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La leghista pentita di fronte alla legge

In un post del 2018, poco prima di essere eletta Assessora alle politiche sociali di Ivrea, la leghista 34enne Giorgia Povolo aveva scritto: “Zingari di merda, zecche e parassiti capaci di spolpare tutto, connazionali criminali che andrebbero usati come esche con i piranha, mi auguro che cercando di rubare qualcos’altro una tagliola possa mozzarvi le mani”.

Dopo le inevitabili polemiche e un timido accenno di scuse Povolo per la Giornata internazionale dei Rom, Sinti e Camminanti, ribadisce le sue idee: “Festeggiamo un popolo che proprio come dice la parola “nomade” dovrebbe muoversi continuamente, il vero risultato è che le zecche stanziano in campi abusivi dalla giovane età alla vecchiaia, vergogna”.

Com’è finita? Denunciata da Asgi dopo due vergognose assoluzioni che giudicavano quel moto di razzismo “uno sfogo” la Cassazione ha riconosciuto il carattere discriminatorio e molesto delle espressioni utilizzate da Povolo. Lei immediatamente dice di essersi pentita e qualche giorno fa ha scritto una lettera a Asgi in cui dichiara di “condividere in pieno le motivazioni esposte dalla Corte di Cassazione nell’ordinanza 17. 385 del 2023 e le argomentazioni che la Vostra Associazione ha esposto negli atti giudiziari, nel corso della vicenda giudiziaria”. “In particolare, – scrive la leghista pentita – convengo con Voi che l’accostamento di un’etnia (in particolare quella Rom) a comportamenti criminosi costituisce un atto non solo illegittimo, come accertato dalla Cassazione, ma pregiudizievole per la società nel suo complesso, rischiando di minare i principi di pacifica convivenza e reciproco rispetto tra gruppi sociali, le cui diversità possono costituire, nel rispetto dei principi Costituzionali, un importante arricchimento della nostra vita collettiva”. 

Povolo dice di avere voluto scrivere quella lettera “confidando che ciò possa essere utile a far sì che vicende come quella che mi ha visto protagonista non abbiano a ripetersi”. Avrebbe dovuto mettere i suoi compagni di partito in copia conoscenza. 

Buon lunedì. 

Nella foto: frame dalla trasmissione Cartabianca “La vita in un campo Rom”, 2 maggio 2023

Torna la lebbra, malattia legata a doppio filo alla povertà

Le malattie tropicali neglette sono un gruppo di venti patologie che hanno la tendenza a cronicizzare e sono tutte associate alla povertà. Si tratta infatti di malattie di origine virale, batterica, parassitaria che quindi colpiscono soprattutto le persone in stato di vulnerabilità, che soffrono della mancanza dei cosiddetti bisogni primari come l’accesso all’acqua, al cibo e a uno scarso accesso alle cure. Distribuite in 149 Paesi del mondo, si stima colpiscano soprattutto la popolazione nella fascia tropicale e subtropicale, circa 1.500.000.000 persone, tra cui 500 milioni di bambini, con un grandissimo impatto a livello socioeconomico per tutto il mondo.

Comunità Cumura, Guinea Bissau

Esiste un piano di controllo delle malattie tropicali neglette stabilito dall’Oms per il periodo 2021-2030, ma oltre al controllo e alla cura delle malattie dal punto di vista prettamente sanitario, è necessario prevedere a livello internazionale azioni e politiche in grado di combattere la povertà nel mondo. Le realtà che si occupano di malattie tropicali neglette, come per esempio Aifo (Associazione Italiana Amici di Raoul Follereau) specializzata nella lotta alla lebbra, riuscirà a combattere queste malattie solo se ci sarà un approccio globale non basato esclusivamente sul controllo delle malattie stesse, ma che permetta la crescita socioeconomica delle popolazioni colpite; quindi, lo sviluppo economico del Paese e allo stesso tempo il miglioramento della qualità di vita. Occorre quindi affrontare il problema nella sua multidimensionalità poiché non si tratta solo di un problema sanitario, ma è un problema strettamente legato a delle scelte politiche e alla necessità di un cambiamento della società in cui viviamo. Per poter debellare queste malattie dobbiamo necessariamente concentrare l’attenzione sulla distribuzione dei farmaci, sull’eliminazione dei vettori, cioè di quegli insetti che trasmettono le malattie, ma soprattutto incidere sulla qualità di vita delle persone, quindi sull’igiene, sull’accesso all’acqua potabile, su accesso al cibo sicuro.

Nonostante si pensi alla lebbra come una malattia del passato, rappresenta ancora un problema di salute pubblica, non tanto per il numero annuale di nuovi casi (nel 2022 sono state 174.087 le nuove diagnosi nel mondo, con un 5,1% tra i bambini), ma per l’impatto sociale che ancora oggi genera in termini di disabilità e di emarginazione.
Tra i Paesi più colpiti al mondo vi sono al primo posto l’India con 103.819 casi, seguita dal Brasile (19.635 persone) e dall’Indonesia (12.441 persone), la cui somma corrisponde al 78,1% del totale dei casi nel mondo. Altri Paesi con un numero significativo di persone diagnosticate annualmente (superiore a 1.000) sono: Bangladesh, Etiopia, Filippine, Madagascar, Myanmar, Mozambico, Nepal, Nigeria, Repubblica Democratica del Congo, Somalia, Sri Lanka, Tanzania.
Spesso, al momento della diagnosi, i pazienti presentano già gravi disabilità (9.554 persone nel 2022, con un aumento del 12,8% rispetto all’anno precedente). Ciò indica che, ancora oggi, a causa della scarsa conoscenza dei sintomi della malattia all’interno delle comunità, delle difficoltà di accesso e della scarsa qualità dei servizi di trattamento, la diagnosi avviene tardivamente e in molti casi la persona colpita dalla malattia si presenta già con disabilità fisiche irreversibili.

Aifo – Manica Mozambico

Quindi, quando parliamo di programmi di controllo della lebbra e in generale delle malattie tropicali neglette, bisogna focalizzare l’attenzione non solo sul trattamento che oggi esiste, ma appunto a quell’approccio chiamato oggi “salute globale” che implica la conoscenza di tutti quei percorsi di miglioramento della qualità di vita della persona e che riconosce come la salute della persona non è legata semplicemente alla presenza o assenza di una malattia, ma anche alla sua situazione sociale e fisica. Non si tratta solo di un problema di controllo della malattia, ma anche di una questione di rispetto dei diritti umani e di inclusione delle persone con disabilità causate dalla lebbra. Vi sono diversi Paesi in cui ancora si segnalano discriminazioni nei confronti dei malati di lebbra o sono presenti vere e proprie leggi discriminanti.

Oggi, se vogliamo dare una risposta alle malattie tropicali neglette, alla lebbra, dobbiamo riuscire a muovere la coscienza delle persone, dare visibilità a queste malattie, dobbiamo essere in grado di ascoltare le persone che ne soffrono. Se non ragioniamo in termini di globalità, se non ascoltiamo le persone colpite da queste malattie, dalle malattie cosiddette neglette, ovvero negligentate – dimenticate, significa non avere cura del futuro, così come non ascoltare quanto il mondo ci sta dicendo dal punto di vista ambientale significa non avere un futuro.

La Giornata Mondiale dei malati di lebbra, che si celebra domenica 28 gennaio e fu istituita da Raoul Follereau, e la Giornata mondiale della Malattie tropicali neglette, (30 gennaio), ci permettono di ascoltare e allo stesso tempo sensibilizzare e dare voce alle persone che ne sono affette. Oltre all’ascolto dobbiamo quindi avere una risposta che non passa solo dalla condivisione ma dal nostro impegno diretto in termini sociali ed economici. Aifo, Ente del Terzo settore che lavora a fianco degli ultimi dal 1961 promuovendo progetti di cooperazione sanitaria internazionale in Africa, in Asia e in America Latina, promuove percorsi educativi per la prevenzione di queste malattie, programmi di sviluppo socioeconomico, di inclusione e di promozione della salute globale. Come ong Aifo si impegna affinché queste persone, di norma chiamate beneficiari, diventino invece degli attori, protagonisti del loro sviluppo e dello sviluppo della comunità in cui vivono. Come dimostra per esempio il lavoro svolto in Mozambico, nella provincia di Nampula che detiene il triste primato del numero maggiore di casi di lebbra di tutto il Paese e in cui alcuni indicatori mostrano come la situazione endemica sia molto grave: la maggior parte dei nuovi casi presenta già disabilità molto gravi al momento della diagnosi e questo significa che i pazienti arrivano ai servizi sanitari molto tardi e la percentuale tra i bambini è elevata e questo dimostra come la malattia abbia ancora molto vigore.

