Home Blog Pagina 161

La legge sintetica del cognato Lollobrigida

Quando accade una bocciatura ampiamente prevista come quella della legge omeopatica sulla carne coltivata – volgarmente detta sintetica per favorirne la mortificazione – da parte dell’Unione europea si consolida la consapevolezza che non ci sia niente di più stupidamente costoso di un governo o di qualche ministro che utilizza la macchina legislativa dello Stato per propaganda.

Il disegno di legge fortemente voluto dal ministro all’Agricoltura nonché cognato Francesco Lollobrigida ha goduto di una velocità d’approvazione che ha inevitabilmente ostruito la strada a leggi più utili anche se meno altisonanti. Lollobrigida di fronte ai giornalisti si era anche vantato dell’Italia come primo Paese europeo a legiferare sul tema, senza essere colto dal dubbio che primeggiare nella foga non sia un’abilità da statisti. Luciano Capone su Il Foglio scrive che con una stringata nota, il 29 gennaio la Commissione europea ha informato il governo di aver archiviato in anticipo la notifica sulla legge che vieta la “carne sintetica” perché “il testo è stato adottato dallo stato membro prima della fine del periodo di sospensione” previsto dalle direttive europee. La Commissione invita pertanto l’Italia “a informarla del seguito dato, anche alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia”.

La legge quindi non è applicabile perché notificata dopo l’approvazione. Un distillato tutto naturale di incompetenza e furore ideologico sia nei modi che nei contenuti. Il ministro Lollobrigida l’ha rivendicata da subito come enorme vittoria personale, grande almeno quanto il piacere che avrebbe voluto fare a Coldiretti. Che sia una figura enorme non c’è dubbio ma di sintetica per ora c’è solo la legge.

Buon venerdì. 

Kapoor oltre lo specchio. Ultimo weekend

Un'opera di Anish Kapoor in mostra a Firenze

Restano pochi giorni per vedere la mostra di Anish Kapoor a Firenze. Per chi non l’avesse ancora vista la consigliamo fra le migliori mostre dell’anno, Untrue Unreal, aperta a Palazzo Strozzi a Firenze fino al 4 febbraio 2024. La retrospettiva ripercorre tutte le più importanti tappe della ricerca dell’artista anglo-indiano. E al contempo apre alle prospettive future della sua ricerca che hanno a che fare con una interrogazione radicale sul rapporto fra reale e irreale, fra segno concreto e immaginazione, fra razionalità e pensiero non cosciente, fra femminile e maschile.
La visita della mostra è un cammino esplorativo, un viaggio interiore stimolato dal dialogo con il suo quarantennale lavoro, da cui si esce con un respiro diverso da quello che avevamo quando abbiamo varcato la soglia della mostra. Questa almeno è stata la nostra esperienza. Fin dall’ingresso dove si viene risucchiati in un monolite bianco, l’opera site specific Void Pavillon, costruita al centro del cortile rinascimentale.

Da subito siamo spinti a spogliarci dei nostri abiti razionali per immergerci in uno spazio di accecante nitore sulle cui pareti si aprono ferite nere, che a tutta prima ci appaiono piatte, cicatrizzate, ma che poi ci attraggono verso inaspettate e vive profondità.

Così già prima di cominciare il percorso, Kapoor, deus ex machina della mostra (curata con il direttore della Fondazione Strozzi Arturo Galansino) costringe a liberarsi di ogni residuo di visione piatta e bidimensionale, accendendo la nostra sensibilità, aprendoci all’incertezza. A cui contribuiscono anche gli irti scalini sdrucciolevoli, in pietra serena che ci conducono alla prima sala. Tantissime volte e per innumerevoli altre mostre li avevamo saliti, non sempre agilmente, ma mai avevamo avvertito questo senso di spiccata vertigine. Il genio creativo di Kapoor sta anche in questo, nell’aver ingaggiato un rapporto dialettico con l’elegante architettura classica di Palazzo Strozzi aprendola a visioni inedite, a un flusso creativo di incessante trasformazione. Alchemicamente Kapoor contamina la razionale simmetria delle sale rinascimentali, decostruendone la scatola prospettica, schiudendola a spazi imprevisti di immaginazione, a una quarta dimensione.

Kapoor, Endless column (1992)

Ma si potrebbe dire anche che alcune sue opere storiche, qui esposte e ricreate ad hoc, come Endless Column (colonna infinita, 1992, omaggio a Brancusi) o la serie blu oltremare Angel assumano nuovi significati. «Sono interessato agli effetti che i luoghi hanno sulle opere», ha dichiarato del resto lo stesso Kapoor in passato.
E qui, per esempio, le sue opere in cera intrecciano un dialogo inedito con le opere in cera della tradizione fiorentina, come scrivono Francesca Borgo e altri esperti del Rinascimento nel catalogo Marsilio Arte che accompagna la mostra. Ma è anche interessante esplorare il suo modo di usare i pigmenti alla luce della tradizione rinascimentale fiorentina ricostruita nel catalogo da Rachel Boyd.
Sui media perlopiù Kapoor. Untrue Unreal è stata raccontata come una indagine sul mondo virtuale, – verità e finzione -, e sull’influenza crescente che tutto questo, attraverso il web e l’intelligenza artificiale, ha sulle nostre vite. Una lettura che, a mio avviso, anestetizza il senso più profondo di questa mostra che va ben oltre queste ovvietà di cronaca. Dietro c’è molto di più. C’è il lavoro di una intera vita, quella di Kapoor, che muovendosi liberamente fra Oriente e Occidente, ha cercato di dare rappresentazione a immagini profonde, universali, che ci accomunano tutti in quanto esseri umani.
Oseremmo quasi dire che alcune sue opere come To reflect on intimate part of the red (1981) tentino di andare alla ricerca dell’immagine della nascita come solo colore, prima della comparsa della linea. Il rosso Kapoor è un rosso profondo, vivo, denso, vibrante. È un rosso sfuso come albore interiore, come prima di lui cercava di rappresentare Rothko, ma qui senza quel di evanescente e di vagamente astratto-metafisico che si avverte davanti a certe opere del pur immenso maestro lettone (a cui La Fondazione Vuitton di Parigi dedica una importante retrospettiva fino al 2 aprile 2024).

