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L’indifferentismo alla politica

Vale la pena recuperare il celebre discorso che Piero Calamandrei fece agli studenti nel 1955. «Però, vedete, la Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta: lo lascio cadere e non si muove. Perché si muova bisogna ogni giorno, in questa macchina, rimetterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere quelle promesse, la propria responsabilità. Per questo una delle offese che si fanno alla Costituzione è l’indifferenza alla politica, l’indifferentismo, che è, non qui per fortuna, in questo uditorio ma spesso in larghi strati, in larghe categorie di giovani. È un po’ una malattia dei giovani, l’indifferentismo». 

Occuparsi dell’indifferentismo e non scambiarlo per semplice astensionismo potrebbe essere il primo passo. Vale ancora la storiella – che amava raccontare Calamamandrei – di quei due migranti, due contadini che attraversano l’oceano su un piroscafo traballante. Uno di questi contadini dormiva nella stiva e l’altro stava sul ponte e si accorgeva che c’era una gran burrasca con delle onde altissime. Il piroscafo oscillava e allora quando il contadino, impaurito, domanda ad un marinaio: «Ma siamo in pericolo?» e quello dice: «Se continua questo mare, fra mezz’ora il bastimento affonda». Allora lui corre nella stiva, va a svegliare il compagno e grida: «Beppe, Beppe, Beppe!». «Se continua questo mare, fra mezz’ora il bastimento affonda!». E quello: «Che me ne importa, non è mica mio!».
Questo è l’indifferentismo alla politica: è così bello, è così comodo, la libertà c’è, si vive in regime di libertà, ci sono altre cose da fare che interessarsi di politica.

Buon mercoledì. 

Via libera del Senato al ddl Calderoli e alla secessione dei ricchi

L’autonomia differenziata crea una corsia preferenziale solo per le Regioni ricche che tentano ora, date le ristrettezze di bilancio, un’autonomia accelerata senza definizione dei Lep. Nei fatti si stanno costruendo tre nuove Regioni a statuto speciale, agendo al di fuori della legge Calderoli del 2009, la legge 42 sul federalismo fiscale che prevede appunto il superamento della spesa storica attraverso i Lep (Livelli Essenziali delle Prestazioni). Il punto resta superare la spesa storica, cioè un criterio che danneggia i cittadini governati da amministratori inefficienti o presunti tali, dato che spesso, ma questo nessuno mai lo sottolinea, meno hanno speso per i servizi solo a causa di una sperequata distribuzione territoriale delle risorse da parte dei Governi.

Infatti, a proposito di puntuale rispetto della Costituzione, argomento spesso usato come scudo dai “separatisti”, la corretta procedura prevista dall’art. 116 della Costituzione chiude con la frase: «nel rispetto dell’art 119 e della legge del 2009 (che prevede appunto fondi perequativi mai definiti) e rimanda poi all’art 117 dove si parla dei diritti di cittadinanza che devono essere garantiti allo stesso livello su tutto il territorio nazionale, previa definizione dei Lep, cosa mai avvenuta e in attesa dal 2001, che si vuole ancora rinviare e che è già costata al Mezzogiorno oltre 840 miliardi di euro (Eurispes – Rapporto Italia 2020). Verrebbe così affermata la fine di quanto previsto nella prima parte della Costituzione e cioè di cittadini italiani tutti con gli stessi diritti, per cedere il posto ad una “doppia cittadinanza», di serie A e di serie B.

Ma non è solo un problema di Nord Vs Sud come alcuni vogliono far intendere, visto che anche all’interno dello stesso territorio regionale ci saranno territori e quindi cittadini favoriti o sfavoriti, ad esempio territori montani Vs città. Si verrebbero così a costituire micro repubbliche regionali con a capo “governatori” con pieni poteri che potranno decidere su un ventaglio di materie amplissimo, dalla scuola, alle strade e autostrade, alle centrali idriche, all’ambiente etc. Un anticipo di Premierato prossimo venturo nazionale, alla base dello scambio fra Lega e FdI: autonomia differenziata in cambio del presidenzialismo.

La legge approvata oggi al Senato oltretutto non chiarisce se i presidenti possono privatizzare a piacimento anche la sanità, stabilisce solo che si debba ripartire dalle trattative del 2019. Ma i testi contenenti le proposte di intese Stato-Regioni di allora sono segreti. Altro motivo di allarme è che Calderoli ha prodotto nella scorsa primavera una ricognizione delle specifiche funzioni che potrebbero essere regionalizzate che include addirittura circa 500 funzioni, praticamente la Regione assumerebbe, nei fatti, i poteri di uno Stato sovrano. L’antico sogno della Lega (Nord) realizzato: quello della secessione.
Non a caso, anche questo documento è tenuto rigorosamente segreto, Perché i cittadini non devono sapere? Perché “poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora”?

Nessuno inoltre si chiede chi risponderà del carico del debito pubblico italiano. Infatti, anche ammettendo l’ipotesi dell’esistenza di un residuo fiscale, vi sarebbe un palese errore di calcolo in quanto non si terrebbe conto del fatto che una parte della differenza di quanto versato all’erario rispetto a quanto trasferito dallo Stato alle Regioni ritornerebbe sul territorio regionale in forma di pagamento degli interessi sui titoli del debito pubblico posseduti dai soggetti residenti in quelle regioni. In ultima analisi il rischio contenuto nell’attuazione del terzo comma dell’art. 116 non sarebbe soltanto quello politico di una possibile rottura dell’Unità nazionale, ma anche quello, ben più concreto, di rendere non più sostenibile il debito pubblico statale a causa della riduzione dei flussi di cassa di livello statale. Non basta infatti determinare i Lep se poi non ci sono le risorse per garantire quel fabbisogno, in questo consiste il bluff leghista.

Ad esempio è stato calcolato che la perdita per lo Stato, limitatamente al solo “Asse” (cit.) delle Regioni del Nord sarebbe di 112 miliardi all’anno. È quanto resterebbe a Lombardia, Veneto ed Emilia se il 90% di Irpef, Ires e Iva non fosse versato allo Stato
Il Tesoro si troverebbe ad avere 112 miliardi di euro in meno, secondo stime pubblicate dalla stessa Regione Veneto sul sito dedicato all’Autonomia differenziata e 190 miliardi, secondo i calcoli elaborati qualche tempo fa dal presidente della Svimez. La differenza sta nel fatto che, nel secondo caso, i conteggi hanno tenuto conto anche dei contributi previdenziali oltre che delle tasse.
La sola Lombardia ha un gettito Iva di oltre 21 miliardi, un gettito Irpef di 36 miliardi e uno Ires di 12 miliardi. Quanta parte potrà essere devoluta? Secondo gli stessi conteggi del portale dell’Autonomia del Veneto, la spesa regionalizzata in Lombardia è di 42 miliardi, nel Veneto di 18 miliardi, in Emilia Romagna di 17 miliardi. Il punto centrale rimane la dinamica delle entrate. Nell’anno zero si può trasferire una somma pari a quella spesa dallo Stato. Ma che succede poi negli anni successivi se il gettito aumenta? L’extra a chi spetterebbe, allo Stato o alla Regione? E se il gettito diminuisce? Domande che restano senza risposta…