Ma è proprio in Mozambico che le persone hanno dato vita a gruppi di auto-aiuto delle persone colpite dalla lebbra che hanno deciso di mettersi insieme per cambiare i propri destini. Tra questi per esempio Nikaya, che in lingua macula significa “restiamo insieme per aiutarci insieme” di cui fa parte Julieta, una signora di circa 60 anni, che racconta di soffrire fin da piccola di macchie sulla pelle e quindi era presumibilmente già affetta dalla lebbra. Purtroppo, percorsi sanitari sbagliati e tardivi l’hanno portata sì finalmente a guarire, ma ad avere anche lesioni importanti agli arti inferiori superiori e problemi alla vista. Oggi Julieta è una signora anziana in perfetta salute anche se i segni della lebbra sono evidenti, è mamma di quattro figli e nonna di un bellissimo bambino. Ma quello che la rende più orgogliosa è che oggi lavora insieme al gruppo di auto aiuto coltivando un campo che le permette di nutrire la propria famiglia ma anche di vendere ed essere parte attiva della sua comunità.

L’autore: Antonio Lissoni è presidente Aifo

In apertura: Formazione diagnosi ospedale Cumura

Binario 21: Milano non dimentica la violenza nazifascista

Binario 21 Milano

Dal binario 21 della stazione Centrale di Milano, dal dicembre 1943, cominciarono a partire i treni carichi di ebrei e di oppositori politici verso Auschwitz-Birkenau e altri lager (Mauthausen, Ravensbrück, Flossenbürg, Fossoli e Bolzano). I vagoni piombati, con il loro carico umano, venivano agganciati due piani sotto, nei sotterranei dove correva una rete di binari adibita allo smistamento del servizio postale, poi ripristinata nel dopoguerra e funzionante fino a non moltissimi anni fa.

I convogli, nascosti alla vista dei normali viaggiatori, si formavano nei cunicoli bui, spingendo a calci e bastonate i deportati sui vagoni, poi spostati in superficie tramite elevatori. Furono oltre 1.500 le persone caricate a forza dai repubblichini al servizio dei nazisti. Gran parte di loro non tornò più. Prima ancora, questo agghiacciante trasporto era stato assicurato da un’azienda di autolinee di Pavia che faceva la spola con il campo di concentramento di Bolzano e l’Austria. Una foto del tempo ritrae il conducente sorridente davanti la corriera. Per i suoi “meriti” sotto il fascismo fu anche insignito di una “benemerenza”. In origine il binario 21, prima dell’inversione numerica, era il binario 1, appositamente riservato all’accoglienza dei Savoia a Milano. Fu anche allestita un’ampia ed elegante sala “Regia”, decorata durante il ventennio con una svastica ancora oggi visibile tra i mosaici. Dal 27 gennaio 2013 l’originario binario 21, posto nei sotterranei, è parte del Memoriale della Shoah, visitabile.

La prima strage di ebrei

La lunga notte di Milano iniziò con l’ingresso, il 10 settembre 1943, dei primi granatieri della divisione corazzata delle Waffen-SS Leibstandarte Adolf Hitler (letteralmente “Guardia del corpo di Adolf Hiltler”). Un corpo d’élite che solo pochi mesi prima, a Geigova, nella ritirata di Russia, si era macchiato dello sterminio di quattro mila prigionieri russi per rappresaglia, e nel volgere di pochi giorni, dopo aver varcato il confine italiano, compiuto il massacro di Boves in provincia di Cuneo, 25 le vittime inermi.

Gli stessi che tra il 15 e il 23 settembre trucideranno per odio razziale oltre che per rapinare i loro beni, 54 ebrei sfollati sul lago Maggiore, tra Stresa, Baveno, Meina e Arona. Alcuni di loro erano addirittura giunti in Italia da Salonicco, per scampare alla ferocia tedesca. La strage del Verbano fu il primo eccidio di ebrei compiuto in Italia.

L’Hotel Regina

Già a partire dal 13 settembre a Milano entrò in funzione la struttura delle SS naziste, guidata dal capitano Theodor Saewecke, direttamente dipendente dal colonnello Rauff, capo del comando interregionale della “Polizia e servizio di sicurezza”, la cosiddetta Sipo-Sd, che comprendeva Piemonte, Liguria e Lombardia. Walter Rauff era stato l’inventore dei “camion della morte” in Polonia e Russia che anticiparono le camere a gas, 90mila le vittime. La sede del comando interregionale e milanese fu installata in pieno centro, a pochi passi da piazza Duomo, all’Hotel Regina, un edificio con due ingressi, in via Santa Margherita e in via Silvio Pellico. Oggi l’albergo non esiste più. Al suo posto gli uffici di alcune società finanziarie.

San Vittore

Il penitenziario di San Vittore passò sotto la gestione delle SS e la prima richiesta al Questore di Milano, Domenico Coglitore, fu di consegnare gli elenchi degli antifascisti e degli ebrei. Il carcere, sorto sull’antico convento dei Cappuccini, si riempì rapidamente, Due dei suoi sei bracci, il IV, il V, furono destinati ai detenuti politici, il VI agli ebrei. A dirigerlo inizialmente il maresciallo Helmuth Klemm, poi il caporalmaggiore Franz Staltmayer, detto “la belva”, sempre con il frustino e un’inseparabile cane lupo. Tra il settembre 1943 e il 12 aprile 1945 su un totale di 18.828 arrestati, 4.982 furono deportati in Germania. A ricordare orrori e sofferenze una targa murata sull’ingresso di via Filangieri 2, posta il 25 aprile 1965 dall’allora sindaco Pietro Bucalossi.

Via Rovello e via Tivoli

Ma non erano solo le SS ad arrestare. Almeno nella metà dei casi, come risultò dagli stessi registri, furono le organizzazioni fasciste e le molte polizie politiche a consegnare i prigionieri ai tedeschi, tra loro la Legione Muti, la X Mas, le Brigate nere e la banda Kock. Almeno otto furono i corpi investigativi che operarono indipendentemente l’uno dall’altro con proprie carceri. In via Rovello 2, attuale sede del Piccolo Teatro, un tempo cinema Fossati, la Legione Muti istituì la propria caserma comando. A dirigerla Francesco Colombo, un pregiudicato per reati comuni nominato vicequestore dal ministro degli Interni. In via Tivoli si trovava invece la caserma Salinas. A dirigerla il capitano Pasquale Cardella, lo stesso che guidò il plotone d’esecuzione in piazzale Loreto, il 10 agosto 1944, per fucilare 15 patrioti. Al posto dell’edificio in via Tivoli, trasformato nel dopoguerra nell’istituto scolastico Schiapparelli, si trova ora solo un giardino, davanti al teatro dedicato a Giorgio Strehler.

Villa Triste

Tutta Milano era disseminata di comandi e caserme. Alcune piazze e vie hanno poi cambiato nome. Il “Servizio sicurezza” delle SS si trovava in corso Littorio 10. Divenne corso Matteotti. L’ufficio stampa e propaganda della X Mas, era alloggiato all’albergo Nord, accanto al comando della Wermacht, in piazza Fiume, ribattezzata dopo la Liberazione piazza della Repubblica.

Ma è lontano dal centro che bisognava andare per rintracciare il covo della banda Koch, a Villa Triste, così soprannominata per le torture che vi si infliggevano, in via Paolo Uccello, dalle parti di San Siro. Una villa storica. Qui nel 1821 il conte Giuseppe Pecchio organizzò una riunione per richiedere l’intervento di Carlo Alberto contro gli austriaci. Un confidente della polizia li denunciò. Federico Confalonieri e altri patrioti finirono nel carcere dello Spielberg. La proprietà passò a Temistocle Fossati e la villa fu considerata monumento nazionale. Nel giugno del 1944 vi si installò Pietro Koch, proveniente da Roma, dove aveva gestito un “Reparto speciale della polizia repubblicana”, con sede prima in via Tasso, poi alla pensione Jaccarino in via Romagna, ma soprattutto aveva fornito un elenco di nomi ai nazisti per la strage alle Fosse Ardeatine. Sul cornicione della costruzione furono installati 24 riflettori e nei sotterranei allestite cinque celle.

In qualche periodo vi furono stipate fino a un centinaio di persone. Le urla dei seviziati si sentivano fin dalla strada. Ci furono proteste da parte della popolazione. Alla fine, il 24 settembre 1944, quasi solo per ragioni di lotta intestina fra le diverse bande fasciste, Villa Triste fu chiusa. La famiglia Fossati, saputo dello scempio avvenuto, decise di non abitarla più.

 

In occasione della giornata della memoria riproponiamo questo articolo di Saverio Ferrari dell’Osservatorio democratico sulle nuove destre  uscito su Left il 25 gennaio 2019

La foto è di Fcarbonara – Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=30876880

Daniele Biacchessi: Riaprire oggi l’armadio della vergogna

Acuto osservatore della realtà ma anche studioso di storia, il direttore del Giornale Radio Daniele Biacchessi con il suo nuovo libro riapre l’armadio della vergogna rimasto per anni con le ante rivolte verso il muro con dentro documenti “archiviati provvisoriamente” sulle violenze da parte dei nazifascisti. Il frutto della nuova ricerca del giornalista e scrittore è Eccidi neonazisti, da poco uscito per Jaca Book. In questo momento di “revisionismo” storico, Biacchessi riparte dal giornalista Franco Giustolisi, che sull’Espresso nel 1996, fece esplodere, nella coscienza dei lettori, la scoperta di quell’armadio dove furono depositati fascicoli regolarmente protocollati e altra documentazione che riguardava le stragi nazifasciste in Italia, nel 1943-1945.

