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Il conflitto sociale genera democrazia

Il livello di diseguaglianze della società occidentale oggi è simile a quello che si registrava nel periodo della Belle époque. Diminuite nei Paesi ricchi tra il 1915 e il 1945 e durante il Trentennio glorioso, le diseguaglianze economiche e materiali sono tornate a crescere dalla metà degli anni 70 per attestarsi a questi livelli: in gran parte dell’Europa il 10% dei patrimoni più elevati rappresenta circa il 60% del patrimonio nazionale mentre il 50% più povero sta al disotto del 5%, come appunto nel 1910; e negli Usa, rispettivamente, il 72% ed il 2%. Ce lo ricorda Luca Baccelli nel suo solido ed informato Il conflitto sociale, uscito per Futura, la casa editrice della Cgil. Non è l’unico paragone illuminante e, parimenti, inquietante presente. La realtà attuale si caratterizzerebbe infatti come una società a diritti differenziati per quanto concerne i diritti reali e formali dei subalterni, un po’ come avveniva nella democrazia ateniese, che escludeva dal demos giovani, donne, meteci e schiavi: tra i lavoratori farebbero parte a pieno titolo della società politica – seppur in maniera subordinata e marginale – solo gli autoctoni, maschi e in età non giovanissima, restandone esclusi donne, giovani, disoccupati e precari, a cui vanno aggiunti gli immigrati “regolari”, che assommano a quasi 6 milioni – in grandissima parte lavoratori – e che risultano sostanzialmente privi di diritti politici come quelli dell’elettorato attivo e passivo, e quelli irregolari in condizione servile e soggetti a forme brutali di sfruttamento che non si fermano all’ambito lavorativo (sono in Italia, stabilmente, dalle 600 alle 800mila persone che neppure la pandemia ha permesso di regolarizzare). Società nelle quali il conflitto sociale viene non solo represso (come dimostrano le precettazioni del ministro Salvini rispetto agli scioperi Cgil e Uil contro le misure economiche e sociali del governo Meloni) ma considerato come una patologia di compagini nazionali organicistiche basate su elementi regressivi come il sangue, la razza e l’impresa.

La dimensione umana del design nelle creazioni di Aalto

Alvar e Aino Aalto furono due influencer ante litteram. Negli anni Trenta del Novecento inventarono una linea di prodotti “dal cucchiaio alla città” che dalla remota Finlandia conquistò il mondo.
Si trattava prima di tutto di una serie di nuovissimi mobili in legno curvato che quasi odoravano dei loro boschi. Erano semplici, pratici, armoniosi: sgabelli, tavoli, sedie, poltroncine che abitavano gli alloggi popolari ed erano un “must” nelle case degli architetti moderni. Niente orpelli, niente decorazioni, spesso impilabili cosicché non ingombravano gli appartamenti dell’existenzminimum. Si potevano tirare fuori e con gli amici passare tempo insieme in semplicità senza dover lucidare l’argenteria come suggerivano gli arredi in stile Novecento che imperavano a quel tempo in Italia. E poi un’altra serie magnifica di oggetti creava il brand Aalto: quella dei vetri. Anch’essi ricurvi, ricordavano le sponde dei laghi e dei fiordi, perché Aalto in finlandese vuol dire lago. Entrambi, vetri e mobili in produzione ancora oggi, sono copiati da altre ditte e disponibili in grandi store nelle periferie di molte città. Alvar (1898-1976) era un ragazzo allegro e bizzarro quando si presentò a Francoforte al secondo Congresso internazionale di architettura moderna nel 1929. Arrivò scherzando con il berretto calato e travolse gli algidi tedeschi Gropius e Mies, ma anche l’altezzoso pittore-architetto Le Corbusier. Aalto era irresistibile perché non era solo un ragazzo vivace, ma era un genio. Aveva già progettato un vero capolavoro. Sempre nei boschi della sua terra stava costruendo il sanatorio di Paimio. Qui dimostrava come le regole della nuova architettura funzionalista potevano avere un accento narrativo, dinamico e una nuova bellezza. I corpi si spandevano a ventaglio, le finestrature, i lucernari anche i chiaroscuri suggerivano un sentire romantico. L’insieme ruotava su una torre-icona che trasformava una ciminiera e una tanica per l’acqua nel perno della composizione. Ma la tendenza a usare i dati funzionali come risorse avveniva anche con i balconi in aggetto che segnalavano il corpo delle camere al visitatore, con la sinuosa pensilina all’ultimo piano, con l’ascensore che scorreva dietro una parete di vetro.

