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Lo dicono loro che è un genocidio

L’ambasciata israeliana presso il Vaticano ieri se l’è presa con il segretario di quello Stato, Pietro Parolin, colpevole di aver affermato che l’operazione militare israeliana contro la popolazione palestinese di Gaza è «sproporzionata». Un piccolo inciso indispensabile prima di continuare: che la reazione di Israele sia sproporzionata lo pensano tutti coloro che hanno occhi per vedere e orecchie per sentire, lo pensano perfino gli Usa che sull’eccesso di difesa hanno costruito la loro storia, lo pensa perfino il ministro Tajani che non trova più le parole per giustificare l’ingiustificabile, lo pensano perfino molti israeliani, lo dicono i 28.576 palestinesi ammazzati in maggioranza donne e bambini. Anche coloro che di solito ci vanno giù con la mano pesante nel “diritto alla difesa” sono attoniti dalla carneficina che il governo Netanyahu corre passare come giustizia. 

Andiamo avanti. Dice l’ambasciatore israeliano che bisognerebbe considerare “il quadro generale” perché “i civili di Gaza hanno anche partecipato attivamente all’invasione non provocata del 7 ottobre nel territorio israeliano, uccidendo, violentando e prendendo civili in ostaggio”. Per Israele “i civili sono tutti complici di Hamas”. 

Seguendo il nesso logico per cui non esista un palestinese innocente viene da capire che la controffensiva di Israele annunciata per stanare Hamas abbia come obiettivo tutti i civili di Gaza. È naturale credere quindi che ogni bambino e ogni donna e ogni uomo ammazzato non sia una vittima collaterale ma una missione compiuta. Sorge allora una domanda: cos’altro serve per chiamalo genocidio?

Buon giovedì.

Nella foto: frame di un video sulla tendopoli di Rafah

Camilla Ghedini: «Rompiamo il silenzio sulla sindrome post partum»

La maternità rappresenta una questione delicata, intoccabile che difficilmente viene messa in discussione, come se esistesse un unico modo per viverla. Eppure, i fatti dimostrano il contrario. Non tutte le donne rispondono alla nascita di un figlio con affetto ed umanità, alcune affette da psicopatologie possono arrivare a compiere un crimine agghiacciante come l’infanticidio. Ne abbiamo parlato con Camilla Ghedini, autrice del libro Interruzioni (Girardi) da cui è tratto l’omonimo spettacolo, in scena al teatro Lo Spazio di Roma dal 15 al 18 febbraio, con l’adattamento teatrale e la regia di Paolo Vanacore e Carmen Di Marzo sul palco.

La scrittrice e giornalista Camilla Ghedini

Interruzioni Le crepe dell’anima è uno spettacolo che ruota intorno al tema dell’infanticidio, ponendo al centro la figura della madre assassina. Perché portare in scena tematiche così dure, difficili e drammatiche?
Perché l’unico modo per evitare le tragedie è parlarne, abbattendo stereotipi e tabù. Come giornalista ho sempre notato che il tema dell’infanticidio è poco sondato e rapidamente liquidato, con giudizi tranchant e superficiali sulle responsabili, bollate come madri assassine, senza alcuna tentativo di ricerca o approfondimento. Io invece ho ritenuto importante indagare le cause per cui alcune donne arrivano a compiere un atto così terribile ed estremo, definito per l’appunto “contro natura”, studiando e leggendo tutto il materiale a disposizione. Penso che affrontare scientificamente un fenomeno, capirne le cause sia il primo passo per arginarlo.

In questo caso qual è stato il passo più rilevante?
La diffusione della conoscenza della sindrome post partum, per cui, dopo la gravidanza, anziché sviluppare sentimenti di affettività, emerge un vuoto, legato alla depressione e non solo. Troppo spesso anche di fronte ai primi sintomi ci si trincera dietro un muro di vergogna, sensi di colpa e sofferenza.

Come si pone nei confronti della sua protagonista e delle altre donne autrici di questi delitti?
Senza giudizi e generalizzazioni, banalizzazioni inutili e controproducenti che impediscono ogni possibilità di cambiamento. Che, invece, può nascere partendo da un’analisi scientifica, focalizzata sulla ricerca delle cause all’origine della malattia mentale che può essere affrontata con la terapia. Il male e la cattiveria sono incurabili. La malattia si può curare e prevenire.

Qual è il messaggio che vuole lanciare?
Intendo diffondere la consapevolezza che la maternità può non essere sempre un momento felice. Può essere difficile, debilitante, disorientante. Può suscitare sentimenti negativi che non sono una vergogna. Il dialogo e il confronto in questi casi sono preziosi perché trincersi nel proprio dolore è pericoloso, peggiora le cose creando una distorsione della realtà da cui poi potrebbe essere difficile tornare indietro.

Penso che affrontare questi argomenti in modo approfondito sia essenziale per evitare le tragedie o quantomeno ridurle. Come ci sono i corsi preparto, sarebbe importante preparare le donne al Post Partum. La conoscenza è conditio sine-qua-non per prevenire determinate dinamiche e per individuare le prime manifestazioni di un eventuale disturbo psichico, perché è chiaro che chi arriva a compiere un gesto del genere, possa aver dato dei segnali di disagio in precedenza.

Com’è avvenuta la trasposizione da racconto a pièce teatrale?
Direi passando da una dimensione individuale ad una riflessione corale, a cui, oltre a Paolo Vanacore e Carmen Di Marzo, che avevo avuto conosciuto e apprezzato tempo fa, ha contribuito Alessandra Bramante, psicologa, autrice di Madri assassine, con cui collaboro da anni. La sua partecipazione è stata essenziale per evitare ingenuità interpretative e costruire un lavoro rigoroso.

Femminicidi troppo poco interessanti

Questa volta il femminicidio è doppio anche se la radice è la sempre la stessa, il non poter più possedere la sua ex fidanzata. Christian Sodano, originario di Minturno e in servizio alla Guardia di finanza di Ostia, è arrivato a casa della sua ex fidanzata a Cisterna di Latina, quartiere San Valentino. Hanno cominciato a litigare. A quel punto sarebbero intervenute la madre e la sorella di lei, contro cui il finanziere ha esploso alcuni colpi di pistola. Lei è fuggita in bagno dove si è rifugiata fino all’arrivo delle forze dell’ordine che l’hanno trovata in stato di choc. Lui ha ucciso Nicoletta Zomparelli, 46 anni, Reneè Amato, 19 anni, rispettivamente madre e sorella di Desyrée. L’allarme è stato lanciato da alcuni vicini allarmati dagli spari. 

A proposito di armi. Nel 2018 – sempre a Cisterna di Latina – Luigi Capasso, un appuntato dei carabinieri in servizio a Velletri, sparò alla moglie da cui si stava separando, ferendola gravemente, e uccise le sue due figlie prima di suicidarsi. A giugno dell’anno scorso il poliziotto Massimiliano Carpineti ha ucciso la sua collega Pier Paola Romano nell’androne del suo palazzo, prima di uccidersi. Un altro maresciallo della Guardia di finanza, Marcello de Prata, ha ucciso con la pistola d’ordinanza la moglie e la cognata. 

Su 15 donne uccise nel 2024 in sette casi si tratta di delitti con le peculiarità del femminicidio. Finora nessuna delle sette donne ha meritato di diventare un caso nazionale in grado di riaprire il dibattito effimero che è già tornato a essere tema per specialisti e appassionati del genere. Così vuole la gerarchia delle notizie.

Buon mercoledì. 