Anche Commissione Ue ha avvisato che lasciare tutto questo gettito a Regioni grandi e ricche metterebbe in dubbio la capacità del Tesoro di far fronte al debito pubblico. La stessa Banca d’Italia si è detta molto preoccupata sulla possibilità di operare quelle forme di redistribuzione fra i cittadini previste dalla Costituzione. Eppure…
Come da tempo si va ripetendo, più che i mai definiti Lep bisognerebbe domandare e definire i Lup e cioè Livelli Uniformi delle Prestazioni, perché con i Lep, vera e propria arma di distrazione di massa, l’asticella da parte di chi governa potrebbe essere collocata così in basso e le cifre relative essere così miserabili da renderli inutili. La legge infatti prevede espressamente l’invarianza di bilancio. Quindi possono essere definirli, ma non certo finanziati. Non a caso Zaia, dichiarava al Corriere della Sera di lunedì 6 dicembre 2022: «Usciamo dalla narrazione che tutti siamo uguali».
Il che rende bene l’idea di cosa bolle in pentola a danno dei cittadini. Un motivo in più per ribadire che la Costituzione afferma che tutti gli italiani devono avere gli stessi diritti. Se invece la Costituzione non è più in vigore e di conseguenza il patto di cittadinanza non è più valido ce lo facciano sapere, così che i cittadini possano attrezzarsi di conseguenza.

Non a caso nel maggio scorso il Servizio Bilancio del Senato ha documentato come l’autonomia regionale differenziata porti, nei fatti, alla fine dell’attuale Stato unitario. L’abnorme decentramento di funzioni e risorse finanziarie creerà appunto enormi problemi al bilancio dello Stato e al finanziamento dei servizi nelle altre regioni, più povere, che imploderebbero anche per impossibilità dello stato ad assicurare i Leo. È un documento ufficiale pubblicato sul sito del Senato e diffuso sui social. Poi degradato dopo furiose polemiche a bozza da verificare.

Come reagiranno i 20 milioni di cittadini del Mezzogiorno di fronte a simili modalità, addirittura peggiorative rispetto alle attuali, una volta accertato l’ennesimo raggiro? Ecco perché dire che il Paese è a rischio balcanizzazione non è assolutamente un artificio lessicale, ma stringente attualità.

Oltretutto che l’autonomia differenziata sulle 23 materie oggi gestite dallo Stato possa essere concessa a tutte le 15 regioni ordinarie è un bluff accertato. L’autonomia la può ottenere soltanto il Nord. A certificarlo è stato anche l’Ufficio Parlamentare di Bilancio che a fine giugno scorso ha depositato in Commissione Affari Costituzionali del Senato un documento che per la prima volta ha provato a rispondere compiutamente a una domanda centrale del progetto autonomista: quali Regioni hanno davvero abbastanza capienza di gettito per gestire in proprio i servizi che oggi dispensa lo Stato? Più sono ricchi i cittadini, più tasse versano, più facile sarà ottenere l’autonomia e gestire le materie perché l’aliquota di compartecipazione alle tasse dello Stato sarà abbastanza capiente da finanziare tutti i servizi trasferiti. In altri termini, per alcuni territori, cioè tutte le Regioni del Sud e diverse del Centro, l’autonomia rischia di essere troppo cara e non se la possono permettere.

Ultimo colpo di scena la critica all’autonomia differenziata è venuto dalla stessa struttura chiamata a porne le basi e cioè dalla “mini costituente”, il Comitato per la definizione dei Lep (Clep), composta da membri nominati da Calderoli e scelti in modo preponderante al Centro Nord, molti dei quali già da tempo fortemente orientati a favore dell’Autonomia differenziata. Il tutto con il Parlamento completamente tagliato fuori. Persino da questa Commissione, nel luglio scorso, sono giunte critiche con una lettera pubblica di quattro influenti membri che han presentato le dimissioni: “è discriminatoria, va riportata sui binari definiti dalla nostra Costituzione. Il criterio della spesa storica crea diseguaglianze e le risorse sono un’incognita”. Il che fa capire come il rischio per l’unità dello Stato sia più che mai reale.

Si può pertanto affermare che l’Autonomia differenziata è un progetto liberista che mette in pericolo l’unità stessa del Paese. Chi si è accodato a queste richieste, spesso definendosi patriota (non si sa di quale patria, evidentemente quella Padana) si assume interamente e a futura memoria la responsabilità della possibile, e certo non auspicabile, “balcanizzazione” del Paese. Il tutto mentre i dati Istat degli ultimi anni, pongono in evidenza come i divari territoriali e sociali da anni si stanno sempre più approfondendo, così come la desertificazione demografica del Mezzogiorno.

Malgrado quanto sopra il DDL Calderoli, uscito dalla Commissione Affari Costituzionali, è stato ieri sera approvato a maggioranza dal Senato, anche con il voto favorevole dei Senatori del destracentro eletti nei collegi meridionali…

A questo punto non resta altro da fare che aumentare la resistenza a questa scellerata iniziativa. Organizzarsi, valutare se c’è la possibilità di richiedere o meno un Referendum abrogativo (sono in corso in queste ore approfondimenti) e nel caso creare i relativi Comitati, convocare rapidamente fra tutti i volenterosi gli “Stati Generali del Meridione (e/o dei meridionalisti)” alla ricerca di unità e sintesi di tutte le varie anime della galassia progressista fra chi si dichiara convintamente “anche” meridionalista. Un “campo largo”, aperto al contributo di tutti quelli che non ci stanno ad essere gettati nel mucchio dei vinti.
Lanciare squilli di rivolta, creare focolai che indichino una via possibile di resistenza civile ad un progetto chiaramente eversivo dell’unità nazionale. Questa da oggi deve essere la principale missione di chi persegue e vuole giustizia sociale.

Natale Cuccurese è presidente del Partito del Sud ed è uno degli autori del libro di Left, Repubblica unica indivisibile e Euromediterranea, che sarà presentato il 3 febbraio a Salerno. È acquistabile su libri Left

Ultima generazione scrive a Mattarella

“Mattarella non firmi la legge sulle ecoproteste”. I giovani di Ultima generazione lanciano un appello al Capo dello Stato per chiedere che non diventi legge il ddl s.693 che inasprisce le pene a chi imbratta per protestare legittimamente contro un’ingiustizia sociale rispetto a chi semplicemente vandalizza un manufatto senza alcun motivo. Per gli attivisti significherebbe “tornare al reato di opinione, inaccettabile in una democrazia” e per questo chiedono a Mattarella “una presa di posizione chiara rispetto a queste intimidazioni e chiediamo che solleciti il governo invece a intervenire per le vittime della crisi in Italia”. Ultima generazione ricorda anche le parole di Mattarella in occasione del suo discorso di fine anno nel 2022, quando disse: “Non è un caso se su questi temi, e in particolare per l’affermazione di una nuova cultura ecologista, registriamo la mobilitazione e la partecipazione da parte di tanti giovani.” Ma anche nel recente Messaggio di Fine Anno del 31 dicembre 2023: “I giovani si sentono fuori posto. Disorientati (…) Un disorientamento che nasce dal vedere un mondo che disconosce le loro attese. Debole nel contrastare una crisi ambientale sempre più minacciosa”.