Giovanni Semerano e la linguistica come stella polare della storia

Era il 28 luglio 2006 quando il settimanale Left, nato in quell’anno dalla trasformazione editoriale di Avvenimenti, pubblicava l’articolo «Siamo tutti babilonesi. Giovanni Semerano e l’invenzione dell’indoeuropeo». Il provocatorio titolo redazionale era di Simona Maggiorelli, storica redattrice e dal 2017 direttrice della testata, che aveva accolto con entusiasmo la proposta di presentare l’originale e discussa teoria del linguista, pugliese di origine e a lungo direttore delle storiche biblioteche fiorentine.
Laureata in Storia antica all’università di Padova, sulle tracce degli antichi viaggiatori ero da sempre un’appassionata esploratrice, oltre che della Grecia, anche dei Paesi che dalle coste del Mediterraneo, passando attraverso l’Egitto e il Vicino Oriente, si estendono fino alla Persia.
Con interesse nel 2001 avevo letto il primo dei tre libri che Giovanni Semerano dedicò alla divulgazione delle sue ricerche, L’infinito, un equivoco millenario. Le antiche civiltà del Vicino oriente e le origini del pensiero greco. Ne avevo apprezzato l’originalità e la consonanza con una convinzione, sempre più radicata nel corso degli anni, che non aveva trovato conferme adeguate da parte degli specialisti delle lingue antiche.
Il saggio di Semerano fu seguito nel 2003 da Il popolo che sconfisse la morte. Gli etruschi e la loro lingua, in cui era anche presentata la traduzione delle lamine auree di Pyrgi in etrusco e in punico, e nel 2005, anno della sua scomparsa, da La favola dell’indoeuropeo, editi da Bruno Mondadori.
Solo allora scoprii che, a partire dal 1984, il filologo e linguista aveva pubblicato con l’editore fiorentino Olschki i due monumentali volumi de Le origini della cultura europea. Alle Rivelazioni della linguistica storica. In appendice: Il messaggio etrusco, nel 1994 seguì il secondo, Dizionari etimologici. Basi semitiche delle lingue indoeuropee, articolato in Dizionario della lingua greca e Dizionario della lingua latina e di voci moderne. L’opera fondamentale, che subito mi procurai, fu ristampata nel 2002, quasi a salutare l’apertura del millennio all’insegna della nuova scoperta, facendola uscire dai circoli degli specialisti. E poiché la conoscenza della storia delle parole è per lo storico un’autentica bussola di navigazione, da allora essa costituisce per me, accanto ai vocabolari delle lingue greca e latina consacrati dalla tradizione, uno strumento di lavoro prezioso, e non solo nell’ambito dell’antichistica.