Il rosso nelle opere di Kapoor è un rosso sangue che assume una densità fisica, carnale, qui e ora, dà rappresentazione a qualcosa che si sente a pelle ma che è difficile da dire: qualcosa che ha che fare con una dimensione di vitalità interiore. Una vitalità che si addensa in opere come Svayambhu (2007) – in sanscrito “nato da sé” – che, ad incipit della mostra, generosamente sgorga dalla cornice di una porta e cola contaminando la realtà con scaglie di cera colorata che cadono a terra man mano che la cubo scultura rossa si muove anche se quasi impercettibilmente lungo binari. È una installazione – scultura che ci parla dello scorrere inesorabile del tempo, della vita umana che ha un inizio e una fine, ma anche di resistenza interiore che si oppone a ogni tentativo di annullamento.
Ci parla del divenire e del rapporto fra visibile e invisibile che lascia traccia ma che non sempre riusciamo a cogliere: «Quando si realizza un oggetto e lo si riveste di pigmento, quest’ultimo cade a terra creando un alone intorno all’oggetto stesso. Possiamo quindi paragonarlo a un iceberg: la maggior parte dell’oggetto è nascosta, invisibile» fa notare l’artista. «Per questo mi sono interessato sempre di più all’oggetto invisibile».

Kapoor, Angel

Attraenti, tattili, all’apparenza friabili, quasi da assaporare, appaiono le forme realizzate con pigmenti rossi e gialli della tradizione indiana, quasi fossero memorie vaghe e antiche dei primi anni di vita dell’artista in India, che tuttavia si ribella sempre a una lettura delle “radici indiane” della sua opera che fonde creativamente esperienze diversissime maturate in Asia, a Londra dove ha a lungo vissuto e in giro per il mondo, quanto più di recente a Venezia dove l’artista è approdato da un anno e mezzo.
Con queste primigenie forme gialle, rosse, verdi, che sbriciolano attorno Kapoor – azzardiamo – pare ricreare memorie personali antiche, immagini che ci trasmettono un senso di solare fiducia, certezza, che da qualche parte esista un seno e un altro essere umano capace di amare.

Ma poi tracciando una drammatica linea nera Kapoor dà rappresentazione anche alla dura e necessaria separazione, per definire se stessi, per poter disegnare il proprio volto e riconoscerlo allo specchio che qui si moltiplicano in una serie di sculture specchianti. Il nero con cui Kapoor traccia le proprie linee e crea Non objects multi prospettici è quello assoluto del Vantablack, un materiale altamente innovativo costituito da nanotubi in carbonio capaci di assorbire più del 99,9 per cento della luce visibile, così da rendere invisibili i contorni dell’oggetto. Un materiale ultratecnico che Kapoor usa per dare forma all’immateriale. È un nero vibrante usato per disegnare rettangoli piatti o cerchi che di profilo partoriscono profili imprevisti; un nero che non ha nulla della piattezza razionale. Anzi, è cangiante alla Caravaggio. E, se possibile, ancor più denso e profondo.

Infine eccoci alla luce di sculture specchianti che imprevedibilmente riflettono la nostra immagine capovolta, resa immaginifica con gambe o braccia lunghissime, come quelle che disegnava Cézanne nei suoi ritratti onirici dalle forme allungate. A questa ricerca sull’immagine umana riflessa Kapoor ha dedicato molti anni, realizzando opere iconiche come Cloud Gate (2004) che è diventata l’immagine simbolo di Chicago, esempio altissimo di come una scultura che evoca valori umani universali possa cambiare il contesto urbano in cui è inserito stimolandone una fruizione e una partecipazione collettiva.
Qui si possono vedere Vertigo (2006), Mirror (2018) e Newborn 2019, una sfera liberata della calotta che proietta la nostra immagine in una prospettiva inaspettata. «Se l’arte ha a che fare con qualcosa, è senz’altro la trasformazione», ha detto Kapoor presentando la mostra a Firenze. Ed è vero che ogni sua immagine allude a una possibilità di trasformazione profonda che ci riguarda e ci tocca profondamente come esseri umani.

Anish Kapoor, Svayambhu (2007)

Il patrimonio millenario di Gaza cancellato dalle bombe

In questi terribili mesi di massacri e distruzione ho cercato con ansia, e whatsapp, amiche e amici di Gaza. Ho trovato Nashwa Alramlawi, giovane archeologa e architetta. Adesso, come quasi due milioni di persone, sfollata al sud. L’avevo incontrata più volte a Gaza, dal 2016, mentre dirigeva un cantiere di restauro del Monastero di San Giorgio, a Deir El Balah, che ho poi visto diventare una biblioteca e spazio giochi per bambini.

Nashwa, Fadel e il Monastero di St. Hylarion

Ero spesso a Gaza per seguire lo svolgimento di progetti di Cultura è Libertà con il Conservatorio nazionale di musica Edward Said e mi aveva colpito l’amore dei suoi abitanti per la musica, per l’arte, per la cultura. Ero sorpresa da ragazzi che improvvisavano un concerto sulle macerie del grande teatro Meshal, distrutto pochi giorni prima da missili israeliani.

Nel 2019 Nashwa mi accompagnò a visitare il grande sito di restauro del monastero di St. Hilarion (Umm El-Amr), del V/VI sec. d.C., in riva al mare, scoperto nel 1997 da Jean-Baptiste Humbert della Scuola biblica e archeologica francese di Gerusalemme, oggi 84 enne. Ricordo la meraviglia dei mosaici, il cui restauro era diretto da un archeologo francese, studenti e studentesse al lavoro. Il direttore dei lavori, Fadel, entusiasta archeologo, diceva che Gaza è piena di siti archeologici, difficili da restaurare, perché servono molti soldi. Ci disse anche che, per il monastero, ci sarebbero voluti ancora due anni di lavoro, aggiungendo «… con la speranza che Israele non ci faccia cadere qualche bomba». Ma le bombe sono cadute anche lì, al momento con danni non gravissimi; il monastero è stato inserito nella lista dei siti Unesco da proteggere.
Il 23 gennaio 2024 in un incontro online Fadel ha detto: «Avrei bisogno di giorni per parlare di tutta la distruzione dei siti archeologici a cui stiamo assistendo. Stiamo documentando ogni forma di attacco su questi siti». «L’archeologia di Gaza è una testimonianza della tolleranza religiosa e della cultura umana condivisa. Non ho pianto tanto per la distruzione della mia casa quanto per la completa distruzione della Città Vecchia di Gaza».

Le parole di Nashwa e Fadel mi hanno spinto a cercare informazioni sulla sorte del patrimonio culturale di Gaza. Qualche articolo, un rapporto del dr. Ahmed Al-Barsh per due Ong e uno del Ministero della Cultura palestinese fanno luce su questo aspetto della enorme sofferenza inflitta da Israele alla popolazione di Gaza: la perdita del patrimonio culturale, parte del “memoricidio” denunciato dal coraggioso storico israeliano Ilan Pappè (La pulizia etnica della Palestina, Fazi Ed.).

