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La strage dei civili a Gaza e il silenzio assordante dell’Europa

Il nuovo anno è arrivato e il mondo procede lungo i binari già presi. Sono binari morti, per lo più, vicoli ciechi dai quali non c’è uscita, se non tornando indietro. A provare a guardarlo con distacco, se mai si possa, si prova incredulità se non disdegno. Certo, come sempre c’è una superficie al di sotto della quale, si pensa, c’è il ribollìo delle passioni, delle lotte, l’eterna rabbia dei maltrattati contro gli aguzzini, degli sfruttati contro gli sfruttatori, degli infelici molti contro i felici pochi. Ma la profondità, come dice il poeta, va cercata in superficie. E noi vediamo un mondo di conflitti, di morte, di predominio, dove la violenza si accompagna all’assuefazione, una violenza che ci pare ogni volta più brutale.

Come diceva un altro poeta «la storia insegna che dalla storia non si impara nulla». Già, non abbiamo imparato nulla. Ma ciò che è più grave è che la nostra cultura non ha imparato nulla e mai come in questo tempo sta mostrando quanto sia regredita.
In queste settimane – grazie anche all’iniziativa del governo sudafricano che ha portato Israele davanti alla corte di giustizia dell’Aia – si è tornato a parlare di “genocidio”, un termine macabro che indica l’eliminazione sistematica di una popolazione. Un termine moderno che è stato usato per indicare ciò che fu fatto ai nativi americani, agli aborigeni australiani, ai “bushmen” della Namibia, agli armeni, agli ebrei in Europa (in passato, per quanto meno evoluti fossimo, non eravamo mai stati capaci di questo). Certo, è anche questione di “modalità”: l’eliminazione di centinaia di migliaia di persone, come accadde sulle trincee europee durante la Prima guerra mondiale, a Dresda, a Hiroshima e Nagasaki non riceve lo stesso appellativo solo perché fu più circoscritta, ma non meno brutale.

Tutti casi che trovarono “giustificazione”, al tempo. Ma oggi, in reazione ad un attacco terroristico di ampia portata – mai attacco palestinese aveva causato tante vittime – la reazione del governo di Israele è stata di quelle commisurabili a ciò che fu fatto a Dresda o a Hiroshima. E, oggi come allora, la domanda è la stessa: era davvero necessario? Quale logica militare e quindi politica può giustificare la distruzione e la morte di decine di migliaia di civili indifesi? Quasi più che la stessa questione – se sia o meno “genocidio” – ciò che appare agghiacciante è l’evidente tentativo di sradicare la popolazione di Gaza dal suo insediamento, eliminandola. L’aggravante, tra l’altro, è che quella popolazione, nella Striscia – «un campo di concentramento a cielo aperto» era stato chiamato prima dell’invasione israeliana – vive in condizioni relegate di oppressione da decenni.

Più di cento giorni sono trascorsi da quell’attacco di Hamas e da quando Israele ha iniziato a radere al suolo le città della Striscia. I media e il mondo dell’informazione dominante ne hanno parlato, certo, raccontando la guerra dalla parte degli assalitori, che cercavano la giusta vendetta. Non l’hanno fatto «dalla parte delle vittime», in fondo complici per aver covato l’odio e albergato gli assassini terroristi. Partiti, governi e organizzazioni sovranazionali hanno reagito giustificando l’operato di Israele perché «attaccare Israele è antisemitismo», quindi la sua reazione è sempre legittima, quale che sia. Mai come in questa occasione Israele è stato fatto oggetto di simpatia in nome delle comuni radici, della comune «civiltà occidentale».

Una civiltà che, invece, è stata spazzata via. Silenti, se non compiacenti, sono stati gli intellettuali e il mondo della cultura, nella sua grande maggioranza. Il conformismo ha prevalso sull’onestà intellettuale, la cecità sulla verità. Nessun coraggio, nessuna indipendenza: la soluzione genocidaria è stata accettata in nome di più supremi valori. Nessuno si è premurato di spiegare perché a Israele sia concesso di incarcerare migliaia di persone, invadere e distruggere migliaia di abitazioni, costringere alla fuga milioni di palestinesi. E tutti hanno affermato che non si tratta di genocidio e, quindi, che tutto quanto sta accadendo rientra nel novero di ciò che è accettabile (come Dresda, come Hiroshima).

Dopo l’ultimo grande genocidio, quello ebreo compiuto in Europa dai nazisti non solo tedeschi, si era detto «mai più». Ma, ora è chiaro, era un «mai più» relativo. Ci sono e ci saranno sempre degli “altri” ai quali non si applica. Il silenzio dei media e della stampa, degli intellettuali e del mondo della cultura su quanto accade a Gaza sull’estensione e l’efferatezza del massacro di civili mostrano quanto la nostra “civiltà” sia arrivata al capolinea. Il conformismo, generato dal sonno della ragione, e l’assenza di indignazione sono il segno di quella fine. Un tempo, si diceva, i diritti dell’uomo, dell’umanità, sono valori universali. In nome della ragione – non siamo più “barbari”, siamo “civilizzati” – non saranno più accettati lo sterminio di massa e l’eliminazione fisica di persone e popoli. Ma era anche questa un’idea “universale” relativa, evidentemente, che riguardava una parte del mondo e una concezione del mondo, la nostra.

In altre occasioni, per altre devastanti guerre, intellettuali, giornalisti e politici si erano mobilitati, denunciando il diritto dei popoli a esistere e rifiutando sempre l’idea che un conflitto possa risolversi con l’eliminazione fisica, lo sradicamento, l’allontanamento. In questo caso, invece, se forte è stata la mobilitazione di migliaia di persone che sono scese in strada per manifestare, più silente è stata la reazione del mondo della cultura e della politica. Complice, forse, quel senso di impotenza che nasce dal fatto che le parole, oggi, finiscono facilmente nel tritacarne dei media, amplificato dai “social”, che omogenizza pensieri e opinioni nella maionese che regolarmente “impazzisce”, contrapponendo drammaticamente chi è “pro” da chi è “contro”. Rendendoci sempre più incapaci di distinguere e prendere parte con coscienza. Ma anche questo, a pensarci, è un frutto del «capitalismo della conoscenza» che, così facendo, è in grado di manipolare le coscienze delle masse, svuotandole della loro carica critica.