Sette anni dopo. Visita all’archivio di Massimo Fagioli

Sono trascorsi sette anni dalla scomparsa di Massimo Fagioli (1931-2017), psichiatra rivoluzionario, scienziato geniale, artista creativo, il cui pensiero teorico, unito a una prassi di psicoterapia condotta per 41 anni con il grande gruppo denominato Analisi Collettiva, ha segnato profondamente la storia della psichiatria, della psicoterapia e della ricerca sulla mente degli esseri umani degli ultimi settant’anni.
E a sette anni di distanza la Fondazione Massimo Fagioli ha aperto ai visitatori, attraverso visite guidate, una selezione dei manoscritti, libri, disegni, fotografie e audiovisivi che formano l’archivio dello psichiatra.
Ci si potrebbe chiedere quale sia il valore aggiunto di carte e documenti, disegni originali e foto, interviste e lezioni registrate su nastri e video, rispetto a più di trenta volumi dello psichiatra editi tra il 1972 e il 2017, oltre alle opere postume e a una lunga serie di articoli, interviste, contributi, saggi che Fagioli ha pubblicato nel corso della sua esistenza.
La risposta forse più convincente a questa domanda arriva dall’interesse e dall’emozione con cui i primi centocinquanta visitatori hanno partecipato, seguendo e ascoltando per tre lunghe ore, alle prime visite in programma il 4 febbraio scorso a Roma, presso la sede di Spazio M3 dove è ospitato l’archivio di Massimo Fagioli.

Manoscritto di Bambino donna e trasformazione dell’uomo di Massimo Fagioli, courtesy Fondazione Fagioli

Gli archivisti e gli storici che, a titolo di volontariato, si dedicano da più di un anno all’inventariazione dei documenti (60 faldoni di manoscritti e dattiloscritti, cartelle di disegni e schizzi, scatole di fotografie, 1500 libri, audio e video meno noti, materiale a stampa) promossa dalla Fondazione, hanno costruito un percorso cronologico e tematico attraverso le carte, i libri, le foto, i disegni, gli audiovisivi finora schedati, con l’obiettivo di condividere con il pubblico dei visitatori le tracce meno note della biografia e dell’esperienza professionale dello psichiatra.
Passare da un quaderno scolastico di riflessioni giovanili ai verbali dettagliati delle sedute tenute da Fagioli ai pazienti curati con la terapia insulinica presso l’ospedale di Padova nei primi anni Sessanta, leggere le relazioni, rigorose e al tempo stesso incredibilmente poetiche, da lui redatte durante la direzione della comunità terapeutica di Villa Landegg a Kreuzlingen, esaminare il voluminoso fascio di appunti preparatori per la sua prima dirompente opera teorica, Istinto di morte e conoscenza (1970-1972), scorrere il manoscritto di 400 fogli di Bambino, donna e trasformazione dell’uomo (1980), che condensa, oltre alla storia personale di Fagioli, una critica serrata del pensiero filosofico e psichiatrico che lo aveva preceduto e un’analisi approfondita e al tempo stesso impietosa dei movimenti politici e culturali che hanno attraversato il secolo scorso: tutto questo, oltre a interessare e appassionare, trascina il visitatore nel coinvolgimento emotivo legato al ritrovarsi nel mondo personalissimo e riservato della persona che ha scritto, ricevuto e conservato quelle carte, in molti casi per oltre 60 anni. Che dire poi della sala dei disegni originali e delle fotografie, dove a un caleidoscopio di forme e colori segue una sequenza di immagini a volte commoventi, di momenti vissuti da Fagioli con i pazienti dell’Analisi collettiva?

Manoscritto di Left giugno 2015 di Massimo Fagioli, courtesy Fondazione Massimo Fagioli

Molti elementi concorrono a rendere l’archivio di Massimo Fagioli un patrimonio prezioso che la Fondazione a lui intitolata si impegna a conservare, ordinare e rendere consultabile: si tratta di un complesso di documenti originali che consentono al ricercatore, allo studioso o semplicemente a chi desidera approfondire certe tematiche, di entrare nello studio dello psichiatra che ha rivoluzionato il pensiero e la pratica della psicoterapia, per indagare e comprendere da vicino la sua formazione, i suoi interessi, il suo modo di lavorare, lo sviluppo e l’articolarsi del suo pensiero teorico insomma la materia viva e concreta su cui si fondano le sue opere.
È stato osservato che gli archivi di persona si formano spontaneamente nel corso dell’esistenza di un individuo e nello svolgimento della sua attività, ma la loro conservazione non è affatto scontata e quasi sempre è frutto di una scelta personale. Decidere di custodire le proprie carte fa capo alla consapevolezza del valore del proprio ruolo individuale e del proprio lavoro in un determinato ambito culturale o sociale. Per un intellettuale, medico e psichiatra, scienziato e pensatore quale è stato Massimo Fagioli, che ha attraversato gli ultimi sessant’anni di storia pienamente consapevole dell’importanza che i propri scritti teorici e la propria attività terapeutica avrebbero rivestito per le generazioni future, la scelta di conservare le proprie carte nel tempo, cui concorse senz’altro l’opera delle persone a lui vicine, appare assolutamente fondata.

“Cantiere Archivio. Viaggio nell’archivio di Massimo Fagioli”, questo il titolo delle visite guidate, continua, su prenotazione attraverso il sito della Fondazione Massimo Fagioli, nelle date del 25 febbraio, 24 marzo, 21 aprile e 26 maggio 2024, ore ore 10:30 e ore 15.

Sabato 17 e domenica 18 febbraio alle ore 12 sul sito della Fondazione Massimo Fagioli, si apriranno le prenotazioni per i prossimi appuntamenti. 

l’autrice: l’archivista Orietta Verdi è curatrice dell’Archivio Massimo Fagioli

Il ritratto dello psichiatra Massimo Fagioli in apertura, così come tutte le altre immagini sono pubblicate per gentile concessione della Fondazione Massimo Fagioli

 

E noi come rane bollite intorno allo stagno a dirci che non è così grave, che vedrai che passerà…

È servito toccare con mano il “diverso punto di vista” che questa destra invoca e promette ai suoi elettori. È servito vedere con i propri occhi che l’altra libertà invocata dalla presidente del Consiglio Meloni e soci – come se non ce ne fosse una sola di libertà – non sia nient’altro che un silenziatore dei temi percepiti come scomodi e un amplificatore dei temi congeniali.

Mara Venier che legge un comunicato di solidarietà a Israele con il solo scopo di seppellire sotto le macerie le parole di Ghali sulla Palestina, senza nemmeno avere il coraggio di fare i nomi e i cognomi. La stessa Venier che rimbrotta Dargen D’Amico («qui è una festa, si parla di musica!») mentre il cantante stava dicendo l’ovvio, ovvero che l’immigrazione tiene in piedi un pezzo di economia italiana.

L’egemonia culturale del governo non ha nessuna cultura, seraficamente sogna la scomparsa di voci e temi di cui non possiede il vocabolario. L’egemonia culturale del ministro alla Cultura Sangiuliano e del suo spin doctor, il deputato Mollicone, vuole sostituire ogni discorso dei diritti con un ballo del qua qua che faccia sorridere le famiglie tradizionali senza interrogarsi su quello che accade qui fuori.

Non è nemmeno una normalizzazione. Si tratta piuttosto di un’aberrazione che premia le vestali del vuoto pneumatico, premiando le Venier di turno nel ruolo di bromuro intellettuale. Il “diverso punto di vista” di questo governo è un cafonalissimo berlusconismo però più pudico, senza tette esposte e tradizionale nell’accezione di non contenere nessuna tentazione a nessun progresso.

E noi come rane bollite intorno allo stagno a dirci che non è così grave, che vedrai che passerà.

Buon martedì.

