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L’Unione dei diritti e i padroni (digitali)

Capitalismo e feudalesimo digitale. L’idea che vi sia un’affinità tra le tecnologie più avanzate e il feudalesimo non è nuova. Morozov, noto studioso della rete, parla da tempo di feudalesimo digitale, e l’ultimo libro di Varoufakis, peraltro assai ben argomentato, si intitola Tecnofeudalesimo (La nave di Teseo). Sotto quali profili il capitalismo avrebbe generato rapporti sociali assimilabili a quelli feudali? E cosa rimane del neoliberismo, che di questa evoluzione porta in parte la responsabilità?
La lotta per le libertà di commercio ha una lunga storia. La vicenda di Michael Kohlhass, il protagonista di un bellissimo racconto di Kleist, è ripresa da un fatto realmente avvenuto all’inizio del XVI secolo. Kohlhass voleva attraversare con i suoi cavalli i confini di un feudo e, dopo aver subito un’evidente ingiustizia, lotta contro un potere più forte di lui, finendo per soccombere. Non fu così per la Rivoluzione francese, il cui esito più duraturo fu proprio l’abbattimento degli ostacoli alla circolazione delle persone e delle merci, ed infine, venendo all’oggi, la libera circolazione del lavoro, delle merci, dei servizi e dei capitali costituisce il fondamento dell’Unione europea. Inutile ricordare che questa libertà è anche alla base della globalizzazione. Un importante sostegno teorico per questi sviluppi è stato fornito dalle teorie economiche di fine Ottocento, poi dai modelli di equilibrio economico generale che si studiano in tutte le università. Queste teorie ipotizzano che i singoli individui competano sul mercato in condizioni di parità e in assoluta autonomia. La società sarebbe composta da soggetti economici talmente piccoli rispetto alle dimensioni del mercato che ogni loro azione avrebbe conseguenze sociali irrilevanti. In questo modo l’interesse economico individuale diviene compatibile con quello di tutti gli altri. Peraltro è anche ovvio che se le conseguenze di ogni azione ricadono solo su chi la compie, non c’è motivo per cui il singolo non sia lasciato libero di agire. Ma perché questa ideologia ha generato un esito così antitetico a queste premesse?

Il neoliberismo diffida di ogni forma di potere, sia esso quello dei sindacati, gli Stati o dei governi. L’unico potere politico che ha una sua giustificazione è quello orientato a far funzionare il mercato stesso. Viene così minato ogni strumento collettivo di difesa di quella libertà e indipendenza individuale che il mercato e l’accumulazione di ricchezza mettono a repentaglio.
Ora, senza ripercorrere troppo all’indietro un percorso storico complesso e accidentato, vediamo come si è formato quel potere dei giganti tecnologici che è possibile associare al potere feudale. Internet nasce negli Stati Uniti per scopi militari alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso (come Arpanet), collegando in seguito alcuni enti e università. Grazie a questi ultimi la rete si estende offrendo poi, negli anni Novanta, la possibilità di collegare ogni angolo del globo. I pionieri della rete, spesso portatori dell’ideologia libertaria del Sessantotto, ritenevano che questi sviluppi avrebbero facilitato la comunicazione, la circolazione delle idee, l’autoorganizzazione, e avrebbero così contribuito a dissolvere gerarchie e controlli. Insomma la rete, in quanto paritaria, avrebbe rappresentato un’enorme opportunità per la liberazione umana. Sempre negli anni Novanta nacquero numerosissime imprese che tentavano di ricavare profitti dalle attività on line.

Intelligenza artificiale: adelante, con juicio

Può essere certamente considerato un accordo storico quello raggiunto il 9 dicembre 2023 sull’intelligenza artificiale dal Consiglio dell’Unione europea presieduto dalla Spagna, e dal Parlamento europeo rappresentato dall’italiano Brando Benifei e dal rumeno Dragos Tudorache. Un ruolo determinante è stato giocato anche dalla Commissione europea che nell’aprile del 2021 ha presentato una proposta di regolamento, denominata “legge sull’intelligenza artificiale”, per dettare regole comuni sull’uso dei sistemi di intelligenza artificiale (IA).