Perché, vien da chiedersi, non vi è stata a sinistra – in Italia, in Europa – una reazione forte contro l’evidente operazione di annichilimento di una popolazione oggi in atto a Gaza? Il filo-semitismo tedesco, proporzionale solo alla colpa accumulata per un antisemitismo atavico, obnubila la Germania. L’Europa, dall’Atlantico agli Urali, ne è succube, nel coacervo irrisolto delle sue radici cristiane. Ma le sinistre, dopo due secoli, dovevano avere assimilato il principio che non c’è emancipazione senza coesistenza di popoli e culture. La reazione della cultura e della politica dei Paesi occidentali, invece, segnano il fallimento della nostra civiltà, che non ha mai dismesso il principio della forza – che ha segnato il colonialismo, l’imperialismo – per far valere il diritto alla propria esistenza, che si afferma solo negando l’altro. Un fallimento culturale con il quale dobbiamo fare i conti. Abiurando, rifiutando, distaccandoci. La ragione illuminista – che avevamo coltivato con senso di superiorità – ha generato il mostro della sua negazione, in una regressione senza apparente fine.

Così, nel vuoto, brancoliamo abbracciando le centinaia di migliaia di giovani delle comunità ebraiche e musulmane, dei giovani “cittadini del mondo” che di quella cultura si sono nutriti e che guardano avanti. Non lasciamoci ammorbare, reagiamo come i tanti di noi, ancora allerta, ci chiedono. Siamo ancora in grado di discernere. Oltre l’impotenza, possiamo essere in grado di alzare la voce e far sentire parole di verità.

L’autore: Pier Giorgio Ardeni è professore ordinario di Economia politica e dello sviluppo all’Università di Bologna

Nella foto: frame di un video sui bombardamenti a Gaza

Per approfondire, segnaliamo i contributi di intellettuali, artisti, giuristi nel libro di Left di gennaio

Bavagli e imbavagliatori

Per il bavaglio serve gente che abbia voglia di indossare i panni degli imbavagliatori e a sentire il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro al governo si sono già messi in moto. L’ispettorato generale del ministero della Giustizia ha attivato il monitoraggio su 13 Procure per quanto riguarda le loro modalità di comunicazione sui procedimenti penali in corso. Andrea Delmastro Delle Vedove l’ha spiegato alla Camera rispondendo ad un’interrogazione del deputato di Azione Enrico Costa. La notizia tra le righe è enorme: di fatto il ministero sta indagando su 13 uffici inquirenti per una possibile violazione del decreto sulla presunzione d’innocenza varato dal governo di Mario Draghi e dall’allora guardasigilli Marta Cartabia, proprio su suggerimento dello stesso Costa.

La riforma Cartabia vieta di fatto ai pm e agli investigatori di parlare con i giornalisti. A parlare deve essere solo il Procuratore capo o i comunicati ufficiali. Nella sua interrogazione di ieri Costa ha denunciato “innumerevoli violazioni delle disposizioni” del bavaglio Cartabia, puntando il dito sulla procura di Milano, rea di aver ribattezzato un’indagine su una maxi truffa allo Stato con l’appellativo “Beagle Boys” cioè Banda Bassotti. Nel decreto Cartabia dare nomi in codice alle indagini è vietato. «Banda Bassotti non credo rientri nel diritto di cronaca, ma scivoliamo sulla spettacolarizzazione», ha detto Delmastro, rispondendo in aula all’interrogazione. 

La guerra all’informazione giudiziaria si innesta nella linea di provvedimenti che il governo sta assumendo in questi mesi. La Fnsi ha lanciato nei giorni scorsi un appello per invitare il presidente della Repubblica Mattarella a non firmare la modifica del codice penale che vieta la pubblicazione delle ordinanze cautelari integrali o per estratto. «Viola l’articolo 21 della Costituzione», denuncia Fnsi. Ma la maggioranza (allargata al fu Terzo polo) non sembra preoccuparsene. 

Buon mercoledì.

Nella foto: da sinistra il ministro Nordio e il sottosegretario Delmastro Delle Vedove

Quel filo nascosto fra Wenders, Herzog e Antonioni

In poco più di due settimane ha raggiunto quote importanti di spettatori. Parliamo di Perfect Days, l’ultimo film di Wim Wenders, candidato agli Oscar, opera complessa e straordinariamente poetica, un’imprescindibile riflessione sul cinema e sul suo linguaggio.

Protagonista è Hirayama (Kōji Yakusho, già vincitore del premio come miglior attore al Festival di Cannes), un addetto alle pulizie dei bagni pubblici di Tokyo che trascorre una vita apparentemente ordinaria, scandita da gesti quotidianamente reiterati, ma ogni volta osservati da una diversa angolatura, da un diverso punto di vista, e sui quali il regista sembra orientare lo sguardo – e la sensibilità – dello spettatore, affinché possa soffermarsi su quanto non è immediatamente visibile e percepibile. Una originale ricerca sull’immagine che parte da lontano, dal documentario Tokyo-Ga, presentato al Festival di Cannes del 1985 nella sezione Un Certain Regard, che Wenders realizza nella primavera del 1983. E dopo quarant’anni, Wenders torna in Giappone, facendo sue molte delle intuizioni del regista giapponese Yasujirō Ozu, al quale il documentario era dedicato. Un omaggio a quell’armonia che Dario Tomasi individua nella composizione strutturale del cinema di Ozu, in particolare in Fiore d’equinozio (Higanbana, 1958), dove le immagini costituiscono quasi un prolungamento, nel tempo, di particolari stati d’animo vissuti dai personaggi, tanto da configurarsi, secondo lo storico del cinema, come “immagini-sentimento”.

L’apertura degli occhi, al mattino, di Hirayama – stesso nome peraltro del protagonista del film di Ozu -, e il susseguirsi dei gesti compiuti dall’uomo, spingono lo spettatore ad attivare una visione ulteriore su quanto si delinea come semplice accadimento del quotidiano. Al di là della sofisticata tessitura drammaturgica, ciò che affiora prepotentemente nella ripetizione dei gesti, nei prolungati silenzi, è la tenacia stessa del regista nell’andare ad intercettare le innumerevoli possibilità e i nuovi scenari per declinare e rappresentare le immagini. Una ricerca sorretta da una autentica e salda tensione conoscitiva e da uno sguardo costantemente puntato sulla realtà. È la capacità dell’artista di porsi in relazione col mondo e, al contempo, di riflettere sul linguaggio cinematografico quale fondamentale strumento di indagine per veicolare idee e pensiero.