Il patrimonio culturale rappresenta infatti una componente essenziale dell’identità del Popolo palestinese, la sua conservazione è parte della sua resistenza. I numerosi siti archeologici ed edifici antichi sono testimonianze delle culture, costumi e tradizioni delle popolazioni che hanno abitato questa regione nel corso dei secoli.

I 9 maggiori siti archeologici da: Il giornale dell’Arte, Francesco Bandarin 11 dicembre 2023

Una storia antica

La Striscia di Gaza ha una posizione geografica strategica, come porta di collegamento tra Asia, Africa, Europa, che l’ha resa nei secoli attraente e appetibile, con una fiorente città delle spezie.
Secondo le Lettere di Tell el-Amarna risalenti al 1402-1347 a.C., era chiamata “Gazatu” e “Gazata”, una delle tre principali regioni di Canaan. Quando lo stato faraonico iniziò a declinare verso la fine del XII secolo a.C., arrivò il popolo palestinese. Gaza era una delle loro città chiave e alla fine si fusero con la popolazione indigena araba cananea. Gaza, che significa “forza”, fu chiamata così dagli Assiri, arrivati con il re Tiglat-Pileser III nel 734 a.C, che la fortificò. Poi venne Nabucodonosor con i Babilonesi e nel 529 a.C. resistette sotto la guida del persiano “Cambyz”. Nel 332 a.C. fu assediata da Alessandro Magno per due mesi, guadagnandosi il titolo di “Città dei Profumi”
La diffusione del cristianesimo a Gaza City durante il V secolo d.C. fu attribuita a un religioso denominato “Perfereus”. Monasteri e chiese proliferarono diffusamente. Nel febbraio del 634 d.C., la città di Gaza fu conquistata dal capo arabo musulmano Amr ibn al-As e vi vennero fondate moschee. Gaza raggiunse il suo apice durante l’era mamelucca. Nel 1516, i turchi ottomani presero il controllo della città, dove fondarono moschee, scuole, mercati, palazzi. Tra il 1916 e il 1917, – nel corso dello scontro tra gli alleati guidati dagli inglesi e le truppe ottomane – venne quasi completamente distrutta, ma ricostruita negli anni successivi.

La sua storia millenaria ha lasciato i segni di tante civiltà: dei Cananei, Egizi, Filistei, Assiri, Greci, Asmonei, Romani, Bizantini, Arabi, Fatimidi, Crociati, Ayubbidi, Mamelucchi, Crociati, Ottomani, fino agli inglesi (1920-48).
Dopo la fondazione dello Stato di Israele, nel 1948, Gaza passò all’Egitto, e venne occupata da Israele nel 1967. In quei decenni accolse decine di migliaia di profughi palestinesi costretti a lasciare le proprie case a causa della Nakba (catastrofe), poi della Naksa (ricaduta). Con l’espansione degli insediamenti il patrimonio culturale subì molte distruzioni.

Il patrimonio architettonico

Il patrimonio architettonico totale nel Governatorato di Gaza ammonta a 195 siti, il 60% del patrimonio architettonico complessivo della Striscia di Gaza.
Le dimore storiche ne rappresentano oltre la metà. Seguono colline e siti archeologici (39 colline), 21 moschee e luoghi di preghiera, 13 santuari e zawiya, 22 edifici di valore, 9 cimiteri, monasteri e 5 chiese, 5 palazzi, 4 mercati, 2 khan e 2 asbat, 1 fontana e 1 hammam, Al Samra.

Sono stati distrutti completamente, la Chiesa Bizantina a Jabaliya e la ortodossa Chiesa di San Porfirio, la terza chiesa più antica del mondo e uno dei più antichi monumenti archeologici cristiani, 407 d.C., nel bombardamento sono stati uccisi 18 fedeli; la moschea di Omari (Jabaliya); Sheikh Shaaban Mosque; Al-Zafar Dmari Mosque (Shuja’iya); Maqam Khaleel Al-Rahman (Abasan); il Centro per Manoscritti e documenti antichi; Anthedon, antico porto ellenistico. Sono stati danneggiati: Monastero St. Hilarion; Cimitero inglese; Moschea di Omar a Gaza, con minareto distrutto; Pasha Palace esempio unico di antichi palazzi; Al-Zawya Mercato storico centenario e l’hammam di Al Samra, il più antico e unico rimasto a Gaza.

Il patrimonio umano

La comunità artistica di Gaza costituiva un elemento vitale della società palestinese e della sua resilienza; oggi lottano per sopravvivere. Dobbiamo al Rapporto del Ministero della Cultura Palestinese le informazioni su questa distruzione
Tra le 26mila vittime della ferocia genocidaria di Israele (v. il procedimento aperto all’Aja), ci sono 41 scrittori, artisti, musicisti, donne e uomini di tutte le età. Dalle bambine di 8 anni come Sham Abu Ubaid e Leila Abdel Fattah Al-Atresh del Champions Palestinian Folk Dance Group agli anziani come Ilham Farah (84 anni) insegnante di musica, Abdul Karim Hashash, 76 anni scrittore custode del patrimonio culturale e collezionista di libri rari; Mustafa Hassani Mahmoud Al-Sawaf (68 anni), scrittore e giornalista; Salim Mustafa Al-Naffar, poeta anni 60. E tanti giovani: Lubna Aliyan giovanissima suonatrice di oud al Conservatorio Edward Said; Marwan Tarazi fotografo e storico; Tala Mohamed Balousha (17 anni) componente del gruppo Asayel Watan Folk Dance; Heba Ghazi Zaqqout artista visiva 39 anni; Heba Abu Nada scrittrice e poeta 24 anni; Omar Abu Shaweesh poeta (36 anni); Enas Mohammed Al-Saqa (53 anni) pioniera del teatro a Gaza; Yusuf Dawas artista e chitarrista “We Are Not Numbers”; Nesma Abu Sha’ira (36 anni) artista visiva; Iman Khalid Abu Saeed, lavoro culturale con bambini raccolta e pulitura di conchiglie e creazione di oggetti decorativi per case; Muhannad Amin Al-Agha (30 anni) calligrafo; Mohammed Al-Salik artista di teatro…

E non possiamo non ricordare l’eccidio di 122 giornalisti/e, unica coraggiosa fonte di informazione sul campo, avendo Israele vietato l’accesso alla stampa internazionale. Alcuni di loro hanno documentato tragicamente i loro ultimi momenti e le terribili esperienze vissute sotto i bombardamenti. Inoltre, gli attacchi aerei hanno portato alla distruzione di numerose istituzioni di media, tra cui la Mashareq Gaza Media Foundation, la sede del canale Al-Mayadeen e la Torre Al-Jalaa, che ospitava gli uffici di Al-Jazeera e dell’Associated Press (AP).