Nel comunicato gli attivisti dell’associazione ambientalista si dicono scandalizzati dai “10 astenuti d’Italia Viva e di Azione che, come gli ignavi della Divina Commedia, hanno deciso di non schierarsi: i complici migliori di ogni cultura autoritaria repressiva” e delusi “dall’assenza al voto del leader di partito Bonelli (Verdi), Conte (Movimento 5 Stelle) e Schlein (Pd). Sebbene i deputati di questi partiti abbiano votato contro il ddl, – scrivono – la loro assenza su un provvedimento legislativo pericoloso per tutti noi cittadini denota superficialità e sottovalutazione del problema”. 

Sono 12 le persone di Ultima generazione attualmente ancora sotto misure cautelari. 

Buon martedì. 

Nella foto: l’immagine che accompagna l’appello di Ultima generazione al presidente della Repubblica Mattarella

Medici senza frontiere a Gaza: «Gli aiuti non arrivano e le persone muoiono»

Mentre si assiste ad una escalation della guerra a Gaza e in Israele sale la protesta contro la politica di Netanyahu – i parenti degli ostaggi hanno fatto irruzione nel Parlamento, i laburisti vogliono sfiduciarlo – nella Striscia i bombardamenti e lo stato d’assedio hanno causato oltre 25 mila vittime, di cui la maggior parte donne e bambini. Una dramma testimoniato da Left nel libro di gennaio La strage dei bambini con i contributi della relatrice Onu Francesca Albanese, di Tina Marinari di Amnesty International, Giovanni Russo Spena, Suad Amiry e molti altri. In questa lingua di terra in cui la popolazione vive sotto occupazione dal 1967, in un regime di apartheid come documentato da Amnesty International, è intenso il lavoro delle organizzazioni umanitarie.

Fondamentale il focus di osservazione da parte di Amnesty International, altrettanto essenziale l’aiuto fornito da Ong come Medici Senza Frontiere alla popolazione decimata. Alcuni di questi eroici medici hanno trovato il tempo per mandare notizie in modo sintetico, come testimonianza di una realtà difficilmente immaginabile da qui. Mentre 100 camion con gli aiuti umanitari devono soddisfare le esigenze di due milioni di persone che hanno lasciato le loro case senza portare nulla via con sé, i bisogni della popolazione diventati estremi sono testimoniati da chi sta in prima linea. Dalla corrispondenza con l’associazione Msf abbiamo pensato di pubblicare quelli che sono gli avvenimenti di cronaca ma anche qualche storia personale, i pensieri, le emozioni di chi lavora ed è a stretto contatto con quell’avamposto di umanità così tormentata.

Enrico Vallaperta, coordinatore medico Msf a Gaza, 9 gennaio 2024.
Gaza, 3 mesi dopo. (il riferimento è al 7 ottobre 2023, data dell’attacco sferrato da Hamas contro Israele prendendo di mira contemporaneamente la città di Sderot, una ventina di villaggi del Sud del Paese, due installazioni militari e un festival di musica che si svolgeva nell’area). «A Gaza – dice il dottor Vallaperta – definire la situazione disastrosa non è sufficiente. È qualcosa di inimmaginabile. Nessuno aveva pensato di potersi trovare di fronte ad un diktat che non permette agli aiuti di arrivare dove c’è bisogno. Le persone muoiono per questo. Mi sento impotente come tutti quelli che in questo momento sono qui per dare aiuto, non siamo in grado di lavorare perché non c’è lo spazio per farlo, per mettere una tenda, dei teli di plastica dove potersi riparare, non c’è un fazzoletto di terra dove poter mettere una clinica, gli aiuti continuano ad essere fermi al di là della frontiera. Mancano l’acqua, il cibo, le cose essenziali, i prezzi sono alle stelle, quindi le poche cose reperibili sono inaccessibili alla popolazione locale. Si muore di diarrea, per una semplice bronchite, tutto il sistema di assistenza primaria è crollato». Il tono è davvero desolato, continua: «Abbiamo deciso di evacuare l’ospedale di Al-Aqsa perché la situazione stava diventando troppo pericolosa per il personale che veniva a lavorare. Per due giorni i cecchini hanno sparato a medici e infermieri che stavano venendo verso l’ospedale, per fortuna senza colpirli. Solo un proiettile si è infilato nel muro di terapia intensiva, ma nessuno stava passando in quel momento. Due giorni fa (il 7 gennaio ndr) è arrivato un ordine di evacuazione per la nostra area. A malincuore abbiamo dovuto decidere di lasciare l’ospedale, la stuazione era troppo pericolosa».

10 gennaio 2024 : Maurizio Debanne, capo ufficio stampa Msf: Maurizio (il dottor Debanne) scrive dall’aereo che lo sta portando a Gerusalemme, dove si occuperà di comunicazione per Msf. Mandando la sua mail opera una suggestione: pubblica una pagina bianca intitolata “L’articolo che ho rinunciato a scrivere” e quasi come sottotitolo aggiunge «questa era la pagina 3 della mia tesi di laurea». Bianca sì, ma speriamo di scriverla presto diciamo noi. La dedica, spiega era per le nipotine che oggi a loro volta frequentano le aule universitarie. «Per loro il tempo è passato, per israeliani e palestinesi le lancette scandiscono ancora un tempo di guerra».
La dedica dice: «Alle nipotine Alice e Sofia nella speranza che un giorno non troppo lontano possano sentir parlare di israeliani e palestinesi come di due popoli in pace». Dopo l’Università Maurizio ha seguito come giornalista il conflitto israelo-palestinese fino a quando ha dovuto rinunciare a quello che definisce il suo sogno: scrivere finalmente l’articolo che comunica al mondo la firma di un accordo di pace. Ma a quanto pare la strada è ancora lunga; la sua invece lo ha portato a lavorare per Medici senza frontiere, decisione dovuta alla volontà di allargare i suoi orizzonti sul mondo, con una prospettiva umanitaria. «Il destino – conclude – oggi mi riporta indietro nel tempo, in questa terra martoriata da un conflitto unico». Grazie Maurizio: aspettiamo tutti quell’articolo!