Nella foto: frame del video in cui Mara Venier legge il comunicato dell’Ad Rai, 11 febbraio 2024

Nessun posto è sicuro nella Striscia. La guerra di Netanyahu non ammette tregua

Nessun luogo di Gaza è sicuro, ripetono da mesi operatori umanitari, giornalisti e abitanti della Striscia di Gaza. Dall’inizio dell’invasione israeliana della Striscia la popolazione di Gaza ha lasciato le proprie case per fuggire sempre più a Sud, seguendo gli ordini di evacuazione dell’esercito israeliano. Ma l’offensiva è proseguita fino a coinvolgere zone che l’esercito israeliano aveva precedentemente indicato come sicure.

È a Rafah, città a ridosso del confine con l’Egitto, che è ormai rifugiata più della metà della popolazione della Striscia. La città, che prima dell’invasione israeliana contava 280mila abitanti, ospita oggi un milione e mezzo di sfollati, circa 16mila persone per chilometro quadrato, molti dei quali già reduci da diversi esodi interni. La maggior parte dei rifugiati vive in tendopoli estremamente affollate, dove le condizioni umanitarie sono disastrose.

Precedentemente definita zona sicura, adesso anche a Rafah si aspetta l’invasione israeliana, e sono già iniziati pesanti bombardamenti: al Jazeera ha riferito che nella notte di domenica 11 febbraio, almeno 67 palestinesi sono stati uccisi da un attacco israeliano che ha portato alla liberazione di due ostaggi. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato un’imminente operazione “massiccia” a Rafah per annientare i battaglioni di Hamas operativi nella città, dando istruzione all’esercito di preparare un piano di evacuazione dei civili. Ma la popolazione di Gaza non ha più nessun posto dove rifugiarsi: il resto della Striscia è occupato o distrutto, e la frontiera con l’Egitto resta chiusa.

Non si può permettere la guerra in un gigantesco campo profughi

L’Onu e varie organizzazioni umanitarie si sono espresse con toni allarmati di fronte alla possibilità di un’invasione a Rafah. Il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha scritto su X che «Le notizie secondo cui l’esercito isrealiano intende dirigersi su Rafah sono allarmanti: un’azione del genere aumenterebbe esponenzialmente quello che è già un incubo umanitario».

«Un’espansione degli scontri a Rafah causerebbe un bagno di sangue e una distruzione da cui le persone non potrebbero scappare; non c’è più nessun posto dove fuggire», ha dichiarato Angelita Caredda, direttrice regionale per il Medio Oriente e il Nord Africa del Norwegian Refugee Council. «Non si può permettere una guerra in un gigantesco campo profughi», ha aggiunto su X Jan Egeland, il segretario generale del Nrc.

Nadia Hardman, ricercatrice sui diritti dei rifugiati e dei migranti presso Human Rights Watch, ha dichiarato: «Costringere più di un milione di palestinesi sfollati a Rafah a evacuare di nuovo, senza un posto sicuro dove andare, sarebbe illegale e avrebbe conseguenze catastrofiche. A Gaza non è rimasto nessun posto sicuro dove rifugiarsi».

Le associazioni umanitarie hanno inoltre riportato che l’annuncio dell’imminente attacco israeliano su Gaza ha causato un crescente senso di ansia e panico tra gli sfollati. Amnesty International ha scritto su X che «l’annuncio dell’ufficio del primo ministro israeliano Netanyahu […] ha diffuso il panico nel governatorato meridionale».

Un incubo umanitario

Nel frattempo la situazione umanitaria a Gaza, da Guterres appunto definita «incubo umanitario», non fa che peggiorare. Già a dicembre, un report del World Food Program evidenziava come la totalità della popolazione di Gaza si trova in una situazione di acuta insicurezza alimentare, con circa un quarto della popolazione a rischio carestia. A Gaza manca anche l’acqua potabile e pulita: secondo l’Unicef a Rafah i bambini palestinesi hanno accesso e 1,5-2 litri di acqua al giorno, quando il minimo per la sopravvivenza è di tre litri: la popolazione, riporta l’agenzia, è quindi costretta a utilizzare acqua proveniente da fonti non sicure, con alti livelli di salinizzazione o contaminata.

La mancanza di cibo e acqua, così come di servizi igienici, docce e fognature, e le condizioni di sovrappopolamento nei campi profughi stanno inoltre causando il diffondersi di malattie e infezioni, soprattutto tra i bambini. In un comunicato, Medici Senza Frontiere ha dichiarato che nelle ultime settimane le équipe MSF a Rafah stanno riscontrando un alto numero di bambini con irritazioni cutanee causate dalla mancanza di acqua pulita per lavarsi, così come disturbi intestinali. Come si legge inoltre dal comunicato, si sta diffondendo anche l’Epatite A, una patologia molto contagiosa che può essere fatale: «nelle scorse settimane, a Rafah abbiamo ricevuto 43 pazienti con sospetta epatite A. Queste condizioni mediche sono tutte legate alla carenza di acqua pulita e sono aggravate dalla mancanza di strutture mediche funzionanti nell’area».

A Gaza sono infatti pochi gli ospedali rimasti operativi: nonostante le strutture sanitarie siano protette dal diritto umanitario internazionale, e non dovrebbero quindi rientrare tra i possibili obiettivi militari, gli ospedali della Striscia sono stati ripetutamente attaccati dall’esercito israeliano che sostiene questi ospedali siano usati dai combattenti di Hamas per scopi militari. A fine dicembre, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, a Gaza sarebbero rimasti 13 ospedali parzialmente operativi, 2 minimamente funzionanti e 21 non più in funzione.

In questa situazione catastrofica, risultano fondamentali gli aiuti umanitari e l’operato delle organizzazioni non-governative. Ma questo operato è a rischio: in seguito alle accuse mosse da Israele secondo cui alcuni membri del personale dell’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, sarebbero stati coinvolti nell’attacco di Hamas del 7 ottobre, diversi Paesi donatori hanno sospeso i finanziamenti all’Agenzia. Il capo dell’UNRWA Philippe Lazzarini ha dichiarato che se i finanziamenti resteranno sospesi «probabilmente dovremo cessare le nostre operazioni entro la fine di febbraio». L’UNRWA, come dichiarato in un comunicato di Amnesty International «svolge un ruolo cruciale, rappresentando l’unico supporto vitale attraverso la fornitura di aiuti umanitari essenziali» a Gaza.

L’Egitto rafforza la frontiera

Dopo l’annuncio di Israele dell’attacco imminente a Rafah, il ministro degli Esteri egiziano Sameh Shukri ha dichiarato che l’aumento delle operazioni militari a Rafah avrebbe «ripercussioni pericolose». L’Egitto dall’inizio dell’offensiva israeliana ha dichiarato di non essere disposto ad accogliere un esodo di massa di palestinesi. Fino ad adesso, sono stati quasi solo i gazawi con doppia cittadinanza a essere evacuati in Egitto, oltre a coloro che, pagando fino a 10mila dollari e affidandosi ad intermediari collegati all’Intelligence egiziana, hanno potuto accedere a permessi per lasciare la Striscia (come rilevato da un’inchiesta del giornale egiziano Saheeh Masr con Organized Crime and Corruption Reporting Project).

Negli ultimi giorni l’Egitto ha inoltre rafforzato la sicurezza alla frontiera con Gaza, innalzando la recinzione che separa Gaza dall’Egitto e rinforzandola con filo spinato, e spostando carri armati alla frontiera. L’Egitto ha inoltre dichiarato che uno sfollamento di massa della popolazione di Gaza attraverso la frontiera metterebbe a rischio il trattato di pace tra Israele e Egitto del 1979.

