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Il governo vuole cancellare la lista delle “banche armate”

Un disegno di legge inaccettabile che va contrastato con fermezza. Così la Campagna di pressione alle “banche armate”, promossa dalle riviste Missione Oggi, Mosaico di Pace e Nigrizia, commenta il Disegno di legge (Atto Senato n. 855) di iniziativa governativa che modifica la legge n. 185 (“Nuove norme sul controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento”), legge che dal 1990 regolamenta le esportazioni italiane di armamenti.

Col pretesto di apportare “alcuni aggiornamenti” alla legge per “rendere la normativa nazionale più rispondente alle sfide derivanti dall’evoluzione del contesto internazionale”, il Disegno di legge intende limitare l’applicazione dei divieti sulle esportazioni di armamenti, riduce al minimo l’informazione al parlamento e alla società civile, e soprattutto, elimina dalla Relazione governativa annuale tutta la documentazione riguardo alle operazioni svolte dagli istituti di credito nell’import-export di armi e sistemi militari italiani.

L’obiettivo del governo è di scardinare la legge 185/90 nata dopo la mobilitazione di associazioni e cittadini che grazie alle mobilitazioni hanno ottenuto norme rigorose per impedire l’esportazione di armi e sistemi militari non solo agli Stati sottoposti a misure di embargo, ma anche a Paesi coinvolti in conflitti armati, a governi responsabili di gravi violazioni dei diritti umani e verso Paesi la cui politica contrasta con i principi dell’articolo 11 della Costituzione. 

Con la riforma prospettata dal Disegno di legge, già approvato in Commissione Affari esteri e Difesa del Senato, l’applicazione di questi divieti viene sottoposta alla discrezione del governo attraverso il Comitato interministeriale per gli scambi di materiali di armamento per la difesa (CISD) presieduto dal Presidente del Consiglio. 

Buon giovedì.  

Ucraina, due anni di guerra nessuna tregua per i bambini

Ancora missili su Kharkiv, ucciso un bambino di due mesi, riportano freddamente le agenzie. Non si ferma la scia di sangue in Ucraina. A due anni dell’invasione di Putin, il bilancio è sempre più drammatico specie per quel che riguarda i civili. Per cercare di tracciare un quadro della. situazione attuale abbiamo rivolto qualche domanda a Claudia Conte, che collabora con l’associazione Memoria viva, attivista per i diritti umani e scrittrice più volte è stata in Ucraina e nei prossimi giorni sarà a Firenze con un gruppo di bambini ucraini per una iniziativa pubblica con il sindaco Nardella.

Dopo tutti questi mesi di conflitto si è abbassata l’attenzione dei media italiana ma, avverte la giornalista e attivista non dobbiamo perdere di vista la gravità della situazione. «Sono già circa 800 i bambini uccisi. In questi mesi di guerra in Ucraina, 1.700 bambini sono stati colpiti gravemente a causa delle incessanti ostilità», tantissimi gli orfani, anche se al momento è impossibile quantificarne il numero con certezza. Quello che sappiamo, e che preoccupa molto, è che tanti sono spariti. «Le autorità ucraine hanno documentato che circa 20mila bambini sono stati portati in Russia negli ultimi due anni. Kiev ritiene che il numero reale sia probabilmente 10 volte superiore, mentre i funzionari russi si sono addirittura vantati di aver trasferito in Russia 700mila bambini ucraini», dice Conte.  Intanto i ragazzini rimasti in Ucraina sono stati privati della loro vita normale e del diritto allo studio. «Molti di loro già non erano potuti andare a scuola a causa della pandemia. Già prima dell’invasione c’era un grave problema. Con la guerra – continua Claudia Conte – in alcune zone è impossibile frequentare anche online».

In questa immane tragedia, l’unico dato che fa sperare è stata l’accoglienza che i civili ucraini hanno avuto in Paesi europei. «Attualmente più di 4,2 milioni di persone provenienti dall’Ucraina beneficiano del meccanismo di protezione temporanee – ci ricorda l’attivista -. Polonia, Germania, Paesi scandinavi poi Italia Francia Spagna li hanno accolti». E in Italia  quale è la loro situazione? « Al momento sono circa 180mila i profughi dall’Ucraina entrati in Italia, parlando di minori. L’86% dei nuclei familiari immagina che la propria permanenza in Italia sarà a medio o lungo termine. Tra i minori in età scolastica arrivati dall’Ucraina, il 21% non frequenta la scuola. Questi sono i dati in mio possesso». Intanto, per iniziativa di Memoria viva e della scrittrice Claudia Conte, arriva in Italia  un gruppo di visitatori davvero “speciali”: orfani di Kharkiv e vittime della guerra in Ucraina, mentre sono passati quasi due anni da quel terribile 24 febbraio 2022 .«Dall’8 al 13 febbraio saranno a Ivrea per partecipare allo storico Carnevale della città piemontese – racconta Conti -, per poi successivamente essere ospiti a Firenze dove saranno accolti dal sindaco Dario Nardella a Palazzo Vecchio mentre, dal 20 al 25 febbraio, saranno in Versilia per il Carnevale di Viareggio».

I confini dell’Unione europea per qualcuno sono catene

Nel 2023 più di 28.609 migranti hanno subito respingimenti e violazioni dei diritti umani alle frontiere europee, di cui oltre 8.400 solo negli ultimi quattro mesi dell’anno. Tuttavia, tali numeri rappresentano solo una frazione degli effettivi respingimenti illegali.

Lo spiega nel suo ottavo rapporto Protecting Rights at Borders (Prab) che evidenzia lo stato di illegalità permanente alle frontiere europee. Il monitoraggio ancora una volta conferma l’immagine di un’Unione europea che finge di non vedere le criticità alle sue frontiere. C’è la cronica mancanza di vie legali per che costringe molti migranti, provenienti da regioni colpite da conflitti, persecuzioni o disastri naturali, a intraprendere viaggi pericolosi verso l’Europa in cerca di sicurezza e opportunità. Ci sono le testimonianze di respingimenti illegali con metodi violenti e disumani, con migliaia di persone respinte forzatamente oltre il confine e sottoposte a violenze e abusi.

Prab ha intervistato 1.448 persone, documentando i trattamenti disumani e degradanti subiti dall’83% degli arrivi al confine tra Croazia e Bosnia ed Erzegovina e dal 61% al confine tra Francia e Italia. Oltre alle violenze fisiche, i respingimenti forzati privano le persone dei loro beni, lasciandole vulnerabili e senza mezzi vitali. In Italia, le organizzazioni della rete Prab hanno documentato il respingimento di 3.180 persone nelle zone di Oulx e Ventimiglia, con particolare preoccupazione per i 737 bambini, di cui 519 erano minori non accompagnati. Un aspetto inquietante è la pratica di respingere minori registrati erroneamente come adulti.

Buon mercoledì. 

Nella foto: frame del video sulla rotta balcanica – The game vivere o restare

No al premierato di Meloni. Da Firenze parte l’opposizione al piano antidemocratico della destra

Illustrazione di Valentina Stecchi

Parte la mobilitazione dal basso contro le due controriforme varate dalla maggioranza di governo a partire dal 10 febbraio con il convegno nazionale a Firenze per il NO al cosiddetto “premierato” e all’autonomia differenziata. Promosso e organizzato dal coordinamento per la Democrazia Costituzionale, Libertà e Giustizia e Salviamo la Costituzione, l‘evento pubblico dà il via alla campagna per contrastare il progetto governativo che intende esplicitamente cambiare il volto della nostra democrazia costituzionale.