La proposta originaria della Commissione aveva destato però non poche preoccupazioni riguardo alla reale efficacia delle misure prospettate a tutela dei diritti fondamentali dei cittadini dell’Ue. Durante il negoziato si sono contrapposte due visioni che mettevano al centro, l’una, la necessità di non imbrigliare l’innovazione tecnologica rallentando la corsa della “rivoluzione industriale” del XXI secolo, l’altra, la necessità di tutelare i diritti e i valori dell’Ue. Al termine del negoziato, le modifiche apportate al testo della proposta originaria della Commissione sembrano fornire risposte “intelligenti” alla sfida globale che l’uso dei sistemi computazionali pone alle società europee e di gran parte del mondo contemporaneo. Prima di illustrare i contenuti più rilevanti dell’accordo, può non essere superfluo rispondere ad una domanda: perché l’uso dell’ intelligenza artificiale può mettere a rischio la tutela di alcuni diritti fondamentali? Se ad esempio consideriamo l’utilizzo dei sistemi di IA da parte di alcune piattaforme digitali, possiamo osservare come i lavoratori della cosiddetta “gig economy” (economia del lavoro a chiamata) siano costretti a fare i conti non solo con livelli di retribuzione bassi, ma anche con sistemi di sorveglianza invasivi e sistemi di valutazione inappellabili. I rider, ovvero i lavoratori che effettuano consegne di pasti a domicilio, sono valutati dalle piattaforme digitali in base alle loro prestazioni (velocità di consegna, numero di consegne, disponibilità, grado di apprezzamento del cliente, etc.). Si tratta di meccanismi di valutazione che danno luogo ad un “punteggio reputazionale”, che determina la riduzione degli ordini di consegna ai lavoratori meno performanti, senza alcuna possibilità di contradditorio per contestare il punteggio attribuito dall’algoritmo.

Votiamo europeo

Dal 6 al 9 giugno, nei 27 Paesi della Ue, contemporaneamente, si voterà per rinnovare il Parlamento, l’unica struttura elettiva dell’Unione. La prima cosa che vogliamo dire, a tutti noi, è di andare a votare. Chi legge Left sa perfettamente che la Ue conta, che tantissime cose, dalla guerra alle bancarelle dei mercati, si decidono ormai a livello europeo. Molti dicono che l’Europa non conta, non decide, non serve. In realtà se è vero che l’Europa dovrebbe decidere più e meglio, chi insiste a minimizzare il suo peso lo fa anche perché a decidere siano quelli che sanno come funziona, gli addetti ai lavori, siano essi establishment Ue o nazionalisti che vogliono l’Europa delle nazioni e non quella democratica e dei cittadini. Allora votare alle europee è di un’importanza enorme.
La seconda è di votare europeo. Cosa significa? Di votare per l’Europa che vogliamo. Come abbiamo fatto per secoli per le nostre “patrie” e “per le nostre idee” e come non riusciamo a fare per e in questa nuova dimensione europea che pure viene da molto lontano, nel mito, addirittura da una principessa fenicia e poi dal solenne impegno dopo la seconda terribile guerra mondiale: mai più guerra. Votare europeo, dicevo, e provo a spiegare cosa significa. Naturalmente per me, in primis, la pace. Era l’impegno solenne del 1946. Significa essere deboli e accondiscendenti? No, l’esatto contrario. Significa essere talmente forti, per le idee, per la propria società, per la propria politica e usare la forza per prevenire i conflitti, costruire quella giustizia che costruisce la pace. Veramente pensiamo che non si poteva prevenire il conflitto russo ucraino dando luogo ad un nuovo sistema di relazioni dopo la caduta del muro e come chiedeva Gorbaciov ma prima di lui Brandt e tanti altri? E quanti decenni sono che c’è un conflitto tra Israele e Palestina, per altro nato dagli strascichi del colonialismo e poi dall’indicibile della Shoah? Veramente non si poteva, non si può fare di più per arrivare ad una pace giusta e condivisa?