Daniele Biacchessi, un suo spettacolo si intitolava La storia e la memoria. Come si intrecciano questi due aspetti intorno ai fascicoli riscoperti?
Sì, quello fu il mio primo spettacolo di teatro civile che realizzai a Cuba, in tour, nel 2004. Il primo quadro raccontava una fotografia scattata a Sant’Anna di Stazzema, il 12 luglio 1944. Era una festa della fine dell’anno scolastico e i bambini facevano un bellissimo girotondo, solo un mese prima che i loro sogni venissero infranti. Era da molto tempo che mi occupavo della verità e della mancata giustizia sulle stragi nazifasciste, esattamente da quando Giustolisi fece conoscere per primo il contenuto di 695 fascicoli occultati dalla politica e dalla magistratura militare per troppi anni. Quella documentazione nascosta dal 14 gennaio 1960 rappresenta la grande ferita italiana.

Quale fu la reazione di Giustolisi alla scoperta del materiale “imboscato”?
Era un grande giornalista che aveva lavorato su terrorismo, criminalità, P2 e molto altro ancora. Poteva girarsi dall’altra parte, far finta di niente, fare quello che altri avevano fatto nel corso del tempo. Invece si è messo a scrivere. E ha raccontato una storia che parte dal 14 gennaio 1960.

Come si dipana quella storia?
Il procuratore generale militare Enrico Santacroce, che dipende dalle volontà politiche del governo Segni (Andreotti alla Difesa, Pella agli Esteri, Gonella a Grazia e giustizia), emette un decreto di archiviazione provvisoria dei documenti sulle stragi nazifasciste avvenute tra il 1943 e il 1945, in Italia, ex Jugoslavia, Grecia, contro civili, militari che non aderiscono alla Rsi, partigiani. La storia che ho ricostruito nel mio libro arriva al maggio 1994, quando il procuratore militare della Repubblica di Roma Antonino Intelisano è impegnato nel processo per le Fosse Ardeatine contro l’ex capitano delle SS Erich Priebke. Sta cercando in archivio una richiesta di autorizzazione a procedere che potrebbe essere contenuta negli atti del precedente processo contro Herbert Kappler.

All’inizio la missione pareva impossibile?
Sì, ma poi il procuratore generale militare Renato Maggiore interpella il dirigente della Cancelleria Alessandro Bianchi, che rammenta l’esistenza di un carteggio in un locale adibito ad archivio, al piano terra del Palazzo Cesi-Gaddi a Roma. Maggiore e Bianchi si rivolgono quindi a Floro Rosselli, magistrato in pensione esperto di archivi. Così Intelisano scopre un armadio in legno marrone, sigillato, con le ante rivolte verso il muro, chiuso a chiave, protetto da un cancello in ferro e da un lucchetto. Vengono alla luce 695 fascicoli raccolti in faldoni, stipati uno sull’altro. C’è un registro composto da 2.274 notizie di reato, il cosiddetto “Ruolo generale dei procedimenti contro criminali di guerra tedeschi”. Tutto è archiviato, o meglio occultato, in modo rigoroso, preciso, ordinato. Si viene a sapere che in realtà i fascicoli complessivi sono 2.205: 260 inviati ai tribunali ordinari nell’immediato dopoguerra, 1.250 distribuiti alle Procure militari territorialmente competenti, 695 fatti sparire per un terzo di secolo. Nel libro ci sono i nomi dei criminali nazisti e fascisti responsabili di quegli eccidi, c’è la descrizione minuziosa del muro di gomma messo in campo dagli apparati dello Stato per ostacolare la ricerca della verità, il coraggio del giornalista Giustolisi che per primo conia il termine “armadio della vergogna”, i processi giudiziari compiuti e le domande rimaste senza risposte.

Che tipo di guerra è quella in cui non si fronteggiavano gli eserciti ma si scatena nei confronti della popolazione civile?
I nazisti ordinavano, i fascisti eseguivano perché conoscevano il territorio delle operazioni militari. Le vittime erano donne, vecchi, bambini, piccoli ancora in fasce. Il sistema nazista era preciso e si basava sugli ordini draconiani impartiti dal feldmaresciallo Albert Kesselring, secondo cui chiunque viene trovato in una zona «infestata dalla presenza di banditi» è pure lui partigiano. Infatti negli atti riservati dello “Special Investigation Branch (sib) (documento “Report on German Reprisals for Partisan Activity in Italy”, 9 luglio 1945), è scritto che le rappresaglie non erano eseguite su ordine dei comandanti di singoli formazioni ed unità tedesche, ma erano esempi di una campagna organizzata, diretta dal Quartier generale del feldmaresciallo Albert Kesselring.

Chi erano i civili entrati nel bersaglio nazifascista?
Molti di quegli abitanti aiutavano le brigate partigiane per i loro figli che erano partiti per le tante guerre perse dal fascismo (Etiopia, Grecia, Albania, Libia, Russia), e mai più ritornati, perché uccisi nei vari teatri di guerra.

E gli autori delle stragi?
I soldati nazisti del Secondo reggimento della 16a SS-Panzergrenadier-, Sant’Anna di Stazzema, Vinca, Valla, Bardine di San Terenzo, Bergiola Division (responsabili delle stragi con il maggior numero di vittime come Montesole-Marzabotto Foscalina, fiume Frigido, Certosa di Farneta), erano stati addestrati per la guerra ai civili ben prima del loro arrivo in Italia alla guida del generale Max Simon e da Walter Reder detto “il monco”. Le loro gesta non ebbero nulla di eroico, bensì traevano ispirazione dallo sterminio di tipo castale dettato dalle idee di Himmler. I repubblichini di Salò e le tante polizie segrete obbedivano ai nazisti senza fiatare. Il prefetto di Roma Pietro Caruso e il responsabile del Reparto speciale di polizia, il sadico e cocainomane Pietro Koch avevano compilato insieme a Herbert Kappler (capo del servizio segreto nazista), le liste dei 335 antifascisti romani da mandare alla fucilazione alle Cave Ardeatine. E gli uomini della XI Compagnia del terzo Battaglione del SS-“Bozen” uccisi dai partigiani dei Gap in via Rasella, non erano componenti di una banda musicale di semi pensionati, come li ha definiti il presidente del Senato Ignazio La Russa, ma una squadra addestrata e specializzata in rastrellamenti anti- partigiani, a Roma.

Che tipo di ragione di Stato è quella che nasconde la verità?
Nel libro pubblico lo scambio di lettere tra l’allora ministro degli Esteri Gaetano Martino e il ministro della Difesa, il democristiano ed ex partigiano bianco Paolo Emilio Taviani, nella quale si sostiene l’inopportunità di alimentare in quella fase storica una polemica contro la Germania, proprio nel momento in cui il governo di Bonn riorganizza l’esercito in funzione anche di scudo atlantico contro l’Est sovietico. Nel 1960 la Germania, sconfitta e lacerata, è divisa in due dal muro di Berlino. Il nemico dell’Occidente non è più il nazismo, ma l’Urss. In Italia è terminata la ricostruzione, c’è il boom economico, e i civili e i militari uccisi devono restare avvolti nell’ombra, come vittime invisibili. Così il procuratore generale militare gen. Enrico Santacroce, che dipende dalle volontà politiche dell’allora governo Segni (Andreotti alla Difesa), archivia in forma illegale la verità sulle stragi contro i civili in Italia. Qualcuno ha ordinato, qualcuno ha eseguito.

Il magistrato capo della Procura militare, Marco De Paolis dice che grazie allo scoperta di quei fascicoli, “una piccola Norimberga” l’abbiamo fatta anche noi. Possiamo dire di aver fatto i conti con il nostro passato?
L’Italia è un Paese a sovranità limitata. Lo ha dovuto ammettere anche Giuliano Amato raccontando ciò che sa della strage di Ustica. Nell’immediato dopoguerra, secondo il rapporto della Commissione per l’epurazione dell’Alto commissariato per le sanzioni contro il fascismo del 1945, su 143.781 dipendenti pubblici dello Stato fascista esaminati, 13.737 vengono processati e, di questi solo 1.476 rimossi dal loro incarico. Negli anni Sessanta su 64 prefetti, 62 sono funzionari degli Interni durante la dittatura fascista; 241 viceprefetti provengono dall’amministrazione fascista; 120 su 135 questori giungono dalle varie polizie ufficiali della Repubblica di Salò; 139 vicequestori entrano in servizio durante il fascismo. Solo 5 di loro contribuiscono in qualche modo alla Resistenza. Interi settori della magistratura e della polizia, dell’esercito, della burocrazia e dell’università, rimangono al loro posto, si sottraggono alle misure di bonifica democratica. Alti funzionari dello Stato fascista saranno poi gli stessi a gestire parti influenti degli apparati del nuovo Stato repubblicano.