Non sarà una campagna breve, ma sarà sin d’ora diretta prima di tutto a coinvolgere i cittadini, primi destinatari dei “progetti” e primi esclusi da ogni informazione sulle intenzioni del governo di destra: scardinare e superare l’identità costituzionale dell’Italia democratica.  I cittadini, che con il loro NO nel referendum costituzionale riuscirono a respingere i precedenti disegni del 2006 e del 2016, questa volta hanno di fronte un preciso progetto: è esplicita la demolizione dell’assetto costituzionale da cui è nata la Repubblica e manifesta è la volontà di sostituire la Costituzione repubblicana antifascista con altra “legge fondamentale”.

Non è un caso che l’attacco frontale alla forma di governo parlamentare disegnata dalla Costituzione, con le ricadute e i rischi per i diritti di libertà e civili garantiti e tutelati dal 1948, provenga da forze politiche governative estranee alla fondazione della Repubblica. Con il “premierato” l’intento è concentrare i poteri su un unico soggetto – il presidente del Consiglio – la cui elezione diretta viene accompagnata da un cospicuo premio di maggioranza privo di soglia minima, destituendo le funzioni del Parlamento, espressione e rappresentante della volontà popolare, svuotando le funzioni del Presidente della Repubblica, garante dell’unità nazionale e della sua Costituzione antifascista, demolendo il ruolo della Corte costituzionale, garante del controllo sulle leggi.

Il progetto è chiaro: azzeramento dell’equilibrio dei poteri, assunzione dei poteri da parte di un unico soggetto, annullamento delle funzioni degli altri organi che grazie alla Costituzione hanno permesso di vivere in una Repubblica democratica. Un progetto diretto all’occupazione delle istituzioni. Non è una novità nell’orizzonte della storia italiana, che ha conosciuto il significato del dominio del “capo” indiscusso. Non è nuovo nemmeno quando sbandiera lo specchietto per le allodole tentando di convincere i cittadini che il capo di governo è frutto della loro scelta: specchietto per le allodole, esibito ad un’opinione pubblica che vive un’epoca di smarrimento o, peggio, di indifferenza per l’assenza di riferimenti politici, ed è sommersa dalle difficoltà economiche della vita quotidiana. 

Lusinga e truffa per ottenere il consenso popolare, tacendo l’intento di demolire la democrazia costituzionale fondata sulla forma di governo parlamentare per sostituirla con un’entità molto somigliante ad un regime insofferente al pluralismo e ostile al dissenso, ad un sistema dove il principio di rappresentanza cede il passo al principio dell’investitura, ad una cultura intollerante verso i controlli che la Costituzione ha costruito proprio per limitare i poteri delle maggioranze.

Maggioranze astratte, a dire il vero, perché la strada del progetto per il “premierato” trova già il suo humus nella legge elettorale attualmente in vigore, che impedisce ai cittadini di eleggere i propri rappresentanti, con liste bloccate, divieto di preferenze, impossibilità di voto disgiunto. I progetti di “riforma” del governo di destra si legano tra loro, anche con l’aiuto di leggi vigenti.

E così, nel mentre con il “premierato” promosso da Fratelli d’Italia (in uno con Forza Italia, che al disegno di legge appone la firma della sua senatrice Casellati) apre la strada alla demolizione della forma di governo parlamentare, con il progetto della Lega a firma Calderoli avanza verso la trasformazione della forma di Stato, la divisione della Repubblica all’insegna di un’autonomia differenziata sui generis che costituisce un inevitabile strappo all’unità nazionale. 

Sono progetti che dimostrano anche le evidenti reciproche contraddizioni, ma ci sono e vanno combattuti. Completa il complessivo disegno governativo la riforma della giustizia, cavallo di battaglia di Forza Italia: con singole, ma significative, normative sono già stati eliminati reati come l’abuso d’ufficio – baluardo contro le infedeltà dei pubblici amministratori -, reintrodotte o inventate nuove figure di reato dirette a punire la libera circolazione delle persone o la libera manifestazione del pensiero, aumentate le pene per i soli reati dei “comuni cittadini”. Dal pacchetto è pronta ad uscire la separazione delle carriere tra magistratura giudicante e magistratura requirente: e così, con l’obiettivo di sottoporre i Pubblici Ministeri al controllo dell’esecutivo, il governo di destra chiuderebbe il cerchio, liberandosi anche dal principio costituzionale secondo cui la magistratura è un ordine soggetto soltanto alla legge, autonomo e indipendente da ogni altro potere, rimettendo sui binari il principio di fondo che accompagna il suo intero operato: solo all’esecutivo spetta l’esercizio del potere e il controllo sugli altri organi statali.

Il convegno del 10 febbraio, con l’intervento in mattinata di costituzionalisti, giuristi, storici, sarà dedicato a descrivere e a discutere il panorama normativo-costituzionale che i cittadini si trovano ora ad affrontare, primi e principali soggetti ad avere il diritto di conoscere quali riforme sono progettate per il Paese e quali conseguenze ne deriverebbero se da progetti si trasformassero in leggi. La giornata procederà nel pomeriggio con l’organizzazione di una tavola rotonda a cui parteciperanno gli esponenti delle principali associazioni come Anpi, Cgil, Arci e dei partiti, parlamentari ed extraparlamentari, contrari alla riforma governativa. L’obiettivo è costruire tra i cittadini una forza unitaria che si opponga ai disegni del governo di destra, espressione di un attacco senza precedenti al progetto antifascista di emancipazione trasmesso dalla Costituzione: perché l’impegno collettivo sia un argine, determinato e vigile, al tentativo di destabilizzare la Repubblica.

L’appuntamento: il Coordinamento democrazia Costituzionale, Libertà e Giustizia e  Salviamo la Costituzione  organizzano una giornata di informazione, discussione e confronto  dal  titolo “In difesa della democrazia costituzionale – Premierato e autonomia differenziata – le ragioni del no”, che si terrà sabato 10 febbraio, dalle ore 9,45 alle ore 18 all’auditorium di Sant’Apollonia, in via S. Gallo n. 25 a Firenze.

Nella mattina (ore 9,30-13,30) sono previste le relazioni di costituzionalisti, magistrati, giuristi e sociologi: Alessandra Algostino, Gaetano Azzariti, Beniamino Deidda, Domenico Gallo, Tomaso Montanari, Daniela Padoan, Marco Revelli e Massimo Villone, coordinati da Silvia Manderino, vice presidente CdC e da Simona Maggiorelli, direttrice di Left, con lo scopo di informare i cittadini sui contenuti della riforma e sui rischi concreti che il Paese corre. Nel pomeriggio (ore 14,40 – 18) si terrà la tavola rotonda tra i comitati, i rappresentanti delle  principali associazioni della “Via Maestra” (Anpi Arci, Cgil) e di tutti i partiti che si oppongono alla riforma, moderati da Riccardo Putti, coordinatore CdC di Siena, in modo da sviluppare, fin da subito, una proficua collaborazione per la campagna referendaria che possa servire a cementare, su tutto il territorio nazionale, la necessaria reazione alla grave deriva in cui il Paese viene trascinato dal governo di destra. Gli organizzatori si  pongono lo scopo di ottenere dai partiti la garanzia che la riforma non passi con i 2/3 dei voti del Parlamento, condizione che impedirebbe il ricorso al referendum costituzionale, nonché l’impegno per una futura campagna referendaria a favore del No.