Nubi nere sull’Europa

I confini in Europa fra le destre che variamente definiamo come populiste, nazionaliste, sovraniste, neofasciste e neonaziste, anti-Ue, xenofobe ed etnoregionaliste, sono ormai labili. Queste destre, infatti, pur marcando storie diverse e tratti identitari specifici, tendono sempre più a mescolarsi, sovrapporsi e accavallarsi. Pur in presenza di situazioni anche molto diverse, simile è la scelta di scagliarsi in primo luogo contro un nemico esterno, di volta in volta identificato negli immigrati o negli stranieri in genere, nei rom, negli ebrei, nei musulmani, nelle comunità Lgbt. Comune a tutte queste destre, partiti o movimenti, è l’opposizione alla società multiculturale e multietnica, contro la quale riscoprire e rilanciare presunti valori patriottici attraverso un acceso nazionalismo o velleità separatiste. Un unico fenomeno con mille sfaccettature. Altro dato in comune l’idea di contrapporre il popolo, sano e virtuoso per definizione, alle élite, sempre corrotte. I processi di globalizzazione hanno accompagnato l’ascesa di queste tendenze, già presenti in nuce da alcuni decenni sotto forma di piccole o ininfluenti formazioni politiche: dal Front national in Francia (costituitosi nel 1972) al Partito del progresso in Norvegia (1973), al Vlaams blok in Belgio (1978). La loro progressione, prima lenta poi accelerata, è avvenuta in un quadro che è andato rapidamente trasformandosi, segnato da nuovi rapporti economici e finanziari come da profondi cambiamenti tecnologici, con l’introduzione di un’instabilità generale, di insicurezza e paura. Ampi sono stati i settori sociali che si sono ritrovati scoperti di fronte alla nuova realtà. Alcuni mutamenti epocali, come il crollo dell’Unione sovietica, le migrazioni dall’Africa, dall’Asia e dall’Europa orientale, l’11 settembre 2001, le catastrofi ecologiche, hanno a loro volta consentito di far incrociare e legare fra loro sentimenti nazionalistici e razzisti, in un quadro politico europeo segnato dalla crisi dei tradizionali partiti e il manifestarsi di una forte mobilità elettorale calamitata in maniera significativa da chi garantiva, di fronte al caos, soluzioni come la chiusura delle frontiere e la riappropriazione del territorio. In molti Paesi a far da collante anche il senso di rabbia per una grandezza venuta meno.
Il panorama, in questi ultimi anni si è ulteriormente aggravato. I partiti ad oggi classificati di destra/estrema destra sono nella Ue più di cinquanta.

Unione europea, una utopia più concreta che mai

La prima sessione di quella che fu inizialmente battezzata in Italia e Francia “assemblea parlamentare europea” si svolse in Lussemburgo il 10 settembre 1952 e in quella occasione i Sei – su ispirazione del leader federalista Altiero Spinelli – incaricarono i deputati europei di redigere lo statuto di una «comunità politica europea» (da non confondere con quella suggerita da Emmanuel Macron settanta anni dopo come risposta alla guerra in Ucraina) che avrebbe dovuto costituire l’indispensabile quadro democratico e istituzionale per dare vita alla “Comunità europea di difesa” e rendere il progetto comunitario autonomo dalla Alleanza Atlantica.
Già dalla sua nascita l’Assemblea della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca) aveva deciso di adottare alcune decisioni che confermavano il carattere innovativo dell’istituzione parlamentare rispetto ad altre assemblee europee ed internazionali: innanzitutto, il nome, che solo in tedesco e olandese sarebbe stato fin dall’inizio “Parlamento europeo” per diventare il nome ufficiale in tutte le lingue dei Sei a partire dal 1962. In secondo luogo, la suddivisione dei deputati in gruppi politici (allora democristiani, socialisti e liberali) invece che in delegazioni nazionali perché essi erano inconsapevolmente gli eredi dell’universalismo cristiano, dell’internazionalismo socialista e del cosmopolitismo liberale. In terzo luogo, l’organizzazione dei lavori in periodi della sessione plenaria annuale ma soprattutto in commissioni permanenti che corrispondevano inizialmente alle attività della Ceca e poi a quelle dei trattati di Roma (Mercato comune ed Energia atomica) per assicurare la continuità del controllo politico e parlamentare sulle attività delle Comunità. In quarto luogo il fatto di essere, nonostante la designazione dei membri da parte delle assemblee legislative nazionali fino al 1979, la rappresentante dei popoli degli Stati riuniti nelle Comunità e non dei Parlamenti nazionali.