13 gennaio : da Gerusalemme Maurizio Debanne.
«Al mio arrivo a Gerusalemme, una delle prime persone che conosco è Paul, originario del Canada. Trascorro con lui gran parte della mia prima giornata di missione. In poche ore memorizzo la suoneria del suo telefono. Appena suona (spesso) risponde, si alza, sparisce per un po’, e quando torna capisci dal suo sguardo se la situazione è grave».
Paul è un operatore umanitario Msf dagli Anni Novanta, a Gaza gestisce la sicurezza degli spostamenti dei team presenti sul territorio. Quando diventa impossibile restare in un ospedale, perché fuori si combatte, è lui che coordina le evacuazioni. «Siamo sempre in una condizione di evacuazione da un posto ad un altro. Come la popolazione, che soffre ancora più di noi – dice -. La sofferenza umana è uguale dovunque, ma questa di ora è probabilmente la mia missione più difficile, certamente quella emotivamente più coinvolgente». Squilla il telefono e la tensione subito sale, ma questa volta non sono brutte notizie. Suo figlio dal Messico vuole sue notizie. Un piccolo raggio di sole. Poi Paul racconta dell’attacco al convoglio di Msf avvenuto lo scorso novembre, un mese dopo il raid di Hamas. «Ero al telefono con i colleghi, ho sentito le urla, gli spari, l’angoscia, poi la comunicazione si è interrotta». Qualche giorno fa Paul ha gestito l’evacuazione dei colleghi dall’Ospedale di Al-Aqsa. I combattimenti a pochi metri. Adesso si sta occupando di riportare i medici in quell’ospedale, così come in altri che hanno dovuto abbandonare.
A sera Paul e Maurizio cucinano la pasta e parlano di ricette di ragù. Un momento di leggerezza in mezzo al dramma.

Foto dal sito di Medici senza frontiere (© Mohammad Masri)

Gaza: cosa accade lì fuori

Come scrive Davide Frattini per il Corriere della Sera in Israele “i famigliari degli ostaggi ancora tenuti a Gaza capiscono ormai che l’obiettivo di sradicare Hamas è in contrasto con la liberazione del centinaio di prigionieri”. 

La zia di due ragazzini rilasciati a fine novembre da Hamas (con il padre ancora in ostaggio), Noam Dam, in televisione spiega che dovrebbe dimettersi Netanyahu con tutto il suo governo poiché il presidente israeliano ha dato ordine di sparare sul commando che ha rapito un soldato a costo della vita dell’ostaggio. Di fronte alla villa del presidente israeliano si moltiplicano le tende dei famigliari e dei cittadini che protestano. 

Le vittime a Gaza hanno superato la soglia dei 25mila. Secondo il Wall Street Journal Usa, Qatar e Egitto spingono per accelerare i negoziati con un piano che prevederebbe l’avvio di un cessate il fuoco, il rilascio di tutti gli ostaggi civili in cambio di centinaia di detenuti palestinesi in Israele e un lento ritiro delle forze israeliane dalla Striscia. Il premer spagnolo Pedro Sánchez chiede un “cessate il fuoco permanente” che tradotto significa la fine di questa inutile guerra. Sánchez ha detto che “ovviamente” i socialisti condannano “i terribili attacchi” di Hamas contro Israele, ma “con la stessa determinazione” ha chiesto a Netanyahu di cessare completamente i bombardamenti e di consentire l’ingresso degli aiuti umanitari a Gaza, convocando una conferenza di pace. 

Guardando lì fuori il nostro Paese appare immerso in un dibattito fuori dal tempo. 

Buon lunedì. 

Nella foto: Gaza, frame di un video Reuters, 14 gennaio 2024

Dal regionalismo solidale al regionalismo separatista

“Allarme”. Credo sia questo il sentimento che accomuna tutti noi critici dell’autonomia differenziata. “È fondato?”. Sarebbe questa immagino la domanda che ci porrebbero, non dico i fautori dell’autonomia differenziata, ma coloro che seguono distrattamente e – forse – con poca consapevolezza il dibattito politico sul tema. In fondo, potrebbero dirci, si tratta solo di attuare la Costituzione, dando seguito a quanto previsto all’articolo 116, 3 comma. Un argomento che potrebbe addirittura essere rivolto in termini polemici a chi, come noi, ha sempre sostenuto la necessità di dare una rigorosa applicazione ai principi costituzionali. Qualcuno potrebbe persino pensare che le nostre preoccupazioni siano dettate da una preconcetta avversione ad ogni tipo di autonomia regionale.
Per rispondere all’interrogativo posto e fugare certi timori è necessario chiarire che la nostra inquietudine non riguarda il principio di autonomia, che può essere declinato in diversi ed opposti modi, piuttosto concerne specificatamente questa autonomia “differenziata”, in particolare per come viene proposta negli atti posti in essere nel recente passato e per come viene preannunciata dall’attuale maggioranza. La ragione di fondo del nostro “allarme”, il pericolo maggiore che noi avvertiamo, è proprio quello che in tal modo ci allontaneremmo dal modello costituzionale di autonomia disegnato in Costituzione, altro che attuazione.

In proposito è opportuno precisare che il modello di autonomia definito dalla nostra Costituzione è rinvenibile, più che nel titolo V, principalmente nei primi articoli del testo costituzionale, ove il carattere “solidale” è chiaramente delineato. Basta leggere i principi ad essa dedicati. L’autonomia deve essere riconosciuta ed anzi promossa al fine di assicurare l’unità e indivisibilità della Repubblica (art. 5). Così anche i diritti inviolabili devono essere garantiti sempre, su tutto il territorio nazionale, imponendo doveri inderogabili di solidarietà all’intera Repubblica (art. 2). Per non dire del principio d’eguaglianza formale, ma ancor più sostanziale, che impone di rimuovere gli ostacoli al pieno sviluppo della persona umana, certamente anche quelli d’ordine territoriale (art. 3).

Questi sono i parametri costituzionali di riferimento.
Se si leggono in questa prospettiva le proposte dell’attuale maggioranza (ma in realtà anche quelle dei governi precedenti) si evidenzia senza ombra di dubbio la distanza tra la solidarietà che sorregge il concetto di autonomia individuato in Costituzione e le logiche competitive e di natura brutalmente “appropriativa” che si stanno cercando ora di imporre nei rapporti tra le regioni e lo Stato centrale. Un modello che sconta una diseguaglianza nei territori, ciascuno artefice del proprio destino e dell’efficienza dei servizi forniti per garantire i diritti fondamentali esclusivamente agli abitanti del proprio territorio.
La riprova è la pre-intesa veneta raggiunta con Gentiloni nel 2018 e relativa a tutte le 23 materie indicate nel III comma del art. 116, nessuna esclusa. Una scelta che prescinde dalle reali specifiche esigenze di differenziazione del territorio veneto, che è sorretta, invece, da una volontà da parte della regione di impossessarsi di quanto più potere, funzioni e gestione di interessi sia possibile, senza tenere in nessun conto le necessità delle altre parti del territorio nazionale e dei diritti delle persone altrove residenti. Un modello, dunque, che sconta una diseguaglianza nei territori, ciascuno artefice del proprio destino e dell’efficienza dei servizi forniti per garantire i diritti fondamentali esclusivamente agli abitanti del proprio territorio.

