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Acca Larentia: chiederanno scusa, si può scommettere

Per capire quanto c’entri il partito di Fratelli d’Italia con i saluti fascisti durante la commemorazione di Acca Larentia potrebbe essere utile farsi un giro sul canale Telegram del Blocco studentesco, la formazione giovanile di estrema destra di Casapound che è tra gli organizzatori della commemorazione che ogni anno si ripete di fronte alla sede dell’ex Msi. Il gruppo ha condiviso un articolo di Repubblica in cui il vice presidente della Camera di Fratelli d’Italia Fabio Rampelli spiega che le persone nel filmato che ha fatto il giro del mondo “sono persone di varia provenienza, cani sciolti, organizzazioni extraparlamentari. Non hanno niente a che vedere con FdI”. Il commento di Blocco studentesco è chiaro: “Dopo l’infamia, l’ipocrisia”, scrivono, prendendosela anche con lo scrittore e giornalista Marcello Veneziani che aveva definito i presenti come “cretini”. 

Facile immaginare che l’ipocrisia di cui parlano i giovani di Casapound sia la mimetizzazione di chi come Giorgia Meloni nel 2009 da ministra della Gioventù si presentava alla cerimonia accompagnata dall’ex leader di Forza nuova Giuliano Castellino (appena condannato per l’assalto alla Cgil del 9 ottobre del 2021). Il senso di tradimento di una parte dell’estrema destra è la certificazione dell’ipocrisia di un governo che nega l’innegabile per apparire potabile. 

C’è da scommettere che in molti nel partito di Giorgia Meloni muoiano dalla voglia di scusarsi per quest’improvvisa moderazione simulata resa obbligata dalle circostanze. Lo faranno – si può scommettere – quando saranno all’opposizione. 

Buon giovedì. 

Nella foto: militanti di Blocco studentesco (Wikipedia)

La poetica della pulizia (interiore)

Ci vuole un po’ di pazienza prima di arrivare ad apprezzare la poetica che Wim Wenders ha innestato nella sua ultima pellicola, Perfect Days. La prima parte del film sulla vita di Hirayama, un addetto alle pulizie dei bagni pubblici di Tokyo, sembra infatti essere un inno alla coazione a ripetere, condito con un pizzico di “autismo sociale”. Una conseguenza, nell’età adulta, dell’Hikikomori nipponico?
Con pochissimi dialoghi, specialmente nella prima parte dominata da ammicchi, gesti e sguardi, ai quali nella seconda si aggiungerà un crescente flusso di parole, il film snocciola i giorni della settimana lavorativa e privata del nostro interprete, giorni conditi dalle formalità e dai rituali tipici della vita giapponese. Apparentemente con rapporti solo formali e mediati dalle attività quotidiane, quindi senza grande profondità, il protagonista sembra una monade inserita in una routine perfettamente funzionante. Ma i suoi sguardi attenti, i lievi sorrisi compiaciuti sulle piccole cose umane, l’armonia del vivere, l’incantamento per il sussurrare delle fronde dei salici giapponesi, le sue letture non banali, tutto ciò ci fa intuire in lui la presenza di una dimensione umana non povera, non “normale”.
Quindi, lo spettatore che abbia contrastato con successo l’iniziale tentazione di dare un giudizio troppo affrettato al tran tran quotidiano dell’interprete del film, scoprirà una piccola perla di umanità e di resistenza.
Resistenza a cosa? Alla freddezza di una società orientale ormai fin troppo occidentalizzata e alla violenza di rapporti familiari che la maestria del regista ci fa solo intravedere, ma che, si capisce, è alla base delle scelte di vita del protagonista, magistralmente interpretato da Kōji Yakusho che, non a caso, ha ricevuto nel 2023 a Cannes il premio di miglior attore. Splendida e catartica la scena finale, dalla quale si potrebbe pensare che Wenders abbia apprezzato la Marushka Detmers del finale di Diavolo in corpo, guidata dalle sapienti mani della coppia Bellocchio / Fagioli (più il secondo che il primo, come ammise lo stesso maestro piacentino in diverse interviste).
Infine un consiglio. Lo spettatore non avvezzo alle cose della cultura giapponese, cui sia piaciuta la scelta delle canzoni anni Settanta che compongono la colonna sonora (una delle quali ha ispirato il titolo del film), non avrà difficoltà ad attendere lo scorrere dei titoli di coda per vederne riassunto l’elenco. Lo faccia, perché verrà premiato! Al termine troverà infatti in un’espressione della lingua giapponese l‘indicazione che lo aiuterà a meglio comprendere l‘amore del protagonista per i caratteristici aceri del suo Paese, nonché quello che il regista tedesco nutre per il Giappone, Paese ricco di contraddizioni come lo è il mondo stesso, che è fatto di tanti mondi“ (dice il protagonista alla giovane nipote alla ricerca di pulizia interiore), dipende tutto da come comunicano fra di loro.

“Svelarsi”: la forza nuda delle donne spazza via gli stereotipi

Svelarsi non è un semplice spettacolo, è un momento di raccoglimento e, nello stesso tempo, di condivisione; un’occasione per una riflessione profonda. La “Serata evento per sole donne e chi si sente tale”, come recita il sottotitolo, è in programma all’Auditorium Parco della musica di Roma dal 10 al 17 gennaio. Svelarsi è di e con Giulia Aleandri, Elvira Berarducci, Smeralda Capizzi, Benedetta Cassio, Livia De Luca, Chantal Gori, Giulia Pietrozzini, Silvia Gallerano con il contributo di Serena Dibiase e la voce di Greta Marzano, con regia e coordinamento di Silvia Gallerano.

Le protagoniste dello spettacolo “Svelarsi”

Per consentire l’ingresso al maggior numero di donne possibile, è stato ideato il “biglietto sospeso”, ovvero la possibilità di acquistare un biglietto da devolvere a qualcuno che non può permettersi l’acquisto.
Della ricerca che c’è dietro lo spettacolo abbiamo parlato con Silvia Gallerano, artista che con il suo ribaltamento del concetto di nudità ha dato il via al progetto.

Silvia Gallerano, come e quando è nata l’idea di Svelarsi? Che valore attribuisce alla nudità e cosa rappresenta il corpo nello spettacolo?
L’idea dello spettacolo è nata nell’ambito di alcuni laboratori che ho cominciato a fare diversi anni fa, dopo lo spettacolo La merda, in cui ho sperimentato per la prima volta la sensazione della nudità in scena e l’ho vissuta come un’esperienza liberatoria e, soprattutto, rivelatoria di un’identità e di una potenza femminile di cui non avevo piena consapevolezza. Per assurdo, la nudità, poiché generalmente subita, viene associata a una condizione di debolezza, alla pornografia e all’erotismo, insomma a un’oggettificazione del corpo femminile. Al contrario, ho compreso che se agita in maniera forte e consapevole, sprigiona un grande potenziale creativo e identitario.