Dal 1952, il Parlamento europeo è stato – per usare un’espressione di Altiero Spinelli – la cittadella della democrazia europea in statu nascendi rivendicando fin dall’inizio il suo diritto a diventare un vero Parlamento, al contrario delle altre assemblee interparlamentari che hanno sempre accettato la loro condizione di organi solo consultivi, e il punto di riferimento della difesa dei diritti fondamentali nelle Comunità, in Europa e nel mondo.
La prospettiva sovranazionale è stata periodicamente evocata dalla maggioranza dei membri del Parlamento europeo legandola innanzitutto alla sua elezione a suffragio universale e diretto affermata già nell’articolo 21 del Trattato della Ceca e quindi nell’art. 138 del Trattato di Roma e poi nell’evoluzione delle Comunità europee verso una «unione sempre più stretta» che fu la formula proposta dal negoziatore francese Jean-François Deniau come compromesso fra la finalità federale indicata da Jean Monnet nella Dichiarazione Schuman del 1950 e l’Europa delle patrie o confederale rivendicata dal generale De Gaulle.

Elena Granaglia: L’Unione (sociale) fa la forza

Europa migranti

«L’Europa sociale ha fatto molti progressi, e di questi progressi dobbiamo essere consapevoli». Con queste parole Elena Granaglia ha iniziato il suo intervento al convegno Europa, quale futuro ci attende?, promosso dalla Fondazione Circolo Fratelli Rosselli a Firenze, lo scorso 12 gennaio. Una giornata intensa di studio in vista delle prossime elezioni europee, che per noi è stata l’occasione per tornare ad incontrare l’economista rivolgendole alcune domande.
La docente di Scienza delle finanze all’Università Roma Tre ha proposto innanzitutto due immagini su cui riflettere: da una parte la crisi dei debiti sovrani e la gestione della vicenda greca e dall’altra il Pilastro europeo dei diritti sociali. «La prima immagine segnala un periodo molto buio della storia europea mentre la seconda un cambiamento molto significativo a partire dal 2017. Il Pilastro sottolinea con forza il ruolo delle politiche sociali in termini di crescita economica e anche come il sociale abbia a che fare con la soddisfazione dei diritti fondamentali». «Si potrebbe pensare: niente di nuovo rispetto al passato – continua Granaglia – come nel caso del rapporto Thomson degli anni 70 (Thomson Report sull’Europa allargata ndr), ma ora è il Pilastro a guidare la dimensione sociale europea». Questo ha portato a numerosi interventi specifici e misure come: «La direttiva sul work-life balance, la raccomandazione sull’istruzione professionale, la garanzia giovani, la tutela dei bambini vulnerabili, la direttiva sul salario minimo e la raccomandazione sul reddito minimo, promossi in seguito al Pilastro sociale. Nonostante questi cambiamenti, la discrepanza tra gli obiettivi ricercati e i dati attuali rimane significativa», sottolinea l’economista, aggiungendo: «La politica per l’inclusione sociale, presente nell’agenda europea dagli anni 80, non ha ancora raggiunto gli obiettivi di riduzione della povertà, con un quinto della popolazione a rischio. La necessità di ulteriori azioni è evidente».

Pablo Iglesias: «Pericolo neofascista, la sinistra faccia muro»

Le europee di giugno 2024 sono un appuntamento cruciale. Cresce l’onda nera ma, stando ai sondaggi, c’è anche una ripresa a sinistra e in particolare quella più radicale. Ne abbiamo parlato con Pablo Iglesias, fondatore di Podemos in Spagna, partito nato dagli Indignados, il movimento spagnolo che ha rappresentato dal 2011 una rivoluzione nel panorama europeo, con migliaia e migliaia di giovani che si sono schierati contro le politiche neoliberiste e di austerity. Docente universitario e direttore della rete multimediale Canal red, Iglesias è stato vice del premier Sànchez in un governo che ha varato riforme importanti riguardo al salario minimo, alla lotta contro il precariato e per i diritti delle donne.

Pablo Iglesias, cosa c’è in gioco nelle europee di giugno mentre le destre rimontano e il vecchio patto di stabilità, sospeso durante la pandemia, sta per tornare in vigore?
La posta in gioco è altissima. E le elezioni europee sono sempre un’opportunità per sviluppare ragionamenti politici finalmente più articolati e complessi che affrontino problemi politici internazionali, di economia, di immigrazione. Sono un’occasione per parlare di idee; sono uno spazio politico collettivo irrinunciabile.