Testimoni dell’amore per la cultura

L’amore per l’arte e la cultura della popolazione di Gaza, è testimoniata dalla partecipazione annuale di circa 220mila persone in 76 centri registrati, 3 teatri, 80 biblioteche pubbliche; 15 librerie, case editrici, di distribuzione. Avevo visitato nel 2018 la sorprendente biblioteca Edward Said, creata dall’allora 24enne Mozab Abu Toha e alimentata da libri inviati da tutto il mondo. Mozab è riuscito fortunosamente, dopo essere stato sequestrato dall’esercito israeliano, ad uscire da Gaza. Della sua biblioteca non si conosce la sorte, come incerta è quella del Centro di scambio culturale italia-Palestina Vittorio Arrigoni.

Si sa invece che sono stati totalmente o parzialmente distrutti 24 centri culturali, 5 grandi biblioteche pubbliche, 11 musei, librerie, case editrici, monumenti storici, murales artistici, alcuni maqamat (santuari).

Qualche esempio: il Villaggio delle arti e artigianato, istituito nel 1998 e gestito dal Comune di Gaza, con stanze per il ricamo, la lavorazione del legno, antiche opere in rame. L’esercito israeliano ne ha utilizzato le strutture durante la sua invasione. L’ Arab Orthodox Cultural and Social Center; Rashad Al-Shawwa Cultural Center completamente distrutto; l’Unione generale dei centri di beni culturali, fondata nel 1997: 67 istituzioni culturali affiliate e più di 120 organizzazioni partner.
Il Centro per la cultura e le arti di Gaza, noto per il Red Carpet Film Festival; la Fondazione “Nawa” per la Cultura e Arti. Enorme perdita quella degli Archivi centrali nell’edificio storico del Comune di Gaza, bombardato. Contenevano documenti di oltre un secolo, memoria politica, economica, sociale e culturale della città; il Conservatorio nazionale musicale Edward Said, bombardato.

Il Conservatorio bombardato

 

Neanche le scuole e le Università sono state risparmiate: Al-Azhar; l’Università Islamica, di cui è stato ucciso il rettore Dr. Soufyan Tayeh con la sua famiglia; l’amato prof. Rafat Al-Ara’eer, scrittore poeta professore di letteratura inglese, uno dei fondatori di “We Are Not Numbers”; l’ Università Al-Aqsa e Al- Quds Open University.

Ed è solo di pochi giorni fa il raid di militari israeliani nel deposito archeologico di Gaza, supervisionato dalla Scuola francese di archeologia, condannato dal Ministero del Turismo e dell’Archeologia. «Contiene migliaia di importanti reperti rinvenuti durante gli scavi archeologici negli ultimi anni, che rappresentano una parte importante della storia di Gaza e Palestina in generale. L’assalto al deposito archeologico di Gaza da parte dell’occupazione israeliana è una grave violazione del patrimonio palestinese, viola le convenzioni internazionali come la quarta convenzione di Ginevra del 1949, la convenzione dell’Aia del 1954 sulla protezione dei beni culturali nell’evento del conflitto armato e i suoi protocolli (1954 e 1999), e la Convenzione del 1970 sulle misure da adottare per vietare e prevenire l’importazione, l’esportazione e il trasporto di proprietà illegali di beni culturali, e la Dichiarazione mondiale dell’Unesco del 2001 sulla protezione della diversità culturale».
Il ministero ha chiesto a tutte le istituzioni e organizzazioni internazionali guidate dall’Unesco di intervenire immediatamente per fermare l’aggressione e proteggere il patrimonio nazionale palestinese, che fa parte del patrimonio dell’umanità, affermando che questi atti sono un crimine di guerra secondo gli accordi internazionali.
La dichiarazione del Ministero ha confermato che centinaia di siti e monumenti sono stati distrutti durante l’aggressione, indicando che l’occupazione è un metodo passato per distruggere il patrimonio palestinese, «considerato testimone del diritto del nostro popolo a questa terra, che fa parte dell’identità culturale del popolo palestinese».

Le “selvagge” distruzioni dei Talebani in Afghanistan, i Buddha di Bamyan, e quelle di Daesh in Siria, Palmira, sono state esecrate dal mondo “civile” e hanno avuto l’attenzione delle Istituzioni preposte. Qualcuno denuncia le distruzioni di Israele in Gaza e ha a cuore il suo patrimonio culturale?

Silenzio per Gaza

 Non è la città più raffinata, né la più grande, ma equivale alla storia di una nazione.
Perché, agli occhi dei nemici, è la più ripugnante, la più povera, la più disgraziata,
la più feroce di tutti noi.
Perché è la più abile a guastare l’umore e il riposo del nemico ed è il suo incubo.
Perché è arance esplosive, bambini senza infanzia, vecchi senza vecchiaia, donne senza desideri.
Proprio perché è tutte queste cose, lei è la più bella, la più pura, la più ricca, la più degna d’amore tra tutti noi. (Mahmoud Darwish, da Silenzio per Gaza 1973)

———————————————————

Fonti

Report on the Impact of the Recent War in 2023 on the Cultural Heritage in Gaza Strip – Palestine
dr. Ahmed Al Barsh per ONG: heritageforpeace.org con ANSCH – The Arab Network of civil society Organisations for the safeguard of cultural heritage

The Third Preliminary Report on the Cultural Sector’s Damages of Palestine Ministry of Culture
The War on the Gaza Strip October 7, 2023 – January 7, 2024

articoli:

Francesco Bandarin, Il giornale dell’arte 11/12/24; Olivia Snaije, New Lines Mag 25/1/24
Ray Bondin, FB: Gaza an incredible heritage

Nella foto: immagine di un cantiere di restauro a Gaza prima degli attacchi israeliani

Salis e il garantismo di fango di Salvini

Il murales di Laika dedicato a Ilaria Salis

Matteo Salvini ci tiene a farci sapere che esistono cose ben più gravi dell’italiana Ilaria Salis detenuta nelle galere di Orbàn in Ungheria senza tutele giuridiche, senza potersi difendere in un giusto processo e legata come un cane al guinzaglio con catene alle mani e ai polsi. 

Ieri il ministro alle Infrastrutture – sempre pronto a buttarsi nella mischia dalla parte sbagliata – ha estratto dal cilindro una vicenda giudiziaria che ha visto protagonista Ilaria Salis in Italia. Il leader della Lega ci tiene a farci sapere che Salis «è finita a processo» per avere «assaltato il 18 febbraio 2017, a Monza, un gazebo della Lega». «Il fatto che sia a processo anche in Italia per altri episodi di violenza e altre aggressioni sicuramente è spiacevole», dice Salvini. 