La giornata sarà dedicata a Francesco Baicchi, scomparso il 28 ottobre 2023, coordinatore dei comitati di difesa della Costituzione toscani che, nel 2006 e nel 2016, si sono spesi nella raccolta firme e nella campagna referendaria, che ha portato alla vittoria del No nei precedenti referendum costituzionali. E all’avvocato Felice Besostri, il cui lavoro è stato fondamentale anche perché il Porcellum e l’Italicum fossero definiti incostituzionali.

Per contatti riguardo al convegno: coordinamento.toscana.cdc@gmail.com

Illustrazione di Valentina Stecchi

Per approfondire leggi il numero di Left contro il premierato

Per approfondire leggi il libro di left contro l’autonomia differenziata

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A Ousmane Sylla nel Cpr era rimasto solo il corpo

“Se un giorno dovessi morire, vorrei che il mio corpo fosse portato in Africa, mia madre ne sarebbe lieta (…) I militari italiani non capiscono nulla a parte il denaro. L’Africa mi manca molto e anche mia madre, non deve piangere per me. Pace alla mia anima, che io possa riposare in pace (..)”. Se fosse l’inizio di un romanzo non sarebbe un giallo, poiché l’assassino in questo caso sarebbe chiaro fin dalle prime pagine. Se fosse un noir scommetto che qualcuno lo troverebbe troppo spinto. Probabilmente lo definirebbero distopico. 

Ousmane Sylla, guineano di 22 anni, ha disegnato su un muro il suo volto e ha scritto questa frase su un muro nel Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Ponte Galeria a Roma. Poi si è suicidato. Ha scritto su un muro perché nei buchi neri dei Cpr carta e penna sono tra le ultime cose che mancano. Prima manca il diritto alla salute, manca il diritto alla difesa legale, manca il diritto all’alimentazione, manca il diritto all’igiene personale, manca il diritto alla comunicazione con il mondo esterno nonostante non sia un carcere, manca il rispetto di un tot di diritti umani. Figuratevi carta e penna. 

Per la rete Mai più lager – No ai Cpr Ousmane Sylla sarebbe la quarantesima vittima in un Cpr italiano. Ousmane ha avuto come ultima preoccupazione la destinazione del suo corpo, come carne, e il dolore della madre. Nient’altro. La sua persona – la sua identità – era già morta prima che si ammazzasse. Chissà quante esegesi di quel testamento se fosse stato il verso di un testo di una canzone di Sanremo. 

Buon martedì. 

Nella foto: il messaggio di Ousmane scritto sul muro (Mai più lager – No ai Cpr)

Per approfondire, il libro di Left Mai più, la vergogna italiana dei lager per immigrati

L’affettività si vive, non si addestra

Educazione può essere una parola bellissima se la si intende nell’accezione più legata alla sua origine etimologica, ovvero quando indica quell’azione o serie di azioni mirate a creare opportunità, rapporti, contesti umani e di apprendimento adatti a far sì che le potenzialità di ogni ragazzo ed ogni ragazza, di ogni bambino e di ogni bambina possano emergere e trasformarsi. Può essere, al contrario, un parola detestabile, da rifiutare, se la si intende come sinonimo di addestramento, come azione normalizzante mirata all’adeguamento di un comportamento ad un modello imposto dall’esterno basato su un sistema di pensiero o un costrutto culturale.

Il filosofo ed esponente della pedagogia progressista John Dewey, in Educazione e società scrive: «la storia della teoria dell’educazione è caratterizzata dall’opposizione fra l’idea che l’educazione sia sviluppo dal di dentro o che sia sviluppo dal di fuori». Che ci fosse un duplice significato era quindi già evidente nel 1938, quando il saggio è stato scritto e ciò che distingue le due versioni è l’idea che si ha dei bambini e dei ragazzi e di come funzioni la loro mente.

I bambini si possono infatti considerare «della stessa natura degli adulti», come diceva Freinet, cioè differenti solo nel grado di crescita dai più grandi, oppure menti da forgiare e, possibilmente, da contenere, se pensiamo che l’educazione sia sviluppo dal di fuori. La tradizione della scuola democratica e della pedagogia attiva che prende le mosse dalle teorie di Dewey e dalle proposte di Freinet proponendo un’idea di educazione come occasione di crescita di tutte le individualità, in Italia è stata principalmente rappresentata, fin dal 1951, dal Movimento di cooperazione educativa ed è tutt’ora presente in molte scuole pubbliche del nostro Paese vantando negli anni esponenti come Mario Lodi, Bruno Ciari, Nora Giacobini e Franco Lorenzoni. Nonostante ciò l’idea di educazione che prevale nell’immaginario comune è quella più direttiva, quella dello sviluppo dal di fuori, quella che i pedagogisti progressisti, seguaci di Dewey, definiscono “tradizionale”.

Certo, le esperienze della scuola democratica e delle tante altre pratiche affini sono realtà minoritarie rispetto alla maggioranza dei contesti educativi e scolastici. Di fatto la scuola italiana, pur contenendo al suo interno più anime e voci diverse, fa ancora fatica a togliersi di dosso i segni dell’eredità storica di quando l’istruzione era affidata alla Chiesa e quindi moraleggiante, orientata all’imposizione di un pensiero unico a cui era necessario adeguarsi per poter aspirare ad eccellere. Quel modello di scuola è poi confluito in modo naturale nella scuola gentiliana che ancora oggi, troppo spesso, caratterizza non tanto l’apparato normativo del nostro sistema scolastico, ma soprattutto una mentalità e spesso anche una prassi.

Capita, tuttavia, che i segni di una sincera trasformazione democratica della scuola diventino più visibili, ad esempio quando si propone il rifiuto di una scuola selettiva e irreggimentata o quando si chiede che l’obiettivo formativo non sia la performance o il prodotto, ma un’esperienza culturalmente e umanamente significativa per gli studenti. Quando questo accade, però la risposta di una folta schiera di giornalisti, esponenti della cultura pseudo progressista e, purtroppo, anche docenti, diventa feroce auspicando a gran voce il ritorno a contesti scolastici ed educativi più rigidi, punitivi e autoritari (confondendo clamorosamente rigore e rigidità, autorevolezza ed autoritarismo). Sono reazioni che si allineano ad una politica dominante orientata verso i valori di una destra spesso retriva, che si è addirittura scomodata ad inserire la parola merito nella denominazione del ministero riportando indietro di decenni quell’idea di formazione partecipativa ed inclusiva che deriva dal secondo comma dell’articolo 3 della nostra Costituzione.

È con queste premesse che dovrebbe essere letta la proposta del governo che in una direttiva ministeriale del 23 novembre 2023 parlava di «Educazione alle relazioni»: «Al fine di rafforzare l’impegno verso un’azione educativa mirata alla cultura del rispetto, all’educazione alle relazioni e al contrasto della violenza maschile sulle donne, il ministero dell’Istruzione e del merito promuove la realizzazione nelle scuole di progetti, percorsi educativi, attività pluridisciplinari e metodologie laboratoriali destinate, in particolare, agli studenti delle istituzioni scolastiche secondarie di secondo grado del sistema nazionale di istruzione».