Questa volta voi di Podemos andate da soli?
Sì, è una occasione per mettere in campo appieno la nostra visione riguardo all’economia, alla società, ai diritti in contrasto con le destre che stanno guadagnando posizioni in tanti governi europei. Lo vediamo in Italia, ma anche in Francia con il pericolo Le Pen. Lo vediamo in Ungheria con Orbán, in Polonia. Tornano incredibilmente a farsi avanti le posizioni trumpiane. Intanto su quel che accade in Palestina l’Europa resta inerte, c’è una grande ipocrisia rispetto ai diritti umani.

L’Ue continua ad alzare muri. Meloni e Von Der Leyen si accordano con autocrati in Tunisia, in Turchia, in Albania per fermare i migranti. Ma l’Europa è un continente sempre più vecchio che avrebbe bisogno di nuova linfa. Come uscire da questa contraddizione?
È proprio così. L’Europa ha bisogno dell’ingresso di migranti, per la sostenibilità dei sistemi sociali, per le pensioni, per i servizi sociali. L’Europa ha bisogno di gente giovane che possa lavorare. Invece c’è questa risposta violentissima e demagogica: viene detto che i migranti sarebbero un problema di ordine pubblico, o addirittura che sarebbero un problema culturale contro l’Europa cristiana. È inaccettabile.

Collettività Europea

La domanda che penso chiunque si faccia in questi tempi difficili è: cosa dobbiamo aspettarci ancora? La risposta non è affatto ovvia e le ricette per andare nella direzione del tornare ad una pace diffusa sono molto diverse tra loro e nessuna con la certezza di riuscire.
È ormai evidente che l’Europa, intesa come Unione europea, è un gigante economico ma politicamente ha piedi d’argilla. La mancata integrazione per avere una politica estera comune fa sì che l’Europa si trovi ancora soggetta ai diversi orientamenti politici delle cancellerie degli Stati nazionali non solo dei più grandi. Ora tra qualche mese si rinnova il Parlamento di Bruxelles e il timore è che ci sia un netto spostamento a destra del voto.
I partiti populisti di destra, portatori di logiche xenofobe e antieuropee, potrebbero andare a mettere in discussione un’unione europea che, pur con tutti i limiti che ha, in qualche modo sta facendo da ombrello alle tensioni internazionali.
C’è chi parla esplicitamente di rischio di guerra in Europa entro uno o due anni, come allargamento del conflitto ucraino e conseguenza del conflitto israelo-palestinese o addirittura come aggressione russa ai Paesi baltici.
Se questo è uno scenario realistico oppure no, è difficile da dire. Certamente è vero che l’Europa come idea è chiaramente sotto attacco nei termini di una disinformazione sempre più diffusa, disinformazione che va nella direzione di favorire i partiti populisti di destra e da parte di gruppi e partiti politici di varia foggia che professano l’uscita dei singoli Stati dall’Unione europea, così come ha già fatto la Gran Bretagna.
L’Europa unita è un bene prezioso che non dobbiamo perdere. Dobbiamo ricordare che fu l’idea di Altiero Spinelli che, al confino, già pensava al dopo della guerra mondiale, al come evitare un nuovo conflitto in Europa. Pensare alla possibilità di cittadini europei invece che cittadini dei singoli Paesi. E in qualche modo, dopo tanti anni dal trattato di Roma del ’57, questo sogno si è realizzato con il trattato di Schengen, anche se solo per i cittadini dell’Unione.
Oltre che una libertà di spostamento delle merci c’è una libertà di spostamento delle persone come se effettivamente tutti fossimo cittadini europei e non solo cittadini del nostro Paese di nascita. Io penso che sia prima di tutto questa idea di una nuova identità delle persone che sia sovranazionale, che sia indipendente dal luogo di nascita e che, in qualche modo, riconosca una uguaglianza di fondo tra persone nate in posti diversi e in culture diverse, la cosa che fa infuriare la destra. Perché una volta che la si è compresa è difficile tornare indietro, tornare a pensare che gli altri, quelli che vivono al di là del confine, in fondo non siano veramente come noi. È sempre stato il modo più facile di dominare gli esseri umani: divide et impera.

Conferenza Italia Africa: neocolonialismo senza troppo impegno

Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, durante la cerimonia di accoglienza (così sul sito del Governo, sic!)