E quindi cosa è successo?
Tutto questo mi ha incuriosito, così ho iniziato ad organizzare dei laboratori con altre donne per capire se questa fosse una mia percezione personale o un sentire comune. Da questi workshop è emerso quanto il mio sentire fosse condiviso e, quindi, abbiamo continuato a lavorare sul tema della nudità a partire dal mio testo teatrale, relativo a tutte le umiliazioni che la protagonista si infligge per rispecchiare i canoni imposti dalla società. Insieme ci siamo confrontate su tutte le costrizioni che il nostro corpo deve subire per poter essere conforme alle richieste di una società a dominazione maschile e da questo lavoro è venuto fuori che spesso ci sentiamo inadatte ed inadeguate quando, in realtà, sono le richieste che ci vengono imposte ad essere sbagliate, inadatte e inadeguate. Ovvero, il problema – che spesso causa forti disagi – non è dentro ma fuori di noi, nella società, nel patriarcato. Parola che solo adesso è stata ripristinata.

Svelarsi si può considerare pertanto come un lavoro corale, in cui le attrici in scena sono anche autrici? Insomma, l’opera è frutto di un dialogo?
Assolutamente sì. Il progetto è nato nell’ambito di questi laboratori. Tra il 2018 – 2019 abbiamo cominciato a lavorare in maniera assidua con un gruppo di ragazze più giovani, poi con il Covid abbiamo sospeso. Ma, grazie al sostegno di Michela Cescon e del Teatro Dionisio, dopo la pandemia siamo riuscite a trasformare i laboratori in uno spettacolo. Mantenendo sempre lo spirito dell’esperimento. Infatti, durante lo spettacolo cerchiamo di coinvolgere anche le spettatrici e di trasmettere loro questa sensazione di potenza e liberazione che cresce anche nella dimensione collettiva. Per questo, più che autrice, mi considero coordinatrice degli interventi che ogni attrice ha sviluppato. Diciamo che se le attrici fossero state altre, anche lo spettacolo, penso, sarebbe stato diverso, perché è costituito da contributi molto personali ma che comunque, nella dimensione corale, acquistano una valenza collettiva.

Qual è il “capitolo” che scuote emotivamente di più?
Sicuramente la parte dedicata ai “sensi di colpa” è forte, lo abbiamo visto anche nelle repliche realizzate intorno al 25 novembre. Si tratta di un argomento molto delicato che trattiamo in maniera dinamica creando un vero switch, un cortocircuito emozionale, attraverso un potente climax; perché cominciamo da un sentimento per arrivare ad un altro, ma non vorrei “svelare” troppo….

Va benissimo… Secondo lei qual è il primo passo da fare per cambiare la percezione che le donne hanno di loro stesse?
Penso che la dimensione collettiva, lo stare insieme, sia estremamente positivo per noi donne. Dovremmo capire che le altre donne non sono “nemiche” o “rivali” ma persone che, come noi, subiscono le stesse dinamiche depotenzianti e sopraffattorie. In passato, come ha ricordato Simonetta Crisci, avvocata ed esperta in storia femminista, ad un incontro che abbiamo fatto con degli studenti, tutte le grandi battaglie che abbiamo vinto come donne, le abbiamo vinte perché eravamo insieme. Quindi, penso che questa possa essere una chiave. Anche perché la condivisione, lo scambio, aiuta a cambiare il punto di vista e a capire che, spesso, quello che pensiamo sia sbagliato in noi, in realtà deriva da un’imposizione sociale esterna che incombe e grava come una condanna su tutto il genere femminile ma che unite possiamo estirpare. Insomma, lo stare insieme ci permette di elevare la nostra posizione, di assumere un ruolo attivo; di passare dalla sottomissione all’azione.

Le donne per lei sono vittime?
Non credo, cioè non credo che dovremmo esserlo. Penso che la storia ci abbia attribuito un ruolo. Un ruolo in cui abbiamo sguazzato. Una sorta di posizione comoda, passiva, rassegnata. Per questo penso che il motivo per cui il femminismo non ama chiamare vittime le persone che subiscono violenza sia proprio perché questo termine ci pone, come donne, in una posizione di passività; mentre abbiamo la possibilità di rispondere ma la acquisiamo solo nel momento in cui ci rendiamo conto che la condizione di vittima non è connaturata in noi ma frutto di un retaggio storico in cui siamo state relegate. Quindi, possiamo decidere di uscirne benissimo.

Pensa che attualmente, anche alla luce dei recenti fatti di cronaca, sia in corso un cambiamento?
I cambiamenti sono sempre in corso. Mi ha stupito il grande movimento che ha suscitato l’omicidio di Giulia Cecchettin, coinvolgendo persone che normalmente non vengono toccate da questi avvenimenti e molti uomini. Anche coloro che hanno risposto in maniera fastidiosa, sentendo la necessità di mettersi sulla difensiva, hanno mostrato un cambiamento, nell’essere quantomeno consapevoli della loro coda di paglia e, dunque, non del tutto estranei all’accaduto. Penso che il cambiamento adesso lo dovrebbero fare gli uomini, cominciando a ragionare sul maschile, sulle costrizioni che il loro ruolo dominante impone. Certo, mettere in discussione una posizione di potere è molto difficile, però credo dovrebbero iniziare a porsi delle domande sul significato di essere uomini in una società in cui gli uomini sono i padroni.

Cosa volete provocare con questo spettacolo?
Uno smottamento delle certezze. Un movimento. Noi non proponiamo verità ma spunti, domande e riflessioni. Penso che il lascito più grande di Svelarsi sia quello di offrire un altro punto di vista attraverso cui guardare la realtà