Il resto della Striscia è raso al suolo

Mentre nell’ultima città a sud di Gaza si teme la catastrofe, nel resto della Striscia continuano i combattimenti. A Khan Younis la Mezzaluna Rossa Palestinese denuncia gli attacchi dell’esercito israeliano sui due principali ospedali della città, il complesso medico Nasser e l’ospedale al-Amal.

Dall’inizio dell’aggressione israeliana su Gaza sono oltre 28mila i morti palestinesi accertati, tra cui oltre 10mila bambini, anche se queste cifre si trattano con ogni probabilità di sottostime dal momento che molte vittime sono ancora sotto le macerie e gli ospedali, ormai malfunzionanti, sono sempre meno in grado di tenere il conto dei morti. Già a fine dicembre, la ONG Euro-Mediterranean Human Rights Monitor stimava che i morti nella Striscia avessero già superato quota 30mila.

La maggior parte di Gaza è distrutta: secondo un’indagine condotta da immagini satellitari, tra il 50% e il 62% di tutti gli edifici della Striscia sono danneggiati o distrutti. Questo anche a causa delle demolizioni controllate: secondo il New York Times, da novembre l’esercito israeliano avrebbe effettuato almeno 33 esplosioni controllate distruggendo interi quartieri residenziali, oltre che scuole e moschee.

La tragica farsa intorno al sequestro della Ocean Viking

Le tragedia va a braccetto con la farsa. In mare in mezzo al Mediterraneo c’è una nave, la Ocean Viking, che il 5 febbraio a tarda notte esegue l’ordine del Comando delle capitanerie di porto di Roma (Mrcc) e salva 110 persone strappandole al naufragio. Ci sono 11 donne, di cui due incinte come molte delle donne che passano dagli stupri dei loro carcerieri, trenta minori non accompagnati ovvero senza nessuno e altri dieci minori. 

Lo stesso ordine arriva poco dopo, questa volta i salvati sono 58. Anche qui donne incinte e minori non accompagnati. Per la terza volta la nave delle odiosissime Ong viene attivata dal Comando di Roma per salvare altre 49 persone. Le operazioni di salvataggio, come quasi sempre accade, sono ostacolate dalla cosiddetta Guardia costiera libica che fa di tutto per mettere in pericolo i quasi naufraghi e per accalappiarne il più possibile da riportare nell’inferno delle prigioni libiche. La cosiddetta Guardia costiera libica è addestrata, pagata e rifornita di mezzi dallo stato italiano da cui dipende anche il Comando delle capitanerie di porto ma il rispetto degli ordini ufficiali cozza con gli ordini ufficiosi che non compaiono in nessun memorandum nonostante siano testimoniati dai numeri: ai libici l’Italia e l’Europa chiedono di fare da tappo fottendosene del diritto internazionale.

Ocean Viking nell’anarchia in mezzo al mare nota una barca in vetroresina in difficoltà, sta lì a pochi metri. Gli occupanti urlano, vogliono buttarsi in mare pur di non tornare nei lager. La Ong decide di salvarli, sono altri 44. Risultato: secondo il decreto Piantedosi Ocean Viking viene multata e fermata appena arriva a Brindisi. È accusata di non avere rispettato gli ordini di una motovedetta libica che non era nemmeno sulla scena del salvataggio. 

Buon lunedì. 

 

 

in foto Ocean Viking foto di Daniel Leite Lacerda – http://volfegan.deviantart.com/art/Anchor-Handling-Ocean-Viking-216153190, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=26895208

Vivere sotto assedio in Cisgiordania. Il racconto di Emilia Rappocciolo, docente universitaria

Ignavia. Come fare per combatterla, per non farsene travolgere, soprattutto quando gli eventi attorno a noi sembrano sovrastarci, come nel caso di ciò che accade in Cisgiordania e a Gaza? Si può tentare, posso tentare di sfuggire all’ignavia interrogandomi, interrogando chi in quelle terre vive, ama, soffre, giorno per giorno. Posso farlo decidendo di non girarmi dall’altra parte, decidendo di non accontentarmi. Decidendo di dialogare con Emilia Rappocciolo che vive a Ramallah, in Cisgiordania. Raccontando.