Il ruolo di Mario Scelba?
Da ministro degli Interni dal 1947 al 1953 e poi dal 1960 al 1962, ricolloca un buon numero di funzionari fascisti in posti chiave per l’ordine pubblico e per la repressione di ciò che viene individuato come nemico dello Stato: comunisti, socialisti, partigiani, sindacati, intellettuali. Sono quegli apparati che gestiscono nei fatti una parte della storia italiana repubblicana. Gente come Roatta, Guida, Umberto d’Amato, Russomanno, Leto, Messana, Verdiani, Messe, Ravalli. Secondo Alessandro Galante Garrone l’epurazione fu una burletta. Si sarebbe dovuto procedere dall’alto. Invece ci si accanì contro gli applicati d’ordine e gli uscieri, o magari il capo fabbricato che aveva indossato la divisa per vanità. Non si vollero o non si poterono colpire gli uomini veramente colpevoli e le vecchie strutture dello Stato e della società.

 

06/03/24. Roma, Casa della memoria, ore 17,30. Daniele Biacchessi presenta il libro “Eccidi nazifascisti. L’armadio della vergogna” con Bruno Manfellotto e Simona Maggiorelli (Left). Organizzazione: Fiap, Casa della memoria.

L’intervista è tratta da Left del 7 dicembre 2023

Carlo Greppi: L’umanità di Lorenzo, che salvò Primo Levi

Primo Levi con Francesca Sanvitale a un Premio Strega

Ancora abbiamo vivide nella mente le immagini e la storia del tenente tedesco Rudolf Jacobs che, disertando, decise di passare dalla parte dei partigiani, a costo della vita. Ci aveva fatto appassionare alla sua vicenda lo storico Carlo Greppi che gli ha dedicato Il buon tedesco (Laterza, 2022), un libro drammatico e insieme pieno di vita anche per quello che ci comunica oggi. Ora Greppi torna in libreria con un libro, se possibile, ancor più toccante perché ci racconta la storia della silenziosa amicizia, fra un giovanissimo internato nel lager, Primo Levi, e l’operaio Lorenzo Perrone che gli salvò la vita, portandogli di nascosto la sua zuppa ma soprattutto dandogli rapporto umano.
Di questo ci racconta Un uomo di poche parole. Storia di Lorenzo, che salvò Primo (Laterza), fra rigorosa ricerca storica e scrittura avvolgente, narrativa. Siamo tornati a cercare Carlo Greppi per saperne di più di questo suo nuovo lavoro (che a poche settimane dalla sua prima uscita ha già avuto varie ristampe) ma anche del suo manuale di storia per le superiori e delle novità della collana “Fact checking. La storia alla prova dei fatti” che lo storico torinese cura per Laterza.

Carlo Greppi, quelle di Jacobs e di Perrone sono due storie diversissime ma accomunate dalla disobbedienza civile e dal rifiuto netto dell’oppressione nazifascista. Jacobs scelse di disertare, mentre Lorenzo come lei scrive, dal basso, a suo modo, volle gettare la sua pietra nell’ingranaggio della Shoah per tentare di fermarlo?
In comune ebbero la capacità di maturare, al di là delle circostanze e del contesto, una scelta radicale di opposizione intransigente alle peggiori derive del loro tempo. Come ricercatore ciò che mi ha attratto in entrambi i casi è stata la possibilità di dissotterrare storie che non sono conosciute quanto meriterebbero. Mi affascina molto l’idea di cercare di riportare alla luce delle vicende appannate o del tutto sommerse.

Nel suo libro lei cita I giusti (Iperborea) di Jan Brokken. Lo scrittore olandese che ha avuto il merito di far conoscere storie di uomini e donne che salvarono ebrei rischiando la propria vita. Sono noti a tutti i casi di Schindler, reso celebre dal film di Spielberg e di Perlasca raccontato dal libro di Deaglio e poi da Rulli e Petraglia nel film di Negrin. Tante storie come quella di Lorenzo rischiano di rimanere sotto traccia perché i protagonisti erano persone umili, senza mezzi, senza visibilità sociale?
È una ipotesi che avanzo prudentemente. È innegabile tuttavia che figure più note, più conosciute, anche a livello internazionale, che avevano una buona posizione e possibilità di manovra nel contesto in cui operavano, abbiano lasciato molte più tracce di sé. Beninteso tutti noi lasciamo tracce, ma una persona umile con la terza elementare non si preoccupa minimamente di scrivere di sé o di raccontare ciò che ha fatto. Per di più Lorenzo muore pochi anni dopo il suo ritorno in Italia. Nulla avremmo saputo di lui se non avesse incontrato quel ragazzo che poi sarebbe diventato Primo Levi. Mentre scrivevo questo libro mi chiedevo: chissà quanti altri Lorenzo ci sono che non hanno avuto la fortuna più che legittima, giustificatissima, di essere nel pantheon civile globale?

Colpisce il silenzio pieno di attenzione che Lorenzo ha verso Primo. Riesce ad arrivare a lui al di là delle parole. La zuppa che gli ha portato per mesi è stata fondamentale ma ancor più importante è stato il rapporto umano?
Ricordiamoci che Primo Levi allora era un ragazzo che rischiava di essere una vittima dello sterminio e risucchiato nel buco nero della Shoah. D’altro canto, se mai fosse uscito vivo da lì, rischiava di sopravvivere con un’idea dell’umanità tremenda, implacabile. Invece, come Primo scrive nella prima edizione di Se questo è un uomo (De Silva I947, poi Einaudi 1958, ndr), Lorenzo gli dette una buona ragione per sopravvivere perché gli mostrò, non tanto per l’aiuto materiale che pure fu fondamentale, che esistono esseri pienamente umani anche nel cuore dell’orrore. «Qualcosa di puro e intero», scrive Primo Levi, che pure era sempre molto cauto nell’usare parole importanti.

Questo libro getta luce anche sulla storia degli operai, nei fatti anch’essi “deportati” poiché si trovarono a lavorare nei lager, loro malgrado. Come lei ricorda, della sorte di questi lavoratori scrisse il Corriere della Sera nel 2001 molto tardivamente. Perché a lungo non se ne è saputo niente?
Ci sono state delle ricerche ma perlopiù scarsamente note al grande pubblico. Poco si è saputo del grande accordo italo tedesco che portò lo stesso Lorenzo ai margini di Auschwitz. E che portò migliaia di volontari italiani nel cuore del Terzo Reich. Relazioni molte solide sul piano industriale e produttivo legavano l’Italia e la Germania. Del resto, dalla metà degli anni Trenta in poi furono fedeli alleate. Lorenzo Perrone arrivò a Auschwitz nel 1942. All’epoca, in qualunque territorio lui avesse lavorato -, italiano, francese o tedesco o polacco – si sarebbe trovato in ogni caso alle dipendenze di una industria che operava sotto la cappa dell’asse tedesco. I lavoratori umili non avevano possibilità di scelta.

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha detto che alle Fosse Ardeatine furono trucidate 335 persone solo «perché italiane». Quanto è importante, anche in vista del prossimo 25 aprile che immaginiamo sarà molto “dibattuto”, tornare a parlare in termini rigorosi di ciò che è stato?
Penso che il nostro ruolo oggi si svolga in un momento decisivo, in cui non dobbiamo arretrare di un passo. Parlo al plurale perché penso a tutto il gruppo di Fact checking, al lavoro che stiamo facendo con Laterza e ai tanti colleghi e tante colleghe con i quali condivido questo percorso di militanza civile, democratica. Dobbiamo rivendicare ciò in cui crediamo, ovvero che il 25 aprile 1945 è stato il momento più alto della storia nazionale. Ed ha avuto una forte venatura internazionalista come le ultime ricerche stanno dimostrando. La Resistenza fu transnazionale. Io penso che chiunque tenta di squalificare o ridimensionare quella stagione della storia italiana sia vittima di questa ondata di luoghi comuni che da decenni inquinano il discorso pubblico, oppure è in mala fede. Con chi è vittima di luoghi comuni si può e ci si deve assolutamente lavorare. È ciò che cerchiamo di fare con i nostri libri, con le nostre conferenze, con interviste. Penso però che sia necessario fronteggiare a muso duro chiunque giochi sporco nella partita della memoria pubblica. Lo ripeto spesso citando il libro di Chiara Colombini Anche i partigiani però il volume della collana Fact checking in cui lei ha mostrato nitidamente come la grande prospettiva resistenziale sia stata svalutata elevando l’eccezione a norma, fotografando alcuni casi molto specifici e problematici (perché l’essere umano è complesso) e usandoli per infangare tutti i mesi e gli anni di antifascismo storico. Il nostro lavoro è anche rimettere tutto nel giusto contesto storico e riequilibrare il discorso in base ad alcuni valori fondanti.