Qui il link per il biglietto sospeso:

https://gofund.me/c2b37810

Liberiamo Ilaria Salis

Ilaria Salis è una cittadina italiana, una maestra di 39 anni rinchiusa da quasi un anno nelle carceri ungheresi. Ilaria è anche una internazionalista e antifascista, porta quindi lo stigma della diversità mostrificata nei paesi a populismo realizzato come l’Ungheria di Orban. L’accusa che la tiene dietro le sbarre parla di aggressioni compiute insieme ad altri militanti antifascisti nei confronti di esponenti neonazisti in occasione della “giornata dell’onore”, una ricorrenza che ogni anno raccoglie nella capitale magiara migliaia di nostalgici del Terzo Reich.
Ma andiamo con ordine e prendiamola alla lontana, partiamo dalla ricorrenza che ha portato centinaia di estremisti neonazisti e neofascisti a radunarsi proprio a Budapest. Siamo nel 1945, l’Armata rossa è alle porte della capitale ungherese. Per i nazisti la difesa della città ha un valore cruciale per fermare l’avanzata verso Vienna e quindi verso Berlino. Hitler ordina di tenere la capitale fino all’ultimo uomo e le formazioni militari tedesche unite a quelle del governo collaborazionista delle “croci frecciate” (partito al potere in Ungheria in quel periodo, antisemita e filonazista) rispondono resistendo disperatamente. É un massacro. In poche ore le truppe tedesche e ungheresi vengono annientate, migliaia i morti, altrettante migliaia i feriti. Secondo gli storici, quel comando fu militarmente inspiegabile, criminale, che si aggiunge agli altri atti criminali compiuti dalle gerarchie naziste nel corso della guerra. Una strage inutile di fronte ad una vittoria dell’Armata Rossa ormai inevitabile. Eppure, quella resistenza è passata nell’immaginario della destra neonazista e neofascista del Nord e del Nord est europei come una epopea di santi e eroi, i sacrificati alla follia nazista visti come soldati a difesa dell’Europa ariana di fronte all’avanza del nemico: ieri il comunismo, oggi ogni cultura e nazionalità distante dalla purezza come concepita dai nostalgici di Hitler. Il “giorno dell’onore”, quell’11 febbraio della capitolazione di fronte all’armata rossa, dopo decenni raduna sigle e personalità del neonazismo tedesco, austriaco, ungherese, ceco, balcanico, francese ed è occasione ogni anno di episodi di violenza nei confronti dei nuovi e dei vecchi nemici dell’Europa bianca, che siano essi persone di sinistra o semplicemente provenienti da Paesi non comunitari. Ogni anno questa ricorrenza diventa l’occasione per l’estrema destra di dare la caccia all’uomo, al “diverso”.
Anche nel febbraio 2023 accadono episodi di violenza da parte di fascisti e nazisti con la reazione dei movimenti sociali locali e spesso anche di internazionalisti provenienti da altri luoghi di Europa. Ilaria è accusata, insieme ad altri ragazzi antifascisti di aggressione e lesioni verso gli appartenenti alla galassia nera che si dà appuntamento a Budapest. Viene fermata lo stesso 11 Febbraio 2023 dalla polizia ungherese mentre si trova in taxi con 2 cittadini tedeschi, Tobias E. e Anna Christina M. Le verranno contestati diversi reati e il possesso di un manganello telescopico. Nel dettaglio l’accusa parla di “lesioni da cui possa derivare pericolo per la vita” e di appartenenza a organizzazione politica criminale, una presunta rete internazionale antifascista. Nessuno dei tre è stato colto in flagranza di reato, né risultano testimoni; inoltre gli aggrediti non avrebbero sporto denuncia, mentre le lesioni risulterebbero guaribili in pochi giorni. A marzo, giugno, agosto e novembre i difensori ungheresi di Ilaria hanno presentato istanza al Giudice per richiedere che le misure cautelari fossero svolte in Italia in ottemperanza alla Dichiarazione Quadro 2009/829/GAI, ma tali richieste sono sempre state rigettate.
Per questi reati Ilaria rischia fino a 16 anni di carcere, in un Paese che tollera le esibizioni squadriste di quella che si manifesta in loco come una “internazionale nera”. Il 29 gennaio è iniziato il processo a carico suo e di altri imputate e imputati (Ilaria è stata portata in Aula con le manette e al guinzaglio).

È evidente che quanto sta avvenendo a Ilaria e agli altri antifascisti coinvolti negli arresti e nei fermi ungheresi deve interessare l’intera opinione pubblica e le sensibilità democratiche europee. Perché sul loro corpo si sta giocando una partita tutta politica che riguarda la qualità della democrazia nel nostro continente, il rapporto con i movimenti che si oppongono all’espandersi delle ideologie neofasciste e neonaziste, il tema dei diritti civili e umani. Un anno di reclusione senza processo, in condizioni estreme, un trattamento violento e di privazione dei minimi diritti umani, in presenza di una sproporzione clamorosa tra fatti contestati e pene previste, costituiscono un chiaro segnale di allarme sui rischi che corre l’Europa a populismo realizzato. Se a questo si aggiunge il fatto che ad essere inquisiti e perseguitati per le tensioni della “giornata dell’onore” sono prevalentemente i militanti e le militanti antifasciste, questo allarme assume un significato politico ancora più esplicito e chiama in causa il Governo di Viktor Orban e le sue relazioni pericolose con la destra neonazista. Viktor Orban, al potere da tempo immemore, ha dato vita a un modello avanzato di autoritarismo fatto di limitazioni ai poteri parlamentari, attacchi alla magistratura democratica e alle opposizioni, filo spinato contro i migranti, provocazioni e boicottaggi nei confronti delle iniziative europee più aperte verso i temi dell’inclusione e dei diritti civili. Ecco, in questo quadro e di questo quadro Ilaria è prigioniera. E la sua liberazione è questione che riguarda tutti e tutte.

 

Sgarbi quotidiani

Ora c’è anche un sottosegretario alla cultura indagato per auto riciclaggio di beni culturali (art. 518-septies del codice penale). Vittorio Sgarbi è accusato dalla Procura di Macerata in merito alla vicenda di un quadro caravaggesco del Seicento attribuito al senese Rutilio Manetti, La cattura di San Pietro. Il dipinto fu trafugato nel 2013 dal Castello di Buriasco, nel Torinese e riapparve in una mostra a Lucca nel 2021, di proprietà di Sgarbi.

L’inchiesta è partita dalla trasmissione Report e dal Fatto quotidiano che fa sapere che Sgarbi rischia il rinvio a giudizio nell’indagine partita a Siracusa nel 2020 e trasferita dalla Procura di Imperia in merito alla vicenda riguardante l’esportazione, ritenuta illecita, di un quadro all’estero attribuito al Valentin De Boulogne, anche questo poi riprodotto come “clone” nel laboratorio di Correggio dove ieri sono stati i carabinieri per ascoltare i due titolari come persone informate sui fatti.

Le versioni del sottosegretario sulla provenienza del suo dipinto sono state diverse: prima ha detto di averlo trovato nel sottotetto della sua Villa Maidalchina acquistata nel 2000 dalla madre, poi ha cambiato versione parlando di una intercapendine e infine si è ricordato di un sottoscala. Del resto scegliere un critico e mercante d’arte come come sottosegretario alla Cultura, così come un’imprenditrice nel turismo come ministra al Turismo (Daniela Santanchè) nonché nominare ministro alla Difesa l’ex presidente della Federazione Aziende Italiane per l’Aerospazio, la Difesa e la Sicurezza è inevitabilmente scivoloso. Lo capiscono tutti, tranne Giorgia Meloni. 