Chi è Emilia?
Ho 61 anni. Sono nata e cresciuta a Milano e mi sono laureata in biologia alla Statale di Milano. Poi ho iniziato a fare un dottorato con l’Università di Firenze. Durante il dottorato sono andata in Scozia, all’università di Edimburgo, per imparare delle tecniche di biologia molecolare. Ad Edimburgo ho conosciuto Mohammed, che poi è diventato mio marito.
Studiava anche lui?
Sì, lui aveva studiato ad Edimburgo, poi era andato a fare il post graduate in Inghilterra. Io condividevo la casa con un amico comune iracheno e l’ho conosciuto quando veniva a trovare i suoi amici.
Mohammed è palestinese?
Mohammed è palestinese. È nato ad Artas un villaggio vicino a Betlemme.
Proviene da una famiglia abbiente che gli ha consentito di proseguire gli studi?
Di fatto lui ha sempre avuto borse di studio perché era molto bravo a scuola. Sua mamma era una contadina e il papà trasportava le arance da Gaza alla Giordania.
Artas si trova nella Striscia di Gaza?
No, non è nella Striscia di Gaza. È in Cisgiordania a 2 chilometri da Betlemme, e Betlemme è a 6 chilometri da Gerusalemme. Betlemme è a sud di Gerusalemme. Quando sono venuta ad Artas per la prima volta nel 1990 non c’erano ancora muri, c’erano posti di blocco. Ma era prima di Oslo. Noi andavamo a piedi a Gerusalemme.
Adesso c’è un muro?
Adesso da Betlemme a Gerusalemme c’è un muro. Non si può andare a piedi perché bisogna superare dei check point molto più duri. Potresti camminare, passare il check point, e continuare a camminare. Però è molto complicato.
Hai la doppia cittadinanza, italiana e israeliana?
Io non ho la cittadinanza israeliana. Ho la residenza in Cisgiordania. Che è una residenza che si ottiene tramite l’autorità Palestinese ma che realmente viene rilasciata dalle autorità israeliane. Sono gli israeliani che decidono chi può e chi non può averla. Ho la residenza palestinese e ho il passaporto palestinese. Anche se sul passaporto palestinese c’è scritto passaporto ma di fatto è un travel document. Io e Mohammed ci siamo innamorati e ci siamo sposati. Nel frattempo io ho finito il dottorato. Abbiamo vissuto in Gran Bretagna finché ci siamo trasferiti in Cisgiordania nel 2004.
Non ti ha fatto paura il confronto con una cultura così diversa da quella occidentale, con una cultura musulmana?
Ti devo dire la verità, è stata proprio una delle ultime cose che mi è passata per la testa. Avevamo amici comuni, e comunque si parla del 1988. Io partecipavo ad attività pro palestinesi che all’epoca all’università, e anche fuori dall’università erano abbastanza importanti, perché era il periodo della prima Intifada iniziata nell’87. Era proprio il picco della prima intifada. La persona con cui dividevo la casa era iracheno, comunista, di sinistra. C’era un grande giro di persone che erano attive politicamente. Quindi il nostro incontro è stato un incontro che era centrato su una sintonia di valori, che andavano al di là del da dove vieni, qual è la tua religione. Così alle nostre differenze di origine non ci ho neanche pensato, e neanche i miei genitori.
Dopo quanto tempo vi siete sposati?
Dopo un anno e mezzo. Ci siamo sposati nel giugno del ‘90.
Parli l’arabo?
Lo parlo ma lo scrivo e lo leggo con fatica. Non l’ho mai studiato, l’ho imparato parlando e ascoltando.
Amando.
E amando. Ho imparato tante di quelle cose che tu non hai idea da quando mi sono sposata. Prima di tutto ho imparato molto sull’Islam. Avevo una conoscenza molto superficiale che si concentrava soprattutto sulle proibizioni, tipo il non bere alcool o non mangiare carne suina. Ma in realtà la religione islamica non è molto diversa dal cristianesimo nel messaggio fondamentale di tolleranza e perdono. Poi è l’unica delle religioni abramitiche che ha un testo sacro che è timasto inalterato dal principio. Il Corano è un testo molto interessante. Ho imparato anche tanto della cultura araba. Io sono appassionata di cucina ed ho imparato a cucinare molti piatti della tradizione palestinese. Ho anche imparato a leggere fra le righe dell’orientalismo. E mi sono dovuta confrontare con i miei pregiudizi.
Hai figli?
Due maschi. Ghassan il grande a febbraio compie 33 anni, il più piccolo, Manar ha compiuto 28 anni a settembre. Vivono con noi a Birzeit, che è una piccola cittadina a sette chilometri da Ramallah.
È una cittadina abitata da israeliani e palestinesi?
No, da palestinesi. C’è una divisione completa tra la Cisgiordania e Israele. Ci sono colonie vicino a noi. Ma noi non ci possiamo avvicinare perché sono tutte con strade con blocchi stradali, e i palestinesi non possono entrare nelle colonie.
Neanche frequentare le strade che portano alle colonie?
No. C’è una completa, totale separazione.
A Hebron, sempre in Cisgiordania, c’è una commistione tra palestinesi e israeliani?
A Hebron c’è una colonia israeliana di israeliani al centro della città. Il che comporta anche lì chiusure di strade. Per cui i palestinesi di Hebron non possono passare per certe strade, come Shuhada Street. Perché sono riservate agli israeliani. Un tempo era ricca di botteghe e negozi. Ora non più.
Tu e tuo marito che cosa fate nella vita?
Io insegno immunologia e microbiologia all’università di Birzeit che è una piccola cittadina universitaria. L’università di Birzeit è privata, ed è stata fondata da una famiglia di palestinesi cristiani, i Nasser. È iniziata come scuola per le bambine nel 1924, poi è diventata college, e negli anni Settanta è diventata università. È tra le più rinomate università in Palestina. Nel mondo arabo si colloca tra le prime settanta, ottanta. Nel ranking internazionale è in una posizione tra 1201 e 1400. Birzeit nasce come cittadina cristiana. Ovviamente adesso ci sono anche tantissimi musulmani che ci vivono.
Tuo marito che cosa fa?
Lui è un ingegnere informatico. Lavora come consulente per la Banca Mondiale, che svolge un lavoro di sostegno alle istituzioni palestinesi. Lavora tanto con le istituzioni qua in Palestina, soprattutto con i ministeri, per ridisegnare l’architettura dei sistemi informatici quando c’è bisogno.
Fate parte dell’élite intellettuale palestinese?
La Palestina ha tantissime persone di livello culturale molto elevato. Per i palestinesi l’educazione, la scuola, la cultura, sono sempre state cose molto importanti, per cui siamo in tanti. Non siamo un’élite siamo un un gruppo sostanzioso.
I tuoi figli sono ormai due uomini adulti. Che cosa fanno?
Il grande si è laureato a Birzeit in Economia e commercio. Però non gli piaceva fare quel lavoro. Così con l’Università di Cambridge ha preso un diploma per insegnare l’inglese come lingua straniera. Adesso insegna inglese a Ramallah, in una scuola privata. Che ha delle classi specifiche per palestinesi che sono di madrelingua inglese. Perché tanti palestinesi hanno magari lavoro in America però hanno la famiglia qua. Per cui ci sono bambini che sono nati in America, hanno fatto le elementari in America, poi da adolescenti vengono qua per finire la scuola. Loro sostanzialmente sono di madrelingua inglese e lui insegna inglese in questa scuola. L’altro si è laureato in storia a Berzeit. Però poi ha cambiato completamente direzione. Ha insegnato per un paio d’anni, ma non gli piaceva per niente. Adesso lavora come programmatore.
Sono sposati?
No, non ancora.
Quindi l’università di Birzeit ha diversi dipartimenti.
Sì. L’unica cosa che ci manca è medicina. Perché non c’è un ospedale vicino con cui poter fare gemellaggio in maniera intelligente. Però abbiamo infermieristica, farmacia, tutte le scienze. Berzeit è famosa per ingegneria, abbiamo economia e commercio, legge.
Quanti studenti avete?
Adesso abbiamo circa 14.000 studenti.
Come impatta la situazione che c’è attualmente in Cisgiordania e a Gaza sul vostro lavoro e sul vostro quotidiano?
A Berzeit è praticamente dal 10 ottobre che insegniamo a distanza. Abbiamo tanti studenti che vengono da diverse parti della Palestina. Vengono da nord, dal sud, dal centro e purtroppo gli spostamenti sono non solo molto difficili, ma anche pericolosi. Perché i posti di blocco sono stati aumentati e sono molto più restrittivi di quanto non fossero prima. Noi abbiamo sempre avuto posti di blocco per spostarci in Cisgiordania. Per andare da nord a sud c’è una strada sola che possono fare i palestinesi. Questa strada ha un grosso posto di blocco fisso tra Ramallah e Betlemme, e altri posti di blocco per andare a nord, e per andare poi ancora più a sud di Betlemme. Questi posti di blocco prima venivano chiusi poco frequentemente. Magari capitava una volta al mese e creava dei ritardi negli spostamenti. Adesso vengono chiusi quasi tutti i giorni per ore, senza un motivo o una regolarità. Per cui tu non sai se il blocco è aperto o chiuso. E se è chiuso puoi aspettare ore. Ma soprattutto ci sono attacchi dei coloni per strada e quindi è pericoloso anche spostarsi.
Che cosa intendi con attacchi?
I coloni scendono nelle strade che sono usate dai palestinesi e attaccano le macchine, le bruciano. Possono sparare, tirare sassi, oppure usare bastoni. Pochi giorni fa hanno bruciato delle macchine qui a nord.
Questo anche prima del 7 ottobre?
Questo anche prima del 7 ottobre ma meno frequentemente. Adesso con una frequenza molto più elevata.
È una frequenza quotidiana?
Se non quotidiana bisettimanale.
Ci sono stati morti?
Sì, ci sono stati parecchi morti. Dal 7 ottobre al 30 gennaio ci sono state 370 uccisioni, di cui 94 bambini. Siamo a più di 500 uccisi dal gennaio del 2023. Il 6 ottobre eravamo già a più di 200 morti in Cisgiordania, 234 per l’esattezza. C’è chi dice che prima del 7 ottobre c’era il cessate il fuoco, ma il cessate il fuoco c’era da una parte sola.
Da quale parte?
Non c’erano attacchi dei palestinesi, quindi i morti c’erano solo da una parte, dalla nostra parte. Più di 200 dal primo di gennaio fino al sette ottobre.
Ti senti palestinese?
Sì. Io mi sento assolutamente palestinese. A dicembre di quest’anno saranno vent’anni che sono qua. Sono partita dall’Italia che avevo 23 anni. Sto quasi per raggiungere il punto in cui ho vissuto più in Palestina che non in Italia.
Mi stavi spiegando che attualmente gran parte dell’insegnamento dell’università di Birzeit si svolge a distanza. Questo significa che in qualche modo l’autorità palestinese sta riuscendo a mantenere aperte le vie telematiche?