Il libro di Colombini evidenzia la nostalgia dei reduci di Salò che traspare nelle varie forme di post fascismo oggi ma parla anche dell’avanzare di una memoria afascista…
Sì, questi decenni di revisionismo spinto hanno fatto tanti danni. Lo si sente nel chiacchiericcio sulla storia del ventennio e della liberazione. È un male in termini oggettivi ma è anche una grande opportunità. Ribadisco: sulla memoria di chi si dichiara superficialmente afascista ed equidistante si può lavorare, mentre con i nostalgici ci si può solo scontrare. Non si possono legittimare posizioni inqualificabili nel discorso pubblico. La base comune dovrebbe essere che siamo tutti democratici e che ci riconosciamo nei valori fondanti della nostra comunità. Se non sei solamente afascista, ma sei fascista allora non abbiamo nulla da dirci, siamo a tutti gli effetti avversari.

Quanto le è apparso grave derubricare a rissa l’aggressione squadrista avvenuta davanti al liceo Michelangiolo di Firenze? E che valutazione dà del modo in cui il ministro Valditara è intervenuto stigmatizzando la lettera della preside ai ragazzi?
È la spia di un clima asfissiante in cui si politicizza tutto e quando la matrice è molto chiara, e tra l’altro molto vicina al partito di governo Fratelli d’Italia, letteralmente la si butta in vacca. Personalmente sono stato molto rincuorato dall’energica reazione trasversale che c’è stata nel mondo della scuola, sia da parte dei dirigenti che dei docenti e degli studenti. Dimostra che quel mondo è più vitale e reattivo di quanto si pensi e si dica. Dunque la preoccupazione è tanta per le prese di posizione dei vertici del governo (che per altro non mi stupiscono) ma al tempo stesso sono molto fiducioso: a mio avviso nel mondo della scuola ci sono energie e sotto traccia c’è la capacità di una presa di posizione forte, non scontata. Sta a noi farle emergere e sostenerle come nel caso della lettera della professoressa-dirigente scolastica.

Su cosa si basa l’impianto del manuale per le superiori Trame del tempo che lei ha realizzato con alcuni altri colleghi?
Il nostro manuale uscito per Laterza è un tentativo di far entrare studenti, studentesse e docenti nel laboratorio dello storico mostrando come funziona il nostro mestiere intrecciando il grande racconto con le fonti, con la storiografia. Nasce per aiutare i ragazzi a conoscere la conoscenza e a innamorarsi della storia, come è capitato a noi e a tutti quelli che fanno la nostra professione. È una sfida che ci sta portando in parecchie scuole d’Italia, come del resto faccio ormai da vari anni. Mi rendo conto che tutto questo un po’ in controtendenza perché la semplificazione, troppo spesso, è anche banalizzazione e produce un effetto grave: percepire la storia come una serie di dati, come un elenco asettico di eventi molto legato alle vicende politico-diplomatiche. Il processo della conoscenza invece è in continua evoluzione e parlando di uomini e donne del passato ci dice molto di quello che siamo noi esseri umani. Credo che questo sia un grande veicolo per trasmettere passione e conoscenza e spero che questa sfida verrà in gran parte vinta.

Dopo volumi importanti come quello di Colombini, come quello di Eric Gobetti E allora le foibe?, e come quello di Franzinelli Il fascismo è finito il 25 aprile 1945, che temi affronterete con nuovi titoli?
Posso dire che di sicuro si parlerà di statue (con il libro di Tomaso Montanari Le statue giuste, appena uscito ndr) di questioni di genere e di vicende dell’Italia repubblicana. E posso aggiungere che ci saranno uscite con un respiro internazionale di cui al momento non posso rivelare di più.

L’intervista è uscita su Left del primo aprile 2023

La foto d’apertura ritrae Primo Levi con Francesca Sanvitale a un premio Strega, fonte wikipedia

La Corte dell’Aja ordina a Israele misure per prevenire il genocidio. A Gaza ancora bombe e vittime

«Israele deve prendere misure per prevenire e punire coloro che incitano al genocidio» dei palestinesi: lo hanno sancito oggi, 26 gennaio, i giudici della Corte internazionale di Giustizia dell’Aja. L’Aja ha quindi respinto la richiesta di Israele di archiviazione del caso aperto dalle accuse del Sudafrica sulle violazioni della Convenzione sul genocidio (v. articolo su Left) anche se non ha imposto il cessate il fuoco. La situazione degli ospedali e dell’assistenza sanitaria è gravissima, come testimonia questa seconda drammatica corrispondenza di Medici senza frontiere (la prima qui).

Continuano ad arrivare notizie dalla Striscia, grazie a Maurizio Debanne, dell’Ufficio stampa di Medici senza frontiere (da Gerusalemme):
Malak aveva 5 anni, viveva in un rifugio messo su dal team di Medici Senza Frontiere nel sud della striscia di Gaza, assieme ad altre cento persone del luogo che operano aiutando i lavoratori di Msf e le loro famiglie. Il rifugio era stato ricavato da una sala per matrimoni, situato in un’area non sottoposta a evacuazione, un luogo in cui, fino a qualche mese fa, si cantava e si festeggiava.
Una granata ha sfondato il muro dell’edificio, attraversato la sala, ed è uscita dal lato opposto. In ospedale si è provato di tutto per salvare la vita a Malak, le prime notizie erano già difficili da accettare: amputazione delle gambe. In realtà l’intervento chirurgico non è bastato a salvarle la vita. La rabbia e l’impotenza ci ha letteralmente sopraffatto. Suo padre lavora con noi da tanti anni. E come se non bastasse, questa guerra ha tolto la vita anche a chi ancora non la conosceva: Maha, una nostra paziente veniva dalla parte nord della Striscia: sfollata e incinta ha cercato un ospedale quando ha sentito che stava cominciando il travaglio, ma tutti i pochi ospedali funzionanti erano pieni. Aveva già avuto un parto cesareo, ed era preoccupata, ma non avendo altra scelta era tornata nella sua tenda. Suo figlio ha respirato il mondo solo per un attimo, in un campo dissestato, tra macerie e violenza indicibile. Oggi Maha riceve le cure post parto dal nostro team.
Pascale, la collega che coordina le attività in ospedale ci ha detto che Maha ha bisogno di esprimere il suo profondo dolore a tutti noi. Ha bisogno di gridare, di far conoscere l’ingiustizia che ha vissuto: senza questa guerra insensata non avrebbe perso il suo bambino. E noi con questa guerra abbiamo perso tutti.

18 gennaio

Gerusalemme è tutto un sali scendi di colline e dal punto più alto, nelle giornate di sole, si vede Ramallah. Ogni giorno per raggiungere l’ufficio dalla zone in cui risiedono gli alloggi approntati da Medici senza frontiere si possono fare due strade: una, più semplice, è prendere la strada principale dove passa il tram che va a sud verso la città vecchia e Gerusalemme ovest e verso nord raggiunge Pisgat Ze’ev, un insediamento israeliano.

Una strada piena di colori, piccoli negozi di frutta,come le fragole di Gerico, rosso fiamma, e di verdure lucenti. Poi c’è un’altra strada, che passa per il vecchio villaggio di Shu’afat, dove gli alberi di olivo incorniciano le case di pietra di Gerusalemme. Se si prende questa strada, si passa di fronte ad una scuola elementare e quel chiasso infonde un senso di tranquillità, sembra quasi una vita normale.
Per andare e tornare da casa a ufficio, ci vogliono trenta minuti. A Gaza, una donna che ha partorito naturalmente, dopo trenta minuti deve lasciare il suo letto d’ospedale, per fare posto alle nuove partorienti. Qualche volta,in momenti di calma, possono trattenersi perfino due ore. Se si tratta di parto cesareo, sono previste due ore,nei giorni più caotici, e comunque le donne non possono trattenersi più di sei ore. Questo succede perché a Gaza solo 13 dei 36 ospedali sono ancora parzialmente funzionanti. Ogni giorno, ci racconta il dottor Maurizio Debanne, di Msf, camminando per quelle strade luminose, non può fare a meno di considerare quanto è relativo il valore del tempo. Trenta minuti per raggiungere il lavoro e tornare a casa, trenta minuti per mettere al mondo un figlio e alzarsi dal letto per far posto ad un’altra nascita.

21 gennaio
Nel reparto di terapia intensiva dell’ospedale Nasser il dottor Lèo Cans, il capomissione a Gaza per Msf ha trovato ottanta feriti dall’attacco aereo che qualche giorno fa, ha ucciso otto persone. Un attacco avvenuto a 150 metri dall’ospedale. Praticamente lo spazio che normalmente si estende tra la porta d’ingresso di un istituto di cura e la barriera per l’accesso, o il viale, o un posteggio antistante. Tra i feriti un bambino di nove anni. Vomitava sangue. “Penso che sopravviverà” dice Leo Cans, “ma questi attacchi sono indiscriminati, non c’è la minima traccia di un senso umano”. Un altro chirurgo racconta di bombardamenti pesanti e del panico tra i pazienti e quanti avevano cercato rifugio in ospedale. Sono scappati tutti, con le grandi buste di plastica nelle quali hanno frettolosamente raccolto quel poco che avevano a disposizione. E sono i più fortunati, i salvati. È disumano rendere insicuri gli ospedali, luoghi concepiti per salvare vite, “è straziante” aggiunge il medico “prendersi cura di queste persone, straziante essere testimoni di tutto questo”.

