All’operaio che ad Auschwitz seppe dare rapporto umano al giovane deportato, lo storico ha dedicato il libro "Un uomo di poche parole". Una ulteriore tappa di una ricerca civile e militante: «Non dobbiamo arretrare di un passo di fronte a chiunque giochi sporco nella partita della memoria pubblica»

Ancora abbiamo vivide nella mente le immagini e la storia del tenente tedesco Rudolf Jacobs che, disertando, decise di passare dalla parte dei partigiani, a costo della vita. Ci aveva fatto appassionare alla sua vicenda lo storico Carlo Greppi che gli ha dedicato Il buon tedesco (Laterza, 2022), un libro drammatico e insieme pieno di vita anche per quello che ci comunica oggi. Ora Greppi torna in libreria con un libro, se possibile, ancor più toccante perché ci racconta la storia della silenziosa amicizia, fra un giovanissimo internato nel lager, Primo Levi, e l’operaio Lorenzo Perrone che gli salvò la vita, portandogli di nascosto la sua zuppa ma soprattutto dandogli rapporto umano.
Di questo ci racconta Un uomo di poche parole. Storia di Lorenzo, che salvò Primo (Laterza), fra rigorosa ricerca storica e scrittura avvolgente, narrativa. Siamo tornati a cercare Carlo Greppi per saperne di più di questo suo nuovo lavoro (che a poche settimane dalla sua prima uscita ha già avuto varie ristampe) ma anche del suo manuale di storia per le superiori e delle novità della collana “Fact checking. La storia alla prova dei fatti” che lo storico torinese cura per Laterza.

Carlo Greppi, quelle di Jacobs e di Perrone sono due storie diversissime ma accomunate dalla disobbedienza civile e dal rifiuto netto dell’oppressione nazifascista. Jacobs scelse di disertare, mentre Lorenzo come lei scrive, dal basso, a suo modo, volle gettare la sua pietra nell’ingranaggio della Shoah per tentare di fermarlo?
In comune ebbero la capacità di maturare, al di là delle circostanze e del contesto, una scelta radicale di opposizione intransigente alle peggiori derive del loro tempo. Come ricercatore ciò che mi ha attratto in entrambi i casi è stata la possibilità di dissotterrare storie che non sono conosciute quanto meriterebbero. Mi affascina molto l’idea di cercare di riportare alla luce delle vicende appannate o del tutto sommerse.

Nel suo libro lei cita I giusti (Iperborea) di Jan Brokken. Lo scrittore olandese che ha avuto il merito di far conoscere storie di uomini e donne che salvarono ebrei rischiando la propria vita. Sono noti a tutti i casi di Schindler, reso celebre dal film di Spielberg e di Perlasca raccontato dal libro di Deaglio e poi da Rulli e Petraglia nel film di Negrin. Tante storie come quella di Lorenzo rischiano di rimanere sotto traccia perché i protagonisti erano persone umili, senza mezzi, senza visibilità sociale?
È una ipotesi che avanzo prudentemente. È innegabile tuttavia che figure più note, più conosciute, anche a livello internazionale, che avevano una buona posizione e possibilità di manovra nel contesto in cui operavano, abbiano lasciato molte più tracce di sé. Beninteso tutti noi lasciamo tracce, ma una persona umile con la terza elementare non si preoccupa minimamente di scrivere di sé o di raccontare ciò che ha fatto. Per di più Lorenzo muore pochi anni dopo il suo ritorno in Italia. Nulla avremmo saputo di lui se non avesse incontrato quel ragazzo che poi sarebbe diventato Primo Levi. Mentre scrivevo questo libro mi chiedevo: chissà quanti altri Lorenzo ci sono che non hanno avuto la fortuna più che legittima, giustificatissima, di essere nel pantheon civile globale?