No. Non è una decisione governativa questa. L’Amministrazione dell’università ha deciso di mantenere l’insegnamento a distanza perché non vogliamo mettere i nostri studenti in pericolo. Le scuole lavorano in presenza perché gli studenti sono locali. Per cui se tu vivi a Ramallah e vai a scuola a Ramallah, non hai nessun problema a raggiungere la scuola, a meno che non ci sia un’incursione dell’esercito israeliano a Ramallah quel giorno. In generale non ci sono problemi di sicurezza. Però se io ho uno studente che viene da Hebron per venire a studiare a Birzeit, e che viene facendo avanti e indietro tutti i giorni, non possiamo permetterci di chiedergli di venire.
La situazione di conflitto che c’è in questo momento in Palestina consente comunque di mantenere internet, e le vostre reti informatiche sono a regime in questo momento.
Sì. Ovviamente questa situazione di insegnamento a distanza provoca grandi difficoltà, soprattutto per i corsi pratici. Ad esempio io ho i laboratori di microbiologia generale. Alla fine abbiamo abbiamo optato per un sistema ibrido. Per cui gli studenti che riescono a venire in università vengono, filmiamo durante il laboratorio in modo che quelli che non riescono a venire possano collegarsi via zoom e partecipare anche se sono a distanza. Sicuramente non è la soluzione ideale.
Avete ideato delle nuove modalità di insegnamento. Che cosa succede invece nel quotidiano, per l’approvvigionamento delle materie prime, del fare la spesa, della vita sociale e relazionale?
Per quanto riguarda la possibilità di acquistare prodotti e cibo per ora non ci sono grandi problemi. Praticamente si trova tutto più o meno come prima almeno qua a Ramallah. Noi siamo andati a trovare i fratelli di mio marito a Betlemme prima di Natale. Era da ottobre che non potevamo farlo. Avremmo potuto provare ad andare ma non abbiamo osato.
Di che cosa avevate paura?
Della strada.
Avevate paura degli attacchi dei coloni? Sapevate che potevate partire ma non se sareste arrivati, e che cosa vi sarebbe successo per strada?
Esattamente.
Per un viaggio di quanto tempo?
È un viaggio che già in una situazione “normale”, quindi fuori dall’emergenza attuale, è di circa 50 chilometri. Questo perché noi non possiamo andare a Betlemme passando da Gerusalemme. Noi non siamo autorizzati ad andare a Gerusalemme e quindi dobbiamo fare un giro abbastanza complicato, che praticamente circumnaviga Gerusalemme. Se tu guardi la piantina della Palestina ti accorgi che Ramallah, Gerusalemme, e Betlemme sono una sopra l’altra. Ramallah è a nord, Gerusalemme in mezzo, al sud Betlemme. Se noi potessimo andare direttamente passando da Gerusalemme impiegheremmo in macchina circa una mezz’ora. Noi impieghiamo 2 ore, 2 ore e mezza in situazioni normali.
Perché non potete andare a Gerusalemme?
Perché se non hai un permesso speciale come palestinese non puoi andare a Gerusalemme.
Perché?
Perché c’è un muro. Si può andare a Gerusalemme solo passando dai posti di blocco.
Per passare dai posti di blocco dovete avere dei permessi speciali?
Sì.
Chi è autorizzato a passare?
Ci sono dei permessi per commercianti. Noi possiamo chiedere il permesso se abbiamo un motivo specifico, magari se hai un appuntamento in un ospedale di Gerusalemme, oppure se ad esempio devi andare al consolato. Se devo andare al consolato mi devo far mandare dal consolato italiano un invito. Poi devo andare con questo invito al posto militare israeliano e chiedere il permesso, poi loro mi danno il permesso che di solito è dalle 08:00 del mattino alle 16:00. E io sono autorizzata ad andare.
La Cisgiordania teoricamente dovrebbe essere, secondo le risoluzioni Onu, territorio palestinese. Non dovrebbe essere presidiata da una forza occupante come quella israeliana. Forza che mi sembra detti regole per un intero popolo, che non ha più la possibilità di girare autonomamente secondo il proprio arbitrio sulla propria terra. È questo quello che accade?
Sì, è così. Subito dopo gli accordi di Oslo hanno iniziato a costruire molte colonie. Che è stato poi anche il motivo per cui è scoppiata la seconda Intifada. Nonostante il casus belli fosse stato la passeggiata di Sharon alle moschee. Però la pressione c’era da anni per questo incremento esponenziale delle colonie in Cisgiordania. Territorio che era sostanzialmente promesso dagli accordi di Oslo per la creazione dello Stato palestinese. La seconda intifada poi ha provocato la costruzione del muro di separazione, e questa ulteriore diminuzione della libertà di movimento. Spesso prima di ottobre quando le persone mi chiedevano “Come si sta?” io dicevo “Noi viviamo in una situazione di paradosso continuo.” Sembra di vivere una vita normale. Finché la mattina mi alzo, vado a lavorare, vado a Ramallah al cinema, piuttosto che a fare una commissione e torno a casa sembrerebbe che io abbia una vita normale. Però se solo voglio andare a Betlemme a trovare i miei cognati, ci devo pensare una settimana prima, decidere a che ora mi conviene andare. Chiedermi se ci sarà il posto di blocco oppure no. Devo fare un sacco di conti. Nel momento in cui tu vuoi uscire dalla quotidianità diventa complicato. Ad esempio io non posso partire da Tel Aviv. Se voglio viaggiare devo andare ad Amman, così come i miei figli e mio marito.
Questa cosa non mi è chiara.
Se noi vogliamo viaggiare, uscire dalla Palestina, l’unico punto di uscita è il ponte di Allenby che ci porta in Giordania. E poi dopo dobbiamo andare ad Amman e prendere l’aereo ad Amman. Il ponte di Allenby è comunque controllato dagli israeliani. Per cui io comunque per uscire devo passare attraverso un confine che è controllato dagli israeliani. A noi ci fanno passare, di solito non abbiamo grandi problemi. Purtroppo gli israeliani hanno questo controllo su chi può e chi non può stare in Palestina. I bambini li devi registrare entro i cinque anni da quando sono nati. Altrimenti non possono prendere la residenza.
Quella che viene chiamata residenza in realtà è come se fosse la nazionalità palestinese?
Sì. Cosa che ti dà dei diritti, e per cui puoi entrare in Cisgiordania teoricamente senza paura. Tanti palestinesi hanno perso la residenza. Perché sono stati all’estero per troppi anni, non sono ritornati e non hanno rinnovato la residenza. Insomma ci sono un sacco di cavilli che gli israeliani usano per togliere la residenza ai palestinesi. Delle volte non gli danno il visto per entrare per cui non possono tornare a casa.
Attorno a Betlemme troviamo campi profughi?
A Betlemme ce ne sono tre.
Quanti profughi accoglie?
Più o meno 20mila. Il più grande ne ha 15mila.
Tu sei una donna di sessanta anni che vive in un contesto estremamente complicato. Qual è la tua più grande paura?
Che ci buttino fuori. Che questa operazione di pulizia etnica, che a Gaza è ovvia e alla luce del giorno, possa alla fine verificarsi anche qui in Cisgiordania. La situazione in cui siamo da ottobre ha messo tutti in una pentola a pressione. La Cisgiordania è assalita quotidianamente. Tutte le sere, tutte le notti ci sono incursioni dell’esercito in tutte le città della Palestina. Alcune sere fa a Ramallah hanno ucciso due ragazzi, uno di 17 anni, uno di 14 anni. E ci sono incursioni continue dei coloni. Non so quanto i palestinesi continueranno a sopportare, a subire, senza che scoppi qualcosa anche da questa parte. Temo che questa sia una cosa che gli israeliani vogliono. Perché potrebbe dare loro lo spunto per dire “Vedete né Gaza con Hamas, né la Cisgiordania con Abu Mazen e l’Autorità palestinese sono innocenti.” La paura è che riescano a usare queste tattiche di assalto, di aggressione nei nostri confronti per buttare fuori un grande numero di palestinesi.
Guarda, ti dico un’ultima cosa. Se vogliono toglierci l’acqua qua in Palestina gli basta chiudere un rubinetto, perché l’acqua la controllano gli israeliani. Se ci vogliono togliere la luce gli basta schiacciare un bottone, perché l’elettricità la controllano gli israeliani. Noi abbiamo l’Autorità palestinese che sostanzialmente governa i ministeri, il ministero della Salute, dell’educazione, della finanza, ma che non ha autorità su niente. Per non parlare dei soldi. La gran parte delle tasse dei palestinesi passano da Israele prima di venire qua. Tanti non stanno prendendo lo stipendio o stanno prendendo uno stipendio molto ridotto da ottobre. Perché gli israeliani stanno trattenendo le tasse come punizione ai palestinesi. C’è una situazione di sofferenza, senza contare ovviamente la sofferenza che non ti riesco neanche a descrivere, di vedere i tuoi fratelli uccisi sotto le bombe tutti i giorni, 100, 150 al giorno sotto le macerie.
Questo a Gaza.
Sì certo a Gaza, con le persone che scavano con le mani per tirar fuori quelli che sono seppelliti sotto le macerie, affamati, senz’acqua, senza cibo. Questo ci sta consumando in una maniera che è difficile da descrivere. In più ci sono incursioni dell’esercito israeliano quotidiane. Quando mio figlio esce la sera finché non torna a casa sono preoccupata, e non è che vada molto lontano. Questa è la paura grande che io ho adesso. È che usino e che useranno questa situazione per sfoltire anche la Cisgiordania.
Tutta questa oppressione, questa morte che vi circonda ha un peso emotivo. Esistono in Cisgiordania professionisti e strutture in grado di fornire supporto psicologico?
Sì, ci sono. C’è da sempre un servizio, soprattutto per i prigionieri. Perché nelle prigioni israeliane ci sono migliaia di palestinesi. Da ottobre ne hanno arrestati 5mila in più. Che quando escono dalla prigione hanno un supporto particolare dal punto di vista psicologico. O meglio, hanno l’accesso. Poi non so quanti lo usino. Questo supporto c’è nei campi profughi. Ci sono parecchie istituzioni che però effettuano più un primo servizio, molto focalizzato sulle questioni del conflitto. La psicologia e la psicoterapia come è concepita nell’Occidente qui non è molto molto diffusa.
Che cosa intendi quando dici “Concentrata soprattutto sulle situazioni del conflitto.”?
Per i prigionieri che vengono rilasciati, che escono di prigione e che hanno subito abusi, torture, soprusi nelle prigioni israeliane.
Ci sono torture e abusi nelle prigioni israeliane? Ricordiamo che nei territori occupati è in vigore un sistema giuridico che consente delle vere e proprie abberrazioni come la detenzione amministrativa. Questa consente arresti arbitrari senza capo d’imputazione né giudizio. È una detenzione rinnovabili ogni tre mesi, estendibile anche per vent’anni. Negli ultimi trent’anni sono state imprigionate 700mila persone.