Di cosa sta parlando? Di una vicenda per cui non solo Salis è stata assolta ma, addirittura, la giudice Maria Letizia Borlone del Tribunale di Monza nelle motivazioni della sentenza evidenzia che la 39enne ha impedito che le violenze contro il banchetto della Lega proseguissero mettendo il «braccio dietro la schiena ad un giovane che aveva appena buttato a terra la bandiera leghista, come ad invitarlo a proseguire nel corteo».

La sentenza, riporta LaPresse, è datata 1 dicembre 2023 e ha assolto per non aver commesso il fatto la 39enne antifascista e altri tre coimputati, tutti accusati di violenza privata e danneggiamento. Secondo la sentenza, che si basa in particolare sulle immagini fotografiche e video girate il 18 febbraio 2017, nessuno degli imputati avrebbe «partecipato all’azione delittuosa commessa dai compagni di corteo, né pare averli in qualche modo incoraggiati o supportati moralmente».

Ma il fango intanto è sparso. 

Buon giovedì. 

 

In foto il murales di Laika dedicato a Ilaria Salis

Con l’autonomia differenziata sarà la Repubblica dei cacicchi

La cosiddetta “autonomia differenziata” non è una mera operazione di tecnica istituzionale, che travolge la Costituzione perché attiene alla forma/governo e alla forma/Stato.
Essa nasce da un progetto sistemico e strutturale (di cui è protesi): l’intreccio, cioè, tra liberismo e concorrenza tra territori.
La subalternità ideologica, per due decenni e più, del centrosinistra rispetto a questo assunto ha spianato la strada che è approdata, ora, al disegno di legge Calderoli.
Ricordo la “controriforma” del titolo quinto della Costituzione, varata dal governo Amato nel 2001. Erano gli anni in cui Massimo D’Alema considerava, pubblicamente, la Lega Nord una «costola della sinistra». Il punto di forza, a livello popolare, dell’autonomia differenziata si fonda sulla convinzione che ogni devoluzione di potere, dal centro alla periferia, sia di per sé positiva. Sinistre e gran parte del sindacato non hanno fatto da argine, con un punto di vista alternativo. Dalla pessima controriforma del 2001, infatti, all’attuale disegno di legge Calderoli scorrono l’aumento delle diseguaglianze, le privatizzazioni di tutti i servizi. Lo Stato sociale diventa di giorno in giorno più evanescente. Ai diritti uniformi per tutte e tutti si sostituisce lo ius domicilii; i diritti, cioè, sono maggiori o minori, più o meno esigibili, a seconda della regione in cui hai avuto la fortuna o la sfortuna di nascere o di risiedere. Sono più di trenta anni, da quando la Lega Nord (di Miglio e di Bossi) cominciò ad agitare il tema delle secessioni che, al di là del folclore (le fonti del Po, Pontida, ecc.) dietro si muovono forze economico/sociali, segmenti della borghesia che hanno saldi interessi nel perseguire una differenziazione nella gestione della Repubblica.

Condivido molto le osservazioni di Franco Russo. Il sistema del capitale, in particolare l’Ue, va analizzato non più secondo dimensioni nazionali bensì per “unità regionali”.
Nella Ue l’industria tedesca è al centro di un sistema che estende le sue catene produttive a Nord, verso l’Olanda e la Polonia, a Est verso la Repubblica Ceca, l’Ungheria e la Romania, a Sud proprio verso Lombardia, Veneto, Emilia. Le tre regioni italiane sono tra le prime dieci in Europa per livello di valore aggiunto industriale. La Lombardia è, di fatto, la prima regione industriale dell’Ue. L’autonomia differenziata è voluta con forza da queste regioni che non sopportano il fardello del resto d’Italia che ritengono sia insopportabile nella gara, aspra, per la competitività globale. Il “grande Nord”, come lo chiama il professor Giannola, è la sede di imprese che fanno parte delle catene del valore sovranazionali. Il tema è evidente: gli imprenditori del triangolo industriale hanno bisogno di procedere ad ulteriori forme di integrazione sovranazionale e per questo spingono, per liberarsi di “lacci e lacciuoli”. La parte, ovviamente, meno integrata e più marginale è il Sud. Il quale assurge, quindi, a metafora; che chiama al rovesciamento di campo. La “questione euromediterranea” si pone con determinazione all’interno di una Europa che ha smarrito ogni identità.

L’Europa appare del tutto succube di un feroce bipolarismo bellicista, sia sul terreno geopolitico che geoeconomico. L’affermarsi, contro l’autonomia differenziata, dell’idea della “regione euromediterranea” può essere, controcorrente, una leva per indicare una visione policentrica. Il Mediterraneo come laboratorio di convivenze può diventare una base materiale per ripensare l’Europa. Contro le attuali forme dominanti di “nuove colonizzazioni”, l’Europa del Sud può assumere la funzione di cerniera, il centro di importanti cooperazioni interregionali. La crescita di mercati regionali in alcune delle aree più popolate e tormentate è la risposta all’Europa escludente del regionalismo razzista, alle nuove aggressioni imperialiste, alle destabilizzazioni politiche. Non possiamo accettare la funzione, che i capitali vogliono affidare al Sud, di un mero hub energetico, di una piattaforma di transito verso le macro-regioni mitteleuropee di risorse energetiche africane e mediorientali (sempre più carbone, gas, petrolio). In questo contesto i tanto sbandierati Lep (Livelli essenziali di prestazioni) sono una truffa, fumo negli occhi per un effimero consenso. Tanto più in assenza di risorse per finanziare il fondo perequativo.

I Lep, che devono essere “uniformi”, sono la negazione dei principi di solidarietà (art. 2 Cost.) e di eguaglianza sostanziale (art. 3). Contro questa cortina di fumo dovremo lanciare una mobilitazione unitaria che unisca Nord e Sud. Potremo, infatti accettare la parificazione al ribasso di tutti i diritti? Un’eguaglianza presunta tra “diversi”? Marx parlava, non a caso, di “diritto diseguale”.
Temo un Paese con meno democrazia e con fortissime concentrazioni di poteri nelle mani di un capitale predatorio: un disastroso consesso di “cacicchi”, privo di qualsiasi programmazione democratica, con politiche pubbliche completamente privatizzate, che lasciano allo Stato frammenti di competenze (salva, ovviamente, la gestione dei poteri militari e di polizia, che sarà accentrata nelle mani del governo nazionale).