La pantomima messa in piedi dal governo Meloni con la Conferenza Italia-Africa, che si è tenuta il 28 e 29 gennaio a Roma e inaugurata utilizzando l’aula del Senato per promuovere una vetrina di Realpolitik, ha causato in partenza una serie di polemiche, è tuttavia necessaria un’analisi “a freddo” per comprendere l’effettiva profondità di quanto si tenta di promuovere. Le critiche si sono sostanziate anche nell’intervento del presidente della Commissione dell’Unione Africana (Ua): Moussa Faki, fra i rappresentanti dell’Ua alla Conferenza meloniana, interpretando quanto accaduto, ha detto chiaro e tondo che serve il passaggio ad un nuovo paradigma nelle relazioni fra Europa e Africa, al di là della reclame, e che il popolo africano non è fatto di mendicanti. La risposta di Roma, velata da un piano di cooperazione è stata chiara: finanziamenti e investimenti in cambio di fonti energetiche (molto spesso non rinnovabili) e di trattenimento dei flussi migratori.
D’altronde non era certo lecito aspettarsi molto di più, dal momento che l’Ua, organizzazione internazionale di riferimento per l’Africa, è stata relegata al ruolo di osservatrice della Conferenza, tesa in realtà a legittimare, in un quadro più ampio, una serie di accordi già in atto fra l’Italia e i singoli Stati africani.

Il peso specifico degli Stati africani che il governo Meloni coinvolge in accordi bilaterali è d’altronde meno forte che se vi fosse il coinvolgimento di una Organizzazione internazionale come l’Ua (composta da tutti gli Stati africani e riconosciuta internazionalmente).

L’Italia hub energetico dell’Europa e l’appetito per le fonti fossili di Eni.

L’impegno del governo Meloni nell’organizzare la Conferenza è stato mantenuto, è vero, ed è altrettanto vero che il Piano Mattei sventolato dal governo di Roma è una cornice importante per definire il coordinamento delle prospettive italiane per l’Africa. Pur tuttavia il contenuto della Conferenza rimane proprio questo: una serie di piani che il governo Meloni ha per l’Africa e che sono stati approvati in linea generale ben prima dell’evento. Pertanto la Conferenza Italia-Africa si è pressoché ridotta alla presentazione di una serie di accordi bilaterali conclusi con i Paesi africani e di un piano già parzialmente tradotto in legge dal legislatore italiano. Pertanto si è trattato, più che di una conferenza, della presentazione di una serie di accordi, senza ulteriori passi avanti né agreements o memoranda of understandings conclusi.
L’intervento della presidente del Consiglio in apertura è stato senza dubbio eloquente riguardo all’intento principale perseguito dal suo governo: «Diventare l’hub naturale di approvvigionamento energetico» dell’Europa. E se si parla di approvvigionamento energetico dall’Africa nella contingenza attuale non si può che parlare di fonti non rinnovabili dal momento che le fonti “verdi” sono ancora scarsamente sfruttate e che i piani di investimento del Piano Mattei sono ben poca cosa di fronte all’intero continente. Neanche questo tuttavia dovrebbe meravigliare dal momento che già dal 2022 l’Italia ha organizzato spedizioni di accaparramento energetico in Africa, per esempio in Algeria (spedizioni peraltro legittimate dalla Conferenza). Nell’estate del 2022 l’allora governo Draghi, per contrastare la crisi energetica causata dalla guerra russo-ucraina aveva già ottenuto un accordo con la controllata algerina Sonatrach per le forniture di gas all’Italia, un accordo che vedeva come interlocutore italiano la pupilla Eni, impresa ampiamente sostenuta dalla Cassa depositi e prestiti.
La fame di energia e di utili di Eni, sostenuta dal governo italiano, non si ferma al gas algerino, in Marocco infatti Eni investe già in fonti rinnovabili (in particolare eolico), proprio nei progetti sui quali il governo italiano ha deciso di profondere investimenti e di reclamizzare nella Conferenza.