Hirayama è appassionato di letteratura (uno dei libri che appare nel film è Urla d’amore della scrittrice Patricia Highsmith, di cui Wenders ha adattato Ripley’s Game per il suo film del 1977, L’amico americano) e di fotografia: l’uomo possiede una macchinetta analogica con la quale tenta di catturare l’intima essenza delle cose, quanto di inafferrabile sembra esservi nell’immagine, soffermandosi sui dettagli, su una particolare luce, un impercettibile movimento di foglie. Perfect Days, scritto da Wenders insieme a Takuma Takasaki, rievoca e riparte da quell’antica e quanto mai necessaria riflessione sulle possibilità di rappresentazione dell’immagine, di cui in Tokyo-Ga – realizzato durante una pausa dalle riprese del film Palma d’oro a Cannes, Paris, Texas (1984) –, si confrontava, oltre che con alcuni collaboratori di Ozu, anche con Werner Herzog.

Tra i promotori del Nuovo cinema tedesco degli anni Settanta, Wenders sperimenta, fin da subito, una modalità di rappresentazione totalmente nuova rispetto alle norme codificate dal cinema classico che ponevano, in particolare, l’accento sulla linearità della storia. Lo stato delle cose (Der Stand der Dinge) del 1982, premiato a Venezia con il Leone d’oro al miglior film, mette a nudo proprio il dispositivo cinematografico, esibendone e rivelandone le innumerevoli possibilità nel momento stesso della creazione. Esemplare è la scena in cui una donna racconta a una bambina il motivo del suo pianto: «Piango perché è così straordinariamente bello e io non riesco ad afferrarlo. So che è soltanto una questione di chiaroscuri, ma guardo tutto questo e tutto ciò che vedo è… niente. … In natura è tutto un grande chiaroscuro, cioè l’unico modo in cui puoi dipingere questo è di accostare le zone chiare a quelle scure, altrimenti non è niente. Tutto ciò che vedi è chiaro e scuro, fatto di ombre e di luci. Vedi? L’onda è la luce, e lo spazio tra le onde, i cavalloni, è l’ombra. Ed è questo che dà la forma». In Perfect Days sarà Tomoyama (Tomokazu Miura) a rilanciare un medesimo interrogativo, quando chiede a Hirayama: «Le ombre sono più scure quando si sovrappongono?». La risposta, probabilmente, risiede in quell’incontro di luci e ombre – i cui inserti nel film sono a cura di Donata Wenders -, in quel gioco impalpabile e poetico che allude all’invisibile bellezza dei rapporti interumani e del rapporto con la natura, quale condizione interna di godimento e di ricerca.

Niccolò Farra – il protagonista del film Identificazione di una donna, presentato a Cannes nel 1982 quando Wenders incontra per la prima volta Michelangelo Antonioni – all’amico che gli chiede del suo prossimo film e dell’immagine femminile ideale di cui è alla ricerca, risponde di preferire, nel rapporto con una donna, il silenzio, «un tipo di rapporto come con la natura … davanti al mare, in mezzo a un bosco, da solo che fai? Guardi in silenzio. Però, senza che tu te ne accorga, un dialogo c’è!».

Hirayama non è un eroe solitario del quotidiano: nell’osservare il mondo non vi è malinconia, né rassegnazione, né tantomeno rinuncia, ma una incessante e silenziosa ricerca del ritmo lento e naturale delle cose e finanche dei rapporti, ai quali si mostra capace di rispondere con interesse e affettività (si pensi all’incontro con la nipote Niko – Arisa Nakano – e al personaggio di Mama – Sayuri Ishikawa – di cui il protagonista è segretamente innamorato). Più che i gesti sono i movimenti del personaggio a ridisegnare nuovi percorsi interiori, come quelli impercettibili che vediamo sul volto del protagonista nel finale, capace di passare dalla delicatezza di un sorriso a una profonda e sincera commozione, in risposta a una ricettività latente e alle intime risonanze interne. Percorsi sostenuti da una colonna sonora iconica che include brani, tra gli altri, degli Animals, di Lou Reed, Patti Smith e Nina Simone che, sulle note di Feeling Good, accompagna l’intenso primo piano del volto di Hirayama nel finale («It’s a new dawn, it’s a new day, it’s a new life for me and I’m feeling good»).

Racconto e sguardo, ricerca sull’immagine e rappresentazione. È questa la grande sfida sottesa al cinema di Wenders: andare a vedere cosa c’è sotto l’immagine. Probabilmente è la ricerca affidata dal regista a Hirayama, al suo modo ‘gentile’ di osservare la realtà, anche attraverso la fotografia. Strumento attraverso il quale Thomas, nel film di Antonioni Blow-up (1966) – considerato da Wenders importante per la sua formazione di giovane studente -, porta avanti la sua indagine su quanto si nasconde dietro l’obiettiva materialità fenomenica. Ed è proprio qui che la ricerca sull’immagine di Antonioni diviene più incisiva: «Noi sappiamo che sotto l’immagine rivelata ce n’è un’altra più fedele alla realtà, e sotto quest’altra un’altra ancora, e di nuovo un’altra sotto quest’ultima. Fino alla vera immagine di quella realtà, assoluta, misteriosa, che nessuno vedrà mai. O forse fino alla scomposizione di qualsiasi immagine, di qualsiasi realtà».

La domanda che Wenders ha rivolto ai suoi colleghi, tra cui Herzog e Antonioni, nel documentario Room 666, in occasione del Festival di Cannes del 1982, «Il cinema è un linguaggio che sta scomparendo o un’arte che sta morendo?» ha indubbiamente trovato in Perfect Days una delle sue più sorprendenti e poetiche risposte.