Buon mercoledì. 

Foto di Vittorio Sgarbi Di Pietro Luca Cassarino – https://www.flickr.com/photos/184568471@N07/50349038387/, CC BY-SA 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=94156391

David Bowie, l’uomo e l’artista, nello sguardo di chi l’ha conosciuto

 

David Bowie musicista, performer, pittore, sperimentatore a 360 gradi. Nel libro Looking for David Bowie, edito da Arcana, Matteo Tonolli racconta l’uomo David Robert Jones e le sue maschere, attraverso una grande messe di interviste realizzate con artisti, musicisti, giornalisti che lo hanno conosciuto da vicino e hanno collaborato con lui. A pochi giorni dal suo compleanno (8 gennaio1947) e nell’anniversario della sua scomparsa avvenuta il 10 gennaio 2016, ecco un estratto del libro

Perché ancora un libro su David Bowie? Le proposte editoriali si sono quasi sempre concentrate principalmente sulla produzione musicale e lirica dell’artista inglese, lasciando in secondo piano altri aspetti altrettanto fondamentali della sua lunga discografia. L’immagine di sé, prima di tutto, era una delle sue principali preoccupazioni in occasione di ogni suo nuovo episodio creativo. David Robert Jones, dopo aver creato il suo doppio principale, ovvero il musicista David Bowie, lo ha rivestito di volta in volta di nuovi abiti, maschere, make up, atteggiamenti, ideologie, pensieri… ha trasformato se stesso all’occorrenza in un essere proteiforme e illuminato, sfavillante, stupefacente, sfarzoso, ambiguo, manchevole, oltraggioso, riprovevole. Spesso questi suoi personaggi sono il riferimento sottostante a un intero album ma il più delle volte hanno avuto spazio di poche o pochissime canzoni, pur tuttavia con la potenzialità di ritornare anche a distanza di molti anni, in un gioco ambizioso di autoreferenzialità. Come un demiurgo, ha infuso di vitalità e credibilità i suoi alter ego attingendo alla propria fantasia, alimentata da innumerevoli ispirazioni che a loro volta prendevano spunto da suggestioni artistiche, esperienze di vita, incontri, vicende ed emozioni personali nel fare questo David Bowie cercava e si intratteneva con i più disparati professionisti provenienti dal mondo della musica, della pittura, della fotografia, della grafica e dell’arte in generale. Un anelito incontrollato e incontrollabile per apparire sempre diverso, non ripetersi e stupire, meravigliare se stesso e soprattutto gli altri, contaminare la propria vena artistica e moltiplicarla, rifinirla e modellarla di mille sfaccettature. Spesso Bowie ha cambiato il proprio atteggiamento ed è apparso in nuove vesti stupefacenti e sgargianti anche solo nello spazio di un video, un cammeo cinematografico, una sessione fotografica, uno scatto per la copertina di una rivista… in questa raccolta di interviste presentate in ordine per lo più cronologico e che intenzionalmente non vuole essere né ripetitiva né esaustiva, troverete alcuni episodi inediti nella vita sia artistica del performer inglese, dettagli e sfumature di progetti condivisi con vari collaboratori o semplicemente amici, nel corso di una carriera non priva di qualche passo falso. Ma soprattutto mai banale, mai noiosa… Quando è stato possibile ho ritenuto utile affiancare alle interviste le recensioni dei volumi- per lo più monografici – che l’artista di turno gli ha dedicato, aggiungendo talvolta anche quelle delle mostre più recenti E più rimarchevoli. Una vera e propria digressione nel campo dell’editoria, che vede il più delle volte protagonista l’eccellenza di stamperie italiane. E’ un viaggio fatto di storie e racconti che andrebbe accompagnato con un adeguato apparato visivo, che tuttavia è impossibile affiancare a questa uscita… Il Bowie delle meraviglie continua a generare stupore e non vi è dubbio che non mancherà di stupire anche negli anni a venire con materiale alternativo e inedito. Come dimostrano i contenuti di questo volume, David Bowie diviene il tramite e il lasciapassare per l’accesso ad altre conoscenze, il mezzo attraverso il quale l’intelligenza e la curiosità di coloro i quali non si accontentano della sua musica possono arrivare a scoprire un mondo di fascinazioni, bellezza, arte, sapere. Gli stessi ingredienti che hanno nutrito questo incomparabile artista.

Estratto da “Looking for Bowie” di Matteo Tonolli, Arcana edizioni. © 2023 Lit edizioni s.a.s. per gentile concessione.

 

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David Bowie is il film, la mostra e la sua collezione d’arte a Londra 

Foto di David Bowie  Rik Walton – https://www.flickr.com/photos/rikwalton/2259388449, CC BY-SA 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=9523995

Ricchi e poveri, tutto immobile

Il 5% delle famiglie italiane possiede quasi la metà della ricchezza italiana. Lo scrive in un’analisi la Banca d’Italia che certifica l’immobilismo della disuguaglianza del nostro Paese: “Il cinque per cento delle famiglie italiane più ricche possiede circa il 46 per cento della ricchezza netta totale“, scrive l’istituto di via Nazionale nel suo documento pubblicato ieri. 

“I principali indici di disuguaglianza siano rimasti sostanzialmente stabili tra il 2017 e il 2022, dopo essere aumentati tra il 2010 e il 2016”, scrive l’istituto, ma “il valore mediano della ricchezza netta, che è sceso da quasi 200mila euro a poco più di 150mila euro” fa pensare che le disuguaglianze economiche e sociali siano in possibile aumento. 

Le famiglie italiane hanno visto questo calo della propria ricchezza, a partire dalla crisi dei debiti sovrani, senza più riuscire a tornare ai livelli di benessere e ricchezza del 2011. Complessivamente nell’area dell’Euro la ricchezza netta mediana ha raggiunto un minimo di circa 100mila euro nel 2013 per poi salire gradualmente fino a superare i 140mila euro nel 2022.

Ultimo appiglio la casa. La metà della ricchezza degli italiani è rappresentata dalle abitazioni: nello specifico, le case di proprietà rappresentano i tre quarti della ricchezza per le famiglie sotto la mediana, vale a dire per il 50 per cento più povero.

Italiani attaccati alla loro “roba” dal sapore verghiano come unica possibilità di ricchezza. Dovrebbero essere numeri al centro del dibattito politico se i partiti non vedessero la ridistribuzione come un pericoloso smottamento del rassicurante status quo. Così la notizia rimane relegata in fondo alla pagina.

