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Come si guarisce l’Italia? La visione di Mattarella e il nulla di Meloni

Meloni e Mattarella, foto ufficio stampa del Quirinale

Per chi crede ancora nella democrazia è desolante il vuoto pneumatico della conferenza stampa in cui la presidente del Consiglio in sostanza non ha detto niente sulle questioni che toccano la vita dei cittadini – lavoro, sanità, scuola, crisi dell’Ilva ecc- complici i colleghi presenti che si sono prestati alla recita, con domande pre incartate. Nessun contraddittorio. Una sceneggiata a favore di telecamere, con i giornalisti sorteggiati che si sono prestati a far le comparse del presepe.

Nulla o quasi è stato detto riguardo alla realtà del Paese dove, anche grazie al no del governo al salario minimo e alla cancellazione del reddito di cittadinanza, cresce la povertà, dilaga il lavoro povero, lo sfruttamento, la disoccupazione, l’assenza di prospettiva per i giovani (a questo proposito Meloni ha fatto solo un accenno a non meglio precisate pensioni garanzia). Temi che sono stati invece affrontati nel discorso di fine anno dal presidente Mattarella che ha parlato della mancanza di futuro con cui si trovano a combattere i giovani e dell’importanza di sostenere il loro diritto allo studio (cosa ben diversa dalla scuola di “avviamento al lavoro” a cui lavora il governo, che ha già ridotto a quattro anni i corsi agli istituti tecnici).

Nonostante la retorica meloniana sulle donne che non devono rinunciare a maternità e lavoro (portando ad esempio Von Der Leyen e Metsola, che hanno rispettivamente 6 e 4 figli!), l’Italia è il fanalino di coda in Europa per l’occupazione femminile. E, come se non bastasse, il governo restringe l’accesso a Opzione donna e Ape sociale.

Nessuna risposta è venuta dalla presidente del Consiglio neanche riguardo agli scandali che coinvolgono esponenti di fratelli d’Italia e della Lega. Meloni, fa quadrato, intorno ai suoi, come da tradizione del Msi. I panni sporchi semmai si lavano in casa. Nulla sul ministro Salvini, che a detta della presidente del Consiglio, non deve riferire riguardo allo scandalo Verdini, anche se vi è coinvolta una partecipata pubblica, l’Anas, essendo lui ministro dei trasporti. Poco o nulla ha detto poi sul deputato di fratelli d’Italia Pozzolo, che per millanteria, per culto delle armi, ha rischiato che accadesse il peggio alla festa del sottosegretario Delmastro dove erano presenti anche bambini. Meloni dice che sarà deferito ai probi viri di fratelli d’Italia, quasi fosse un fatto privato, quando invece stiamo parlando di un deputato della repubblica, che ha invocato l’immunità parlamentare e dunque di un grave caso politico.

Potremmo proseguire a lungo con il fact checking del discorso di Meloni che ha inanellato molte falsità. Una delle più palesi riguarda quella che lei chiama «La madre di tutte le riforme», ovvero il premierato. La figura del presidente della Repubblica e le sue prerogative non sono toccate dalla riforma, ha detto Meloni. Ma basta leggere il succinto articolato della proposta per capire che le cose non stanno così. La pasticciata e pericolosa riforma presentata da Casellati modifica articoli della Costituzione che regolano i poteri del presidente della Repubblica, il quale non nominerà più il presidente del Consiglio, non potrà sciogliere una sola delle camere e non nominerà più i senatori a vita (poiché non ne saranno più nominati di nuovi). E questo solo per cominciare. Chi volesse approfondire può leggere gli autorevoli giuristi, costituzionalisti che ne scrivono su Left.

Per il resto nessuna visione, solo il solito riferimento al piano Mattei per l’Africa che sta diventando una sorta di araba fenice e la minaccia di tagliare la spesa pubblica per non innalzare ulteriormente le tasse, mentre si intende procedere con il piano da 20 miliardi di privatizzazioni per fare cassa, a tutto vantaggio dei privati. Più in generale niente di concreto sull’economia, niente sulle politiche industriali per creare posti di lavoro, niente nemmeno sui rincari bollette dovuti alla fine del mercato tutelato.
La distanza lunare dalla realtà della conferenza stampa di Meloni, fa apparire il discorso di fine anno di Mattarella (pur per tanti motivi distante da noi) concretissimo e di altissimo profilo istituzionale.

Nel 75esimo della storia della Repubblica italiana il suo è stato un discorso attento alle questioni di giustizia sociale e proprio per questo eminentemente politico, richiamando i valori che innervano la Costituzione calandoli nella realtà quotidiana. Mattarella ha parlato di uguaglianza, di solidarietà, di pace, di libertà, di partecipazione richiamando l’articolo 3 della Carta là dove si dice che la Repubblica è chiamata a rimuovere gli ostacoli al pieno sviluppo della persona. In un momento in cui in Medio Oriente il conflitto rischia di allargarsi e mentre più di ventimila civili palestinesi hanno perso la vita Mattarella ha parlato di pace non come atarassia, come neutralità, come indifferenza, ma come rifiuto attivo della violenza , che produce solo odio e nuova violenza.