Il senso di Shahrazad per la non violenza. A colloquio con Kader Abdolah

Dopo averci regalato una traduzione del Corano, letto laicamente come opera letteraria, lo scrittore iraniano Kader Abdolah, che da molti anni vive esule in Olanda, ha prestato il proprio talento alle Mille e una notte, il libro a cui lo legano memorie d’infanzia. Una copia figurava sulla mensola del camino di casa in Iran all’epoca in cui abitava proprio accanto alla moschea, come lo scrittore racconta nel toccante docufilm Getting older is wonderful di Fabrizio Polpettini che sarà presentato il 3 marzo al festival Boreali a Milano, dopo l’anteprima al Film Festival di Torino.
«Tutti erano religiosi nella mia famiglia. Io no – racconta Kader Abdolah -. I am the like one. Perché io no? La mia fortuna è stata che mio padre era sordomuto. Non mi poteva comandare, dicendo leggi questo, fai questo. Ci esprimevamo a gesti, comunicando l’essenziale per noi», dice con affetto.
L’aver inventato e sperimentato un linguaggio emotivo per comunicare con suo padre a gesti, forse, immaginiamo, gli dette la forza poi per mollare gli ormeggi e avventurarsi nell’impresa di scrivere in nederlandese «lingua della libertà», pur fra mille difficoltà.
Diventato uno dei più grandi scrittori olandesi Kader Abdolah – e non da ora – guarda con nostalgia alle sue origini, continuando a costruire un ponte speciale fra Europa e cultura persiana e del Medio Oriente.
Proprio per fare un regalo all’Occidente ha lavorato a questa sua affascinante edizione delle Mille e una notte pubblicata in Italia da Iperborea, liberando i racconti dalle scorie, dagli innesti successivi (da quelli pornografici di marca orientale alle fantasticherie d’Occidente) lucidandone il diamante narrativo, nato dalla tradizione orale che attraversa molti Paesi orientali.

Kader Abdolah (Iperborea courtesy)

Curiosi di sapere come sia stata questa sua esperienza di lavoro, gli chiediamo cosa abbia scoperto da questo nuovo incontro con il testo: «Rileggere le Mille e una notte è stato un grande divertimento», risponde a Left. «Devo dire che non ero mai andato così in profondità. Chiede molto tempo. Perlopiù le persone si limitano a leggerne alcuni brani». Ora – racconta – «diversamente da quando ero giovane l’ho potuto riconsiderare alla luce della mia esperienza di scrittore. E sono rimasto sorpreso e affascinato dalla forza letteraria del racconti, dalla solida struttura, dalla potente affabulazione. Lavorando sul testo, ho visto cose non avevo mai notato prima e mi è apparso del tutto chiaro che le radici della letteratura mondiale sono proprio qui, in questo grandioso libro».

Meri Calvelli: «La mia Palestina, senza pace né diritti»

Il rapporto Onu del 2017 Gaza 10 anni dopo – cioè dopo 10 anni di aggressioni militari e di ferreo blocco terrestre, marittimo e aereo imposto da Israele – conteneva una drammatica allerta: Gaza sarebbe potuta diventare invivibile già entro il 2020 a causa delle persistenti crisi energetiche, sanitarie e alimentari, il 95% di acqua non potabile e la più alta percentuale di disoccupati al mondo. Dal 7 ottobre 2023 il destino della Striscia di Gaza sembra essere quello di una irreversibile ecatombe. Il massiccio attacco terroristico sferrato a sorpresa dall’ala armata di Hamas – le Brigate al-Qassam – che è riuscita a penetrare in Israele causando la morte di circa 1.200 persone, in gran parte civili, e il rapimento di 240 ostaggi, ha determinato da parte dell’esercito israeliano una reazione di proporzioni che possiamo definire bibliche. Basti ricordare le parole pronunciate il 9 ottobre dal ministro della Difesa Yoav Gallant: «Stiamo mettendo Gaza sotto completo assedio, non avranno cibo, non avranno acqua, non avranno carburante. Chiuderemo tutto. Stiamo combattendo contro animali umani e ci comporteremo di conseguenza».
Mentre scriviamo, l’operazione militare ha già causato la morte di oltre 25mila persone, di cui più del 40% bambini. Oltre 62mila sono i feriti. L’11 e 12 gennaio all’Aia, davanti alla Corte internazionale di giustizia, si sono svolte le due udienze in cui è stata esaminata la denuncia contro Israele mossa dal Sudafrica che, con il sostegno di alcuni Paesi, tra cui il Brasile, lo accusa di violazione a Gaza della Convenzione Onu sul genocidio. La ferma condanna dell’attacco terroristico di Hamas non può esimerci dall’analizzare il retroterra entro cui ha potuto prendere forma. Lo facciamo con Meri Calvelli che in questi giorni si trova in Cisgiordania. Non è solo la direttrice del Centro italiano Vik – fondato a Gaza in memoria dell’attivista Vittorio Arrigoni e che da anni promuove progetti di carattere socio-culturale tra l’Italia e la Striscia – ma è anche una cooperante internazionale con una lunga esperienza sul campo in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza dove vive da anni, e con una profonda conoscenza della società civile e politica sia palestinese che israeliana.