23 gennaio

Noor è stanca e pallida. Ha bisogno di assumere ferro e vitamina C. Nell’ospedale a Rafah appena starà meglio dovrà alzarsi e tornare a vivere nella sua tenda di plastica. La sua vera casa è a Jabalya, nel nord di Gaza, ma oggi è ridotta ad un cumulo di macerie. Vicino a lei, la nonna della bambina appena nata insiste perché la bambina si chiami Salam, pace, perché c’è bisogno di pace. Nel letto accanto un’altra bambina appena nata che si chiama Amal (in arabo speranza). Reham, la neomamma ha detto che con quel sorriso che la bambina ha sul volto non può che chiamarsi così. La speranza, ha detto, incoraggia i palestinesi ad andare avanti nonostante questi attacchi indiscriminati, soprattutto la speranza è quel che nessuno vuol perdere.

23 gennaio

Spari sulla folla in attesa di aiuti. Secondo Hamas il bilancio dell’attacco di oggi dell’Idf a Gaza City è di 20 morti e 150 feriti.Molti dei testimoni hanno detto di essere stati presi di mira dagli israeliani,mentre le vittime sono state portate negli ospedali di Al Shifa e Al Ahli . Migliaia di palestinesi sono in fuga verso la costa mediterranea.

Ultimo giorno in Palestina

Maurizio Debanne di Msf scrive:
” ci vorrebbero almeno 5 interventi chirurgici per ciascuno dei feriti che stiamo curando a Gaza. Ma dobbiamo fare i conti con la realtà atroce che non ci permette, dopo la prima operazione, di garantire la continuità delle cure. Le forniture mediche non bastano, i feriti sono troppi, molti del personale infermieristico, sono fuggiti per la paura.E così molti pazienti peggiorano. Come Fadi,un uomo di 40 anni , ferito alla gamba destra e alla spalla sinistra. Vi risparmio la descrizione delle sue sofferenze, basti sapere che abbiamo dovuto alla fine amputare la spalla perché nel nord della Striscia, dove era stato soccorso, l’avevano curato come potevano e non è bastato. Adesso non può neanche usare le stampelle. Ma noi cosa possiamo fare? L’altro giorno abbiamo medicato Miriam, che a soli 6 anni,dopo aver perso genitori e fratelli, ha dovuto subire l’amputazione della gamba destra. La medichiamo a volte senza anestesia perché gli anestetici terminano in fretta e le ferite non aspettano. Non dimenticherò facilmente quelle urla assordanti che , l’ultima volta,si sono concluse con il richiamo più straziante : mamma.
Vicino a lei c’era solo sua zia, e per fortuna che c’era, anche se gravemente ferita. Questa è una guerra senza regole ,che porta solo dolore e morte. Non ci sono giustificazioni possibili. Queste sono le scene che si ripetono l’una dopo l’altra nei diversi ospedali in cui lavoriamo”.

Maurizio Debanne capo missione di Msf :

L’aereo è decollato, questo è il mio ultimo giorno in Palestina.Missione terminata, verrà qualcun altro dopo di me. Lungo il corridoio dell’aereo adesso una bambina sta ballando a piedi nudi sulla musica di un cartone animato, accanto a lei altri due bambini guardano i Puffi: mi torna in mente ogni cosa che ho visto, ogni parola, penso ai bambini che a Gaza stanno vedendo cose che non vorremmo mostrarvi mai… Sono arrivato e vado via con la guerra ancora in corso, non mi ero fatto illusioni, forse una speranza che potesse essere accettata una tregua..…
L’abbraccio più lungo alla partenza me lo ha regalato Marilou, che è una volontaria, madre e nonna. Conosce bene la Palestina, con lo scoppio di questa guerra ha dato subito la sua disponibilità come operatrice umanitaria, adesso sarà qui per un po’ ancora ,a fine febbraio riabbraccerà i nipoti tornando a casa anche lei.
Felipe, un altro volontario è contento perché è arrivato a destinazione un nuovo carico di aiuti, Pauline invece è triste: ogni giorno le davo metà della mia Moka, adesso avrà meno caffè da bere. Enrico, un collega uscito qualche giorno fa da Gaza mi ha detto “siamo una goccia nell’Oceano”. Mi sono sentito stringere il cuore : è vero. Ma, come diceva De Andrè “siamo una goccia di splendore di umanità “ E a nome di tutte le persone della missione Palestina, ringrazio chi ci ascolta e ci sostiene, perché dentro quella goccia ci siete anche voi. E una goccia può avere un sapore più persistente di un bicchiere intero.

Nella foto: frame del video della lettura della decisione della Corte internazionale di giustizia dell’Aja, 26 gennaio 2024

Femminicidi: la Cassazione prende a sberle i negazionisti

Margherita Cassano con Mattarella

Nel 2023 “su un totale di 330 omicidi (in lieve aumento rispetto ai 325 dell’anno precedente e ai 308 del 2021), le donne risultano vittime in 120 casi (rispetto ai 128 del 2022 e ai 122 del 2021). In 97 casi (rispetto ai 104 del 2022 e ai 105 del 2021) i delitti sono maturati in ambito familiare o nel contesto di relazioni affettive”. Lo evidenzia la prima presidente della Corte di Cassazione, Margherita Cassano, in un passaggio della sua relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario. Secondo Cassano, “desta grave preoccupazione il fatto che dei sette omicidi volontari consumati già nella prima settimana del 2024 tre vedano come vittima una donna. I femminicidi – puntualizza ancora la prima presidente della Cassazione – costituiscono spesso il tragico epilogo di reati cosiddetti ‘spia’, espressivi di condotte violente (violenza privata, violazione di domicilio, lesioni, maltrattamenti in famiglia, stalking) che richiedono particolare attenzione, competenza, professionalità e tempestività d’intervento per impedire conseguenze ben più gravi”.

Per Cassano, “è altrettanto indubbio, pero’, che un forte impegno della Polizia giudiziaria e della Magistratura non è sufficiente e che esso deve essere preceduto da una forte azione di sensibilizzazione e prevenzione culturale e sociale e da azioni di ampio respiro che coinvolgano non solo la famiglia e la scuola, ma l’intera collettività e siano in grado di incidere sulle cause generali di questa drammatica involuzione delle relazioni interpersonali, in cui sulla dimensione affettiva prevalgono tragicamente l’idea del possesso e del predominio sulla donna e il disconoscimento dell’uguaglianza di genere”.

Come direbbe “Er Monnezza”: «è Cassazione». Chissà ora i vestali della fallocrazia come ci rimarranno male. 

Buon venerdì. 

Spacca Italia. Quando l’economista Viesti lanciò l’allarme con Pietro Greco

Il Senato il 23 gennaio ha dato il via libera al ddl Calderoli che vara l’autonomia differenziata, una riforma eversiva e secessionista la definiva il professor Gianfranco Viesti già nel 2018 in una conversazione con il giornalista e divulgatore scientifico Pietro Greco (1955-2020), che molto ci manca e anche per questo qui riproponiamo.

Nel 2023 il professor Viesti ha pubblicato con Laterza il libro Contro la secessione dei ricchi. Autonomie regionali e unità nazionale.