Parlare di pace, ha detto, «non è astratto buonismo ma un esercizio di realismo, se si vuole trovare una via d’uscita a una crisi che può essere devastante per il futuro dell’umanità». La parola pace, (parola proibita nel dibattito pubblico italiano), ricorre 9 volte nel suo discorso in cui condanna l’invasione russa dell’ucraina, l’attacco terroristico di Hamas ai civili israeliani ma anche la vendetta del governo israeliano sui civili di Gaza. Anche se a questo proposito – ed è stato il passaggio più deludente del suo discorso – ci saremmo aspettati da lui parole più nette e forti di condanna degli indiscriminati attacchi israeliani alla popolazione palestinese. Meloni su questo è stata altrettanto generica, mentre ha ribadito con forza la necessità di continuare ad armare l’Ucraina. La parola pace ricorre solo una volta nella sua fluviale conferenza durante la quale ha insistito sulla “soluzione” armata del conflitto russo-ucraino. Su questo tema della armi la distanza fra Meloni e Mattarella è nettissima. Il presidente della repubblica ha parlato dell’urgente necessità di opporsi alla diffusione delle armi. E per tutta risposta Pozzolo di Fratelli d’Italia ha fatto un capodanno col botto. Mattarella ha parlato di cultura di pace e di non violenza. E alcuni esponenti di fratelli d’Italia propongono di dare armi da caccia ai sedicenni.

Particolarmente importante è stato il passaggio in cui Mattarella ha parlato di disumanità della guerra individuandone le cause nella deumanizzazione dell’altro. «La guerra – ha detto – nasce dal rifiuto di riconoscersi tra persone e popoli come uguali. Dotati di pari dignità. Per affermare, con il pretesto dell’interesse nazionale un principio di disuguaglianza. Per sottomettere e sfruttare». Parole molto distanti da quelle dei nuovi cantori del nazionalismo, parola chiave per la presidente del Consiglio che vorrebbe un’Europa delle piccole patrie e che in conferenza ha ribadito di essere orgogliosamente leader dei conservatori aggiungendo di guardare con interesse a come sis ta muovendo Marine Le Pen, sodale di Salvini. Ma non voleva Meloni, aspirando a un ruolo di statista, farsi interprete di una nuova destra liberale e conservatrice, lasciando gli ormeggi sovranisti?

E ancora: Mentre la premier tocca solo en passant il tema del contrasto alla violenza contro le donne, il presidente Mattarella ne ha fatto il cuore del suo discorso del 31 dicembre, andando in profondità, interrogandosi su quali siano le cause della violenza. Per costruire una cultura della pace, ha detto, non basta far tacere le armi, che inusitatamente dilagano sulla spinta di grandi interessi economici.

«La guerra non nasce da sola», non è una fatalità, ma nasce da un pensiero violento che nega l’umanità dell’altro, ha lasciato intendere. Ed è questa a mio avviso la parte più importante o originale del suo intervento di fine anno. Con parole apparentemente semplici Mattarella ha toccato corde importanti parlando di rifiuto della violenza visibile – quella della guerra, dei femminicidi – ma anche di quella invisibile che si manifesta nella negazione diritti umani dei migranti, che porta a pensare la donna (parola citata 6volte) come essere inferiore, come un oggetto, da possedere. A questo proposito, rivolgendosi ai giovani, ha detto «l’amore non è egoismo, possesso, dominio, malinteso orgoglio. L’amore – quello vero – è ben più che rispetto: è dono, gratuità, sensibilità». E in queste parole c’è implicito un suo pensiero sul crudele femminicidio di Giulia Cecchettin, ma non solo, il riferimento è anche ai numerosi episodi di violenza (quella «più odiosa è sulle donne») che continuano ogni giorno. Il 2024 si è aperto con l’uccisione di Rosa d’Ascenzo massacrata a colpi di padella dal marito in provincia di Roma ed è proseguitp drammaticamente con il duplice femminicidio di Naro.

Il discorso di Mattarella è stato definito ecumenico, apprezzato da destra e da sinistra, ma a leggere neanche tanto fra le righe emerge una visione politica, certo da moderato e democratico cristiano, ma molto distante da quella del governo. Certamente è stato un discorso equilibrato e super partes, non ha fatto nessun accenno al Mes, al patto di stabilità alla finanziaria, niente sul premierato (anche perché sarebbe sembrata una auto difesa) ma ha preso una posizione ben chiara sul tema del diritto al lavoro, per salari dignitosi, parlando di lotta alla precarietà, della piaga del lavoro povero, dello sfruttamento, della mancanza di sicurezza. Ha parlato di diritto alle cure, di liste di attesa e di sanità pubblica su il governo Meloni non ha detto una parola e non investe. Così come è apparso molto distante da chi dice che le tasse sono un pizzo di Stato quando ha parlato di lotta all’evasione fiscale e delle tasse come partecipazione attiva alla vita della Repubblica.
Rivolgendosi alla società civile italiana, che l’indagine del Censis descrive come affetta da sonnambulismo, il presidente della Repubblica ha dato la sveglia con un appassionato appello al voto e alla libertà come partecipazione (per dirla con Gaber).