Buon martedì. 

Nella foto: Centro di accoglienza e mensa dei poveri, Napoli (Adobe stock)

«Il silenzio assordante sull’uccisione di mio padre, il giornalista Beppe Alfano»

Era la notte dell’8 gennaio 1993 in via Marconi a Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina: dentro la sua Renault 9 amaranto giace il corpo di Beppe Alfano, cronista locale, colpito da tre proiettili calibro 22. Lunghe e “paludose” le indagini che seguono alla sua morte, così come il processo che riesce a condannare soltanto un boss locale, Giuseppe Gullotti, all’ergastolo per aver organizzato l’omicidio: nebbia fitta invece sui veri mandanti e le circostanze che provocarono l’ordine di morte nei suoi confronti.

Uomini d’affari, mafiosi latitanti, amministratori locali e massoneria furono sempre al centro delle inchieste giornalistiche di Alfano. Beppe, come pochi da quelle parti e in quegli anni (v. Ossigeno per l’informazione ndr), ebbe la capacità ed il coraggio di raccontare le lotte fra le cosche mafiose locali. Barcellona non era e non è ancora oggi, nella storia criminale della nostra regione, un posto qualunque, ma un luogo chiave degli intrecci fra mafia, massoneria deviata, servizi segreti e forze eversive.

«Quello di mio padre è un delitto chiave per capire gli intrecci tra mafia ed istituzioni in quegli anni» – dice Sonia Alfano, figlia di Beppe, che dal padre ha senza dubbio ereditato coraggio e caparbietà.

Sono affermazioni forti quelle di una figlia che da sempre è molto impegnata nel preservare la memoria del padre e i diritti delle vittime della mafia, oltre che nel condurre un’intensa attività informativa relativamente alla criminalità organizzata. Sonia Alfano dal 2009 al 2014 è stata eurodeputata. Nell’assemblea di Strasburgo ha ricoperto diversi ruoli, fra cui quello di Presidente della commissione speciale sulla criminalità organizzata, la corruzione e il riciclaggio di denaro. (Sonia Alfano ha raccontato la sua battaglia nel libro La zona d’ombra, Rizzoli, 2011 ndr)

Partiamo da una foto: quella che ritrae il corpo di suo padre nella sua auto colpito dai proiettili mafiosi, una foto che ha odiato per 31 lunghi anni… ed ora?

Ho odiato quella foto perchè mi è stata sbattuta in faccia, attraverso i canali televisivi nazionali, praticamente nelle primissime ore dopo l’omicidio di mio padre: avevo 21 anni e quella foto, agli occhi di una figlia, significava dolore, soltanto profondo dolore. Mi sono fatta mille domande ogni volta che la guardavo: “Avrà sofferto? Avrà capito e provato paura?”. Domande che mi laceravano il cuore. Oggi però, dopo una sorta di lunghissima elaborazione, in quella foto non vedo più soltanto un corpo martoriato e offeso dalla violenza mafiosa ma riesco a scorgere il mio papà, con tutta la tenerezza di una figlia: è come se fosse l’ultimo momento di un percorso di consapevolezza ed autoanalisi che adesso posso archiviare e guardare con occhi diversi. Oggi per me quella fotografia è forza ed è coraggio!

Quanto è distante la verità, dunque la giustizia, sulla morte di suo padre?

Oggi la verità non è molto distante, sembra un paradosso ma non lo è, molto distante purtroppo è la volontà di arrivare a questa verità. I tasselli per ricomporre il puzzle ci sono tutti, manca la decisione di ricomporre il tutto. Ma il tutto è chiaro anche grazie ai numerosissimi elementi ed alle prove che nel corso degli anni io ed il mio legale abbiamo fornito alle varie Procure interessate: abbiamo fornito nomi, anche di un certo calibro, e circostanze, tutti elementi dinanzi ai quali i magistrati non hanno ritenuto di procedere. Quando nel 2012 il Procuratore capo della Dda a Palermo era il dottor Lo Forte, fui io a portare in Procura il numero della matricola della calibro 22 che sparò su mio padre, tra lo stupore di tutti, ma io avevo fatto semplicemente quello che altri non avevano fatto, cioè indagare. Anche in quel caso portai tantissimi elementi utili alle indagini ma ai quali nessuno degli inquirenti diede seguito, inspiegabilmente.

Un altro episodio che suscita interrogativi è quello che intreccia l’agenda di appunti del Generale dei Ros Mario Mori all’omicidio di suo padre.

Nel 2012/13 si celebrava a Palermo il processo contro il generale dei carabinieri Mori ed il Colonnello Mauro Obinu per favoreggiamento aggravato alla mafia per la mancata cattura di Bernardo Provenzano: Pubblici ministeri erano Ingroia e Di Matteo. Io seguivo con attenzione tutte le udienze di quel processo perchè sapevo che sarebbero state le basi per il processo sulla Trattativa Stato-Mafia nel quale io mi sarei poi costituita parte civile. Durante l’esame in aula dell’agenda personale di Mori, emerse ad un certo punto il fatto che nella pagina del 27 febbraio 1993, il generale Mori, di suo pugno, aveva annotato che si era svolta una riunione a Roma nelle sede del Ros, tra Olindo Canali (allora sostituto procuratore a Barcellona), lo stesso Mori ed altri ufficiali dei Ros di Messina per discutere dell’omicidio del giornalista di Barcellona. Io ho sempre dichiarato che da quell’agenda stessimo avendo una conferma eclatante e cioè che lo “stato maggiore” delle attività investigative dell’epoca si stava interessando al caso: nessuno però ha mai chiesto, né a Mori né a chi vi partecipò, di riferire sul contenuto quella riunione, se ci fosse un verbale o meno… nulla. Ufficialmente non esiste niente, nelle attività di indagini neanche, va bene, ma allora qualche domanda andrebbe fatta a quegli alti ufficiali e al magistrato.

Ancora tanti, troppi, buchi neri?