La lotta di classe c’è, eccome, e la stanno vincendo loro

Oxfam rapporto disuguaglianze

Puntualissimi anche quest’anno i tipi di Oxfam hanno fotografato il dirupo di disuguaglianze nel mondo. Mettetevi comodi: dal 2020 i 5 uomini più ricchi al mondo (Elon Musk, Bernard Arnault, Jeff Bezos, Larry Ellison e Warren Buffett) hanno più che raddoppiato, in termini reali, le proprie fortune – da 405 a 869 miliardi di dollari – a un ritmo di 14 milioni di dollari all’ora, mentre la ricchezza complessiva di quasi 5 miliardi di persone più povere non ha mostrato barlume di crescita. Ai ritmi attuali, nel giro di un decennio potremmo avere il primo trilionario della storia dell’umanità, ma ci vorranno oltre due secoli (230 anni) per porre fine alla povertà.

Nel rapporto Disuguaglianza: il potere al servizio di pochi scopriamo che l’aumento della ricchezza estrema nell’ultimo triennio è stato poderoso, mentre la povertà globale rimane inchiodata a livelli pre-pandemici. Oggi, i miliardari sono, in termini reali, più ricchi di 3.300 miliardi di dollari rispetto al 2020 e i loro patrimoni sono cresciuti tre volte più velocemente del tasso di inflazione.

In Italia, il quadro distribuzionale tra il 2021 e il 2022 mostra quasi un dimezzamento della quota di ricchezza detenuta dal 20% più povero (passata dallo 0,51% allo 0,27%), a fronte di una sostanziale stabilità della quota del 10% più ricco degli italiani. Le soluzioni suggerite sono sempre le stesse: una tassa sui patrimoni, niente condoni e lotta all’evasione fiscale. Disse Warren Buffet: «È in corso una lotta di classe, è vero, ma è la mia classe, la classe ricca, che sta facendo la guerra, e stiamo vincendo». A convincersi che la lotta di classe sia finita sono solo i poveri che sognano che i ricchi lascino qualche briciola. 

Buon martedì. 

Trans Balkan, vivere nella paura in Serbia

Nel 2003, dopo più di un decennio di guerre atroci, la Jugoslavia cessava formalmente di esistere. Nei fatti, aveva smesso di esistere da tempo: Slovenia, Croazia e Macedonia avevano ottenuto, nella violenta esplosione di nazionalismi contrapposti del decennio precedente, l’indipendenza dal governo di Belgrado. La Serbia, sconfitta e isolata dopo i bombardamenti Nato del 1999, aveva continuato ad aggrapparsi al nome di “Jugoslavia” fino al 2003, quando su pressione delle Nazioni Unite aveva dovuto abbandonarlo definitivamente in favore di “Unione Statale di Serbia e Montenegro”. Nello stesso anno moriva anche Merlinka Miladinovic, la prima persona dichiaratamente transgender nella storia jugoslava.

Nata a Zagabria nel 1958, Merlinka era stata cacciata di casa a vent’anni. Aveva vissuto in una Belgrado risentita e violenta, che nel decennio degli anni Novanta passava dall’essere la capitale di una federazione da venticinque milioni di abitanti all’essere una città in macerie e in mano al crimine organizzato. A Belgrado, Merlinka scriveva la sua autobiografia, uscita nel 2002, recitava e dava da mangiare ai cani randagi. La sua fine fu atroce e violenta come quella della Jugoslavia in cui era cresciuta: venne soffocata e presa a martellate. Il suo corpo, occultato dagli assassini, venne ritrovato solo un mese dopo la morte. Nessuno è mai stato condannato per il suo omicidio. La rassegna di cinema LGBTQI+ che dal 2009 si tiene a Belgrado con cadenza annuale si chiama “Merlinka Festival” per ricordarla.

Sempre nel 2009, il 26 marzo, il Parlamento serbo ha approvato una legge unificata che vieta, tra le altre cose, la discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale e del genere. La legge è ancora in vigore eppure, nell’agosto 2022, il governo di centrodestra di Aleksandar Vucic ha cancellato l’Europride che si sarebbe dovuto tenere a Belgrado per “ragioni di sicurezza”, cedendo alle pressioni della comunità ortodossa e dell’estrema destra.

Le elezioni che si sono tenute il 17 dicembre hanno confermato, in mezzo alle grandi proteste di piazza che sono seguite alle accuse di brogli, il governo di Vucic e della primo ministro Ana Brnabic, con le loro posizioni in perenne oscillazione tra timida apertura all’Ue e tradizionalismo filorusso. Il Partito progressista serbo di cui entrambi fanno parte, a dispetto del nome, è un partito conservatore. Gli atti di violenza omofoba, come la devastazione della sede del Belgrade Pride nella notte del 7 gennaio, continuano nonostante la legge che dovrebbe prevenirli.

«Questo è un Paese in cui il primo ministro, Ana Brnabic, è una donna dichiaratamente lesbica e allo stesso tempo dichiaratamente conservatrice. Le contraddizioni sono moltissime», dice il fotografo serbo Aleksandar Crnogorac, che ha vissuto in Italia, Francia e Svizzera e si è dedicato per anni a fotografare le comunità queer di tutta Europa. Dal 2018 è tornato a Belgrado, e per il suo progetto “Trans Balkan” ha incontrato, fotografato e intervistato più di cento persone trans provenienti da tutti i paesi balcanici.

Helena Vukovic, foto di Aleksandar Crnogorac

L’atteggiamento delle autorità e della società civile è sempre stato contradditorio anche nei confronti delle persone trans: dal 2011 gli interventi chirurgici per il cambio di sesso sono autorizzati e addirittura coperti dal piano statale di assicurazione medica di base (in modo parziale: il 65% del costo totale dell’operazione). Una legislazione molto progressista, soprattutto se comparata con quella dei paesi confinanti, che è il risultato di anni di campagne di attivismo e sensibilizzazione da parte delle associazioni LGBTQIA+. Nonostante ciò, fino al 2019, sopravviveva nell’ordinamento legale il pregiudizio che riduce il genere al sesso biologico. Difatti, le persone transgender potevano cambiare legalmente il loro genere solo se si sottoponevano a un intervento chirurgico di falloplastica o vaginoplastica: pratiche invasive e costose, a cui molte persone trans non hanno intenzione di sottoporsi. Un report del 2017 della Ucla evidenziava come il 60% della popolazione serba intervistata fosse a favore di misure contro la discriminazione delle persone trans. Eppure, ancora nel 2023, una giovanissima ragazza trans di nome Noa Miljovev veniva uccisa e il suo corpo veniva ritrovato smembrato a Belgrado. A vent’anni esatti dall’omicidio di Merlinka Miladinovic, e nonostante tutta la legislazione che dovrebbe proteggerle dalla discriminazione e dalla violenza, le persone trans in Serbia continuano a vivere nella paura.