Meri Calvelli, in quale contesto dobbiamo collocare ciò che è avvenuto il 7 ottobre?
È stato un attacco molto violento quello che ormai viene chiamato il Black Shabbat. L’esplosione di una situazione che non era più sostenibile era però nell’aria, non solo dentro la Striscia, dopo ben 16 anni di assedio e cinque operazioni militari, ma anche in Cisgiordania, dove dall’inizio del 2023, con la formazione del governo Netanyahu, sono aumentati gli insediamenti illegali e gli attacchi violenti dei coloni verso i palestinesi. I coloni rimangono impuniti anche quando responsabili di uccisioni, addirittura vengono sostenuti dalla coalizione del governo più a destra della storia di Israele in cui sono stati fatti entrare partiti ultraortodossi che rifiutano la nascita di uno Stato palestinese – in linea con lo slogan di Netanyahu già alle elezioni del 2015: “Se vinco le elezioni, non nascerà uno Stato palestinese”. Potenza ebraica, il partito del ministro della Sicurezza nazionale Ben-Gvir, per esempio, si richiama alle idee del rabbino razzista Meir Kahane, già messo fuori legge da Israele, accusato di istigazione al terrorismo. Questo governo ha provocato violente proteste anche dentro Israele a causa della riforma della giustizia – recentemente bocciata dall’Alta Corte israeliana -, ma anche per le politiche di espansione degli insediamenti ed è considerato dall’opposizione “una minaccia per la pace nel mondo”. Poi ci sono state anche le irruzioni delle forze militari israeliane nella moschea al-Aqsa ad aprile 2023, con attacchi ai fedeli musulmani in preghiera – centinaia sono stati arrestati e feriti. A ciò si sono aggiunte le provocatorie visite alla Spianata delle Moschee di Ben-Gvir, condannate addirittura anche dagli alleati americani. I continui soprusi quotidianamente subiti da quello che la stessa Amnesty ha definito un sistema di apartheid, il completo abbandono anche da parte della comunità internazionale di trattative per la pace, ha condotto il popolo palestinese alla perdita di ogni speranza. Era prevedibile che tutto ciò prima o poi potesse sfociare in un atto di brutale violenza, ma non è stato fatto niente per evitarlo.

Il business delle armi non conosce tregua

L’invasione russa in Ucraina e la nuova esplosione del contesto Mediorientale, in particolare con l’attacco militare su larga scala di Israele a Gaza, hanno in un certo senso rimesso la guerra nel fuoco di attenzione dell’opinione pubblica occidentale. Non che i conflitti armati fossero spariti dalla faccia della Terra e ci fosse prima uno stato di pace: troppe altre guerre “vecchie” (Siria, Libia, contesti come Iraq e Afghanistan) e “nuove” (Nagorno Karabakh, Sudan, le situazioni di tensione in Sud America e nel Sudest asiatico) continuano ancora oggi ad essere ignorate. Nonostante le numerose vittime e i devastanti impatti riverberanti. D’altronde i dati ci dicono come il tasso di sicurezza globale sia in continuo calo (proprio perché i conflitti armati sono in aumento) e che il 2022 sia stato l’anno con maggiori morti a causa di violenza organizzata da almeno 30 anni. E il 2023 ancora peggio…
Un aspetto strutturale e cruciale di questo stato di conflitto e insicurezza permanente è quello della dimensione economica e di guadagno “esplosivo” per alcuni centri di potere e capitale. Alcune ricerche condotte da Rete pace disarmo avevano già sottolineato, dopo i primi mesi del conflitto in Ucraina, una robusta crescita in Borsa delle industrie militari in seguito alle decisioni internazionali prese in quel contesto. Un calo momentaneo si era configurato solo come pausa tecnica di “realizzo profitto” sul mercato finanziario, a dimostrazione del fatto che molte delle dinamiche di questo comparto hanno poco a che fare con politica, relazioni internazionali o grandi questioni come democrazia e diritti.
Non a caso l’acuirsi delle tensioni su molti scacchieri, spesso opportunamente alimentate, era esplicitamente indicato come opportunità e prospettiva di guadagno dai manager delle principali aziende militari. Che ne parlavano apertamente già ben prima del febbraio 2022.
La situazione attuale conferma questa lettura; anzi, una recente analisi del Financial Times sui dati tendenziali di borsa ne fornisce una dimostrazione che va oltre il livello di banali e consueti luoghi comuni.