Si auspica, inoltre «lo svolgimento di un’adeguata formazione di ciascun docente-moderatore, secondo un programma che il ministero dell’Istruzione e del merito predispone anche con il supporto di organismi scientifici e professionali». Il tutto con l’investimento di 15 milioni di euro presi dal Pnrr.

L’urgenza di un simile intervento è scattata in seguito al femminicidio di Giulia Cecchettin quando il problema della violenza sulle donne e la discriminazione di genere si è rivelato agli occhi di una massa sconfinata di persone, una vera e propria emergenza. Si è avvertita quindi la necessità di dare una risposta a livello istituzionale ed è interessante che sia parso subito chiaro che dietro ad un problema tanto drammatico ci fosse una questione legata ai rapporti interumani, al modo di vivere le relazioni individuando, perciò, la scuola come il luogo prioritario in cui i ragazzi e le ragazze costruiscono i loro rapporti fuori dal contesto familiare. Ma la soluzione proposta dal ministero è pessima, non solo non è risolutiva del problema, ma rischia di peggiorarlo.

L’idea che sia necessario promuovere attività “altre” rispetto a quelle previste dalle varie istituzioni scolastiche che hanno a che fare principalmente con gli apprendimenti, porta con sé due istanze estremamente deleterie, la prima è quell’idea di educazione come addestramento che, se riportata all’affettività e alle relazioni, assume tratti preoccupanti. Non è accettabile, infatti pensare che affetti e relazioni siano comportamenti a cui adeguarsi, da apprendere in quanto non presenti nella realtà umana e personale di ogni ragazzo e di ogni ragazza. Come recentemente affermato in un comunicato del laboratorio scuola della Fondazione Massimo Fagioli «l’affettività si vive e si sperimenta, non si può apprendere».

Inoltre se recuperiamo l’idea che l’educazione sia un movimento che “parte da dentro” e che, come scrive Franco Cappa nell’introduzione ad Esperienza ed educazione “Solo se l’affettivo e il cognitivo si intrecciano si può dare esperienza educativa” si potrebbe pensare, allora, che l’inserimento di attività specifiche, diverse da quelle curriculari, volte a “favorire le relazioni”, possa aumentare la scissione dell’affettivo dal cognitivo facendo sì che l’esperienza non sia, in questo senso realmente educativa.

La scuola, oltre ad essere il luogo di socializzazione più importante per i bambini e gli adolescenti, si caratterizza per essere il luogo dell’apprendimento formale quindi l’idea di relazioni affettive valide dovrebbe andare di pari passo con quella dell’apprendimento e della costruzione della conoscenza. Non si tratterebbe, perciò, di inserire una nuova materia o nuove attività, ma di proporre modalità diverse di stare a scuola e di costruire insieme il sapere partendo innanzitutto dall’idea di cooperazione che introduce il rapporto come elemento irrinunciabile nell’attività di apprendimento: si impara insieme, si costruisce insieme il sapere e, costruendo ed imparando, ci si confronta, si condivide, ci si ascolta, ci si comprende.

Il cambiamento di cui abbiamo bisogno è un cambiamento più profondo, più strutturale, più lento e sicuramente più impegnativo, ma indubbiamente più efficace. La fortuna è che non si tratta di un’utopia, come già detto le realtà in cui si sperimenta una scuola attiva sono molte in Italia e se, fino a poco tempo fa, erano esperienze che riguardavano esclusivamente la scuola primaria con qualche caso nella secondaria di primo grado, da qualche tempo cominciano a diffondersi anche tra le scuole superiori, storicamente più restie al cambiamento soprattutto se appartenenti all’area dei licei che spesso, purtroppo, si pongono come baluardi della tradizione.

Non serve, quindi, una proposta costruita a tavolino da calare dall’alto nelle scuole (modalità che abbiamo imparato da tempo avere pochissimi risultati) sarebbe più utile, invece, partire dalle realtà virtuose e renderle un laboratorio di formazione per gli altri istituti.

È uscito per Mondadori un libro scritto da Vincenzo Arte, docente del Liceo Morgagni di Roma, dal titolo Crescere senza voti dove si racconta dell’esperienza di una scuola in cui i voti delle prove in itinere sono stati sostituiti da valutazioni descrittive, dove alla didattica tradizionale si alternano didattica cooperativa, lavori di gruppo, autovalutazione dei ragazzi e delle ragazze.

Il progetto, che da sette anni coinvolge due sezioni dell’istituto si chiama, ironia della sorte, «La scuola delle relazioni e delle responsabilità». Non l’educazione alle relazioni, ma la scuola delle relazioni perché tutta l’attività scolastica si basa sulle relazioni: tra studenti, tra studenti e docenti, tra docenti e famiglie.

È un’esperienza che dimostra che non solo si può fare, ma è già stato fatto con risultati eccellenti.

Si tratta di avere il coraggio di cambiare e prendere le distanza da quella tradizione che per troppo tempo ha paralizzato la scuola italiana rendendola sovente luogo poco accogliente e poco adatto alla crescita serena e alla libera espressione del pensiero e della realtà personale dei ragazzi e delle ragazze. Si tratta di avere il coraggio di trasformarla questa scuola e renderla un luogo dove ogni giorno l’incontro con l’altro è motivo di crescita intellettuale e affettiva.

Forse non potrà essere l’unica strada per affrontare in modo incisivo il problema della violenza sulle donne, ma certamente può essere la base su cui costruire idee e pensieri diversi in cui ci sia lo spazio affettivo e culturale per le identità di tutti e di tutte.

Questo articolo è tratto da Left di gennaio 2024
Illustrazione di Fabio Magnasciutti per Left

Non chiamatela educazione

Se non li aiutiamo chi li accoglie?

Foto di Unrwa

Nicholas Emiliou, avvocato generale della Corte di giustizia europea, ha affermato che i profughi palestinesi avranno diritto a richiedere lo status di rifugiati, visto che l’agenzia Onu creata appositamente (l’Unrwa) non può da sola gestire la catastrofe in corso nella striscia di Gaza e garantire agli abitanti sicurezza e protezione, ancora di più dopo l’interruzione degli aiuti da parte di alcuni stati – undici, tra cui l’Italia – per l’indagine sugli operatori infedeli che avrebbero aiutato Hamas. 

Come riporta Openpolis da quando Israele ha attaccato la striscia di Gaza, oltre 26mila palestinesi, quasi tutti civili, hanno perso la vita. Tra di loro, oltre 10mila bambini e quasi 80 giornalisti. Pressoché la totalità della popolazione di questo Paese, oggi uno dei più densamente abitati del mondo, è sfollata e al momento è in corso una crisi umanitaria senza precedenti, con risorse del tutto insufficienti a garantire la sopravvivenza delle persone. A cominciare dalla più essenziale, l’acqua.