Frenare l’immigrazione in cambio di investimenti
Il richiamo all’immigrazione e alla sua demonizzazione non poteva certo mancare nella Conferenza. A partire dall’intervento di apertura è stata resa nota l’evidenza di un’altra intenzione Roma, in secondo piano solo rispetto alla sete di energia: fermare l’immigrazione illegale «di massa». Per sostenere la propria tesi Meloni arriva a teorizzare l’esistenza di un nuovo diritto umano: il «diritto a non dover essere costretti a emigrare» per supportare il quale il Piano Mattei è ben dotato di risorse economiche, ci tiene a evidenziare la Presidente del consiglio. Viene messo nero su bianco, pertanto, che uno degli obiettivi del Piano Mattei è frenare l’immigrazione attraverso investimenti mirati. Resta da vedere se si tratterà di investimenti come quelli parzialmente rifiutati dal governo tunisino e, soprattutto, come il governo definirà una volta per tutte qual è l’immigrazione legale e quale quella illegale. Dalla grande maggioranza dei paesi africani infatti provengono immigrati in condizione di necessità, pertanto aventi diritto alla protezione internazionale, questo riduce al minimo la possibilità di definire, in punto di diritto internazionale, un immigrato africano «illegale».

La voce delle opposizioni e la direzione della politica di Roma verso l’Africa.
Senza dubbio quindi gli accordi bilaterali che la Conferenza voleva servire all’Europa come un ben coordinato piano perseguono argomenti molto cari all’esecutivo di Giorgia Meloni come l’accaparramento delle risorse energetiche in combutta con Eni e, probabilmente, l’ostacolare il diritto all’asilo. Le opposizioni governative hanno fatto sommessamente presente che la Conferenza è, di fatto, una «scatola vuota» e che un summit del genere è stata un’occasione persa. Quello che inquieta è che l’Unione europea abbia assistito senza battere ciglio ad una operazione di neo-colonialismo basata su una serie di accordi bilaterali che un Paese in condizioni di forza economica tenta di sdoganare all’opinione pubblica internazionale. Tali accordi sono realizzati peraltro bypassando l’Organizzazione Internazionale di riferimento (Ua) e questo dovrebbe essere ancora più grave per Bruxelles.

Infine resta il dubbio della forza che possono avere gli investimenti di un’economia come quella italiana se non coordinati co quelli degli altri Paesi europei di fronte, ad esempio, al colosso cinese, attivissimo in Africa

 

L’autore: cultore della materia e dottorato in Scienze politiche presso l’Università di Pisa

Votare a sinistra, una questione di civiltà

Europa a rischio, scriviamo a chiare lettere in copertina. Lanciamo l’allarme per tempo a 4 mesi dalle elezioni europee. Prepariamoci da subito a correre a votare a giugno, contro l’onda montante delle destre. Nel 2019 avevamo in qualche modo scampato il pericolo sovranista. Questa volta potrebbe finire diversamente. In Germania i neonazisti dell’Afd, toccano quote del 30 per cento (specie nell’ex Germania dell’Est). In Spagna ci sono i franchisti di Vox, amici di Meloni e di Fratelli d’Italia che in un rapporto di do ut des con la Lega si apprestano a stravolgere la Costituzione antifascista imponendo la torsione autoritaria del premierato e la svolta secessionista dell’autonomia differenza. Per non parlare dell’Ungheria di Orbán che imbavaglia i media, manovra la magistratura, impone leggi schiaviste sul lavoro, impone trattamenti inumani e degradanti ai detenuti in attesa di giudizio, tra cui Ilaria Salis, e tiene in scacco l’Ue su questioni dirimenti come le politiche migratorie. L’avanzata destrorsa, purtroppo, si muove da Sud, con la Grecia di Mītsotakīs, all’estremo Nord dei “veri Finlandesi” come documenta la mappa stilata per Left da Saverio Ferrari dell’Osservatorio democratico sulle nuove destre.

Parliamo di destre xenofobe, razziste, negazioniste rispetto al climate change, nazionaliste, guerrafondaie. Come se non fossero bastati gli innumerevoli milioni di morti delle due guerre mondiali. Come se non fosse bastata la carneficina nella ex Jugoslavia, come se non bastasse la devastazione e il mezzo milione di morti in Ucraina in due anni di aggressione russa cominciata il 24 febbraio 2022 (a cui dedichiamo il libro del mese curato dallo slavista Lorenzo Pompeo). Come se non bastassero gli oltre 27mila civili uccisi in Palestina da Netanyahu dopo l’attacco di Hamas in Israele e i 1200 cittadini israeliani trucidati.