Tornare alla Costituzione ed ai suoi principi
In questa situazione quale può essere la nostra proposta? Come si può rispondere al tentativo in atto di abbandonare il modello solidale di regionalismo? Semplicemente richiamando l’esigenza di tornare ai principi della Costituzione. Mi limiterò qui a fare alcuni esempi che mi sembrano significativi e che coinvolgono le questioni più dibattute, per cercare di dimostrare come siano altre le priorità che dovrebbero essere proposte da chi volesse cambiare per rendere effettivo il regionalismo solidale in Italia.
Il primo riguarda la discussione – oggi così accesa – relativa ai livelli essenziali delle prestazioni (i famosi Lep). In proposito, dovremmo ricordare che prima ancora di attuare l’articolo 117, secondo comma, lettera m, è necessario rispettare l’articolo 2 della nostra Costituzione, il quale non si accontenta di assicurare (solo) i livelli essenziali dei diritti civili e sociali, ma pretende di garantire i diritti inviolabili dell’uomo e richiede l’adempimento degli inderogabili doveri di solidarietà politica, economica e sociale su tutto il territorio nazionale. In questa prospettiva, seppure non si possa giungere a sostenere l’incostituzionalità dei Lep per violazione di principi supremi, si deve però aver chiaro che questi rappresentano solo l’asticella minima, mentre un revisionismo coraggioso e conforme al modello costituzionale dovrebbe parametrarsi sull’art. 2 Cost. prima ancora che sull’art. 117. Perché- mi chiedo – nessuno dice che accontentarsi della tutela minima non è espressione di un coraggioso revisionismo in linea con i tempi? Basterebbe, in fondo, rilevare che quanto più si accentuano le differenze territoriali tanto più appare insufficiente limitarsi a provare a salvaguardare i Lep, dovendo invece proporsi di colmare le diseguaglianze nell’effettività delle prestazioni fornite in materia di diritti civili e sociali.

La non conformità delle attuali proposte si evidenzia anche con riferimento all’interpretazione distorta che viene data dell’articolo 117, secondo comma, lett. m (dunque in relazione a quella tutela che abbiamo definita “essenziale”, ovvero minima). Infatti, la procedura per l’attuazione dei Lep così come prevista nella legge di bilancio, ma ripresa sostanzialmente anche nel disegno di legge promosso dal ministro Calderoli, si preoccupa principalmente di stabilire tempi certi per giungere alla “determinazione” dei Lep, ma dimentica che la nostra Costituzione finalizza – direi ovviamente – tale opera di definizione alla loro necessaria ed effettiva “garanzia” («determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni sui diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale»). Di questo secondo essenziale profilo, però, non sembra si abbia consapevolezza. Ci si limita, infatti, solo a prevedere una procedura che possa farci giungere entro brevissimo tempo – grazie ad una commissione di tecnici – ad una semplice individuazione (“determinazione”) delle prestazioni, senza invece preoccuparsi di come poi effettivamente assicurare (“garantire”) le prestazioni così individuate. Dov’è che emerge l’ipocrisia di una simile prospettiva e si rivela la falsa coscienza dei proponenti? Esse risiedono nella volontà espressa di non operare variazioni di bilancio, limitandosi a prevedere che con Dpcm si determinano i costi e fabbisogni standard, senza oneri finanziari aggiuntivi e, comunque, in coerenza con gli attuali equilibri di bilancio. È evidente invece che se si volessero effettivamente garantire tali livelli su tutto il territorio nazionale, sarebbe necessario non solo aumentare le entrate da riservare ai diritti civili e sociali ritenuti “essenziali”, ma anche definire una redistribuzione delle risorse a favore dei territori svantaggiati, dove sarà più complesso rispettare gli standard delle prestazioni essenziali una volta individuati.

E qui tocchiamo un aspetto decisivo che dovrebbe rappresentare il nostro punto di forza e l’argomento polemico di maggior pregio. Se si vuole realmente dare attuazione ai principi della nostra Costituzione ci si dovrebbe convincere che prima di poter realizzare una qualche possibile ulteriore devoluzione di materie alle regioni (anche ai sensi dell’articolo 116, III comma), vi è una priorità logica e di fatto che bisognerebbe rispettare. Occorre, anzitutto, operare una redistribuzione delle risorse tra i territori, privilegiando quelli meno in grado di produrre reddito. È scritta nell’articolo 119 la necessità di istituire un fondo perequativo senza vincoli di destinazione per i territori con minore capacità fiscale per abitante (III co.), ma è poi un’ulteriore prescrizione costituzionale (V comma del medesimo articolo 119) che impone di promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni. Risorse aggiuntive sono imposte per superare le diseguaglianze territoriali, altro che limitarsi a rimodulare la spesa storica o definire i fabbisogni standard. Senza prima effettuare un riequilibrio a favore delle regioni svantaggiate, non si può pensare a devolvere materie, competenze e poteri relativi alle regioni che godono già di un maggior favore economico e sociale. Bisogna pensare ad una “devoluzione al contrario”, una redistribuzione delle risorse in grado di rimuovere gli ostacoli che limitano di fatto la libertà e l’eguaglianza delle persone nei territori svantaggiati. Una redistribuzione solidale che non può accontentarsi di qualche “mancia” o fondo perequativo residuo, ma che sia invece in grado di riequilibrare strutturalmente il divario territoriale. Una volta conseguito l’obiettivo di porre tutte le regioni su un piano di eguaglianza sociale ed economica, a quel punto non credo ci sarebbe nessuno che obietterebbe in una successiva diversa distribuzione anche delle materie di competenza regionale, che si renderebbe necessaria non foss’altro per attuare un altro articolo della nostra Costituzione, il 118, il quale indica i principi che devono essere seguiti per meglio amministrare i servizi pubblici e le prestazioni sociali nei diversi territori della Repubblica: una devoluzione di funzioni amministrative sorrette dai principi di adeguatezza, differenziazione e sussidiarietà.

Un altro regionalismo è possibile
È questa, in sintesi, un’interpretazione progressista della sistematica costituzionale ed una lettura coordinata degli articoli 2, 3, 5, 116, III, comma; 119, III e V comma; 118, I comma. Una lettura agli antipodi di quella corrente. Qualcuno potrebbe obiettare che si tratta di una prospettiva distante dalla realtà. Lontana dagli equilibri culturali, oltre che politici, dominanti. Tutti ormai protesi a realizzare un regionalismo di tipo competitivo. In fondo, sono state le maggioranze di centro-sinistra gli apripista: dal titolo V e l’inserimento in Costituzione dell’autonomia differenziata (promosso nel 2001 dal governo D’Alema), alle prime pre-intese sottoscritte dal governo Gentiloni nel 2018. Qualcuno – con malizia, ma non dicendo il falso – potrebbe rilevare che la situazione nella quale ci troviamo in fondo è parte della “nostra” storia, più che un frutto dalla maggioranza politica dei nuovi governanti di destra. Una considerazione che dovrebbe certamente farci riflettere criticamente sul passato e sugli errori compiuti, ma che dovrebbe anche richiamare alla responsabilità e alla necessità di un cambiamento radicale. Ricercando ora – prima che sia troppo tardi – una rottura di continuità. Non possiamo continuare a giocare di rimessa, non possiamo limitarci a contrapporre solo il più netto rifiuto al regionalismo differenziato che ci viene proposto. È giunto il tempo per provare ad indicare un’altra rotta per giungere ad un diverso regionalismo, quel regionalismo solidale cui la nostra Costituzione aspira e che non è mai stato realizzato in Italia. Se non lo rivendichiamo ora, rischiamo di non poterlo più neppure immaginare in futuro.