Politici e religiosi che odiano le donne

Il 16 maggio scorso è stata depositata in Cassazione una proposta di legge di iniziativa popolare che mira a introdurre nell’articolo 14 della legge 194 del 1978 l’obbligo, per le donne che vogliono abortire, di ascoltare il battito fetale del nascituro. Questa iniziativa è stata promossa dalla raccolta firme di circa 50 associazioni di matrice più o meno dichiaratamente cattolica, tra cui Pro Vita & Famiglia, Ora et labora in difesa della vita e Verità e vita. Sostanzialmente si sta valutando se implementare o meno una violenza di Stato. La logica sottesa a questa proposta è, grossomodo, che se sei rimasta incinta per sbaglio è colpa tua, perché potevi stare più attenta e ora non puoi pretendere che gli altri ti aiutino. Resto in attesa, da medico, di delucidazioni per cui non adottiamo lo stesso ragionamento anche verso chi ha un tumore ai polmoni per aver fumato troppe sigarette. Se rispondo a un paziente oncologico “io non ti aiuto perché il tumore te lo sei fatto venire tu e ora è responsabilità tua” mi mandano in galera, ma se lo dico a una donna che vuole fare interruzione di gravidanza perché magari il contraccettivo che ha usato non ha funzionato, la legge italiana mi definisce “obiettore di coscienza” e la legge morale mi fa pure un plauso. Poi se la donna in questo contesto psico-fisicamente e socio-economicamente così delicato porta avanti una gravidanza non voluta per dei forti condizionamenti esterni e sviluppa una grave depressione che compromette non solo la sua vita, ma anche quella del bambino che avrà chi se ne importa. In fondo basta che gli esseri umani respirino e va tutto bene, tanto dolore, sofferenza e malattia sono intrinseche alla natura umana, almeno secondo una determinata matrice culturale religiosa. Quindi, a dispetto di ogni logica, la donna che sceglie l’aborto è un’irresponsabile che compie un omicidio ed è condannata dal Dio cristiano, mentre lo Stato che vende le sigarette causando tumori e infarti non è un’omicida di massa perché, a quanto pare, redento dalla benedizione del Dio Denaro, che lava le mani da tutti i peccati. Ovviamente il punto non è fare un elogio o sminuire il significato fisico e psicologico di un’interruzione di gravidanza, inducendo le persone a viverlo con leggerezza, ma sottolineare quanta ipocrisia ci sia a livello statale e parastatale.

Che fine farà il diritto dei minori?

«La nostra è un’idea di giustizia che dialoga con le persone, umana. Non attribuiamo torti o ragioni, ma raccogliamo la segnalazione del disagio profondo di un bambino generato dalle condotte inadeguate dei suoi genitori per i quali cerchiamo di costruire un percorso di sostegno. Solo nei casi estremi, quando tutto questo lavoro purtroppo non dà risultati, il bambino può essere allontanato». In queste parole di Cristina Maggia, presidente del Tribunale per i minorenni (Tm) di Brescia, sta la complessità della giustizia minorile che in questo inizio 2024 si trova in grave difficoltà. Non è esagerato dire che il diritto minorile è quello che più si immerge nei rapporti umani e che più ha la possibilità di cambiare la vita delle persone di cui si occupa. Bambini e adolescenti vittime di maltrattamenti, abbandonati e trascurati dalle famiglie, oppure giovanissimi autori di reati, spesso ai margini della società: sono loro al centro dell’azione del giudice. I magistrati minorili sono dei radar che intercettano situazioni difficili e il cui lavoro si intreccia con quello degli psicologi, degli assistenti sociali, delle forze dell’ordine. Una rete, va sottolineato, che fa anche prevenzione, cercando di intervenire prima che il disagio diventi cronico e irrecuperabile.
Adesso questo mondo giuridico “appartato” sta vivendo uno dei momenti più critici da vent’anni a questa parte. La riforma Cartabia del processo civile ha portato considerevoli novità nelle procedure ma anche rischi di forte rallentamento nella loro trattazione, caos negli uffici, incertezza sul futuro in un settore da sempre povero di risorse e con organici ridotti al lumicino. Il 2024 sarà l’anno cruciale. Il 17 ottobre entrerà in vigore l’ultimo livello della riforma: l’istituzione del Tribunale delle persone, dei minori e della famiglia. Finisce una storia e ne inizia un’altra.