Le destre con l’elmetto, che puntano all’Europa sovrana (per dirlo con il titolo di un bel libro di Angela Mauro edito dalla Fondazione Feltrinelli), che continuano a propagandare come unica via di risoluzione dei conflitti quella delle armi e della guerra, della rappresaglia, del dente per dente, hanno la responsabilità della immane tragedia che abbiamo davanti ai nostri occhi. Guerre che alimentano solo il business di chi produce armi, come dimostra, numeri alla mano, Francesco Vignarca della rete italiana pace e disarmo su questo numero di Left. Bruxelles è rimasta sostanzialmente inerte di fronte agli scenari di guerra, quella che si consuma nel cuore dell’Europa in Ucraina e quella mediorientale che vede come vittime di una punizione collettiva l’intero popolo palestinese inflitta da Israele dopo il feroce attacco terroristico di Hamas. Molti Paesi della Ue hanno inviato armi all’Ucraina e molti, a cominciare dall’Italia, affiancano Usa e Gran Bretagna che bombardano gli Houti yemeniti che tentano di sabotare il passaggio delle navi commerciali dirette in Europa attraverso il Mar Rosso. Sul piano diplomatico l’Europa è stata quasi del tutto assente, accodandosi sul piano militare alle decisioni degli Usa e alla Nato. Anche per recuperare (o forse sarebbe meglio dire costruire) una soggettività politica europea in linea con il rispetto dei diritti umani e per la costruzione di orizzonti concreti di pace dobbiamo dare un segnale forte partecipando massicciamente al voto e prima ancora animando la discussione pubblica cercando di orientarla a sinistra.

Lo avevamo già auspicato nel primo numero di Left del 2024 (Viva l’Europa antifascista). Lo ripeteremo ad ogni occasione sulla carta, sul sito, negli eventi pubblici da qui al 9 giugno. Perché è una battaglia di civiltà irrinunciabile per chiunque abbia a cuore il futuro di una Europa democratica, laica, inclusiva. «Le elezioni europee sono un’occasione e uno spazio politico collettivo importante, dove finalmente poter argomentare una visione di sinistra radicalmente alternativa, dove proporre con determinazione le nostre idee», dice nell’intervista esclusiva per Left il leader spagnolo Pablo Iglesias. Essere di sinistra, ed essere coerenti, «non è gratis», rimarca il fondatore di Podemos, già vice premier del governo Sànchez e oggi direttore della rete multimediale Canal red.

Iglesias per tutto questo ha pagato un prezzo non indifferente anche sul piano personale e ora da “militante” lavora per rilanciare il partito in connessione con i movimenti: giustizia sociale, giustizia climatica, femminismo, pace, diritti umani, sono le questioni chiave. Sono le idee forti per il rinnovo del Parlamento europeo in cui si va a votare con una legge proporzionale e con le preferenze. In Italia, riguardo alle elezioni politiche, non abbiamo più questo diritto. È un’occasione unica per far valere le nostre idee. Quali? In primis quella di una «Europa collettiva, basata sull’uguaglianza fondamentale fra tutti gli esseri umani» immigrati e non, come scrive Matteo Fago: «L’idea di uguaglianza universale tra gli esseri umani può aprire prospettive nuove, non solo nei termini della politica nazionale, ma soprattutto nella politica internazionale. La sinistra deve cambiare vocabolario. Iniziare a trovare parole nuove… per esempio iniziamo a parlare di collettività europea invece che di comunità europea. Perché in questo modo ci possiamo riferire alle persone e non agli Stati». Per un’unione europea non di soli mercati e che realizzi un progetto politico, che dia ali a quella utopia concreta che ha radici nel Manifesto di Ventotene, come ci ricorda su questo numero di Left Pier Virgilio Dastoli, che fu collaboratore di Altiero Spinelli al Parlamento europeo. Scritto nel 1941 da giovani carcerati mandati al confino da Mussolini e frutto della lotta antifascista il Manifesto poté viaggiare ed essere tramesso a livello internazionale grazie al contributo di Rossi, Spinelli e Colorni, insieme a Ursula Hirschmann e Ada Rossi Dopo l’invasione della Polonia del 1939 e mentre procedeva l’invasione nazista dell’Urss, mentre nel 1941 procedeva lo sterminio sistematico degli ebrei quei giovani ebbero il coraggio di pensare un futuro diverso. Tanto più è obbligo farlo oggi.

La foto di apertura fa parte del progetto Panchine europee della associazione gioventù federalista