(Estratto dell’articolo di Giovanni Russo Spena dal libro di Left Repubblica una indivisibile euromediterranea, qui)

L’appuntamento, 3 febbraio 2024, Napoli, Palazzo Serra di Cassano

Nella foto: L’Italia all’asta di Luciano Fabro, frame del video MAXXI, 28 gennaio 2021

Affettività in carcere, un diritto finalmente riconosciuto anche in Italia

Soprattutto di questi tempi non si fa altro che magnificare l’importanza della famiglia. E anche quando si parla di carcere, i pochi che si ricordano che per evitare la recidiva sono inutili le pene esemplari e sono invece fondamentali i percorsi di reinserimento sociale, anche in questo contesto sottolineano la centralità del ruolo della famiglia.
E la cosa è comprensibile e sensata. Uscita dal carcere una persona ha ovviamente anzitutto bisogno di un tetto sulla testa, di pasti caldi, e chi può garantirgli tutto questo, almeno in un primo momento, meglio che la propria famiglia? Certo, non tutte le persone che entrano in carcere un famiglia ce l’hanno. Per molti è troppo lontana, o si è sfaldata da tempo, ma anche tanti di coloro che, quando entrano in carcere, ancora una famiglia ce l’hanno, quando escono si ritrovano spesso del tutto soli. Perché la detenzione spesso distrugge queste relazioni familiari, facendo sì che chi esce dal carcere sia ancora più povero e solo di quando ci era entrato. Altro che reinserimento sociale.
Mantenere relazioni familiari e affettive durante la detenzione è infatti molto complicato per ragioni che, basta provare ad immedesimarsi un attimo, sono del tutto ovvie. Non ci si vede quasi mai, e quando ci si vede lo si fa in ambienti affollati, rumorosi ed inospitali, e spesso per i familiari l’accesso a questi colloqui è una corsa ad ostacoli. E ci si sente al telefono di rado e per pochi minuti. E in tutto questo l’impossibilità di avere momenti intimi e di relazioni sessuali con il proprio partner chiaramente non aiuta. Il divieto di rapporti sessuali in vigore fino a ieri insomma non si limitava a violare un diritto astratto, a privare le persone detenute (ed i loro partner, che non hanno commesso alcun reato) di una cosa bella, ma contribuiva al loro crescente isolamento e ad un destino di solitudine.
Tutto questo può apparire scontato eppure il legislatore italiano non è mai stato in grado di intervenire su questi temi, consentendo anche in italia i cosiddetti colloqui intimi, presenti invece in quasi tutti i Paesi europei, incluse le cattolicissime Polonia ed Irlanda. Lo ha fatto per fortuna finalmente la Corte costituzionale dichiarando illegittimo l’articolo 18 dell’ordinamento Penitenziario che, in materia di colloqui visivi, imponeva il controllo a vista.
La Corte con una sentenza storica ha ricordato che senza affettività, e quindi sessualità, è lesa la dignità delle persone detenute e si rischia di non rispettare la finalità rieducativa della pena. Una sessualità che la Corte, con una sentenza chiara ed esplicita, apre anche alle coppie di fatto e dunque anche alle coppie omosessuali. Seppur con alcuni limiti la Corte si rivolge all’amministrazione penitenziaria e alla magistratura di sorveglianza per rendere effettivo questo diritto.
Antigone era nel procedimento davanti alla Corte con un proprio atto di intervento, e oggi come Antigone chiediamo all’amministrazione penitenziaria di adottare al più presto le misure necessarie per l’esercizio di questo diritto, e alla magistratura di sorveglianza di farsi garante che questo accada.
Al più presto. E questo non solo per adempiere doverosamente alla sentenza della Corte, ma anche per dare un segnale positivo, ad oggi l’unico che ci si può aspettare, in un momento di grandissima difficoltà del nostro sistema penitenziario. Le carceri sono sempre più piene e i reparti sempre più chiusi, visto che si sta tornando indietro rispetto al regime a celle aperte adottato una decina di anni fa. E i contatti con i familiari sono sempre meno visto che vengono tolte le telefonate straordinarie introdotte durante la pandemia. La tensione cresce ed il clima si fa più cupo, e a questo il governo risponde introducendo il nuovo reato di «Rivolta in istituto penitenziario», che punisce severamente le condotte di «resistenza anche passiva». Insomma, la situazione si fa drammatica e ogni protesta è vietata.
Sono conseguenza anche di questo clima i 13 suicidi già verificatisi dall’inizio dell’anno. Numeri senza precedenti. Gesti di persone disperate che evidentemente non vedevano più alcuna speranza per il proprio futuro. Per alcuni di costoro forse una telefonata in più a casa, una maggiore facilità di contatto con i propri familiari, la possibilità di toccarsi ed amarsi anche dietro le sbarre, avrebbero potuto fare la differenza. Accendere un lumicino di speranza in questa stagione sempre più buia. La Corte Costituzionale ha fatto la sua parte, ora resta alla comunità penitenziaria tutta di fare la propria.

L’autore: Alessio Scandurra è coordinatore dell’Osservatorio nazionale di Antigone sulle condizioni di detenzione insieme a Michele Miravalle

Foto: Banksy art Brighton

La casta che si permette di non sapere

Antonio Tajani ha scoperto solo ieri che nell’Ungheria di Orbàn c’è un’italiana che viene trascinata in catene durante le udienze, sta in un carcere pieno di topi e insetti ed è incarcerata da un anno per un’accusa di cui non ha potuto mai leggere gli atti. Beato lui che può permettersi di fare il ministro disinteressandosi di ciò che accade fuori, beato lui che può permettersi di stare in un governo che balla con il leader ungherese fottendosene di ciò che accade agli italiani in quella terra. «Noi non abbiamo avuto informazioni da parte né della detenuta né dall’ambasciata di trattamenti particolari, non avevamo notizie. Dell’accompagnamento delle manette ai piedi e alle mani l’abbiamo visto ieri, io non lo sapevo, io non ero mai stato informato di questo» dichiara Tajani. E Tajani lo dice come se fosse una responsabilità nostra, dei cittadini che non gli hanno mandato nemmeno un messaggio o un video. 

Il ministro Lollobrigida invece non vuole commentare perché dice di non avere visto le immagini. «Credo che l’ambasciata italiana abbia partecipato ad almeno quattro udienze in cui mia figlia è stata portata in queste condizioni davanti al giudice. Noi fino al 12 ottobre, quando mia figlia ha scritto una lettera, non avevamo evidenza del trattamento che stava subendo nostra figlia. Gli unici che lo sapevano e non hanno detto nulla sono le persone dell’Ambasciata italiana in Ungheria», dice il padre di Ilaria Salis.

Quindi i funzionari italiani non avvisano i ministri e loro intanto si concedono il lusso del disinteresse. La casta non è questione di soldi, la casta è l’impunità con cui ci si può permettere di disinteressarsi. 

Buon mercoledì. 