«La prima cosa che le persone trans nei balcani desiderano è essere fisicamente al sicuro, questo è emerso molto chiaramente parlando con loro. La violenza rimane la preoccupazione numero uno, prima ancora dei diritti civili e di quelli politici» evidenzia Aleksandar Crnogorac. Interrogato su quando abbia deciso di concentrarsi sulle persone trans nei balcani, cita la vicenda di Helena Vukovic. Helena era un ufficiale di alto grado dell’esercito serbo prima della transizione, finché nel 2015 non aveva annunciato pubblicamente la sua identità di donna trans. La risposta dell’esercito che aveva servito per vent’anni fu il congedo forzato per ragioni psichiatriche e l’esclusione dalla pensione che aveva maturato nei suoi anni di servizio. Aleksandar volle incontrarla, fotografarla e sentire la sua storia: «Dietro di lei, nella foto, c’è la sua uniforme militare. Trans Balkan è nato così, da questo desiderio di mostrare quanto sono diverse le vite e i percorsi delle persone trans: ci sono persone giovani, vecchie, ricche, povere, educate, non educate, di tutti gli orientamenti politici, atee e religiose».

Tra i ritratti scattati da Aleksandar c’è quello di Brankica, nata nel 1937 in un villaggio della campagna serba, che solo nel 1995 è riuscita a completare la sua transizione e che ha dovuto vendere più di metà della terra che possedeva per pagare l’operazione chirurgica in Germania. «Quando sono tornata a casa, nessuno mi ha rivolto la parola per tre anni», dice nell’intervista rilasciata ad Aleksandar, «Ma non importa, rifarei tutto daccapo, il mio unico rimpianto è non essermi operata prima». C’è Kristina Ferarri, l’attrice protagonista del film di autofiction “Kristina”, che il regista Nikola Spasic ha presentato, tra gli altri, anche al Torino Film Festival nel 2022. Nel film, sobrio e delicato, pieno di inquadrature lunghe e dialoghi sottovoce, Spasic racconta le difficoltà di una persona trans che cerca di riavvicinarsi alla fede e alla religiosità. C’è Igor, un uomo trans serbo, che dice: «La mia identità non si esaurisce nell’essere un uomo trans, sono anche una persona che ha sogni, paure, punti di forza, di debolezza, idee, desideri, successi e fallimenti». Igor tocca un nervo scoperto quando evidenzia che «Anche le persone trans sono figlie di qualcuno, anche noi abbiamo un’etnia».

Interrogato sulla possibilità che il suo lavoro possa favorire il dialogo tra le diverse etnie e nazionalità dei balcani, ancora profondamente contrapposte dopo la stagione di guerre e violenze etniche degli anni Novanta, Aleksandar risponde: «Io credo di sì, o almeno lo spero. Uno scherzo ricorrente è che, comunque, il serbo e l’albanese facevano l’amore anche durante la guerra in Kosovo. Il nuovo progetto su cui sto lavorando, che si chiama Balkan Love, è una serie di ritratti e interviste a coppie di etnia mista. Mi dicevano tutti: non troverai mai una coppia albanese-serba. Invece c’è, certo che c’è». L’unica, brevissima dichiarazione che Kristina Ferarri ha deciso di inserire a corredo del suo ritratto in Trans Balkan è “Make love, not war”. Pronunciata in Serbia, la frase è meno banale di quanto sembri.

Nella foto in apertura: marcia Pride a Belgrado, nonostante il governo di Vucic avesse vietato l’Europride, 17 settembre 2023 (Bojan Cvetanović wikimedia)

Ma c’è bisogno di scriverlo ancora? Certo, va ripetuto ogni giorno

Ma c’è bisogno di scriverlo ancora? Certo, va ripetuto ogni giorno, finché non si ha contezza della gravità della situazione. Scriviamolo quindi che il 2023 è stato globalmente l’anno più caldo mai registrato dal 1850. Inoltre, lo scorso è stato il novembre con la temperatura più anomala di cui si abbia traccia. Situazioni simili, ammonisce l’organizzazione meteorologica mondiale (Wmo), si riproporranno con frequenza e intensità sempre maggiori. 

C’è una probabilità pari al 66%, secondo l’agenzia Onu, che tra il 2023 e il 2027 la temperatura media superi la soglia di 1,5 gradi centigradi fissata dall’accordo di Parigi per almeno un anno. Mentre la probabilità sale al 98% che uno di questi anni nonché il quinquennio nel suo complesso siano i più caldi mai registrati.

Il 2023 è stato l’unico anno in cui il 100% dei giorni ha registrato un’anomalia (segue il 2019, con 363 giorni su 365). Inoltre lo scorso è stato anche l’anno con più giorni con oltre 1,5 gradi centigradi di anomalia: oltre il 47% del totale. Sono 192 i giorni in cui l’anomalia è stata compresa tra il grado e il grado e mezzo e ben 173 quelli in cui ha superato la soglia del grado e mezzo. Una cifra, quest’ultima, particolarmente notevole e preoccupante, se pensiamo che il valore più alto, finora, erano stati i 77 giorni del 2016. Due giorni, ovvero il 17 e il 18 novembre, hanno addirittura superato la soglia dei 2 gradi – quella scongiurata dall’accordo di Parigi per via degli effetti irrecuperabili che avrebbe sull’ambiente. Vedete senso di urgenza in giro?

Buon lunedì. 