Nella foto Comitato No Ad presidio a Venezia, 16 gennaio 2024 (Fb Contro ogni autonomia differenziata)

L’autore: Gaetano Azzariti, ordinario di Diritto costituzionale, Facoltà di Giurisprudenza dell’Università La Sapienza”, direttore di Politica del Diritto e di Costituzionalismo.it. e presidente dell’associazione “Salviamo la Costituzione”.

Questo testo è tratto dal libro di dicembre 2023 di Left Repubblica una indivisibile euromediterranea a cura di Loredana Marino in collaborazione con LabSud e transform!Italia Per acquistarlo qui

La carica utopistica di Lenin

Il crollo dell’Unione Sovietica, se per un verso ha permesso l’accesso agli archivi ed al materiale censurato dell’esperienza nata dalla Rivoluzione d’Ottobre, dall’altra ha visto un crollo vertiginoso nelle capacità e profondità di lettura e interpretazione di una storia grande anche nella tragedia, si senta o meno di appartenere od essere appartenuti ad essa.
Una collezione di figurine dai tratti caratteriali che vanno dal caricaturale al demoniaco, estranei antropologicamente non solo alla tradizione occidentale per i tratti “asiatici” che li caratterizzerebbero ma allo stesso corso della storia come autoaffermazione della libertà basata sulla proprietà: questo quel che ci consegna la retorica dei vincitori e degli apologeti della fine della Storia.
La realtà storica e storiografica è ovviamente molto più viva e complessa, le vicende degli uomini e delle donne nella e della Rivoluzione molto più vive e grandiose, la costruzione di uno Stato socialista sulle macerie dell’Impero zarista un compito prometeico, ed il moto di liberazione scaturito dall’Ottobre non si è affatto arrestato se smettiamo di guardare al mondo con occhi eurocentrici. Il leninismo ebbe infatti una portata dirompente nel modo nuovo di considerare il sistema-mondo e la questione coloniale, nonostante l’insufficiente attenzione mostrata a questo tema dal marxismo “occidentale”, come già segnalato da Domenico Losurdo e ben colto precedentemente dallo stesso Antonio Gramsci.
È dunque un atto di coraggio ed onestà intellettuale – non scisso da una passione politica mai sopita – quello che Guido Carpi, professore di Letteratura russa presso l’Orientale di Napoli, sta producendo da tempo. Ci riferiamo ai suoi contributi su “Il marxismo russo e sovietico fino a Stalin” apparso nel primo volume della Storia del marxismo curata da Stefano Petrucciani per Carocci del 2015, la monografia Russia 1917. Un anno rivoluzionario sempre per Carocci nel 2017, i due volumi sul Lenin prerivoluzionario usciti nel 2020 e 2021 per Stilo Editrice fino a Lenin, il rivoluzionario assoluto (1870-1924) uscito ora per Carocci. Se per un verso sistematizza quanto già affrontato in precedenza – e i lunghi anni di studio e di riflessione sul tema riescono a tradurre passaggi ed interpretazioni di grande complessità in una prosa densa ma accessibile ed intrigante non solo per gli addetti ai lavori o ai cultori della materia -, dall’altro affronta per la prima volta in un avvincente corpo a corpo i pochi anni – ma che segnano passaggi d’epoca – che vanno dalla Rivoluzione vittoriosa alla morte di Lenin. Mesi nei quali nel corpo e nella mente del capo bolscevico precipitano tutti gli immani sforzi di edificare uno Stato e di dare risposte alla questione delle Nazionalità dell’ex-impero zarista, senza ricadere nello sciovinismo grande-russo e mantenendo quella «carica utopistica senza confini» che per Carpi rappresenta la cifra del «rivoluzionario assoluto».
Epiteto e sintesi del proprio essere nel mondo che Lenin (22 aprile 1870 – 21 gennaio 1924) aveva forse presagito per se stesso nel mentre così definiva gli amati Marx e Cernysevskiij, figura di spicco del populismo russo e autore del romanzo Che fare? (composto durante l’imprigionamento a San Pietroburgo nel 1862-63 e sottoposto a censura fino al 1905).
E proprio la mancanza di una teoria dello Stato viene individuata come il limite maggiore, seppur storicamente comprensibile, del marxismo dell’epoca e dello stesso leninismo che se per un verso aveva fatto compiere un salto epocale nella lettura globale dei processi storici attraverso la categoria dell’imperialismo per l’altro rimaneva confinato nella definizione dello Stato come puro esercizio della forza. Una acquisizione “teorica” derivante dalla natura reale e concreta dello Stato zarista: convincimento fortificato dalle vicende del padre e del fratello, il primo morto di crepacuore dopo esser stato anticipatamente pensionato a dimostrazione di quanto fossero impossibili le pur minime forme di riformismo seppur moderato, dall’altra la brutale morte per impiccagione dell’amato fratello come segno inscalfibile dell’esercizio brutale del potere zarista e della vigliaccheria della società civile “democratica”.
Ne esce un ritratto di quegli anni – e soprattutto dei protagonisti – assai più mosso di quanto la tradizione avesse tramandato, realizzato da Carpi attraverso il vaglio del molteplice materiale coevo in lingua originale. Il Lenin che per troppo tempo abbiamo conosciuto e tramandato, apprezzato o aspramente criticato, era spesso e per molti tratti l’anticipazione di Stalin e della rilettura delle vicende del gruppo bolscevico e rivoluzionario codificata dallo stalinismo, piuttosto che il Lenin “autentico” (questo vale per la versione “bacchettona” della sua vita giovanile per quanto riguarda sessualità e costumi, per la messa in sordina delle frequentazioni con la canaglia ancora da politicizzare nella stagione delle rapine di autofinanziamento e soprattutto per i rapporti molto più mossi e fluidi con gran parte della galassia menscevica e con lo stesso Trockij).
Fatta la rivoluzione, i compiti fondamentali che Lenin aveva di fronte a se sono sostanzialmente due: mantenere il potere nella dissoluzione dello Stato zarista e nella guerra interna con le Armate bianche e iniziare quella marcia verso il socialismo mentre le previste rivoluzioni in Occidente tardano a manifestarsi o vengono sconfitte. Al Lenin di Stato e rivoluzione soccorrono le letture hegeliane del periodo bellico, valorizzate da Carpi così come lo studio giovanile su Lo sviluppo del capitalismo in Russia (mentre viene decisamente stroncato Materialismo ed empiriocriticismo). Se la pace di Brest-Litovsk e la NEP sono dei colpi di genio che salvano la Rivoluzione lasciando aperte le prospettive dell’edificazione del Socialismo – e la fondazione dell’Internazionale comunista costituisce il tentativo fecondo di tradurre il bolscevismo nelle altre lingue europee e mondiali facendo sintesi tra l’eccezionalismo dell’Ottobre ed il suo universalismo -, molto più complesso venir fuori dalla questione concretissima di come riconfigurare tutto lo spazio ex-zarista e come leggere le trasformazioni sociali e di cultura politica del nuovo gruppo dirigente del Partito (che era l’unico soggetto realmente in grado di garantire la tenuta delle istituende repubbliche socialiste e della loro unione). Su questo sono di grandissimo interesse i verbali delle sette riunioni della Conferenza sulla questione nazionale indetta nel giugno del 1923 dal Comitato centrale del partito, tenuti segreti fino al collasso dell’Urss, e messi a disposizione del lettore italiano.
Nell’ultimo Lenin è sempre più presente la consapevolezza della complessità dei problemi concreti che si pongono al rivoluzionario che diventa uomo di Stato. Si veda l’intreccio tra socialismo e democrazia che ruotava intorno ai rapporti tra soviet, Partito e Stato.
Il tentativo di porre i soviet alla base della nuova struttura statale non sopravvive alla cacciata degli esèry di sinistra (esponenti del Partito Socialista Rivoluzionario, espressione soprattutto del mondo agrario e contadino) e al consolidarsi di un regime strettamente monopartitico; l’embrione del nuovo potere statale nei territori è da subito formato dai comitati locali del Partito comunista, partito che vede i membri del comitato centrale impegnati nelle più disparate attività di governo subendo esso stesso un processo di verticalizzazione ed accentramento.
Si veda soprattutto la riflessione sulla burocrazia di partito e sul ruolo dell’Apparato.
È questa una chiave di lettura suggerita da Carpi che viene ripresa dai lavori di Moeshe Lewin, non ossessionato dalla personalità di Stalin e attento alla storia sociale di quella peculiare formazione economica e sociale che fu l’Urss come ricordato dalla professoressa Maria Grazia Meriggi, che a noi pare ancora assolutamente centrata (ci riferiamo sia a L’ultima battaglia di Lenin uscita in Italia nel 1968 sia e soprattutto alla Storia sociale dello stalinismo uscita nel 1988 per Einaudi). La trasformazione ed ampliamento dei quadri dirigenti bolscevichi – e quindi del nuovo Stato – operata dalla guerra sia esterna che civile era stato colto in maniera incipiente dall’antico sodale Bogdanov, che aveva sottolineato il clima intimidatorio all’interno del partito e il carattere soldatesco della nuova cultura politica da caserma che si andava manifestando , «caratterizzata da una comprensione di ogni compito come questione di forza d’assalto», a differenza della logica di fabbrica permeata di intelligenza collettiva volta all’organizzazione: «Distruggiamo la borghesia, ed ecco il socialismo. Prendiamo il potere, ed ecco che possiamo tutto». Lenin mostra fastidio nei confronti del ritualismo burocratico e nelle avvisaglie del culto della personalità e si lancia in intemerate contro i neppisti e gli inetti quadri comunisti, spie delle modalità concrete con le quali si sta costruendo un apparato sempre più vischioso, autoritario, servile e sempre più schiacciato sulle logiche interne, perdendo quella carica emancipativa che aveva sempre caratterizzato il precedente gruppo bolscevico fin nelle più dure battaglie interne e nelle ardite mutazioni di linea.È questo il limite maggiore dell’ultimo Lenin per Guido Carpi: «Nel fenomeno nuovo e modernissimo dell’accentramento burocratico come forma di organizzazione delle masse egli vede solo un’eredità zarista pronta a riemergere secondo la profezia di Le Bon (si fa riferimento alla citazione di Gustave le Bon tratta da La psicologia del socialismo riportata nelle memorie dell’ex comandante supremo dell’Armata bianca e sottolineato da Lenin)».
Un limite analitico che non ha tuttavia impedito al capo bolscevico, pur segnato dal duplice ictus, di combattere la sua ultima battaglia contro Stalin alleandosi con Trockij – direttamente o nell’impossibilità attraverso gli uffici della Krupskaja (e su questo si leggono interessanti, inediti o non valorizzati momenti).
Lasciando al lettore di seguire direttamente la ricostruzione di questi passaggi, molto più rilevanti della discussione sulle modificazioni ed autenticità del cosiddetto testamento di Lenin, ci piace chiudere su due episodi che a nostro avviso segnano uno stacco rilevante e suggeriscono una chiave di lettura di molta parte dell’esperienza rivoluzionaria e delle trasformazioni dei gruppi dirigenti.
Dopo il primo ictus del 25 maggio 1922 Lenin passa la convalescenza a Gorki. Venuto a sapere che l’antico compagno di lotta Julij Martov (era stato assieme a Lenin nell’esilio di Monaco di Baviera, redattore dell’Iskra, capo menscevico in Russia ed in esilio, fondatore di riviste e giornali in lingua ebraica e yiddish) è malato e in miseria in un sanatorio, chiede a Stalin d’inviargli un contributo economico, ricevendone un diniego accompagnato da siffatte parole: «Figuriamoci se mi metto a spendere soldi per un nemico della causa operaia!». E proprio ancora di Martov cercherà di avere notizie negli ultimi durissimi mesi di vita, nelle poche pause di lucidità: «chiede di Martov, esule in Germania e malato da tempo, e Krupskaja finge di non aver sentito, ma letta su un quotidiano dell’emigrazione che l’amico e compagno di gioventù è morto, l’uomo scuote la testa, guardando la moglie con riprovazione».
Buona lettura e buona discussione.