Al momento l’Europa non ha fatto nulla per sostenere questa popolazione vessata da decenni, se non incrementando i propri impegni finanziari per gestire la crisi umanitaria. Impegni che ora si ridurranno, dato l’attuale screditamento dell’Unrwa. Nessuno si è adoperato per proteggere i profughi stessi. Un approccio molto diverso da quello che si è applicato in seguito allo scoppio della guerra in Ucraina. In altri approfondimenti abbiamo parlato di come l’Italia, al pari degli altri stati Ue, si sia presa la responsabilità di garantire ai profughi ucraini protezione e accoglienza, mostrando come un impegno maggiore sia possibile. Lo stesso non sta avvenendo per i palestinesi. Se infatti da un lato si annunciano aiuti umanitari di varia natura, dall’altro è attivo un fronte di cooperazione con l’Egitto, con lo scopo di incrementare il controllo lungo le frontiere esterne dell’Europa.

Buon lunedì. 

Mannino (Cgil): «L’autonomia differenziata sarà un disastro per la Sicilia»

Il Senato ha dato l’ok al ddl voluto dalla Lega e dal ministro degli Affari regionali Roberto Calderoli. Ora il testo che attua l’autonomia differenziata passa alla Camera per l’approvazione definitiva. La mission del progetto, sulla carta, è quella di decentralizzare diverse competenze: dare, cioè, alle Regioni la possibilità di decidere autonomamente su ben 23 materie e funzioni, come salute, lavoro, ambiente e istruzione. Un bambino che studia in Sicilia avrebbe una istruzione diversa da quella prevista per un bambino che studia in Lombardia. È una secessione per legge che metterà in difficoltà tutte le regioni del sud Italia, in particolare la Sicilia. La versione del centrodestra al governo della regione è che l’applicazione dell’autonomia differenziata rappresenta un’occasione per la Sicilia da non perdere, alla luce della riduzione del debito pubblico e del risanamento delle finanze della Regione che cominciano a funzionare, arrivando a parlare di conti in ordine e riduzione del disavanzo: affermazioni quanto mai azzardate per chi conosce la situazione economico/amministrativa siciliana. Alfio Mannino è alla guida della Cgil siciliana, e con lui proviamo a fare chiarezza su quanto sta accadendo.

Indipendentemente da dove si vive, per legge, abbiamo tutti gli stessi diritti, ma l’autonomia differenziata sembra annullare questo principio e dare spazio ad una secessione “istituzionalizzata”?

Si è vero, ma la cosa ancora peggiore è che avremo una sorta di Stato “arlecchino” con 20 regioni con profili istituzionali uno diverso dall’altro. Sulle 23 materie ogni regione potrà scegliere quali avocare a sé e quali no: quindi ci sarà chi si occuperà, per esempio di sanità e trasporti e chi di scuola e politiche energetiche, insomma, avremo una Stato, appunto, “arlecchino”. È chiaro, a quel punto, che anche le norme di cornice nazionale avranno una ricaduta ed una efficacia diversa da regione a regione. Sul piano sociale, economico e dei diritti avremo enormi differenze tra i territori, cosa che avrà ripercussioni anche sulla tenuta dell’unità nel nostro Paese.

Quale sarà l’impatto di questa riforma sulla Sicilia? Il percorso dei Lep (Livelli essenziali di prestazione) andava prima definito e poi finanziato se davvero si voleva dar vita ad una riforma giusta?

Dal punto di vista economico, intanto, c’è da dire che siamo in presenza di una legge che dice che il percorso si fa “a invarianza di costi” e che le risorse dell’Irpef prodotte in ogni singolo territorio rimarranno nel territorio stesso. Alla luce di questo, secondo degli studi fatti dalla Ragioneria Generale dello Stato, la Sicilia perderà 1 miliardo e 300 milioni di euro circa l’anno: un impatto disastroso per una economia già in grande sofferenza. Per quanto riguarda i Lep: non soltanto non sono stati ancora definiti ma ad oggi, al netto di tutto, non c’è alcun impegno di spesa per finanziarli. E poi la beffa delle beffe, cioè il fatto che si era ipotizzato di poter andare vita ad un fondo di compensazione, cioè il “fondo complementare” di 4 miliardi e 400 milioni di euro, che però la scorsa settimana il governo nazionale ha ridotto a poco più di 700 milioni di euro.

Passiamo alla politica regionale: qual è il suo giudizio sul governo Schifani?

Il governo della nostra Regione, all’indomani dell’approvazione della legge in Senato, si faceva forte del fatto che esistesse questo fondo compensativo e sulla base di questo giustificava, davanti ai siciliani, la sua linea. Il fondo è stato praticamente azzerato e non mi pare che il governo regionale abbia cambiato posizione e atteggiamento nei confronti di Roma. La verità è che siamo dinanzi ad una classe dirigente che è completamente subalterna a Roma ed alle sue necessità. Un governo che pensa soltanto ad allargare il suo “poltronificio”, basti pensare a come il governatore Schifani – in totale sfregio alle normative ed ai regolamenti – sta forzando la mano sulla istituzione delle Provincie o a come stanno gestendo le ambitissime nomine dei manager regionali della sanità. Inoltre, il presidente della regione Sicilia, già oggi, è commissario straordinario per il coordinamento degli interventi sull’autostrada Catania-Palermo, sulla Catania-Ragusa, è commissario straordinario per i termovalorizzatori, insomma, un sistema per creare “poltrone”. Se si va a Roma col cappello in mano per chiedere qualcosa, non si può certo avere poi l’autonomia per rivendicare diritti e opportunità per questa regione.

I 200 miliardi del Pnrr non dovrebbero servire proprio a sanare il divario tra nord e sud del Paese? E quindi, in che direzione stiamo andando?

La spesa del Pnrr oggi è ferma a poco più del 6%. Significa, questo, che siamo in forte ritardo nel mettere in campo tutte le progettualità del Piano: se a questo aggiungiamo che più di un miliardo di euro ci sono già stati tolti nella riprogrammazione, risulta chiaro che c’è una difficoltà nella gestione di queste risorse. Manca inoltre un luogo di elaborazione strategica nella locazione di queste risorse: i grandi player nazionali non stanno investendo in Sicilia, la regione siciliana si accontenta di avere le somme “parcellizzate” e non invece di investire in alcune infrastrutture importanti davvero fondamentali per la nostra terra. E ritengo che, proprio per questo, anche la grande opportunità rappresentata dal Pnrr, stia sfumando. L’Unione europea ha stanziato queste risorse per colmare il gap ma qui rischiamo, alla fine e con questa gestione, che questi gap vengano ampliati.

La  classe politica dirigente di questa regione – degli ultimi 50 anni almeno – ha qualcosa da rimproverarsi?

Il fatto che, chi ha governato questa regione non è stato mai all’altezza della sfida e del mandato e che spesso ha caratterizzato l’utilizzo della spesa pubblica con una gestione clientelare e intrisa di malaffare, è un dato di fatto: ma a ruberie e sprechi non si può certo rispondere sottraendo risorse alla Sicilia ed al mezzogiorno intero. Occorre piuttosto rispondere mettendo in campo quei meccanismi virtuosi di controllo della gestione della spesa pubblica, di “indirizzo” rispetto a questa gestione. Qui però siamo in presenza del fatto che le forze di governo nazionale hanno da sempre accettato uno scambio: cioè quello di permettere di allentare la spesa pubblica affinché potesse essere una spesa pubblica che alimenta clientela e consenso, oltre che ruberie e malaffare. Questo è stato lo scambio e da qui nasce anche la scarsa autonomia ed autorevolezza delle classi dirigenti del Mezzogiorno e della Sicilia nel rivendicare invece una nuova politica economica che guarda al futuro, allo sviluppo ed ai diritti. Per tutti.