La petizione è stata lanciata da un gruppo di docenti e studiosi, primo firmatario Gianfranco Viesti, professore di economia dell’Università di Bari. E ha subito raggiunto le diecimila firme. Si rivolge al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ai parlamentari e a tutti i cittadini italiani. Ed è piuttosto allarmata. Perché, è scritto: «Il Veneto, la Lombardia e sulla loro scia altre undici Regioni si sono attivate per ottenere maggiori poteri e risorse. Su maggiori poteri alle Regioni si possono avere le opinioni più diverse. Ma nei giorni scorsi è stata formalizzata dal Veneto (e in misura più sfumata dalla Lombardia) una richiesta che non è estremo definire eversiva, secessionista». Un tentativo di secessione silenziosa, da contrastare.
Perché, professor Viesti?
Vede, la Costituzione italiana si fonda sull’uguaglianza dei cittadini. E su un principio di solidarietà fra i cittadini che prende forma con la tassazione progressiva. La fiscalità generale serve ad assicurare alcuni servizi fondamentali – la difesa, la sicurezza, la sanità, l’istruzione – a tutti, a prescindere dal loro reddito e dal luogo di residenza. Ebbene, l’iniziativa del Veneto e della Lombardia mette in discussione l’eguaglianza nei diritti di cittadinanza. Contro lo spirito della Costituzione. Un grande tema politico.
Non è una sorpresa.
Io non sono sorpreso dall’atteggiamento della Lega, che guida quelle due Regioni ed è nella maggioranza di governo. La Lega si muove con coerenza. La sua è una politica miope ma coerente: per una parte del Paese contro l’altra. Quello che mi sorprende è il silenzio pressoché assoluto degli altri partiti, compresi quelli di opposizione. Questa proposta non incontra alcuna resistenza. Di più. Non suscita alcun dibattito; nonostante sia per molti versi eversiva.
Perché eversiva? La Lombardia e il Veneto in fondo chiedono maggiore autonomia, non di staccarsi dall’Italia.
Io e i firmatari della petizione non abbiamo nulla contro una maggiore autonomia delle Regioni. Ma è indispensabile entrare nel merito. Su alcune materie l’autonomia può essere basata su ragioni forti. La prima regione ad appellarsi all’articolo 116 della Costituzione e a chiedere autonomia è stata la Toscana, per i beni culturali. Difficile essere contrari, gridare allo scandalo. Ma le iniziative del Veneto e, in buona sostanza, anche della Lombardia sono di tutt’altra natura. Vogliono il trasferimento di poteri non su alcune materie, ma su tutte quelle per cui è teoricamente possibile. Comprese quelle che riguardano diritti fondamentali. Per esempio vogliono regionalizzare la scuola.
Cosa muove queste Regioni?
Principalmente l’egoismo economico. Non vi sono, come in Catalogna o anche nei paesi Baschi motivazioni culturali e linguistiche.
Ma si può parlare a suo avviso di ampliamento degli spazi di autonomia delle Regioni? È possibile un’Italia federale?
È opportuno un equilibrio fra i poteri: un Paese come l’Italia non può essere, a mio avviso, né completamente accentrato né completamente decentrato. Il grado di autonomia regionale può crescere un po’. Ma a condizioni chiare: che ci siano evidenti motivazioni per cui attribuire maggiori poteri su specifiche materie a specifiche Regioni; che a deciderlo sia il Parlamento, in rappresentanza dell’intero Paese e non certo solo le Regioni che li richiedono; che siano tutelati i diritti fondamentali di tutti i cittadini italiani. Personalmente sono contrario alla regionalizzazione della scuola: sono a favore della scuola pubblica italiana e non della scuola veneta o lombarda.
Invece, cosa chiedono il Veneto e la Lombardia?
Chiedono tutto. Perché lo scopo è quello di ottenere tanti soldi che accompagnino le nuove competenze: molti di più di quelli che ora sono spesi dallo Stato nei loro confini. Questo è il punto chiave: sono i soldi il motore primo del processo. E chiedono, fra l’altro, al Parlamento nazionale di rinunciare alle proprie competenze: di votare una delega in bianco al governo, in modo che le specifiche condizioni, di merito e finanziarie, siano decise da una commissione tecnica Veneto-Italia.
Professor Viesti, la secessione silenziosa non riguarda solo la dimensione politica e istituzionale. Si sta consumando nei fatti, le due Italie invece di convergere divergono sempre più.
Quello di Veneto e Lombardia è l’egoismo dei ricchi in un Paese a disuguaglianza crescente. Con la grande crisi, si è accentuato un riparto asimmetrico dei sacrifici richiesti: l’aumento della disuguaglianza è frutto anche di scelte di politica economica che hanno penalizzato molto di più i cittadini e le aree più deboli del Paese. La pressione fiscale – a parità di reddito – è più alta al Sud. Sul fronte della spesa si stanno ridisegnando i grandi servizi pubblici nazionali: è il caso dell’università ma anche della sanità. Chi ha meno reddito ha meno diritti sociali. Con l’“autonomia rafforzata” questo processo potrebbe fare un grande balzo in avanti: le Regioni Veneto e Lombardia chiedono che i meccanismi di calcolo per il riparto delle risorse fra le Regioni per finanziare i servizi sia fatto tenendo presente anche il reddito dei cittadini. Più a me che sono più ricco, meno a te che sei più povero.
Che tipo di politica è questa?
È sostanzialmente secessionista: restiamo insieme solo per la difesa, la politica estera e l’appartenenza all’Europa; per il resto “padroni in casa nostra”. È autolesionista. La storia ha dimostrato che l’integrazione (nazionale, europea) è sempre vantaggiosa. Nel mondo contemporaneo “non ci si salva da soli”. Quando a competere sono giganti come gli Stati Uniti, la Cina, la Russia, l’India: quale sarebbe il potere di incidere del Veneto o della Lombardia? Praticamente nullo. La verità è che possiamo competere con quei giganti solo con un’Italia forte, in tutte le sue regioni, e inserita in un’Europa molto più coesa e capace di quella di oggi.
Però in questa vicenda della “secessione dei ricchi” una grande responsabilità la hanno anche le classi dirigenti del Sud: politiche, economiche, intellettuali.
Beh, la secessione silenziosa non riguarda solo il Sud ma tutti i cittadini italiani. Certo, il Sud, più debole, ne subirebbe le maggiori conseguenze; ma lo stesso vale anche per il Centro. Il fatto è che le classi dirigenti e i cittadini non stanno percependo quando sta avvenendo. La Lega, che propone questa politica, sta cercando di accrescere il consenso politico nel Centro-Sud: per questo non vuole che si parli di questi temi, che ne svelerebbero la persistente natura nordista. Ma gli altri partiti sembrano accettare questo gioco; frange del Partito democratico inseguono addirittura la Lega su questi temi. E le classi dirigenti politiche del Centro-Sud, in grandissima maggioranza, tacciono.

L’intervista è tratta da Left del 21 settembre 2018, dal titolo Bella Ciao

Nella foto: comitato NoAd a Bari, giugno 2021 (facebook Contro ogni autonomia differenziata)

Per approfondire, il libro di Left di dicembre 2023 Repubblica una indivisibile euromediterranea

Il milione di posti di lavoro che servirebbe

Per rimettere in piedi la sanità che tutti celebravano durante la pandemia (con la solenne promessa di restituirle dignità) servono 15 miliardi di euro e un milione di nuove assunzioni tra medici e infermieri. 

Il 19° Rapporto Sanità del Crea, Centro per la ricerca economica applicata in sanità, presentato il 24 gennaio nella sede del Cnel, a Roma, mette in numeri il divario tra la sanità italiana e quella dell’Unione europea. La bellezza dei numeri sta tutta nella capacità di disegnare le dimensioni senza bisogno di ulteriore fantasia. 

A proposito di numeri nel rapporto si ricorda che il nostro Paese ospita una delle popolazioni più anziane del mondo che ci porteranno intorno al 2032 a sfondare il muro dei 10 milioni di pazienti over 65 con patologie croniche. A questi, aggiunge il rapporto, vanno aggiunti i circa 7 milioni cronici “giovani”, tra i 18 e i 69 anni. 

Ci sarebbe da invertire anche la preoccupante tendenza dei medici per mille abitanti over 75 che sono passati dal 42,3 del 2003 al 34,6 mentre gli infermieri da 61 sono diventati 52,3. A proposito di anziani non autosufficienti il numero di operatori socio sanitari sono 86,4 per mille abitanti over 75, contro i 114,6 della Spagna, i 175,8 della Francia e i 211 del Regno Unito. 

L’unico dato in continuo miglioramento è il fatturato della sanità privata che nel 2022 ha raggiunto i 40,1 miliardi di euro ( +0,6% medio annuo nell’ultimo quinquennio) con Trentino-Alto Adige (21,0%) e Lombardia (19,7%) che fieramente svettano. 

Alla luce del quadro descritto ognuno può liberamente giudicare il definanziamento nella Sanità del 3% dal 2016 al 2021. 

Buon giovedì. 