 

Gli appuntamenti: Oggi alle 16 Guido Carpi presenta il suo libro a Fahrenheit su RaiRadiotre li 26 gennaio alle 18 Carpi ne discute nella casa del popolo di Calci (Pi) con Maurizio Brotini (Cgil Toscana). Il 3 febbraio a Roma, al Laboratorio politico Granma

Gaza è diventata «il luogo più pericoloso del mondo per un bambino»

Il vicedirettore di Unicef è di ritorno da una missione di tre giorni a Gaza. Dice che la situazione «è passata dalla catastrofe al quasi collasso» e che la Striscia è diventata «il luogo più pericoloso del mondo per un bambino». «Abbiamo detto che questa è una guerra contro i bambini. – ha detto Ted Chaiban – Ma queste verità non sembrano diffondersi. Delle quasi 25.000 persone che sarebbero state uccise nella Striscia di Gaza dall’escalation delle ostilità, fino al 70% sarebbero donne e bambini. L’uccisione di bambini deve cessare immediatamente». 

Oltre 1,9 milioni di persone, ovvero quasi l’85% della popolazione di Gaza, sono ora sfollate, tra cui molti che sono stati sfollati più volte. Più di un milione di loro si trova a Rafah, in un mosaico di rifugi e siti di fortuna che hanno reso la piccola città quasi irriconoscibile. L’enorme massa di civili al confine è difficile da comprendere e le condizioni in cui vivono sono disumane.