Illustrazione di Fabio Magnasciutti

La strage dei giornalisti a Gaza. Un manifesto per il diritto all’informazione

Si rompe il silenzio sui reporter palestinesi uccisi, feriti e arrestati dal 7 ottobre a Gaza. Giornalisti siciliani, ma anche fotografi, artisti, scrittori, associazioni culturali dell’isola, hanno stilato un Manifesto in difesa della cultura e del diritto all’informazione. E una serie di eventi – incontri e proiezioni di film – sono in programma nei giorni 6 e 7 febbraio a Palermo, attraverso l’iniziativa Cultura della resistenza. Il ricavato verrà devoluto al Palestinian Journalists’ Syndicate, il cui bollettino è tragico, come si può leggere nella pagina Fb: «dal 7 ottobre 116 giornalisti e operatori mediatici sono stati uccisi, 1200  sfollati e trasferiti in ospedali e centri profughi. Arrestati 56 giornalisti nei territori palestinesi. Decine di giornalisti hanno perso i loro familiari a Gaza». Ricordiamo che il regista/reporter autore di uno dei film che saranno proiettati a Palermo, Rushdi Sarraj, ha perso la vita sotto le bombe a Gaza il 22 ottobre scorso.

Dalla Sicilia arriva dunque una reazione all’attacco all’informazione, alla conoscenza. E viene dalla Sicilia, terra che non molti anni fa è stata teatro di una strage di giornalisti che hanno difeso a costo della vita il diritto dei cittadini ad essere informati.

Nel manifesto si citano i nomi dei colleghi che hanno perso la vita a Gaza: «Yazan al-Zuweidi, Mohamed Jamal Sobhi Al-Thalathini, Ahmed Bdeir, Mustafa Thuraya, Heba Al-Abdallah, Hamza Al Dahdouh, e il loro punto di di vista sul mondo, il loro modo di raccontarlo, di trasmettere delle storie. I giornalisti non sono semplici cronisti di fatti: attraverso la loro missione di veicolare informazioni, sono allo stesso tempo testimoni del loro tempo e della cultura che lo caratterizza».

«Prima di perdere la vita nei bombardamenti – si legge nel Manifesto – , alcuni hanno documentato i festeggiamenti dell’Eid, altri la fine degli esami degli studenti, altri hanno fotografato caratteri arabi, altri ancora hanno gestito stazioni radio locali. Accettare la scomparsa dei giornalisti palestinesi significa di conseguenza accettare la scomparsa di una parte della cultura palestinese. E accettare la scomparsa della cultura palestinese significa accettare l’estinzione, per estensione, di una parte di questa grande cultura mediterranea che, per quanto complessa, dalla delimitazione dei suoi confini alle fondamenta stesse della sua identità, non è meno nostra».  E a proposito di Mediterraneo come mare che unisce culture e civiltà diverse, si cita non a caso Frenand Braudel, autore di Mediterraneo: «Che cos’è il Mediterraneo? Mille cose insieme. Non un solo paesaggio, ma innumerevoli paesaggi. Non un solo mare, ma una successione di mari. Non una civiltà, ma civiltà sovrapposte».

La diffusione della cultura, avvertono gli estensori del Manifesto, è continuamente minacciata. «Non molto tempo fa, otto giornalisti siciliani hanno pagato con la loro vita per aver scelto di non rimanere in silenzio, vittime di un’altra guerra, quella scatenata dalla mafia. Ancora oggi la cultura rimane minacciata: da una parte da calcoli politici, dall’altra dall’induzione di un pensiero sempre più asettico. Noi giornalisti, ma anche artisti, fotografi, scrittori, ristoratori, associazioni, direttori di musei, teatri, istituzioni, siamo tutti orgogliosi di far parte della storia culturale della nostra isola e, per quanto possibile, di contribuire a farla conoscere in tutto il mondo. Ci piace condividerla, ci piace lasciarla scorrere in noi, ci piace crearla.  Questo diritto non dovrebbe mai essere minacciato. Ci rifiutiamo di accettarlo qui, e non lo accetteremo in nessun altro luogo».

Gli eventi sono realizzati con il coordinamento Palestina nel cuore Sicilia. Una parte delle donazioni – aperte anche online, e che dà accesso a un biglietto della lotteria in collaborazione con i nostri partner culturali – sarà devoluta al Palestinian Journalists’ Syndicate. Left è tra i sostenitori dell’iniziativa, insieme con l’Assostampa siciliana, il cinema Rouge et noir, Studio Forward e altre realtà culturali siciliane.

Il programma:

MARTEDÌ 6, 18:30: PRESENTAZIONE DELL PROGETTO E CENA SOCIALE @ AL QUDS
Via Giuseppe Garibaldi, 66 Palermo

MERCOLEDÌ 7, 20:30: CICLO DI PROIEZIONI @ CINEMA ROUGE ET NOIR
Piazza Giuseppe Verdi, 8, Palermo

Bank of Targets: A Glimpse Into the Devastation Unleashed by Israel Bombing of Gaza di Rushdi Al-Sarraj (2021, Palestina, 26’). Vincitore della menzione speciale della giuria al 18° Al Ard Film Festival in Sardegna, Bank of Targets documenta il bombardamento delle infrastrutture civili a Gaza da parte di Israele nel 2021. Attraverso un resoconto di prima mano del bombardamento di un edificio residenziale, il regista/giornalista palestinese Rushdi Sarraj mette in luce gli sforzi dei giornalisti per creare un resoconto dei crimini di guerra nel momento in cui si verificano. Rushdi Sarraj ha perso la vita durante un bombardamento a Gaza il 22 ottobre scorso.

Una immagine del film “Bank of Targets: A Glimpse Into the Devastation Unleashed by Israel Bombing of Gaza” di Rushdi Saraaj’, ucciso il 22 ottobre scorso

Sarura – The future is an unknown place di Nicola Zambelli (2022, Italia, 80’). Alle porte del deserto del Negev, un gruppo di giovani palestinesi lotta contro l’occupazione militare israeliana. “Youth of Sumud” – i giovani della perseveranza – cercano di restituire alla propria gente le terre sottratte alle loro famiglie, ristrutturando l’antico villaggio di grotte di Sarura. Affrontano l’aggressione con azioni non violente, difendendosi dai fucili con le proprie videocamere; si oppongono alla desolazione e alla morte con la speranza e la vita. Dieci anni dopo il loro primo documentario sulla lotta nonviolenta in Cisgiordania, i registi tornano nel villaggio di At-Tuwani per raccontare come siano cresciuti nel frattempo i bambini ritratti nel film, utilizzando materiale d’archivio di più di 15 anni.

