy Wall Street è stata quella di cambiare il dibattito pubblico statunitense, introducendo nel mainstream termini fino ad allora impossibili da pronunciare. Uno su tutti: disuguaglianza. Per mesi Occupy non si è limitato ad accamparsi a Zuccotti Park, ma ha occupato ogni dibattito sui media, aprendo uno squarcio che, dopo anni, non si è ancora del tutto chiuso se quel «99% contro l’1%» è entrato a far parte del gergo politico globale.

Dopo due mesi l’accampamento fu sgomberato nottetempo dalla polizia di New York, contribuendo in realtà a rafforzare il consenso nei confronti del movimento, ma indebolendone irreparabilmente la struttura. Senza un luogo fisico in cui far vivere le proprie idee – che non erano semplici rivendicazioni, ma pratiche quotidiane di alternativa possibile – privati di visibilità, Occupy Wall Street è scomparso dal nostro orizzonte e dal nostro immaginario, lasciandoci con la sensazione amara di un’occasione, l’ennesima, persa. L’assenza di rivendicazioni chiare è stata un freno alla trasformazione del movimento in opzione po litica e in partito, e ne ha minato le basi.

In realtà, l’impegno degli attivisti si è riversato in molteplici altre iniziative, spesso però meno visibili di un accampamento nel cuore di Manhattan. A ottobre 2012, forti della loro esperienza in mutual aid e costruzione di comunità, molti degli attivisti di Occupy sono stati in prima linea nel portare soccorso alle vittime dell’uragano Sandy, specialmente nelle zone più colpite e meno coperte dai soccorsi ufficiali. Nella fase post catastrofe sono stati promotori e animatori nella costruzione di cooperative che fornivano servizi e aiuto alle comunità colpite. Alcuni di loro sono oggi a Detroit, la metropoli della bancarotta, a organizzare i cittadini per rispondere ai bisogni della comunità, in primis quello dell’acqua che minaccia continuamente di essere tagliata perché nessuno è più in grado di fornirla.

Là dove occorre ricostruire senso di comunità, là dove l’autogestione diventa la sola risposta alle inefficienze di un sistema che funziona solo sulla base del profitto, Occupy Wall Street riappare, ricompaiono le sue pratiche e i suoi protagonisti. Un movimento che ha insegnato a molti a fare politica, a coordinare gruppi di lavoro, a elaborare strategie. Un movimento senza leader che ha prodotto in realtà una leadership plurale, in cui la Rete era strumento, ma anche luogo di protesta, coordinamento e elaborazione e in cui coloro che gestivano i siti internet, gli account Twitter e le pagine Facebook erano inevitabilmente leader, anche se soft, come descrive molto bene nel suo Tweets and the streets il sociologo Paolo Gerbaudo.

E non è un caso che gli ultimi fuochi d’artificio pubblici, Occupy Wall Street li abbia regalati proprio in pubblico e su Twitter. A febbraio 2014 Justine Tunney, una delle prime attiviste coinvolte nel movimento a partire dal luglio 2011, ha preso possesso dell’account Twitter ufficiale – @OccupyWallSt che lei stessa aveva aperto – estromettendo tutti gli altri amministratori, dichiarandosi “fondatrice” del movimento, accusando David Graeber, un altro pilastro del movimento, di sabotaggio e, sostanzialmente, menando colpi a dritta e a manca contro tutti quelli che, secondo lei, non erano abbastanza in linea con la sua idea di Occupy Wall Street: un movimento profondamente anarchico e votato alla realizzazione di una rivoluzione armata che Tunney avrebbe voluto finanziare con un crowdfunding.

Ancora Slavoj Žižek, intervenendo a Zuccotti Park, aveva ammonito: «Non innamoratevi di voi stessi». Ma pare che il pericolo più grande fosse non innamorarsi abbastanza, almeno gli uni degli altri.

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Gracia, se la Bce diventa arbitro del destino di una nazione

Dopo innumerevoli annunci, la Banca centrale europea ha finalmente lanciato le operazioni di “quantitative easing” (QE), letteralmente “facilitazione monetaria”, più semplicemente espansione monetaria. Si tratta di acquisti, sul mercato, di titoli del debito degli Stati membri dell’Unione, e anche di obbligazioni private. Il programma, fino all’ultimo tenacemente osteggiato dalla Banca centrale tedesca (la Bundesbank), è stato salutato con favore dagli economisti che sono più interessati alle esigenze della crescita, che non a quelle del rigore finanziario.

Una politica monetaria espansiva può, infatti, contribuire a rilanciare l’economia, perché tiene bassi i tassi di interesse e perché la liquidità aggiuntiva consente, almeno in linea di principio, alle banche di riaprire i rubinetti del credito a imprese e famiglie. Del resto gli Stati nazionali, quando ancora erano padroni delle proprie politiche monetarie, hanno sempre fatto ampio uso di questo strumento per perseguire i propri obiettivi di politica economica. Ben venga dunque il QE di Mario Draghi. Ma ci sono anche inconvenienti molto seri, sottovalutati nel dibattito corrente.

Inconveniente di natura istituzionale

Il primo è di natura politica e istituzionale. La Bce non è una banca centrale di un singolo Paese, come lo era per noi la Banca d’Italia, e come ancora lo sono la Federal Reserve per gli Stati Uniti o la Banca del Giappone. La Bce è una banca che presidia un’unione monetaria tra diversi Paesi. Se acquista massicciamente titoli del debito pubblico di uno di questi Paesi, ne diventa presto il principale creditore con tutte le conseguenze che questo può avere in futuro in termini di influenza, diciamo così, sulle decisioni di quello Stato.

Lasciamo pure perdere il 2011, una certa letterina della Bce al governo italiano, che sicuramente Berlusconi e Tremonti non hanno dimenticato. Pensiamo solo alla Grecia di oggi. La Bce ha deciso di non finanziare più le banche greche, quando queste portano in garanzia titoli del debito pubblico greco, e ha escluso la Grecia dalle operazioni di QE. Tsipras ha accusato la Bce di tenere il Paese in ostaggio. Draghi si è schernito, dall’alto della sua posizione di massimo finanziatore della Grecia: ma come – ha detto davanti al Parlamento europeo – abbiamo già dato alla Grecia 104 miliardi, pari al 65% del loro Pil, come si può parlare di ricatto? Fatto sta che la Bce è oggi arbitro del destino di una nazione.

Inconveniente di carattere distributivo

Molti economisti sostengono che il QE aumenti le diseguaglianze. Alcuni studi provano che il QE operato per anni dalla Federal Reserve è stato uno dei fattori alla base dell’enorme aumento delle diseguaglianze nella distribuzione del reddito e della ricchezza negli Stati Uniti. E lo stesso è avvenuto in Giappone. Uno studio del più prestigioso centro di ricerca economico del mondo (il Nber di Cambridge, Massachusetts) ha individuato le ragioni per cui il QE aumenta il divario tra ricchi e poveri: il QE aumenta il valore delle attività finanziarie, che sono possedute più dai ricchi che dai poveri; aumenta più i profitti dei salari; favorisce chi compra e vende sui mercati finanziari, un’attività più diffusa tra i ricchi che tra i poveri. Un effetto in senso contrario, cioè favorevole al mondo del lavoro, si ha se il QE aumenta l’occupazione. Ma si tratta di una scommessa, perché bassi tassi di interesse ed elevata liquidità non necessariamente fanno aumentare la produzione e l’occupazione.