Delle quasi 25.000 persone che sarebbero state uccise nella Striscia di Gaza dall’escalation delle ostilità, fino al 70% sarebbero donne e bambini. Oltre 1,9 milioni di persone, ovvero quasi l’85% della popolazione di Gaza, sono ora sfollate, tra cui molti che sono stati sfollati più volte. A metà dicembre, erano stati registrati 71.000 casi di diarrea tra i bambini sotto i cinque anni, con un aumento di oltre il 4.000 per cento dall’inizio della guerra. Tra le 250.000 e le 300.000 persone che vivono nel nord di Gaza non hanno accesso all’acqua potabile e a malapena al cibo.

Buon venerdì. 

 

 

Nel segno di Gian Maria Volonté

disegno di Maurizio Di Bona

Mentre giravo mi accorsi che una delle due guardie, che gli stavano accanto, piangeva. Fermai tutto e quella comparsa mi bisbigliò: «A dottò, me scusi, ma ‘sto Volonté me commuove davvero!» Giuliano Montaldo la racconta(va) così. Il set era quello di Sacco e Vanzetti. Anno di grazia 1971. È un film particolare, non consueto. Intanto per il tema: attivismo, anarchia, Cuneo, Foggia e Massachusetts. Gli altri protagonisti sono un bravissimo doppiatore, Riccardo Cucciolla, “sposato” a una cantante di musica leggera. Popolare e bellissima, Rosanna Fratello. Vinceranno rispettivamente un Prix d’interprétation masculin e un Nastro d’argento. La colonna sonora è curata addirittura da Ennio Morricone. Coadiuvato da Bruno Nicolai, che al Maestro futuro premio Oscar, in quel decennio, dirige praticamente l’intera produzione. Ciliegina sulla torta Joan Baez, direttamente da Woodstock. “Here’s to you” diventa un inno generazionale.
Eppure, nonostante tutta questa enorme meraviglia, la storia sarà completamente “fagocitata” da un unico personaggio. Succederà diverse volte per altri lungometraggi. Il Moloch in questione è Gian Maria Volonté. L’attore simbolo del cinema d’impegno civile. Come lo descriveranno i critici nei saggi, senza paura di smentita. Sergio Leone gli regalò l’abbrivio. Non prima di farlo incazzare oltremodo con lo pseudonimo di John Wells. Persino gli dei possono sentirsi sfottere da un «Americà, facce Tarzan!». Poi, fu un continuo crescendo.
Novant’anni dalla nascita, dunque. Quasi trenta dalla scomparsa. Il 2024 appena iniziato, però, ci offre un’occasione assai speciale. Un calendario importante. D’autore, inevitabilmente. Firmato da chi gli somiglia parecchio. Fuori schema, freelance, eclettico. Napoletano di San Giorgio a Cremano e giramondo. Di sicuro poco emigrante, parafrasando un concittadino illustre.

Alludo a “The Hand”, al secolo Maurizio Di Bona. Attraverso dodici ritratti, in edizione limitata per EF, ci racconta una carriera straordinaria. Fatta di personaggi entrati nell’immaginario più iconico. Scavalcando epoche e narrazioni. L’Oscar di Elio Petri, la Palma d’oro di Francesco Rosi, il David di Donatello con Gianni Amelio. Sarebbe (stato) arduo scegliere tra Il “Dottore” senza nome di “Indagine su un cittadino…” e “Lulù Massa”, l’operaio sceneggiato da Ugo Pirro che porta in paradiso la propria classe. Il lunario a colori disegnato dall’artista partenopeo, invece, trae cinefili e spettatori dall’imbarazzo della scelta. E fissa al muro un identikit. Sulla stregua dell’Indio inseguito dal Monco e dal Colonnello Mortimer.
Con la promessa fondata (almeno, il proposito) di ulteriori sequel. Nella miglior tradizione della “settima arte”. Un anno non basta a descrivere un capostipite del mestiere. Camaleontico, istrionico, modello assoluto che “rubava l’anima ai personaggi”. Forse semplicemente l’uomo che ha indossato i propri giorni, il suo tempo, intensamente. Consumandosi dentro. Quando l’esistenza faceva meno moine. Qui, agiografie, necrologi e coccodrilli confezionati vanno lasciati da parte. «Il sipario è calato già su questa vita che tanto pulita non è». I cantautori la sbrigano che puoi solo spicciargli casa.
In Sardegna, dove riposa, viene ricordato degnamente con un Festival a La Maddalena. Curato da Giovanna, la figlia. Avuta assieme a Carla Gravina. La rassegna s’intitola “La valigia dell’attore”. Sulla tomba c’è una frase di Paul Valéry incisa nel legno della barca con cui usciva in mezzo al mare. Nell’Arcipelago. «Le vent se leve, il faut tenter de vivre». Già. Persino Miyazaki c’ha pensato. Con quella che Hugo Pratt chiamava “letteratura disegnata”. Sarà mica casuale che arrivi Maurizio, adesso, a ricordarcelo?

L’autore: Francesco Della Calce è scrittore, giornalista e sta preparando una mostra dedicata a Volonté. Sarà inaugurata il 29 febbraio con l’Archivio Volonté al WeGil a Trastevere, a Roma. Titolo (ancora in fieri) è “Gian Maria 30”. Saranno raccontati i suoi film, attraverso le foto di scena, e in particolare “Indagine…”, “Sacco e Vanzetti” e i due della trilogia del dollaro. Quindi i film di Petri, Montaldo e Leone.

Tutte le illustrazioni sono di Maurizio Di Bona

Se il voto non ci piace si rivota

Se il voto non gli sta bene semplicemente rivotano, finché non esce il risultato che loro definiscono giusto. In commissione Affari sociali della Camera ieri è andata in scena l’ennesima violenza istituzionale, uno spettacolo incredibile anche per chi da questo Governo è pronto ad aspettarsi di tutto.

La votazione per istituire la commissione d’inchiesta sul Covid finisce 11 pari. I regolamenti parlano chiaro, senza bisogno di interpretazioni: un pareggio determina la bocciatura del testo. Il vice presidente della commissione Luciano Ciocchetti (Fratelli d’Italia) però ha una soluzione: rivotiamo, magari va meglio, come alla roulette. Spiega Ciocchetti che “c’è la possibilità di fare la controprova”, pensando di poter applicare il Var calcistico anche alle azioni parlamentari. 

Federico Fornaro, deputato Pd, lo dice chiaro alla maggioranza: “voi avete la maggioranza dei numeri: se quando si pareggia o si va sotto richiama i suoi rappresentati per rivotare è evidente che poi ha la maggioranza. In nome della correttezza e della lealtà e del rispetto per l’istituzione in cui lavoriamo la pregherei di ristabilire la correttezza del voto: quello che è accaduto è un vulnus grave”.

In effetti l’episodio apparentemente minimo è significativo per raccontare l’approccio di certa parte della maggioranza verso le istituzioni e le regole della democrazia: il Parlamento e le sue commissioni sono un impiccio burocratico da sbrogliare in fretta dove si ratificano semplicemente le decisioni prese nelle stanze dei leader. Se il pulsante si inceppa si vota di nuovo. 

Buon giovedì. 

Nella foto: Luciano Ciocchetti (FdI) vicepresidente della Commissione Affari sociali della Camera, frame di una video intervista di Radio Radicale