In tante occasioni ho visto appartenenti alla magistratura prodigarsi, come è giusto che sia, per il raggiungimento della verità, e di farlo anche al di fuori delle aule di tribunale nel tentativo di animare il dibattito e scuotere le coscienze… tutto giusto, è così che andrebbe fatto. Su Beppe Alfano però c’è il vuoto: sembra che mio padre metta tutti insieme nel fare silenzio. So bene, continuo a ripeterlo, che quello è un delitto che ha tirato i fili dell’alta tensione, ha toccato le connivenze tra Stato e mafia, le coperture nei confronti della stessa mafia barcellonese, ma anche catanese perchè non dimentichiamo che nelle stesse ore in cui veniva ucciso mio padre, Nitto Santapaola, boss indiscusso della mafia catanese, andava al casello autostradale di Barcellona ad incontrare Aldo Ercolano ed il suo clan. Già mesi prima dell’assassinio è confermata la presenza di Santapaola a Barcellona, nella stessa strada in cui abitavamo noi, a qualche centinaio di metri di distanza. Mio padre era scomodo, era un cronista troppo ingombrante e lo era ogni volta che andava in procura a raccontare quello di cui veniva a conoscenza nella sua attività giornalistica, lo faceva per stimolare l’attività di quella “giovane” procura nata qualche giorno dopo le stragi del ’92. Era un problema anche quando scriveva sul suo giornale ed i suoi pezzi venivano di fatto censurati. Era scomodo e continua ad esserlo!

Ha detto di essere pronta a riprendere la battaglia, ma con quale spirito?

Sa, molti in questi anni hanno spesso dimenticato che dietro tutto questo c’è il dolore di una figlia per la morte del proprio padre: questa è una cosa che ha generato spesso fraintendimenti ed equivoci sulla mia persona, ho suscitato, senza vie di mezzo, o grande simpatia o pesante antipatia. La mia rabbia nasce quell’8 gennaio del ’93, da tutto il dolore di una ragazza di 21 anni che deve “gestire” una cosa enorme come la perdita del padre in quel modo. Ancora oggi provo rabbia e piango mio padre, ma lo faccio con un sentimento ed uno spirito diversi: se in passato sono stata un problema per il crimine organizzato barcellonese, adesso potrei iniziare ad esserlo anche per altri ambienti. Sono determinata e lucida, ma soprattutto cosciente del fatto che le battaglie, quelle vere, spesso si portano avanti in solitudine, ed io questo lo farò, lo devo a mio padre e a me stessa.

L’autore: Alberto Castiglione è documentarista e giornalista d’inchiesta

Il convegno

Oggi, 8 gennaio (a partire dalle 16.30), a Barcellona Pozzo di Gotto si tiene il convegno “La mafia barcellonese a trentuno anni dall’omicidio di Beppe Alfano: La lotta per la verità sul delitto e sui depistaggi, continua!”. Insieme a Sonia Alfano intervengono parlamentari, avvocati e giornalisti

Nella foto: Beppe Alfano (dal profilo facebook di Sonia Alfano)

 

Raffaele Oriani e “la vergogna di tutti su Gaza”

In foto il reporter palestinese Motaz Azaiza follow @azaizamotaz9

Raffaele Oriani interrompe la sua collaborazione a Repubblica dopo 12 anni. Contro il modo di Repubblica e di gran parte della stampa europea di raccontare cosa sta succedendo a Gaza.

“Care colleghe e colleghi -ha scritto nella sua lettera alla redazione- ci tengo a farvi sapere che a malincuore interrompo la mia collaborazione con il Venerdì. Collaboro con il newsmagazine di Repubblica ormai da dodici anni ed è sempre un grande onore vedere i propri articoli pubblicati su questo splendido settimanale. Eppure chiudo qua, perché la strage in corso a Gaza è accompagnata dall’incredibile reticenza di gran parte della stampa europea, compresa Repubblica (oggi due famiglie massacrate in ultima riga a pagina 15). Sono 90 giorni che non capisco. Muoiono e vengono mutilate migliaia di persone, travolte da una piena di violenza che ci vuole pigrizia a chiamare guerra. Penso che raramente si sia vista una cosa del genere, così, sotto gli occhi di tutti. E penso che tutto questo non abbia nulla a che fare con Israele, né con la  Palestina, né con la geopolitica, ma solo con i limiti della nostra tenuta etica. Magari fra decenni, ma in tanti si domanderanno dove eravamo, cosa facevamo, cosa pensavamo mentre decine di migliaia di persone finivano sotto le macerie. Quanto accaduto il 7 ottobre è la vergogna di Hamas, quanto avviene dall’8 ottobre è la vergogna di noi tutti ( su questo il libro di left La strage dei bambini ndr). Questo massacro ha una scorta mediatica che lo rende possibile. Questa scorta siamo noi. Non avendo alcuna possibilità di cambiare le cose, con colpevole ritardo mi chiamo fuori”.

Che poi, a pensarci bene, Oriani è uno che “si chiama dentro” mentre molti comodamente ne stanno fuori.

Buon lunedì.

 

In apertura una foto dal profilo twitter del repoter palestinese Motaz Azaiza, please follow @azaizamotaz9

Storia di un ragazzo che non parla, di un bosco magico e di un pesce di nome Salgari

Difficile non innamorarsi di Q, il protagonista del romanzo La libertà macchia il cappotto di Antonello Loreto edito da All Around. Scontroso, introverso, di spigolo con la vita, come quel muro storto contro cui palleggia tutti i giorni, mentre vola con la fantasia. Q, che all’anagrafe si chiama Quentin (in omaggio al regista di Pulp fiction),preferisce l’espressività del cinema muto al linguaggio convenzionale, normalizzato, che ferisce per troppa indifferenza. Ed è capace di cotte inenarrabili.

Abbiamo scoperto questo romanzo durante una passeggiata nel bosco nei dintorni di Moena in cui l’autore, di tappa in tappa, se ne faceva cantastorie, sollecitato da un vivissimo circolo di lettori. Ci siamo fermati a parlare con lui.

Benché La libertà macchia il cappotto non sia etichettabile e ascrivibile a un genere, ha molto del romanzo di formazione. Q. diventa adulto attraverso una serie di prove, errori, viaggi ed esperienze. Il pensiero corre a Il giovane Holden di Salinger. E’ stato fonte d’ispirazione? 

Quando il romanzo è stato presentato al salone di Torino nella chiave di un Giovane Holden contemporaneo sono stato molto contento. Vedere il mio Q a fianco di un gigante della letteratura come Holden Caulfield è stata un’emozione, tanto più perché l’opera di Salinger è stata per la mia vita di giovane lettore un vero e proprio spartiacque. Per ognuno di noi c’è un prima e un dopo nel percorso personale di lettura, qualche scintilla (un personaggio, una storia) che ti mostra le cose sotto una luce diversa: ecco, per me lo sono stati Holden Caulfield a vent’anni e Ilja Ilic Oblomov a trenta. La loro visione del mondo e il loro originale modo di rapportarsi a esso mi hanno letteralmente cambiato la vita. E poi ancora, entrando nel merito, quasi senza che me ne accorgessi durante la stesura, ci sono molte analogie tra il giovane Holden e il mio Q: entrambi si allontanano progressivamente dai meccanismi della società nella quale vivono, entrambi hanno rapporti complicati con il mondo degli adulti, entrambi fuggono e non scappano, tenendoci molto – sia Q che Holden – a precisare che “fuggire” e “scappare” non sono due semplici sinonimi.