IN ARRIVO…
“FIRMERAI CON UNA PICCOLA GOCCIA DI SANGUE”
Mostra – memoriale dedicato ai giornalisti di Gaza, presso l’Assostampa Sicilia.
Via Francesco Crispi, 286, Palermo

Lo sguardo poetico di Costanza Quatriglio sull’infanzia

La regista Costanza Quatriglio

Sarà presentato alla 74esima edizione del festival di Berlino (15 febbraio-25 febbraio), sezione Forum, Il cassetto segreto la nuova opera di Costanza Quatriglio, “racconto sentimentale che dalle mura di casa abbraccia la Sicilia, l’Europa e il mondo, in un secolo di storia”. In attesa di vedere il suo nuovo lavoro alla Berlinale, l’abbiamo incontrata per parlare della sua opera d’esordio L’isola che è uscita in home video (con Mustang Entertainment nella versione restaurata in 4K dai laboratori di Cinecittà) a vent’anni dall’anteprima mondiale a Cannes. Il film, che è stato ospite alla festa Festa del Cinema 2023 di Roma nella sezione autonoma e parallela di Alice nella Città, è corredato di diversi contributi extra tra cui il making of “Racconti per L’isola”, presentato a Venezia nel 2003.

La storia di Teresa e Turi, i due giovanissimi protagonisti de L’isola cresciuti in una famiglia di pescatori sull’isola di Favignana e alle prese con l’importante passaggio dall’infanzia all’adolescenza, è una storia senza tempo dalla quale emerge l’originalissima poetica di Costanza Quatriglio, che mette costantemente in gioco lo sguardo dello spettatore al quale si chiede di andare sempre più in profondità, soprattutto nei momenti di sospensione del racconto quando a emergere è la ricerca sulle immagini.

Costanza, come ha inizio questa tua personalissima ricerca?
L’isola arriva nel momento in cui, molto giovane, ho cominciato a fare cinema – il film, uscito nel maggio 2003 a Cannes, era stato girato nell’arco del 2002 – avvicinandomi fin da subito al mondo dei bambini e degli adolescenti. Avevo molto desiderio di interrogare quell’età di passaggio della vita. Perché, prima ancora de L’isola, avevo realizzato i miei primi documentari a Palermo, Ècosaimale? e Il bambino Gioacchino, nei quali i protagonisti erano bambini palermitani, e poi un film sulle adozioni internazionali, L’insonnia di Devi, dove la storia era raccontata dal punto di vista dei bambini e degli adolescenti adottati in Italia, che avevo accompagnato in un viaggio in India. In questi film realizzati prima de L’isola indagavo il mondo interiore dei bambini e degli adolescenti, mentre per quanto riguarda L’isola non parlerei di indagine, parlerei piuttosto di adesione.

L’isola di Costanza Quatriglio

Che effetto ti fa rivedere l’Isola?

Ho sempre sentito una forte adesione al mondo interiore di Teresa e di Turi. E, a distanza di vent’anni – vent’anni pieni di vita e di mestiere -, guardando L’isola nelle fasi del restauro, ho pensato che questa adesione la sento ancora molto e mi riconnette con una parte profonda di me che appartiene fondamentalmente a uno sguardo di adesione al reale, anche nella trasfigurazione fantastica. Turi e Teresa, entrambi personaggi inventati, attingono a sentimenti, sguardi, desideri che, in parte, erano anche i miei, i miei di bambina nell’isola di Favignana dove io trascorrevo le estati. Allo stesso tempo erano anche tanto universali, in quanto possono essere considerati i desideri delle bambine e dei ragazzi di ogni tempo e luogo. Direi, quindi, che negli anni del mio esordio ero molto attenta a raccontare il mondo dei bambini e degli adolescenti e, se nei documentari precedenti c’era stata la volontà di indagare dei mondi – il mondo dei bambini di strada di Palermo, dei ragazzi adottati – cosa che ho fatto anche dopo con il documentario sui minori stranieri non accompagnati, Il mondo addosso, ne L’isola invece c’è proprio un’adesione totale.

Quanto c’è di autobiografico nel racconto de L’isola?
Di autobiografico c’è tutto e non c’è niente. La trama non ha nulla di autobiografico, ma i sentimenti di Teresa e la relazione che Teresa ha con questa isola, che è una relazione di grande libertà, sicuramente corrisponde a un sentimento che io, da donna adulta, riconosco essere stato il sentimento di me bambina quando passavo le estati nella mia isola del cuore. È l’infanzia. In qualche modo è come se il film fosse la trasposizione magica di un ricordo. È come se, attraverso questo film, avessi costruito all’età di 28, 29 anni – quando ho girato L’isola – un ricordo sentimentale, a misura mia.

Il racconto, quindi, di risonanze interne, di rielaborazione di memorie antiche…
Di una memoria antica che, però, è in realtà condivisibile da tutte e da tutti, perché tutti noi siamo stati ‘l’isola’. ‘L’isola’ ci riguarda, in qualche modo. È un’isola interiore quella che ci portiamo dietro e che ci portiamo dentro.

Questa universalità delle immagini, che emerge e colpisce molto nel tuo film, è quello che caratterizza il cinema d’autore, un cinema senza tempo, attualissimo anche a distanza di anni, proprio perché rappresenta, prima ancora dei fatti, le dinamiche interne dei personaggi.Quanto è significativo per te, nella composizione delle immagini, il rapporto tra il personaggio e lo sfondo, tra il personaggio e l’ambiente?
Il rapporto tra personaggio e ambiente è un rapporto molto importante in termini di narrazione, perché gli ambienti raccontano i personaggi e i personaggi sono inclusi dentro l’ambiente che li contiene. È l’ambiente stesso a risuonare dentro di loro. I personaggi non possono che essere il frutto dell’interazione con l’ambiente, e della loro appartenenza all’ambiente. Teresa, con la sua indole, col suo puntiglio, con il suo desiderio di essere parte del mistero della vita (pensiamo alla nascita del vitellino o alla preghiera al nonno in fondo al mare), non può non essere legata alla natura stessa dell’isola.
Nelle immagini dell’ambiente più ariose che ho costruito con la macchina da presa, le proporzioni sono abbastanza chiare: Teresa è un puntino, i personaggi in mezzo al mare sono dei puntini. Quindi c’è il senso di un cosmo, di qualcosa di molto più grande e misterioso che li contiene.

Mi viene in mente la scena del crollo del muro, che ratifica la necessità di un altro modo di vedere, oltre l’ostacolo, appunto.
In qualche modo, anche il crollo del muro è connaturato al muro stesso. È come se quel muro non fosse che destinato a crollare. Io non lo sento come un ostacolo, lo sento piuttosto come un’occasione.

Molto bella è l’immagine, evocata dalle parole di Teresa, di questo incontro tra ‘isola’ e’ ‘rusasi’: è come se l’incontro tra le reti utilizzate dai pescatori per formare le pareti che dal fondo del mare affiorano a pelo d’acqua, e i contrappesi di tufo, richiamasse un altro tipo di incontro. Quindi ti chiedo: qual è, per te, oggi, un incontro auspicabile nel cinema italiano? E quali le tematiche più urgenti?
Se mi parli dei blocchi di tufo, cioè dei ‘rusasi’, e del mare, io ti dico che quella per noi è un’immagine molto potente perché significa, in qualche modo, una riconciliazione tra la pietra e l’acqua: quando il tufo è nel fondo del mare torna ad essere l’elemento che sta lì dalla notte dei tempi, quindi ha a che vedere con l’imperitura natura dell’isola.
Quello che io penso sia auspicabile nel nostro cinema, a livello di incontro, è quello tra i bisogni reali di ciascuno e di ciascuna di noi e la rappresentazione di questi bisogni. Penso che il grande exploit del film di Paola Cortellesi ci dimostra, non solo il talento straordinario di questa donna che è stata capace di fare un grande racconto mettendosi nei panni di un grande personaggio e anche sapendolo dirigere molto bene, sapendo fare un bel film. Ma ci dimostra anche che c’era un deficit di narrazione. Allora, perché venga colmato il vuoto di narrazione c’è bisogno di più libertà, c’è bisogno di osare nei racconti. Che riguardano i bisogni degli esseri umani, anche quello di riconoscersi in ciò che vedono.