In foto un frame video dell’apertura del processo a Ilaria Salis in Ungheria

L’ascesa dei Brics e i nuovi equilibri mondiali nell’Atlante delle guerre 2024

Sono dodici edizioni in 15 anni: c’è di che essere soddisfatti. La dodicesima edizione dell’Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo è ormai pronta, stampata e dal 7 febbraio sarà nelle librerie. Per ora, chi vuole, la può comunque comperare on line, anche dal nostro sito www.atlanteguerre.it.
Dicevo, c’è di che essere soddisfatti. Anche in questa edizione, il lavoro della redazione è stato straordinario. E straordinario è stato anche il supporto delle tante organizzazioni che collaborano alla redazione dei testi: Intersos, Unhcr, Amnesty International, CdCa, e Agency for Peacbuilding. Vale, quindi, la pena raccontare quali temi caratterizzano questo XII Atlante.

In piena crisi militare ancora in Ucraina e nuovamente in Palestina e nel Vicino Oriente, nel mezzo di un cambiamento forte nell’Africa sub sahariana, con il nuovo nazionalismo africano che di golpe in golpe conquista la scena, era inevitabile che il focus fosse, in questa edizione, sui nuovi equilibri mondiali. La geografia del potere sta cambiando, i Paesi del Brics sono sempre più impegnati – a dispetto delle loro contraddizioni – a spodestare gli Stati Uniti e i loro alleati, rivoluzionando il commercio mondiale e il controllo dei traffici mercantili.

È uno dei temi che abbiamo voluto approfondire. Non manca, poi, l’analisi sullo stato dell’arte nelle politiche per arrestare il cambiamento climatico e una ipotesi sulla “geografia dei diritti”, come strumento per analizzare quel che accade nel Pianeta. Ci sono, naturalmente, le ormai tradizionali schede Paese – come sempre aggiornate -, le infografiche e i Tentativi di Pace raccontati dai ragazzi del professor Scotto, dell’Università di Firenze.

Infine, c’è il tentativo di tenere alta la guardia e l’attenzione sul pericolo del dopo guerra, con il suo carico di morte che rimane sul terreno sotto forma di ordigni esplosivi. Quest’ultimo tema, che trattiamo grazie al lavoro dell’Osservatorio Centro ricerche sulle vittime civili dei conflitti e al supporto dell’Associazione Nazionale Vittime Civili di Guerra, è fra i più delicati. La guerra va oltre la guerra, non termina con il silenzio delle armi o la pace. Lo confermano i dati sugli effetti delle bombe inesplose nel Mondo.

È, per quanto ci riguarda, un’altra delle ragioni che ci fanno dire no alla guerra. L’Atlante vuole essere uno strumento di conoscenza utile per capire come le guerre possano, sempre, essere fermate. Un’informazione è l’elemento essenziale per riuscirci. Può fornire i dati, tracciare le storie, scoprire cause e motivazioni. Insomma, può dotarci degli strumenti necessari per fare quella “prevenzione alla guerra” indispensabile per migliorare il Mondo. E se c’è chi pensa tutto questo sia utopia, beh: si sbaglia. È solo intelligenza.

L’autore: Raffaele Crocco è giornalista, saggista e direttore responsabile de L’Atlante delle guerre e dei conflitti nel mondo.

La presentazione dell’Atlante si terrà il 31 gennaio alle 10 presso l’Auditorium della Casa Madre dei Mutilati a Piazza Adriana a Roma, in occasione della Giornata Nazionale delle vittime civili delle guerre e dei conflitti del mondo.

I DATI SALIENTI DELLA XII EDIZIONE DELL’ATLANTE DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO

  • Il cambiamento climatico potrebbe spingere oltre 120milioni di persone verso la povertà entro il 2030 e avrà impatti più gravi nei Paesi, nelle regioni e nei luoghi in cui i poveri vivono e lavorano.
  • 240 i miliardi di dollari spesi per le armi dall’umanità nel 2022. L’Europa, non a caso, con un +13% è quella che ha aumentato di gran lunga i propri investimenti in armi
  • La spesa militare degli Usa ha raggiunto gli 877miliardi di dollari nel 2022. È, di fatto, il 39% dell’intera spesa militare mondiale
  • Pechino è al secondo posto. Ha stanziato circa 292miliardi di dollari nel 2022, il 4,2% in più rispetto al 2021 e il 63% in più rispetto al 2011
  • A inizio 2022, i 9 Stati riconosciuti come potenze nucleari (Stati Uniti, Russia, Regno Unito, Francia, Cina, India, Pakistan, Israele e Corea del Nord) avevano a disposizione circa 12.705 testate. Di queste, 9.440 sono di scorta per uso potenziale. Circa 3.732 sono dispiegate assieme a forze operative e di queste più o meno 2mila sono tenute costantemente in stato di alta allerta.
  • Negli ultimi 6 anni è ripresa a crescere la povertà assoluta. Nel Pianeta, più di 3,4miliardi di persone vivono con meno di 5,5 dollari al giorno. Quasi 2,5miliardi sono sotto la soglia della povertà estrema, cioè non raggiungono 1,9 dollari al giorno.
  • ogni giorno, nel Mondo, 10mila persone muoiono perché non sono in grado di accedere a cure mediche. Sono 2miliardi gli esseri umani con un fonte d’acqua distante di mezz’ora da casa propria. 600milioni quelli privi di ogni tipo di servizio igienico. Sono 200milioni i bambini che non hanno alcuna possibilità di istruzione.
  • Nel 2023, per effetto delle 31 guerre in corso e del cambiamento climatico arrembante, gli esseri umani a rischio morte per fame sono aumentati di 122milioni, raggiungendo quota 828milioni. In pratica, un abitante del Pianeta su dieci rischia di morire di malnutrizione.
  • 108,4milioni di persone sono in fuga dalla guerra. Gli emigranti totali nel mondo sono circa 295milioni.

Ilaria Salis (e l’Europa) con le catene ai piedi

Una donna trascinata dalle manette attaccate a un cinturone di cuoio. Da lì partono le catene che le cingono i piedi. Un agente di polizia la tiene al guinzaglio. Ilaria Salis ha 39 anni e ieri ha restituito l’immagine della sua storia al resto del mondo. Anche qui, nell’Italia che vorrebbe farsi patria e dimentica i suoi figli, Ilaria Salis ora è una storia da cui non si può distogliere lo sguardo.

Lì dentro c’è l’imbarazzo di un governo che ha eletto Orbàn a conveniente amico. La sua Ungheria che solletica i villi della maggioranza politica italiana è quel Paese che da quasi un anno tiene in ostaggio Ilaria accusata di aver aggredito due estremisti di destra a Budapest. Lei si è dichiarata non colpevole anche se non ha mai potuto leggere gli atti che la inchiodano come un cane. L’accusa si basa su immagini che non ha mai potuto vedere. La legge ungherese le permetterebbe di presentare una memoria difensiva ma come ci si può difendere da un’accusa che è solo ombra e fumo?