Per comprendere, in linea generale, cosa stanno attraversando i 29 Tm e le ripercussioni sulla giustizia minorile ci siamo rivolti alla giudice Maggia che fino alla metà di gennaio è stata presidente dell’Associazione italiana dei magistrati per i minorenni e la famiglia (Aimmf) e quindi ha seguito passo passo lo sviluppo della riforma, accompagnandolo con i suoi colleghi a suon di appelli, documenti, comunicati. «Il 26 novembre scorso nella mia relazione al congresso dell’Aimmf ho fatto il punto della situazione. Allora, due mesi fa, non capivamo come poter dare attuazione concreta a questa parte della riforma, e continuiamo a non capirlo adesso. La situazione è assolutamente grave e confusa e non siamo per nulla ottimisti. Questo lo posso dire a nome di tutti i colleghi».

Gioco patologico, una dipendenza di Stato

È il 16 aprile 2023, al minuto ’64 di Sassuolo-Juventus la squadra di casa passa in vantaggio grazie ad un errore del giocatore bianconero Nicolò Fagioli. Pochi istanti dopo il gol, il mister della Juventus lo sostituisce. In panchina scoppia in un pianto inconsolabile. I giornali sportivi sottolineano l’attaccamento alla maglia, la sensibilità e la sua giovane età. Cambiamo scena: in un ambulatorio sanitario del centro Italia, entra un uomo sulla cinquantina per la prima visita, appare mite e riservato: «Me l’ha consigliata il medico di famiglia, dormo poco e non ho voglia di alzarmi e di andare a lavorare. Non sono mai stato in tutta la mia vita da psicologi».

Cosa hanno in comune un calciatore milionario in lacrime e un uomo con dei sintomi molto comuni? Apparentemente niente. Al primo sguardo difficilmente si potrebbero sospettare le storie che si celano dietro. Come vedremo, ci sono 136 miliardi di euro e passa che le accomunano. Sappiamo dalla cronaca che le lacrime del giovane calciatore erano frutto, secondo le sue parole, dei pensieri legati ai «debiti per le scommesse», circa 3 milioni di euro accumulati scommettendo su partite di calcio in siti clandestini. Angoscia? Sensi di colpa? Paura per la propria incolumità a causa delle minacce? Il giocatore è stato squalificato per 7 mesi (più 5 di prescrizioni alternative) ed ora è in cura da uno specialista. Il nostro cinquantenne, dopo avere parlato della propria vita, trova il coraggio e racconta di un problema che affligge la moglie: «Sa, dopo che abbiamo avuto difficoltà economiche, mia moglie ha cominciato a giocare ai “Gratta e Vinci”… Due anni fa ho trovato il conto prosciugato, da allora faccio due lavori per fare fronte ai debiti». Gioco d’azzardo legalizzato in Italia, vediamo i dati aggiornati facendoci aiutare dalla Federconsumatori e dalla Cgil, che hanno presentato a settembre del 2023 Il libro nero dell’azzardo – La crescita impetuosa dell’azzardo online in Italia. Mafie, dipendenze, giovani. «In tutte le tipologie di azzardo legale, nel 2022, gli italiani hanno speso 136 miliardi di euro (150 nel 2023 ndr), con una crescita del 22,3% rispetto all’anno precedente», si legge nel rapporto. Basterebbe questo dato, unito a quello che evidenzia la crescita del gioco online, «il gambling online corrisponde nel 2022 alla incredibile cifra di 1.719 euro annui pro capite», per lasciare senza parole. Ma giustamente gli autori di questo report si chiedono quanti siano realmente 136 miliardi. Alcuni raffronti parlano da sé: «la manovra finanziaria del governo per il 2023 è stata di 35 miliardi di euro. La spesa complessiva per la Difesa 27,7 miliardi, quella per l’Istruzione 52 miliardi di euro».