La filiera di Valditara, ovvero la scuola al servizio delle aziende

C’è la parola “filiera” nel titolo della riforma dell’istruzione tecnica che sta varando il governo e su cui il ministro Valditara gioca molte delle sue carte, almeno stando alle sue dichiarazioni. Sì, proprio così: filiera, come filiera produttiva, filiera alimentare, filiera aziendale… in questo caso si tratta della “Istituzione della filiera formativa tecnologico-professionale”, ovvero il ddl 924, ma non c’è dubbio che la paroletta richiami il lavoro, le varie tappe della produzione. E infatti il 31 dicembre 2023 il Messaggero titola «La scuola che aiuta le imprese» l’intervista al ministro Valditara (che campeggia nel sito del Mim). Il ministro esalta i contenuti della sua riforma: da un lato permettere ai giovani di trovare rapidamente lavoro «in modo coerente con i loro talenti e le loro abilità» e, dall’altra, soprattutto, «consentire al mondo produttivo di essere più produttivo».

Con Valditara e il governo Meloni si assiste così ad un ulteriore passaggio dell’istruzione finalizzata al mondo del lavoro. Nel 2015 era stata la Buona scuola di renziana memoria a istituire l’alternanza scuola-lavoro, rimasta pressoché inalterata con i successivi governi, salvo una riduzione di ore e una definizione meno impattante: Pcto (Percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento), poi era arrivato il miliardo e mezzo del Pnrr che Draghi aveva dedicato allo sviluppo degli Its (Istituti tecnici superiori, v.Left 1 marzo 2021). Adesso si scende ancora di più con l’età per favorire un ingresso precoce nel mondo del lavoro: infatti la filiera tecnologico professionale prevede un percorso di studi della durata di 4 anni, dopo di che, chi vuole, può proseguire per altri due anni negli Its, gli altri invece, a lavoro, anticipando i tempi. «Valorizziamo lo straordinario capitale umano rappresentato dai nostri giovani, diamo al sistema Paese la possibilità di correre» ha detto Valditara il 21 dicembre quando il disegno di legge governativo 924 è stato approvato dalla Commissione VII del Senato. Mentre il testo prosegue il suo iter in aula, Valditara ha accelerato i tempi. C’è fretta, tanta fretta di partire con la “filiera tecnologico professionale”. E infatti a suon di decreti (il 240 del 7 dicembre) Valditara avvia la sperimentazione. Entro le 23.59 del 12 gennaio gli istituti possono candidarsi per questa nuova avventura didattica.

Avventura è proprio il caso di dire, visto che lo schema di decreto relativo al progetto di sperimentazione della filiera tecnologico-professionale di Valditara è stato sonoramente bocciato dal Cspi (Consiglio superiore della pubblica istruzione) i cui pareri, è vero, non sono vincolanti anche se sono sempre stati illuminanti in passato sulla validità o meno dei provvedimenti del ministro di turno a Viale Trastevere. Il progetto di sperimentazione di Valditara prevede un’offerta formativa integrata tra i percorsi degli istituti tecnici e professionali, le istituzioni formative accreditate dalle Regioni e gli Its Academy, le istituzioni, i contesti produttivi e il mondo delle imprese. Una operazione complessa. Il Cspi individua criticità tali per cui il parere è negativo. Vediamo quali sono gli aspetti messi in luce. Intanto un problema deriva dal percorso quadriennale, un progetto di riduzione del tempo scuola che già in passato era stato avanzato e su cui il parere era stato negativo: nel 2017 e nel 2021. Anche allora si parlò di sperimentazione, che si è rivelata fallimentare – sottolinea il Cspi – visto che su mille classi potenziali secondo il piano avviato dal Decreto 344/2021 soltanto 243 ne sono state avviate, in precedenza ancora meno, nemmeno un centinaio.

Il Cspi poi mette in guardia: il disegno di legge in aula potrebbe essere modificato, e l’eventuale emanazione della legge potrebbe complicare la prosecuzione della sperimentazione. Un altro passaggio appare problematico: l’anticipo dei Pcto al secondo anno. Qui vale la pena riportare il parere del Cspi perché è significativo, a proposito della scuola proiettata sul lavoro. Il Cspi rileva «con preoccupazione questa tendenza costante verso l’anticipazione di esperienze lavorative che hanno un forte valore formativo se svolte da allievi che abbiano già sviluppato competenze di base e un’adeguata consapevolezza dei propri interessi e attitudini, ma possono risultare insignificanti e perfino pericolose se destinate ad alunni che non siano ancora pronti ad assumere gli atteggiamenti adeguati in contesti reali non scolastici». Da risolvere poi ci sono i problemi relativi alla integrazione con la formazione professionale esistente, al passaggio del quinto anno per poter accedere agli Its e al fatto che la riforma degli Its Academy è ancora in fase di avvio. Insomma la situazione del sistema scolastico non appare tale da rendere possibile una sperimentazione della filiera tecnologico professionale nell’anno scolastico 2024-25. Da qui il parere negativo del Cspi.

Una novità della filiera di Valditara è l’ingresso nelle scuole pubbliche di privati, soggetti che potranno insegnare nelle ore di lezione e che saranno assunti dalle scuole. Lo stesso ministro ne parla con entusiasmo nell’intervista del 31 dicembre: «C’è poi un importante passaggio che consente di arricchire le specializzazioni, laddove manchino i profili necessari tra i docenti: le scuole potranno fare contratti diretti con imprenditori, tecnici o manager perché salgano in cattedra per insegnare ai ragazzi». L’obiettivo, continua Valditara è «creare istruzione e formazione di serie A». Con il manager che sale in cattedra che fine faranno gli insegnanti e che ne sarà delle materie curricolari?

Questo e altri aspetti dubbi della riforma della filiera tecnologico professionale sono stati analizzati in modo molto efficace dalla Flc Cgil. Qui segnaliamo dei video esplicativi del segretario della Flc Cgil Firenze Emanuele Rossi.
«È un progetto pensato ad uso e consumo delle imprese che chiedono alla scuola di procurare loro manodopera a basso costo formata per le loro necessità», afferma Rossi. Tra l’altro, fa notare il segretario Flc Cgil Firenze, visto che gli obiettivi didattici sono funzionali ai bisogni delle aziende presenti nei territori, si verificherà una estrema differenziazione dei sistemi scolastici, anticipando in qualche modo ciò che avverrà con il progetto dell’autonomia differenziata su cui punta moltissimo il governo Meloni, insieme alla riforma del premierato.