Sì. Ci sono centinaia di testimonianze sulle torture.
Che cosa cosa ne pensi della recente sentenza della Corte internazionale di giustizia dell’Aja? Qual è la sensazione tra la gente di Ramallah?
La mia prima reazione è stata di disappunto. Perché non c’era la specifica richiesta di cessate il fuoco. Poi ho letto di più e ho capito che è comunque una decisione molto importante, che potrebbe avere un impatto particolarmente positivo per noi, quando e se mai ci sarà un processo a Israele. Questa è semplicemente una sentenza che dice che c’è la possibilità di un genocidio. Non è una condanna. In tanti pensano che questa sentenza non avrà un riscontro pratico e immediato. Il fatto che poi dopo due giorni gli Stati Uniti, l’Italia, e tante altre nazioni abbiano deciso di tagliare i fondi all’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi nel vicino oriente (Unrwa) è stato veramente uno schiaffo. Sì. Quella della Corte dell’Aja è una risposta un po’ ambigua. Siamo contenti perché è una decisione che mette chiaramente Israele in una posizione che dovrebbe essere di difesa. Però dal punto di vista pratico gli attacchi sono gli stessi. A Gaza continuano ad esserci 150 morti al giorno. E adesso il taglio ai fondi all’Unrwa manda un messaggio molto chiaro.
Quale messaggio manda?
Che la la legge internazionale non è applicabile in questo caso.
Dalla Striscia di Gaza arrivano notizie di carestia, che si uccide anche chi fa la fila per chiedere pane.
Sì. Giorni fa ci sono state proteste di israeliani al confine con l’Egitto. Dove ci sono due punti di uscita, attaccati uno all’altro. Uno usato dai palestinesi per andare in Egitto, e l’altro israeliano che si chiama Kerem Shalom. I camion con gli aiuti internazionali entrano dal punto israeliano. Perché devono essere controllati. Giorni fa c’è stata una grande protesta dei cittadini israeliani per bloccare gli aiuti, per bloccare i camion e non farli entrare.
Con quale motivazione.
Perché pensano che sia una una debolezza lasciare che entri cibo e aiuti, medicine, a Gaza.
Perché?
Perché la stragrande maggioranza degli israeliani pensa che non stanno facendo abbastanza a Gaza.
Le tue dichiarazioni potrebbero metterti in pericolo?
Non credo. Non credo di dire niente che non sia già di dominio pubblico. Il fatto è che queste cose non vengono molto pubblicizzate. Per cui ho la sensazione che le notizie che si hanno in Italia e all’estero, in generale siano molto filtrate. Il primo di ottobre parlavo con un amico e gli dicevo che qualcosa doveva accadere. Perché noi avevamo quotidianamente uno, due, tre, quattro uccisi. A Jenin hanno fatto dei massacri dall’inizio del 2023. E poi è successo quello che è successo, che ha preso tutti di sorpresa, però neanche tanto di sorpresa per noi. Io mi chiedevo “Ma quanto possono continuare ad andare avanti così senza che ci sia una reazione da parte dei palestinesi.” E poi c’è stato il 7 ottobre, che non è stato solo l’attacco al rave. Il 7 ottobre sono stati smantellati 40 posti militari intorno a Gaza. Ma di questo non si parla. Si parla solo del rave.
Avete parenti all’interno della Striscia di Gaza?
No, personalmente no. Abbiamo colleghi che hanno perso venti persone della loro famiglia, vicini di casa che hanno famiglia a Gaza. Ma soprattutto colleghi. Io una volta alla settimana come minimo ricevo queste e-mail dall’Amministrazione che ci comunica l’elenco dei morti. Il nostro collega alla facoltà di Scienze Politiche ha perso 14 membri della sua famiglia, un altro 20, 25, 30.
In questo momento Gaza è una tomba a cielo aperto, è una trappola per topi.
È questa normalizzazione che a me fa stare malissimo. Come europea mi sento una schifezza.
L’Europa è sempre stata in prima fila nei genocidi. Come uomo tetraplegico in carrozzina, che vive sulla propria pelle pesanti discriminazioni, cerco di tenere la testa alta, di celebrare il bello, di celebrare la vita nonostante la morte che mi circonda. Questa è la scommessa che cerco di fare. Non so se sia la stessa scommessa che può tentare di fare il popolo palestinese. Non mi arrogo il diritto di parlare per altri.
A Betlemme in occasione del Natale il prete della chiesa luterana ha fatto un sermone veramente potentissimo. Mi ha fatto venire i brividi quando ha detto che stiamo passando il momento peggiore della storia palestinese. I palestinesi ne hanno passate tante, ma una cosa così non era ancora successa. Ma alla fine ci rialzeremo perché i palestinesi hanno questa capacità di rimettersi in piedi. Hanno una forza interna che è veramente ammirevole. Noi ci rialzeremo e ci rimetteremo in piedi perché lo facciamo. Ma voi che l’avete permesso non so se riuscirete a riprendervi da quello che avete fatto. Queste parole mi hanno fatto venire i brividi. Perché in questa situazione comunque ti rendi conto di che cosa vuol dire essere dalla parte giusta della storia. Per cui anche se ti stanno dando le bastonate alla fine, come dicevi anche tu, possiamo tirare su la testa. Ma quelli che danno le bastonate? Come si sentono queste persone?
In fatto di orrore l’uomo è campione…
Purtroppo. Non finiamo con questa nota un po’ disperata. Sono anche la presidente della Dante Alighieri di Ramallah, nata per promuovere la lingua e la cultura italiana all’estero. Abbiamo iniziato nel 2018 ma adesso ovviamente non si fa niente. Non c’è nessuna attività né culturale né di alcun altro tipo a Ramallah, si è fermato tutto. Noi continuiamo a lavorarci. Abbiamo fatto anche una recita di Uomo e galantuomo a Ramallah, metà in italiano metà in arabo. Abbiamo fatto mostre, iniziative sul cibo e molto altro. Però adesso siamo fermi.
Quindi il popolo palestinese è affamato non soltanto di cibo ma anche di cultura, di relazioni?
Di vita normale.
Vuoi aggiungere qualcosa?
Voglio aggiungere due cose: una delle più grandi fatiche sia oggi che in situazioni precedenti è dover continuamente convincere il resto del mondo che i palestinesi hanno lo stesso valore di qualunque altro gruppo di esseri umani. Bisogna sempre fornire ampia evidenza. In questa ultima aggressione abbiamo visto palestinesi fotografare, filmare, testimoniare per dimostrare al resto del mondo che sono esseri umani come gli altri.
La seconda cosa è il pregiudizio sulla credibilità dei giornalisti palestinesi. Smentite alle dichiarazioni fornite dall’esercito israeliano non sono state né considerate né discusse. Adesso che qualche giornalista occidentale sta dicendo le stesse cose si inizia ad avvertire un cambiamento.