Politica industriale per fermare il declino

La parola “deindustrializzazione” pesa come un incubo sul nostro Paese. Esempi eclatanti di sfaldamento del nostro tessuto produttivo sono lo stato comatoso di Acciaierie d’Italia (l’ex-Ilva) e l’andamento della produzione automobilistica negli stabilimenti Stellantis, azienda in cui prevale, su quella italiana, la componente francese. Cosa succederà? Un report della Cisl, del 5 gennaio scorso rileva che, solo per fare esempi relativi ad alcuni stabilimenti del gruppo, la produzione nel polo di Torino raggiunge le «85.940 unità ottenendo un -9,3% rispetto al 2022, un dato negativo dopo tre anni di salita produttiva»; nel Plant di Cassino «sulla linea Maserati la situazione della produzione è molto più critica. Sul fronte produttivo si sono raggiunte le 8.680 unità con i 5 modelli (Gt, Gc, Levante, Ghibli e Qp), -49% rispetto al 2022». Ci sono anche altri dati. Il punto emerge nelle considerazioni sul Piano industriale del gruppo, ove il sindacato afferma: «Sono molte le situazioni di crisi nel settore auto che si stanno determinando pesantemente: Marelli di Crevalcore, Bosch di Bari, Denso di San Salvo, Lear, Te Connectivity, le aziende che producono sistemi di scarico. Bisogna accorciare la catena di fornitura, portando in Italia le produzioni di tutta la componentistica che rappresenterà l’auto del futuro, dai semiconduttori, alle batterie, ai componenti per la motorizzazione elettrica, per la guida autonoma, per la digitalizzazione e la connettività. Senza un piano per la transizione industriale attivabile immeditamente, il rischio licenziamento e desertificazione industriale diventa certezza». Guardando lo scenario rappresentato da queste e molte altre vicende, si compone il panorama del declino della capacità industriale del nostro Paese. La seconda potenza industriale d’Europa si trova a fare i conti con problemi sostanziali che risalgono agli ultimi decenni e che sono stati, perlopiù, ignorati.

Stagnazione della produttività, ergo dei salari
Consideriamo questo percorso declinante con le sue conseguenze sociali, attingendo al rapporto Inapp 2023. Ricordiamo che l’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche (ex Isfol) è un Ente di ricerca che fa capo al ministero del Lavoro e si occupa di studiare e valutare le politiche relative al mercato del lavoro. In Italia spiega il rapporto, i salari reali sono di fatto fermi al 1991, con un’impalpabile crescita dell’1% tra quell’anno e il 2022. Nello stesso periodo la crescita media delle retribuzioni nell’area Ocse è stata del 32,5%. Un divario analogo si presenta per la produttività del lavoro. Infatti, spiega il rapporto «a partire dalla seconda metà degli anni 90 la crescita della produttività è stata di gran lunga inferiore rispetto ai Paesi del G7, segnando un divario massimo nel 2021 pari al 25,5%». L’incremento del Pil per ora lavorata in Italia si assesta, tra il 1991 e il 2022, intorno allo 0,2% mentre nell’area del G7 supera lo 0,4%. Osserva il rapporto che «negli anni 90, inoltre, si spezza anche quel legame tra salari e produttività del lavoro che aveva caratterizzato il nostro sistema economico fino ad allora». Insomma, la stagnazione della produttività, produce la stagnazione dei salari.