«Mia figlia viene trattata come un animale e i politici, il governo e i giornali fanno finta di non vedere», ha detto ieri il padre Roberto. «Adesso lo Stato italiano non può davvero più continuare a ignorare una situazione carceraria e processuale che vìola le nostre leggi», ha detto all’Ansa l’avvocato Eugenio Losco. Il commissario europeo alla Giustizia Didier Reynders ha fatto sapere che «la Commissione è sempre disponibile ad aiutare nel quadro di questi contatti bilaterali che sono stati presi dall’Italia con l’Ungheria». 

Insieme alla pena e alla preoccupazione per Ilaria Salis viene da chiedersi che Europa sia questa, con le catene ai piedi. 

Buon martedì. 

Nella foto: Ilaria Salis ieri in catene nell’aula del tribunale a Budapest, frame video di La7

Stop cemento in Campania. Cento associazioni lanciano Rigenera, legge di iniziativa popolare

La Campania è la terza regione d’Italia per consumo di suolo; segnata da uno strutturale dissesto idrogeologico che da Sarno a Casamicciola fa sentire il suo peso e il suo portato periodico di morti. La conurbazione che da Caserta va a Salerno è una delle più densamente abitate d’Europa così come è non invidiabilmente ai primi posti per i suoi livelli di polveri sottili PM10 e PM2,5 nell’aria buona parte della provincia di Napoli. La Campania, patria della dieta mediterranea, è la seconda d’Italia per obesità infantile ed ha visto negli ultimi 10 anni una vera esplosione di insediamenti della Grande distribuzione organizzata, vere e proprie piazze di spaccio legalizzato di junk food espressione di una agricoltura malata di globalismo, di chimica di sintesi, di pesticidi e di promotori della crescita animale nel mentre si celebrano le eccellenze del territorio i cui produttori faticano poi a guadagnarsi un futuro. È una regione dove la Piana del Sele, oramai come Almeria in Spagna, è sommersa da un mare di serre che affogano i Templi di Paestum e desertificano il suolo.

Gli attivisti di Rigenera

Eppure in questa Regione si continua a costruire in modo indiscriminato e il Consiglio regionale è impegnato proprio in questi giorni nella discussione di una riforma della Legge urbanistica del 2004 che riapre porte e finestre ad una espansione edilizia senza finalità sociali capace di premiare solo la rendita; la politica dei lavori pubblici invece di essere concepita come cura diffusa del territorio è esaltata nel concentrarsi intorno a grandi opere con impiego massiccio di risorse, di asfalto e cemento armato e, particolare di non scarsa importanza, di una catena di sub-appalti oramai senza limite per la gioia della camorra e dello sfruttamento del lavoro, anche grazie alla recente manomissione del Codice degli appalti operato dal governo Salvini-Meloni.

Ed è proprio questa la Regione dove oltre 100 tra Associazioni culturali, di volontariato, tantissime diffuse nel territorio della Campania e di rilievo nazionale come Slow Food, Arci, Libera, Fillea, Spi CgilL, tanti circoli di Legambiente e singole personalità e competenze si sono messe insieme e hanno dato vita ad una proposta organica che interviene su tre capitoli fondamentali della lotta ai cambiamenti climatici: stop consumo di suolo e riassesto idrogeologico; rilancio fonti rinnovabili per energia pulita e acqua pubblica; riorientamento strategico dall’agricoltura per passare dalla produzione intensiva di cibo, energivora e climalterante, a quella sostenibile con l’idea, proprio su energia pulita e cibo sostenibile, di realizzare un grande patto tra le aree interne dell’Appennino, la vera polpa di un futuro sostenibile (eppure lontane da ogni attenzione seria e abbandonate ad una condizione di spopolamento), e l’osso fatto di asfalto e cemento da convertire che è la metropoli: concentrare in modo nuovo e originale risorse e idee significative in quella parte della Regione.

Questi obiettivi sono contenuti nella Proposta di Legge di iniziativa popolare regionale Rigenera, prima esperienza del genere nel nostro Paese, elaborata in un percorso partecipato di Laboratori di scrittura che hanno toccato tutte le aree della Campania. Con una idea di fondo: nella lotta ai cambiamenti climatici serve una radicale strategia di conversione ecologica di economia, società, organizzazione delle città.
Quel che serve è un vero e proprio mutamento di paradigma.

Conversione più che transizione e resilienza, parole fin troppo abusate: e quindi, mutare, cambiare nel profondo logiche e pratiche che non reggono alla prova della crisi climatica che colpisce ovunque ma sicuramente in misura maggiore i settori più esposti della società. E poi, certo che servono in questo quadro anche misure di adattamento e di mitigazione, urgentissime perfino a cui non si presta l’attenzione necessaria: a cominciare dal verde nelle città, dalla sua diffusione e dalla sua cura. Come ci insegna con forza Stefano Mancuso, un’area verde all’interno di una città significa 4-5 perfino 6 gradi in meno di temperatura, oltre ad un’aria più pulita da respirare: lo sanno bene i nostri anziani per i quali in diversi mesi dell’anno piazze e strade diventano luoghi proibitivi della loro città spingendoli ancor di più nell’isolamento di case il più delle volte non fresche. E quanto c’è da cambiare anche dal punto di vista della tutela: è preferibile che un bel verde faccia da cornice a piazze e strade anche storiche, a tetti, con il placet delle Sovrintendenze o è meglio che si mantengano puristici stili conservativi per spazi che esposti così alle crescenti isole e bombe di calore diverranno inabitabili e infrequentabili, anche per i tanto ricercati turisti, per sempre maggiori mesi all’anno? A Napoli ci volle la svolta di Bassolino per liberare Piazza Plebiscito dalle auto: sembrava inimmaginabile all’epoca. Oggi chi rinuncerebbe a quella Piazza per rifarne un parcheggio? E se ora dovessimo ri-progettare le nostre Piazze, anche quella, anche Piazza Municipio e tutte le altre come parte di un unico grande polmone verde della città? Provocazione? Forse…

La raccolta firme di Rigenera per una proposta che non è una petizione qualsiasi perché il Consiglio Regionale dovrà esaminarla infatti entro 90 giorni dalla sua consegna – così detta lo Statuto della Campania – è partita lo scorso 20 gennaio (tutte le notizie sulla raccolta e su dove firmare sulle pagine social di Rigenera e su www.infinitimondi.eu ) e si è aperta davvero una bella e positiva sfida. Sulle idee e sulle cose. E si vedrà anche se e come la politica saprà e vorrà rispondere su un terreno dove i margini per la propaganda sono esauriti.