Intanto, mentre nelle scuole c’è pressione perché vengano convocati i collegi docenti per decidere sulla sperimentazione della filiera tecnologico-professionale, stenta a partire anche il fiore all’occhiello del governo Meloni, il liceo made in Italy (v. articolo di Beppe Bagni su Left del 7 settembre 2023). Le iscrizioni online per le famiglie partiranno dal 23 gennaio, ma entro il 15 gennaio dovranno presentare la richiesta di avviare il nuovo percorso didattico quegli istituti che abbiano già il liceo delle scienze umane con indirizzo economico sociale. Ebbene, un po’ in tutta Italia, c’è molta resistenza a far partire il liceo made in Italy, anche nella “locomotiva” Nordest. Molte scuole stanno decidendo di rinviare al prossimo anno. La corsa alla formazione sulle “eccellenze” italiane non si è verificata.

Non è finita. In questo inizio anno si sta verificando un altro fenomeno i cui effetti appaiono via via nelle cronache locali a proposito di dispute tra istituti scolastici e governi regionali ma che visto nel suo insieme rappresenta un passaggio cruciale nell’organizzazione dell’intera rete scolastica. Tuttoscuola nella sua newletter dell’8 gennaio lo chiama «lo sconquasso del dimensionamento scolastico»: il grande cambiamento che sta avvenendo con la creazione di mega scuole, frutto di accorpamento di istituti sparsi nel territorio, secondo quanto stabilito dal Pnrr. Per risparmiare sul personale di segreteria e di dirigenza, oltre 628 istituzioni scolastiche, scrive Tuttoscuola, dal prossimo settembre scompariranno. Il 70% delle scuole soppresse si trova nell’Italia meridionale, in particolare in Calabria. Con situazioni paradossali, come quella di una istituzione in provincia di Vibo Valentia con 33 scuole da gestire e sette amministrazioni comunali con cui rapportarsi. Immaginiamoci dunque il viavai di personale delle segreterie e dei dirigenti. Tuttoscuola calcola che nel nuovo anno scolastico saranno circa 4mila persone a lasciare le loro sedi di servizio.

Nella foto: il ministro dell’Istruzione e del merito Giuseppe Valditara, 7 settembre 2023 (governo.it)

A proposito di femminicidi, dodicesimo giorno dell’anno

Igor Moser e Ester Palmieri si stavano separando. Ieri lui l’ha uccisa in un’abitazione a Valfloriana (in Trentino) e poi con la sua auto si è rintanato in un casolare di sua proprietà dove si è tolto la vita impiccandosi. La coppia aveva tre bambini di età compresa tra i cinque e i dieci anni. In quei momenti si trovavano all’asilo e a scuola. A scoprire il cadavere sono stati i familiari della donna. Ester sarebbe morta dissanguata a causa delle ferite ricevute probabilmente da un coltello. Il corpo di Igor Moser è stato trovato invece nel sottotetto dell’appartamento in cui viveva, al civico 2 di via Valle, a Castello Molina di Fiemme. Secondo quanto trapela l’uomo non avrebbe accettato la separazione e, al culmine dell’ennesimo litigio, avrebbe ucciso la compagna. Possesso, insomma. Siamo alle solite. Non accettando la separazione lui ha voluto decidere della vita di lei fino all’ultimo, fino all’estremo. 

A Villa Iconicella di Lanciano, in provincia di Chieti, ieri è stato arrestato Aldo Di Nunzio, ex vigile del fuoco di 71 anni. Sua moglie Annamaria D’Eliseo, 60 anni, bidella in una scuola, era stata trovata impiccata con un cavo elettrico il 17 luglio del 2022. Il marito si è sempre professato innocente e ha sempre dichiarato di aver trovato la moglie senza vita, dicendosi convinto che si fosse suicidata. Le indagini invece hanno appurato che i cavi elettrici con cui Annamaria si era impiccata non avrebbero potuto sostenerne il peso e quindi tantomeno ucciderla. Nuovi video e audio inchiodano il marito. 

Siamo al dodicesimo giorno dall’inizio dell’anno.

Buon venerdì. 

Nella foto: Ester Palmieri (immagine dal suo profilo facebook)

Israele alla sbarra della Corte internazionale di giustizia, un procedimento storico

frame video Corte penale internazionale

Sono in corso le due giornate di udienza alla Corte internazionale di giustizia che discutono il ricorso presentato dal Sudafrica (appoggiato da tantissimi Stati) che chiede di imporre misure immediate a Israele perché smetta l’eccidio a Gaza. Il ricorso sudafricano argomenta, con dovizia di documenti e testimonianze, che l’eccidio di massa configura «un modello di comportamento calcolato da parte di Israele che indica un intento genocida».Oggi, come comunità palestinese e democratici amici del popolo palestinese abbiamo incontrato l’ambasciatrice sudafricana, in un abbraccio e una condivisione politicamente ed emotivamente forti, in cui le bandiere sudafricane e palestinesi hanno sventolato insieme, sotto uno striscione raffigurante l’incontro tra Mandela ed Arafat, in cui Mandela afferma che il Sudafrica sarebbe stato veramente libero solo con la nascita dello Stato palestinese.
Quello in corso alla Corte Internazionale di giustizia è un procedimento storico, sia detto senza enfasi. È importante anche perché questa Corte dirime le controversie tra Stati e le sue decisioni sono vincolanti. Anche se la sentenza definitiva dovesse essere emessa tra mesi, una prima sentenza immediata può causare, in poche settimane, un ordine di interruzione immediata degli atti di genocidio, degli eccidi a Gaza, delle operazioni militari. Il governo israeliano sta, non a caso, reagendo con violento nervosismo, consapevole di perdere, in caso di sentenza negativa, la propria impunità ed immunità internazionale. Le ambasciate israeliane sono state, dal governo, mobilitate affinché i «Paesi amici ed alleati» dicano chiaramente e pubblicamente che il «vostro Paese rigetta le accuse oltraggiose, assurde, infondate». Israele si proclama vittima di un complotto antisemita globale.
Cosa faranno, ora gli Usa. l’Ue, l’Italia? Si schiereranno ufficialmente con il genocidio o tenteranno un’aspra mediazione?