E da parte di noi spettatori e spettatrici c’è stata una risposta sorprendente al film di Cortellesi, C’è ancora domani. Che ne pensi?
Gli spettatori e le spettatrici hanno risposto in modo così caloroso perché hanno sentito che quel film toccava delle corde a loro care. Ecco, quindi l’incontro riguarda, a mio parere, la capacità del nostro di cinema di cogliere i bisogni degli esseri umani, il bisogno che gli esseri umani hanno di sentirsi radicati in un mondo comune, di non essere soli al mondo. Perché se noi facciamo sentire gli esseri umani soli al mondo, sempre un passo indietro rispetto alla rappresentazione del mondo, allontaniamo, non avviciniamo. Se, invece, il cinema ci racconta di noi, di chi siamo noi, allora ci avvicina.

Secondo te quanto lo sguardo femminile riesce ad intercettare meglio determinati bisogni?
Piuttosto credo che lo sguardo femminile, proprio perché è stato troppo relegato a essere uno sguardo non ufficiale, non legittimato, ha per sua natura quell’entusiasmo della novità. Ma il problema è sempre lo stesso: dove ci sono i soldi non ci sono le donne. È ora che più donne gestiscano budget importanti perché non bisogna cadere nella trappola del film realizzato da mano femminile che racconta qualcosa di intimo o in modo intimistico. Non è così che se ne esce.

Quest’ultima edizione della Festa del cinema di Roma ha dato molto risalto al talento femminile: penso, oltre alla proiezione del tuo film nella versione restaurata ad Alice nella città, a C’è ancora domani di Paola Cortellesi, che hai citato, e a Tante facce nella memoria di Francesca Comencini. Come se si fosse manifestata l’urgenza, in questo preciso momento storico, di affrontare, attraverso uno specifico sguardo, tematiche profondamente umane, oltre che storiche e sociali. Sbaglio?
Diciamo che per troppo tempo anche la grande letteratura è stata considerata la letteratura al femminile. Quello che noi dobbiamo evitare è che il cinema fatto dalle donne diventi il cinema delle donne, il cinema al femminile. Però dobbiamo essere anche noi donne, in qualche modo, a rifiutare questa etichetta. Ma non è facile, perché nel momento in cui senti che hai voce e che la tua voce può essere ascoltata in questa bolla del cinema al femminile, non sempre è facile avere la forza di dire: ‘No! Guardate che io non voglio stare dentro quest’etichetta qua!’ Perché a volte è più urgente dire le cose piuttosto che spendere fiato per questi discorsi che sono duri a morire.

Cinema di finzione e cinema di realtà: in entrambi, è evidente il tuo processo di scavo costante e necessario, sia rispetto al racconto sia rispetto alla composizione delle immagini. Che rapporto c’è tra cinema di finzione e cinema di realtà? Penso, ad esempio, al tuo film Con il fiato sospeso.
È un rapporto innanzitutto di interscambio, non posso pensare il cinema se non in un modo che, da qualche parte, riguarda il mondo in cui viviamo. Quindi, anche il film più straordinariamente fantastico, più straordinariamente d’avventura o addirittura di fantascienza, non può non relazionarsi alle cose umane. Per me questo è dirimente. Poi, personalmente, il cinema di finzione che finora ho realizzato si è nutrito in qualche modo di uno sguardo sul reale. Però senza steccati, senza confini netti tra cinema di finzione o documentario.

Qualunque sia la modalità di racconto, l’artista deve quindi mantenere saldo il legame, il dialogo, con la realtà, anche rielaborandola in termini di rappresentazione. A riguardo, mi viene in mente il film di Ocelot, Dilili a Parigi, nel quale il regista affronta il tema fondamentale della negazione dell’identità umana della donna, e lo racconta mediante la sparizione del corpo di queste giovani donne e bambine che scompaiono misteriosamente. È un racconto di fantasia calato assolutamente nella realtà, nel presente. Perché questa scelta?
Sì, perché la realtà si può raccontare in miliardi di modi diversi. Raccontare la realtà non significa essere passivi nei confronti della realtà. Raccontare la realtà significa, al contrario, costruire mondi che possono proporre visioni del mondo, una visione del mondo. E la visione del mondo la proponi se tu sei capace di interpretare il mondo in cui sei. Attenzione a non scambiare ‘visione del mondo’ per dottrina. Mi riferisco a qualcosa di molto meno palpabile che riguarda chi sei. Se sei mite o abitato dal mito della forza, se hai una connessione con una dimensione spirituale o no, se pensi il bene o no, e così via. Perché il momento in cui guardi attraverso la macchina da presa, è in quel momento che tu definisci lo spazio del mondo che vivi.

Le musiche hanno sempre un ruolo fondamentale nei tuoi film, sia a livello evocativo che drammaturgico. Penso alla suggestiva e poetica colonna sonora de L’isola, composta da Paolo Fresu e anche al brano 87 ore dei 99 Posse nel film 87 ore – Gli ultimi giorni di Francesco Mastrogiovanni. Come le immagini le musiche e perché le affidi a quel compositore in particolare?
Da quando ho cominciato a fare cinema, quando faccio un film penso alle musiche prima ancora di realizzarlo, prima di mettere le mani in pasta. Mi piace immaginare il mondo musicale che può accompagnare il mio film perché sento che la musica è parte integrante della narrazione, ma anche per il sapore, per il tono. Ho avuto la fortuna di lavorare con grandi musicisti. Ho cominciato con Paolo Fresu, ho lavorato con Paolo Buonvino, con Teho Teardo, con Luca D’Alberto, ma anche con Marco Messina, con Vladimir Denissenkov… Quando decido di parlare con un musicista del film che devo fare, io cerco, nella relazione col musicista, un rapporto di complicità, di scambio e di crescita comune. Quello che mi piace e che, nella mia esperienza, ho avuto la fortuna di sperimentare, è di poter essere, in questo dialogo, sempre molto presente. Questa combinazione degli atti creativi, di dialogo tra la creazione della musica e la macchina da presa porta al risultato che c’è nel film. Non è mai accaduto che io lavorassi alle musiche di un mio film dopo aver fatto il film, a film finito.

Qual è l’autore, l’autrice che senti più vicino?
Faccio sempre fatica a rispondere a questa domanda perché amo talmente tanto il cinema e talmente tanto i generi di cinema, tutti diversi fra loro, che per me è molto difficile fare una graduatoria di film preferiti, o di autori e di autrici preferiti. Nel momento in cui ne dico uno me ne vengono in mente tanti altri. È come se dovessi scegliere se respirare con un polmone o con un altro.
Così come se tu mi avessi chiesto qual è il mio cinema, io farei molta fatica a rispondere, proprio per questo diffido dagli autori che dicono «Il mio cinema», che sanno definire perfettamente qual è il loro cinema perché, secondo me, il cinema è un modo di vivere, e quindi cristallizzare il modo di fare cinema, definendolo per ora e per sempre, per me è un limite.