Il romanzo ha un sapore fiabesco. Si avverte il fascino della narrazione orale, dei miti, delle favole.. 

Tante cose mi portano in quella direzione, fin da quando ero un bambino e mia madre mi regalò “Favole al telefono” di Gianni Rodari (è stato il primo libro che ho letto). E poi il fatto che la Favola di Syd sia stato il mio romanzo d‘esordio, e ancora il fatto che tante persone abbiano avvicinato le storie che scrivo al genere letterario del “realismo magico” e infine la passione smodata che ho per la letteratura “iperborea” (anche grazie alla casa editrice che pubblica letteratura nordeuropea e che mi ha permesso di conoscere i boschi di Aarto Paasilinna). Tutto questo per dire che sono da sempre affascinato dal mondo delle favole soprattutto perché il “e vissero felici e contenti” non è mai scontato e per arrivarci si fatica parecchio

In questo orizzonte fiabesco, fortissima è la presenza del bosco di montagna che, quasi personificato, dialoga con gli altri personaggi. “Nel bosco non si esce mai come si è entrati”, dice la madre di Q. “Il bosco è un luogo di trasformazione”. Lo è anche per la sua narrativa che qui si nutre di una potente ambientazione alpina e della presenza di animali sintonici come il pesce Salgari?

Il mio romanzo punta l’attenzione su quel momento fondamentale per la vita che è rappresentato dal passaggio dalla fase dell’adolescenza alla fase della maturità e anche dal punto di vista simbolico il bosco mi è apparso come il luogo di trasformazione per eccellenza perché è un posto nel quale sai come entri e non sai come esci, quindi era l’ambientazione perfetta per quel passaggio, per quella trasformazione interiore del protagonista da adolescente a uomo maturo. E poi c’è un tributo, come accenno nella prefazione, al bosco di Paneveggio profanato nel 2018 dalla tempesta Vaia che ferì a morte le abetaie di quella foresta meravigliosa che io frequento da anni, e che mi è parso il posto migliore per la tempesta interiore che Q affronta.

Dopo il trauma della scomparsa della madre, di fronte alla superficialità bigotta della nonna e all’indifferenza dello zio che fa solo discorsi di circostanza il giovane Q si ribella scegliendo di non parlare. Il suo è un rifiuto netto ma creativo. Rinunciare al linguaggio convenzionale significa per lui anche scoprire altri linguaggi più emozionanti (dalla musica, al cinema muto). In un certo senso accade così anche a un romanziere?

Quello di Q è un originale sciopero della parola che prende le mosse dal suo grande amore per il cinema, passione che coltiva dopo i fatti terribili della sua adolescenza, quando decide di rinchiudersi in un bunker. In questo rifugio, in questa tana lui si sente protetto e spalleggiato dalle sue passioni per il cinema, appunto, ma anche per la musica, per le vecchie partite di Borg contro McEnroe che vede sul vecchio Vhs della madre, e tutto quel mondo immaginario che gli permette di evadere mentalmente da una realtà routinaria e complicata. Anche il rapporto speciale che Q ha con Emilio Salgari il suo pesce rosso, va in questo senso.

Come si sviluppa il suo originale sciopero della parola?

Q adotta una tecnica tutta speciale che denomina “del cugino Lumière” attraverso la quale ogni volta che si trova in una situazione di disagio sceglie “di muovere la bocca come una cernia dell’Ontario” attendendo pazientemente le reazioni spiazzate dell’interlocutore che ogni volta lo divertono molto. È la sua forma direi quasi autistica di protesta nei confronti di un mondo che non lo sta a sentire. Poi però  scopre il “nadsat”, il linguaggio che Burgess utilizza in “Arancia Meccanica” e che viene poi ripreso da Kubrick nella famosa trasposizione filmica del romanzo. Allora Q decide di mettere in scena un suo personale nadsat inventando di continuo alcune paroline e sostenendo che molto spesso la parola deputata a definire esattamente un’azione, la parola ufficiale, non è del tutto efficace come magari può esserlo la parola inventata, e in questo modo giustifica il gioco di un adolescente dandogli un ardito connotato quasi filologico.

Tornando alla domanda, ora io non so se questa cosa succede anche alle altre persone che scrivono ma devo dire che io mi sono sempre divertito a giocare con le parole; nel mio secondo romanzo Un’altra scelta, il protagonista faceva veri e propri salti mortali carpiati con il suo modo particolare di parlare perché credo che sperimentare con la parola sia sfidante e stimolante per chi abbia l’ambizione di scrivere.

Il romanzo che è  fortemente musicale. Fin dal titolo, evocativo, La libertà macchia il cappotto. E non solo perché sono citati i Porcupine Tree, Prince, i Pink Floyd ecc. Non solo per play list finale, ma per l’andamento stesso e il ritmo avvolgente della narrazione. Quanto la musica è d’ispirazione? Viene prima la musica o l’immagine?

Fin da ragazzo ho mangiato pane e libri, pane e cinema, pane e musica. Considero la musica uno stupefacente benevolo e formidabile perché, per dirla con Beethoven, la sua potenza trascende la parola ossia dove la parola non ce la fa a esprimere un concetto arriva la musica in suo aiuto.

Fortissima è anche l’impronta cinematografica…

Da giovane scrivevo per il magazine dell’Istituto Cinematografico La lanterna magica e la costruzione narrativa dei miei romanzi ricalca molto la tecnica della sceneggiatura tant’è che io mi trovo spesso a parlare di scena e non di brano. Allora succede che come se fossi un regista, nel momento in cui devo descrivere una scena particolare, sto molto attento a illuminarla per bene come se avessi il direttore della fotografia accanto a me, sto molto attento al montaggio si direbbe del cinema, quindi al ritmo e ai dialoghi, e ovviamente sto molto attento alla colonna sonora di quella scena che è un elemento filmico fondamentale. E dal momento che quando scrivo devo avere sempre musica in sottofondo per concentrarmi, accade spesso che il pezzo che sto ascoltando condizioni l’azione del personaggio protagonista di quella scena o comunque ne influenzi l’ambientazione.