Nessuna resa. Si moltiplicano le iniziative contro l’autonomia differenziata

illustrazione di Fabio Magnasciutti

Ieri si è purtroppo realizzato quello che – inascoltati o quasi – stiamo dicendo da quasi 6 anni. Non era il nostro allarmismo, ma semplicemente la capacità di immaginare ciò che sarebbe accaduto – forti della conoscenza del dettato della Costituzione – a spingerci a creare Comitati e Tavolo NOAD, concentrati su un unico scopo: denunciare l’eversione del progetto di autonomia differenziata, che ieri ha acquisito il sì del Senato. L’Aula ha approvato con 110 voti favorevoli, 64 contrari e 3 astenuti, il ddl per l’attuazione dell’autonomia differenziata. Il testo passa alla Camera per la seconda lettura.
Il patto scellerato tra Lega e Fratelli d’Italia – lo scambio alla pari autonomia differenziata/premierato forte – acquisisce pericolosa concretezza.
Le bandierine italiane sventolate dal Pd alla conclusione del voto dovrebbero essere accompagnate da un serio esame di coscienza da parte di un partito che ha contribuito largamente a portare il Paese fino a questo – non imprevedibile – risultato, varando nel 2001 la cosiddetta riforma del Titolo V, con cui venne ‘costituzionalizzata’ l’autonomia differenziata.
Del richiamo a tali dirette responsabilità – Calderoli &C hanno riempito i propri interventi in Aula. Le dichiarazioni della segretaria Elly Schlein – durante il presidio che Comitati e Tavolo hanno fatto al Pantheon, il 16 gennaio, in occasione dell’inizio della discussione in Aula – ha rivendicato un cambiamento di atteggiamento da parte del Pd, in seguito al congresso. Ne siamo felici: questo potrebbe determinare un cambio di passo più significativo durante la discussione alla Camera, dove il regolamento consente maggiori margini di manovra. Tuttavia, affinché si blocchi il ddl Calderoli, è necessaria una mobilitazione nel e del Paese unendo Nord e Sud contro i Lep (livelli essenziali di prestazioni) e le arretratezze territoriali. Occorre che i sindacati coinvolgano i lavoratori in questa lotta, occorre attivare i/le cittadini/e del Sud, smascherando le manovre della presidente Meloni, che chiede i voti delle genti meridionali, mentre taglia il reddito di cittadinanza e subisce i ricatti di Salvini.
Infatti, la Lega ha ben motivo di esultare sventolando il vessillo della Serenissima, ma Fratelli d’Italia avrà il suo bel daffare a giustificare il tradimento degli elettori del Sud, perpetrato attraverso il voto positivo, che sconfessa la promessa fatta in campagna elettorale ai territori e ai moltissimi elettori del Mezzogiorno, che l’autonomia differenziata non sarebbe passata e che il partito avrebbe tutelato il Sud. Che Fratelli d’Italia possa essersi infilato in una situazione estremamente complicata, lo dimostra l’emendamento tentato in Aula in extremis, giovedì scorso, dal senatore De Priamo, di FdI, che, sostenuto dal presidente della I commissione Affari Costituzionali del Senato, Balboni (FdI), ha proposto un emendamento all’art. 4 del ddl Calderoli. Secondo tale emendamento, qualora una Regione che avesse raggiunto l’intesa avesse migliorato i livelli di prestazione essenziale, questo nuovo livello più elevato avrebbe dovuto essere generalizzato a tutte le Regioni. È intervenuta con una tagliola la V Commissione Bilancio (pur presieduta da un senatore di FdI, su spinta del ministero dell’Economia e delle Finanze, modificando radicalmente tale emendamento e reintroducendo, invece, il discorso del vincolo e degli equilibri di bilancio. Pertanto, anche questo emendamento interno alla maggioranza – evidentemente consapevole dell’abisso in cui sarà relegato il Sud che mirava appunto almeno a garantire i livelli essenziali su scala nazionale – è stato bocciato.
È evidentemente impossibile – e lo affermiamo da 5 anni – che l’autonomia differenziata porti a garantire, secondo il dettato del secondo comma dell’articolo 3 della Costituzione, a tutti/e i servizi e i livelli delle prestazioni su scala nazionale: tutta la riforma deve avvenire a costo zero.
Lo stesso senatore De Priamo – durante la dichiarazione di voto in Senato – dopo aver scomodato persino Dante, ha evocato i borghi, le cucine, il folclore, rivendicando il valore «sacro» (così, testualmente è stato definito) dell’unità di Italia, ricordando i martiri che per essa si sono sacrificati. In nome di questo sacro valore, ha concluso, FdI ha espresso convintamente il proprio voto favorevole, forte della convinzione che appoggiare l’autonomia differenziata (basterebbe riflettere su quell’aggettivo per notare l’ossimoro, ndr) sia la cosa giusta da fare.
La riforma, quindi, istituzionalizzerà le attuali diseguaglianze, aumentandole, considerata la totale assenza di fondi per provvedere a qualsivoglia forma di perequazione; verrà istituito una sorta di ius domicilii, secondo il quale i diritti garantiti e la loro esigibilità saranno conseguenti al certificato di residenza di cittadine e cittadini: dimmi in che regione abiti e ti dirò di che diritti potrai usufruire e quali potrai esigere.
Noi non ci arrendiamo. Abbiamo sollevato la questione – come Comitati per il Ritiro di ogni autonomia differenziata, l’unità della Repubblica e l’uguaglianza dei diritti – a livello di ParlamentoEuropeo. La nostra denuncia poggia addirittura su una considerazione fatta dalla Commissione stessa lo scorso giugno quando, nel suo country report, ha affermato che è impossibile garantire i Lep a risorse invariate. La petizione ha ottenuto un risultato positivo, grazie anche alla parlamentare europea del gruppo dei Verdi, Rosa D’Amato: la petizione continuerà ad andare avanti e la Commissione sarà costretta a rispondere alle nostre osservazioni.
La nostra attività di formazione e informazione continuerà ad andare avanti (ancora oggi la maggior parte di cittadine e cittadini non sono consapevoli di cosa sia l’autonomia differenziata): in programma c’è la presentazione del volume che Left ha dedicato recentemente al tema e un seminario dal titolo “Autonomia Differenziata e donne”: le questioni – ad esempio – relative alla chiusura dei consultori e agli ostacoli all’interruzione di gravidanza non sono affatto estranee al tema autonomia differenziata, e subiranno ulteriori strette. Sul piano della mobilitazione, il 24 febbraio a Milano, presso la Camera del Lavoro, ci sarà un’assemblea sui temi Lep, contratti nazionali, privatizzazione, cui parteciperanno voci autorevoli e esponenti dei movimenti, a sottolineare che l’AD non colpirà solo il Sud. Il 16 marzo a Napoli è prevista una manifestazione nazionale che verterà – oltre che sui Lep e sugli squilibri territoriali – sul tema delle servitù (per l’energia, per la logistica) che il Sud sarà costretto a fornire al Nord per sopravvivere.
Se e quando il ddl dovesse passare anche alla Camera, organizzeremo capillarmente i comitati regionali per creare movimenti che si oppongano alle eventuali intese che i presidenti di regione potrebbero voler stipulare con il governo, e parteciperemo a tutte le iniziative locali e nazionali che verranno intraprese per bloccare l’autonomia differenziata, la cui lotta si intreccia con quella contro il premierato assoluto. Il capogruppo della Lega al Senato, Romeo, da novello Montesquieu, sostiene che l’AD bilancia il premierato. Ma è solo un’affermazione manipolatoria: l’autonomia differenziata rafforzerà ancora di più i poteri autocratici dei governatori regionali che si integreranno con, e non bilanceranno, l’autocrazia elettiva del premier se mai passasse la riforma costituzionale di Giorgia Meloni.
Ci attende, quindi, ancora uno grande sforzo, per bloccare l’AD e il premierato assoluto, a difesa della Costituzione repubblicana, nata dalla Resistenza.

 

Documenti per approfondire:

Senato, Seduta del 16 gennaio 2023
Emendamento 4.203 (De Priamo, Lisei, Spinelli ) Si trova a questo link Fascicolo emendamenti n. 2 (PDF) pagina 80

«Al comma 1, in fine, sostituire le parole: “e con riferimento all’intero territorio nazionale al fine di evitare disparità di trattamento tra Regioni” con le seguenti: In quest’ultimo caso con il medesimo provvedimento legislativo di stanziamento delle risorse finanziarie a copertura degli eventuali maggiori oneri per l’esercizio delle funzioni riferibili ai LEP oggetto di trasferimento alle Regioni, sono contestualmente incrementate le risorse volte ad assicurare i medesimi livelli essenziali delle prestazioni sull’intero territorio nazionale al fine di scongiurare disparità di trattamento tra Regioni»

Questo sopra è l’originario emendamento e dal testo si evince che quando una Regione che gode della devoluzione innalza i Lep, allora contestualmente si devono assicurare i nuovi livelli sull’intero territorio nazionale; quella sotto è la modifica chiesta, votata e inserita nel testo finale della legge, e dice che vanno salvaguardati gli obiettivi di finanza pubblica e gli equilibri di bilancio, con rinvii specifici che rafforzano il dettato normativo, dunque le altre Regioni rimangono ‘a secco’. Insomma dice l’opposto.
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La riformulazione poi definitiva si trova a questo link seguendo la scaletta Emendamenti – in Assemblea Art. 4 – 4.203 (testo 2) Approvato

DELLA PORTA, relatore. Signor Presidente, esprimo parere contrario su tutti gli emendamenti riferiti all’articolo 4, con l’eccezione dell’emendamento 4.203, su cui esprimo parere favorevole ove accolta la seguente riformulazione: “Al comma 1, in fine, sostituire le parole da: «coerenti con gli obiettivi programmati» fino alla fine del comma con le seguenti: «volte ad assicurare i medesimi livelli essenziali delle prestazioni sull’intero territorio nazionale, ivi comprese le Regioni che non hanno sottoscritto le intese, al fine di scongiurare disparità di trattamento tra Regioni, coerentemente con gli obiettivi programmati di finanza pubblica e con gli equilibri di bilancio, nel rispetto dell’articolo 9 della presente legge e della lettera d) del comma 793 dell’articolo 1 della legge 29 dicembre 2022, n. 197»”.

 

l’autrice: la docente Marina Boscaino è portavoce dei comitati NoAd. È coautrice del libro di Left Repubblica, una indivisibile euromediterranea