Colpisce il silenzio pieno di attenzione che Lorenzo ha verso Primo. Riesce ad arrivare a lui al di là delle parole. La zuppa che gli ha portato per mesi è stata fondamentale ma ancor più importante è stato il rapporto umano?
Ricordiamoci che Primo Levi allora era un ragazzo che rischiava di essere una vittima dello sterminio e risucchiato nel buco nero della Shoah. D’altro canto, se mai fosse uscito vivo da lì, rischiava di sopravvivere con un’idea dell’umanità tremenda, implacabile. Invece, come Primo scrive nella prima edizione di Se questo è un uomo (De Silva I947, poi Einaudi 1958, ndr), Lorenzo gli dette una buona ragione per sopravvivere perché gli mostrò, non tanto per l’aiuto materiale che pure fu fondamentale, che esistono esseri pienamente umani anche nel cuore dell’orrore. «Qualcosa di puro e intero», scrive Primo Levi, che pure era sempre molto cauto nell’usare parole importanti.

Questo libro getta luce anche sulla storia degli operai, nei fatti anch’essi “deportati” poiché si trovarono a lavorare nei lager, loro malgrado. Come lei ricorda, della sorte di questi lavoratori scrisse il Corriere della Sera nel 2001 molto tardivamente. Perché a lungo non se ne è saputo niente?
Ci sono state delle ricerche ma perlopiù scarsamente note al grande pubblico. Poco si è saputo del grande accordo italo tedesco che portò lo stesso Lorenzo ai margini di Auschwitz. E che portò migliaia di volontari italiani nel cuore del Terzo Reich. Relazioni molte solide sul piano industriale e produttivo legavano l’Italia e la Germania. Del resto, dalla metà degli anni Trenta in poi furono fedeli alleate. Lorenzo Perrone arrivò a Auschwitz nel 1942. All’epoca, in qualunque territorio lui avesse lavorato -, italiano, francese o tedesco o polacco – si sarebbe trovato in ogni caso alle dipendenze di una industria che operava sotto la cappa dell’asse tedesco. I lavoratori umili non avevano possibilità di scelta.

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha detto che alle Fosse Ardeatine furono trucidate 335 persone solo «perché italiane». Quanto è importante, anche in vista del prossimo 25 aprile che immaginiamo sarà molto “dibattuto”, tornare a parlare in termini rigorosi di ciò che è stato?
Penso che il nostro ruolo oggi si svolga in un momento decisivo, in cui non dobbiamo arretrare di un passo. Parlo al plurale perché penso a tutto il gruppo di Fact checking, al lavoro che stiamo facendo con Laterza e ai tanti colleghi e tante colleghe con i quali condivido questo percorso di militanza civile, democratica. Dobbiamo rivendicare ciò in cui crediamo, ovvero che il 25 aprile 1945 è stato il momento più alto della storia nazionale. Ed ha avuto una forte venatura internazionalista come le ultime ricerche stanno dimostrando. La Resistenza fu transnazionale. Io penso che chiunque tenta di squalificare o ridimensionare quella stagione della storia italiana sia vittima di questa ondata di luoghi comuni che da decenni inquinano il discorso pubblico, oppure è in mala fede. Con chi è vittima di luoghi comuni si può e ci si deve assolutamente lavorare. È ciò che cerchiamo di fare con i nostri libri, con le nostre conferenze, con interviste. Penso però che sia necessario fronteggiare a muso duro chiunque giochi sporco nella partita della memoria pubblica. Lo ripeto spesso citando il libro di Chiara Colombini Anche i partigiani però il volume della collana Fact checking in cui lei ha mostrato nitidamente come la grande prospettiva resistenziale sia stata svalutata elevando l’eccezione a norma, fotografando alcuni casi molto specifici e problematici (perché l’essere umano è complesso) e usandoli per infangare tutti i mesi e gli anni di antifascismo storico. Il nostro lavoro è anche rimettere tutto nel giusto contesto storico e riequilibrare il discorso in base ad alcuni valori fondanti.