L’incontro inaspettato con la sconosciuta K, così diversa da Q, ma che come lui si è ribellata al nome (e il destino?) imposto dai genitori, dà un’accelerazione al libro, che diventa un romanzo d’amore, travolgente e totalizzante come gli amori adolescenziali, raccontando anche della fragilità di ragazzi che facilmente scambiano la gelosia e la possessività per vero interesse. Quel che accade a K con Manfred per certi versi richiama ciò che le cronache nere ci raccontano. Quanto è importante “vedere” e rifiutare la violenza nei rapporti?

In realtà il tema che affrontiamo con questa domanda è stato oggetto di un mio cruccio, è stato un dubbio atroce che mi ha accompagnato durante la stesura perché l’argomento è così importante, anche e soprattutto in questo momento nel quale purtroppo le cronache ne sono piene, che è stato difficile confinarlo sullo sfondo, pur essendo io consapevole che si tratti di uno delle principali ferite del nostro tempo. Però ero chiamato a fare una scelta, nel senso che affrontare il tema della violenza “domestica” in maniera più approfondita avrebbe deviato tutta la costruzione della mia storia perché a me, in fin dei conti, interessava soltanto mettere Q alla prova con un test difficile, a proposito di quel percorso di crescita che lo porta dall’essere un adolescente problematico a diventare una persona matura. E per questo mi piace pensare che Q sia stato bravo a riconoscere la difficoltà di K e, seppure con i suoi metodi strampalati, a immaginare anche l’estremo sacrificio pur di salvare la ragazza, un po’ anche per rifarsi rispetto al non essere stato in grado di “salvare” sua madre qualche tempo prima.

Questo mi aiuta a dire che fiutare se un uomo tende a essere violento, soprattutto all’inizio della relazione nella quale è tutto ammesso e l’affetto giustifica ogni cosa, vedere quando è un continuo “vedrai che andrà meglio”, sia un aspetto determinante per evitare la catastrofe.

I romanzi di avventura e di amore possono stimolare i ragazzi coinvolgendoli emotivamente più di quanto non facciano poche ore di educazione affettiva calate dall’alto come quelle che prospetta il ministro Valditara?

Per carità, già alla definizione “educazione affettiva” mi vengono i brividi. Questa necessità banale di incasellare sempre ogni cosa per  controllare le dinamiche fisiologiche dell’essere umano (mi viene in mente che è la stessa operazione cui assistiamo con le politiche migratorie), per me è devastante a maggior ragione quando vengono toccate alcune sfere intime come gli affetti, l’amore e i rapporti umani in genere. Ognuno di noi è tenuto a trovare la propria strada: certo, può essere aiutato in un percorso formativo che indirizzi al rispetto (a proposito di quello che dicevamo prima riguardo la violenza sulle donne), all’onestà, il civismo ecc, ma bisognerebbe che mi si spiegasse in cosa consiste l’educazione affettiva… I romanzi, leggere in generale, aprono la mente, ti fanno immedesimare in certe storie, ti aiutano a capire da dentro i problemi, ti aiutano a sviluppare una coscienza civile. Sostituiamo l’educazione affettiva con “l’educazione” a leggere, vedremo il salto miracoloso di qualità che farebbe la nostra collettività…

Un altro tema che attraversa in filigrana il romanzo è quello della giustizia e delle ferite che possono determinare errori giudiziari ma anche i processi sommari compiuti dall’opinione pubblica. Il caso della madre di Q mi ha ricordato per altri versi quello di Tortora. Una lettura azzardata?

Anche qui come per il tema della violenza domestica avevo bisogno di un escamotage narrativo, qualcosa che individuasse meglio il percorso adolescenziale accidentato di Q, motivo per cui non mi sono soffermato troppo sugli aspetti “processuali” della vicenda della madre che avrebbero portato fuori strada, ma mi interessava invece mettere l’occhio di bue sul rapporto tenero di madre e figlio, sul fatto che lei provasse a tenerlo lontano dai problemi, sul fatto che lo responsabilizzasse regalandogli il pesce rosso cui Q dovrà badare quando le non ci sarà più. Insomma volevo che venisse fuori il fatto che sua madre aiutasse il figlio a crescere, prima di lasciarlo al suo destino. Certo, se poi vogliamo concentrarci esclusivamente sull’episodio terribile che riguarda i genitori di Q e sul martirio processuale che ne consegue per la madre, senz’altro la storia di Tortora è paragonabile, anche perché nella coscienza collettiva quello è il primo esempio che ci viene sempre in mente quando pensiamo a un errore giudiziario.

Infine chiudiamo con una nota sportiva: il tennis. Durante il continuo palleggiare contro il muro storto di casa sgorga il flusso di coscienza di Q. Il muro è tutt’altro che un rifugio o una via di fuga, per lui. Che cosa rappresenta per lei come romanziere, che come Foster Wallace e Nabokov, è anche un tennista?

Per chi come me scrive romanzi di natura intimista, il riferimento autobiografico è sempre dietro l’angolo al punto che probabilmente questa storia è la più autobiografica delle quattro che ho scritto finora. In mezzo a mille riferimenti alla mia vita da adolescente, mi sono divertito in particolare a parlare di come ho vissuto il tennis da ragazzo, un vero e proprio rapporto di amore e odio, che ho provato a riportare nelle pagine della prima parte del libro. Il mio idolo era davvero John Mc Enroe essendo io mancino come lui, e come Q trascorrevo interi pomeriggi davanti a un muro a palleggiare per perfezionare la tecnica dei colpi. Quindi è venuto naturale utilizzare questo shock narrativo del record di palleggi per permettere al mio protagonista di raccontarci nel frattempo tutti i turbamenti della sua vita di adolescente.
Citando Nabokov che a chi gli domandava quale potesse essere il messaggio che voleva inviare con un suo romanzo rispondeva “io non faccio il postino”, il muro storto è in fondo la metafora della vita bastarda che non ti ritorna mai indietro la pallina in modo lineare, ed è anche per alcuni versi la muraglia di Pavese, “il muro d’orto che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia” nel “Meriggiare pallido e assorto”, e quindi rappresenta un po’ l’oppressione della solitudine, ma è anche il muro dei Pink Floyd in The Wall, ossia quella necessità di sfidare se stessi e andare oltre quel muro, di scavalcarlo per vedere cosa c’è dall’altra parte, di scalare con la speranza di atterrare “outside the wall”, aldilà del muro.

 

In tour: il 12 gennaio alle 19 Antonello Loreto, presenta  “La libertà macchia il cappotto” nello spazio letterario Chiara nei libri di Vasto. E poi il 26 gennaio a Pescara, nella Galleria d’arte Pentagono (via Trento) per il bel finale dopo oltre 50 presentazioni del libro, in collaborazione con l’associazione Ponti erranti

Nella foto il lago di Carezza (Dolomiti occidentali, Bz)