La presidente del Consiglio Meloni, starà zitta, io temo. Vincerà l’ipocrisia del silenzio. Anche se, sul piano giuridico, mi pare che la situazione sia evidente, in base al diritto internazionale. È infatti, la convenzione Onu del 9 dicembre 1948 che regola i canoni che configurano il delitto di genocidio. Esso indica atti che vengono commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un «gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso». Il genocidio non può essere giustificato invocando il diritto di difesa che l’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite riconosce ad ogni Stato che sia vittima di una aggressione armata. Occorrono «proporzione e prospettiva». In definitiva , il ricorso del Sudafrica ha smosso complicità e ipocrisie, ha forse messo in moto una dinamica diplomatica, un percorso di rispetto della dignità e della vita stessa dei popoli

wikiradio, onde lunghe sulla storia

In un tempo lontanissimo si usava dire “l’ha detto la radio”, e in seguito, la stessa frase in cui il soggetto era la tv: a significare l’autorevolezza di uno strumento di diffusione che tanto ha significato in epoche di guerra, di rinascita, di boom economico, di liberalizzazione con l’avvento di radiolibere che hanno cambiato il volto della comunicazione. E poi la digitalizzazione, i mille siti nei quali cercare notizie, la pluralità di agenzie informatiche, di agenzie di stampa, di fonti le più disparate. Una invasione, che tutti sperimentiamo ogni giorno, di notizie e informazioni non sempre veritiere. Ma la Radio è rimasta. Con programmi culturali, con Gr che chiedono il contributo sonoro del pubblico cui si rivolgono, con piccoli gioielli come Wikiradio.
Per dodici anni Wikiradio, la trasmissione di Radio3, in onda dal lunedì al venerdì alle 14, curata da Loredana Rotundo, Natascia Cerqueti, Marcello Anselmo e Maddalena Gnisci, ha raccontato agli ascoltatori una vicenda storica, commentandola e trovandone i nessi con la realtà attuale, costruendo una vera e propria Enciclopedia radiofonica. Quando si dice vicenda storica si intende riguardante la letteratura, le scoperte scientifiche, l’economia e appunto gli avvenimenti storico politici, tutto quel che riguarda l’Umanità. «Questo finora avveniva legando la data del giorno ad un fatto di vita- ci dice Marzia Coronati, giornalista, audiodocumentarista redattrice del programma – per esempio l’8 gennaio, data della morte dello scrittore inglese Wilkie Collins (8 gennaio 1824),la sua opera viene evocata e illustrata criticamente da Paolo Bertinetti, anglista, docente a Padova e Torino. Oppure il 10 gennaio, data di nascita dell’immaginifico scrittore Gianni Celati, è stato raccontato dal critico e scrittore Arnaldo Colasanti, e ancora la morte del grande fotografo Tano Festa (9 gennaio 1988),raccontato da Adriana Polveroni, giornalista, saggista, critica d’arte, docente di Museologia a Brera». Marzia Coronati ha un passato da documentarista, si è occupata di ambiente, immigrazione, detenzione, diritto ad abitare. Ha lavorato a diverse emittenti Radio scrive su “Lo stato delle città” . Coronati ci aiuta a ripercorre le puntate, anche quelle più divertenti come quella che rievoca la figura di Osvaldo Cavandoli, disegnatore finissimo, creatore della “linea” che tutti ricordiamo, capace di descrivere oggetti, persone e cose (celebre la sua “caffettiera”) con un solo segno. Tanto lavoro dunque, una scelta di interlocutori di alto livello. Ma adesso, dice la redattrice, si cambia :«abbiamo deciso di non restare legati ad una data ma pensare ad un avvenimento che abbia un significato profondo, ad un periodo della nostra Storia, che ci rappresenti, e di partire da lì per costruire la trasmissione».
Cosi nel nuovo format ci saranno “cinque categorie”, ossia cinque fonti storiche che parleranno di uno stesso periodo. Ad inaugurare la nuova serie sarà l’anno 1946: il discorso di Alcide De Gasperi pronunciato il 10 agosto a Parigi alla Conferenza di pace, il pensiero dell’economista J.M. Keynes, il carteggio tra Hannah Arendt e il drammaturgo Hermann Broch, la fondazione della Casa della Cultura a Milano, lo scatto diventato famoso con il quale la fotografa Margareth Bourke White,(prima donna fotografo a pubblicare sul settimanale “Life”, e ad entrare in Urss ndr) ha immortalato un Gandhi intento all’arcolaio e che ha fatto il giro del mondo . Cartoline dalla Storia, brani di realtà che ci arrivano a casa facendoci pensare.

Cartoline di suoni, in cui la realtà viene restituita solo attraverso le parole, e i toni della voce, guidate da emozioni che siamo quasi costretti a percepire se vogliamo partecipare a quel che ci viene detto.
«Fermiamoci ad ascoltare e ci sarà molto da scoprire». Con questa frase dello scrittore Mario Rigoni Stern nel suo libro Stagioni, pubblicato due anni prima della sua morte, si conclude l’invito che “quelli di Wikiradio” inoltrano alla stampa. Lui stesso, dopo le guerre che lo hanno visto protagonista, la vita percorsa da dolori, camminando a passo lento ricorda vicende personali e grandi avvenimenti della Storia, gli alberi, le cose intorno, gli uomini e le loro speranze e intravvede la nuova stagione che arriva. I contenuti di wikiradio, presi dal preziosissimo scrigno delle teche Rai, ordinati e strutturati dando un senso consequenziale, sono consultati anche da università e scuole, che traggono beneficio da questo lavoro certosino di ricerca e messa in fila diventata opera di servizio pubblico. È prevista inoltre una collaborazione con altri archivi storici per documentare più fedelmente possibile chi siamo stati, cosa abbiamo fatto. In fondo la storia siamo noi.

Il nuovo format Wikiradio sarà presentato a Roma, il 15 Gennaio alla Sala Igea nella sede della Enciclopedia Italiana Treccani.
Quel giorno la prima trasmissione della nuova stagione sarà realizzata eccezionalmente in diretta. Dalle 14 alle 15 cinque rappresentanti della cultura italiana, lo storico Umberto Gentiloni; la giornalista e consulente di Arte contemporanea presso i musei vaticani Alessandra Mauro; Cristina Marcuzzo, docente di Economia Politica alla Sapienza ; lo scrittore e critico letterario Francesco Fiorentino, autore di quattro volumi sul Teatro francese, e il critico Arnaldo Colasanti, autore e condirettore di Nuovi Argomenti.