L’autore: Gianfranco Falcone è psicologo e blogger (Viaggi in carrozzina,  DisAccordi) e collabora con la rivista on line Mentinfuga, dove scrive di temi culturali, di teatro e diritti. Da alcuni anni è costretto a vivere su una sedia a rotelle. Ha da poco pubblicato il romanzo 21 volte Carmela (Morellini editore)

Nella foto: checkpoint israeliano vicino a Ramallah, in una immagine del 2004 (Wikimedia commons)

Per approfondire, il libro di Left, La strage dei bambini

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La vera domanda da porsi sui Cpr

Qualche giorno fa è apparso in rete un video girato all’interno della struttura di Pian del Lago – Caltanissetta che testimoniava le condizioni in cui sono costretti a vivere numerosi cittadini stranieri in attesa di essere rimpatriati. In contemporanea alle rivolte nel Centro per il rimpatrio (Cpr) di Milo a Trapani anche a Pian del Lago le proteste si sono fatte largo tra i detenuti che lamentano percosse, torture, persone che dormono su cartoni srotolati su letti di cemento.

L’avvocato Arturo Raffaele Covella per Melting Pot ha raccolto la testimonianza di un ospite: «Sto dormendo da 13 giorni fuori, senza materassi, senza niente (…) Dormiamo all’aperto perché il posto è bruciato tutto (….) Sono tredici giorni che dormo fuori senza materasso e con una coperta che mi sono portato io». «La situazione è bruttissima … è brutta…. Sto male, ho anche chiesto di andare all’ospedale per fare visita ma non c’è niente (….) la mia salute è peggiorata (….) dormo fuori, troppo, troppo, troppo freddo». «Il bagno non c’è (….) è tutto rovinato (….) non posso spiegarti avvocato (…) è bruttissimo».  

Nella mattinata di domenica 4 febbraio, tra le 5 e le 6 del mattino, dentro al Cpr di Ponte Galeria (Roma) un giovane 22enne di nome Ousmane Sylla è stato ritrovato esanime: si è impiccato con un lenzuolo annodato a una grata. Come scriveva ieri Adriano Sofri su Il Foglio non bisognerebbe interrogarsi «tanto sulle ragioni che hanno spinto Ousmane Sylla a uccidersi; dovrebbero chiedersi soprattutto come mai tante altre e altri come lui non si uccidano». 

Buon venerdì. 

Nella foto: frame del video girato nella struttura di Pian Del Lago, Caltanissetta

Contro la strage dei diritti entra in azione l’avvocato Chiton

Uno dei più apprezzati e valenti avvocati del lavoro italiani rivela, nel suo folgorante esordio alla scrittura, un inconsueto talento letterario. L’idea al fondo del libro di Danilo Conte, Per giusta causa, (edito da Milieu) è tanto semplice quanto politicamente dirompente: trasformare una serie di cause seguite nel corso del tempo da materia consegnata ai freddi verbali giudiziari in una narrazione avvincente, capace di alternare registri opposti e di mescolare dramma e ironia. Non si ha voglia di smettere di leggere, racconto dopo racconto, i casi dell’avvocato Chiton, alter ego dell’autore, e ogni volta si vuol capire fin dove si spingerà il sopruso, il calpestamento di diritti fondamentali, il ricatto, l’estorsione, la disumanità esercitata da manager, padroni, capi e capetti in un crescendo di rabbia e incredulità, perché si è consapevoli che si tratta di storie vere, anzi verissime, per quanto letterariamente trasfigurate. E ogni volta si vuol vedere se alla fine, nelle aule del Tribunale del lavoro, sarà fatta giustizia e sarà data una pur parziale riparazione ai torti subiti dalle protagoniste e dai protagonisti delle vicende, dato che la politica non è capace di offrire alcuna soluzione strutturale, essendo anzi la prima causa della deregolamentazione del lavoro e della strage dei diritti in corso.
Gli sfruttati del settore della logistica e i rider, la pianista assunta per due decenni dal medesimo teatro con 108 contratti “per esigenze temporanee” e i postini precari, i commessi sotto ricatto che devono tornare nel pomeriggio a lavoro gratis e i custodi costretti a far pipì in sacchi di plastica, la modellista mobbizzata per non aver assecondato il capo violento e maschilista e le ricercatrici di un noto istituto spremute per dodici anni da mane a sera, salvo poi essere liquidate sprezzantemente con la complicità bugiarda del barone universitario di turno: queste e molte altre storie spesso terribili, a volte surreali, vengono raccontate in un modo che attribuisce pieno spessore umano ai protagonisti, restituendo loro voce e dignità. Senza raccontare le loro vite precarie e fatte a pezzi, senza descriverne paure, difficoltà e speranze, queste persone sarebbero destinate a rimanere numeri e statistiche. L’operazione letteraria di Danilo Conte è quindi un modo efficace per far comprendere universalmente cosa sta succedendo nel mondo del lavoro, ed è anche una forma di retribuzione, capace di riportare al centro della scena quell’umanità ormai fatta scomparire dai processi e dalle aule dei tribunali, oltre a essere l’omaggio simpatetico di un avvocato verso coloro che mai è riuscito a vedere solo come clienti, nel corso della sua vita professionale.