Il libro di Colombini evidenzia la nostalgia dei reduci di Salò che traspare nelle varie forme di post fascismo oggi ma parla anche dell’avanzare di una memoria afascista…
Sì, questi decenni di revisionismo spinto hanno fatto tanti danni. Lo si sente nel chiacchiericcio sulla storia del ventennio e della liberazione. È un male in termini oggettivi ma è anche una grande opportunità. Ribadisco: sulla memoria di chi si dichiara superficialmente afascista ed equidistante si può lavorare, mentre con i nostalgici ci si può solo scontrare. Non si possono legittimare posizioni inqualificabili nel discorso pubblico. La base comune dovrebbe essere che siamo tutti democratici e che ci riconosciamo nei valori fondanti della nostra comunità. Se non sei solamente afascista, ma sei fascista allora non abbiamo nulla da dirci, siamo a tutti gli effetti avversari.

Quanto le è apparso grave derubricare a rissa l’aggressione squadrista avvenuta davanti al liceo Michelangiolo di Firenze? E che valutazione dà del modo in cui il ministro Valditara è intervenuto stigmatizzando la lettera della preside ai ragazzi?
È la spia di un clima asfissiante in cui si politicizza tutto e quando la matrice è molto chiara, e tra l’altro molto vicina al partito di governo Fratelli d’Italia, letteralmente la si butta in vacca. Personalmente sono stato molto rincuorato dall’energica reazione trasversale che c’è stata nel mondo della scuola, sia da parte dei dirigenti che dei docenti e degli studenti. Dimostra che quel mondo è più vitale e reattivo di quanto si pensi e si dica. Dunque la preoccupazione è tanta per le prese di posizione dei vertici del governo (che per altro non mi stupiscono) ma al tempo stesso sono molto fiducioso: a mio avviso nel mondo della scuola ci sono energie e sotto traccia c’è la capacità di una presa di posizione forte, non scontata. Sta a noi farle emergere e sostenerle come nel caso della lettera della professoressa-dirigente scolastica.

Su cosa si basa l’impianto del manuale per le superiori Trame del tempo che lei ha realizzato con alcuni altri colleghi?
Il nostro manuale uscito per Laterza è un tentativo di far entrare studenti, studentesse e docenti nel laboratorio dello storico mostrando come funziona il nostro mestiere intrecciando il grande racconto con le fonti, con la storiografia. Nasce per aiutare i ragazzi a conoscere la conoscenza e a innamorarsi della storia, come è capitato a noi e a tutti quelli che fanno la nostra professione. È una sfida che ci sta portando in parecchie scuole d’Italia, come del resto faccio ormai da vari anni. Mi rendo conto che tutto questo un po’ in controtendenza perché la semplificazione, troppo spesso, è anche banalizzazione e produce un effetto grave: percepire la storia come una serie di dati, come un elenco asettico di eventi molto legato alle vicende politico-diplomatiche. Il processo della conoscenza invece è in continua evoluzione e parlando di uomini e donne del passato ci dice molto di quello che siamo noi esseri umani. Credo che questo sia un grande veicolo per trasmettere passione e conoscenza e spero che questa sfida verrà in gran parte vinta.

Dopo volumi importanti come quello di Colombini, come quello di Eric Gobetti E allora le foibe?, e come quello di Franzinelli Il fascismo è finito il 25 aprile 1945, che temi affronterete con nuovi titoli?
Posso dire che di sicuro si parlerà di statue (con il libro di Tomaso Montanari Le statue giuste, appena uscito ndr) di questioni di genere e di vicende dell’Italia repubblicana. E posso aggiungere che ci saranno uscite con un respiro internazionale di cui al momento non posso rivelare di più.

L’intervista è uscita su Left del primo aprile 2023

La foto d’apertura ritrae Primo Levi con Francesca Sanvitale a un premio Strega, fonte wikipedia