Nel 2024 si terranno le elezioni europee per le quali si vota con la legge proporzionale, un’occasione da non perdere (stando bene attenti che strumenti di «intelligenza artificiale o di potere non pretendano di orientare il pubblico sentimento»). E già il 16 gennaio comincia l’iter dell’autonomia differenziata voluta da Calderoli che rischia di spaccare l’Italia e di porre fine ai diritti universali sanciti dalla Carta. Pur senza citare mai l’autonomia regionale, non è parso un caso che in più passaggi Mattarella abbia ripetuto la parola «unità», riferendosi all’unità della Repubblica, una e indivisibile, mentre avanzano pulsioni secessioniste. Ma anche unità come coesione sociale, messa a rischio dalle crescenti disuguaglianze e da ultimo «Unità come Stato d’animo, atteggiamento che accomuna perché ci si riconosce nei valori fondanti della nostra civiltà: solidarietà, libertà, uguaglianza, giustizia, pace», alludendo a un’identità italiana che è in primis culturale, che non è un’identità di sangue da difendere innalzando muri, ma si basa sulla condivisione dei valori costituzionali. Banalmente che cosa ne sarebbe di tutto questo se con la riforma costituzionale per il premierato perdessimo il ruolo di garanzia del presidente della Repubblica, mentre il Parlamento rischia di essere sempre più marginalizzato a tutto favore del premier e dell’esecutivo?

L’intervistata e i commentatori

L’unico fremito lo danno i cronisti estasiati. La conferenza stampa della presidente del Consiglio che arriva dopo enne rinvii per motivi diversi è l’occasione per ricordarci in questo inizio dell’anno che l’erede della destra postfascista Giorgia Meloni l’hanno normalizzata soprattutto i giornali progressisti. Lenzuolate sui quotidiani in cui giornalisti che vanno di fioretto ci dicono di Meloni le tonalità dell’abbigliamento, lo slang romanesco e la postura per la minzione che non si riesce a trattenere. 

La vera pena non è Giorgia Meloni che riesce a fare affermazioni sbagliate sulla crescita dell’Italia in Europa ben al di sotto del Def firmato dal suo governo, non è nemmeno Giorgia Meloni che non parla dell’ennesimo regalo ai balneari prendendo tutti per il naso, vantandosi di avere fatto per prima “la mappature delle coste”: la vera pena è leggere questa mattina i giornali che trovano normale che una leader di partito scarichi la classe dirigente che lei stessa ha scelto senza pagare pegno. La vera pena è sentire Meloni dirci che è “stufa” delle accuse di familismo senza comprendere che dovrebbe rispondere nel merito poiché il suo stato d’animo non è un “fatto politico”, come ama ripetere.  

“In pochi ci avrebbero scommesso, ma tutto fila via liscio, in modo sereno, dopo 40 domande, in un clima a tratti persino noioso”, scrive un quotidiano nobile dell’editoria presunta progressista italiana. Noi invece ci avremmo scommesso che non è ancora maturo il momento in cui i giornali che descrivono Meloni illuminata in un circolo di irresponsabili decidano che “basta così”. Arriverà quel momento – prima di quanto si pensi – e quegli stessi editorialisti si stupiranno di chi come loro non se n’era accorto in tempo. 

Buon venerdì.

Psichiatri coraggiosi

Nasce da un’idea originale e coraggiosa Storia della psicoterapia delle psicosi, volume recentemente uscito nelle librerie per i tipi dell’Asino d’oro edizioni, con la curatela di Gianfranco De Simone e Paolo Fiori Nastro. Il coraggio appartiene agli autori, ai curatori, e alla casa editrice che sin dall’inizio ha investito sulla validità e la rilevanza storica di quest’opera. Il valore del libro deriva dal fatto di essere riuscito a coagulare intorno al suo progetto un cospicuo numero di operatori della salute mentale.
Si tratta di un’opera collettanea, frutto di un lungo lavoro di studio, riflessione ed elaborazione da parte di un gruppo di 19 psicoterapeuti, psichiatri e psicologi, con alle spalle una lunga esperienza nel servizio pubblico e una pratica di psicoterapia ambulatoriale privata, sia individuale che di gruppo. Essi si sono riuniti per contribuire alla stesura di un volume che ha come oggetto la storia della psicoterapia delle psicosi.
La scelta degli autori, tutti formatisi nel lungo percorso di cura, formazione e ricerca, presso il fertile laboratorio di idee che è stata l’Analisi collettiva, rappresenta già una novità, in quanto essi accettano la sfida di ricostruire la storia dei trattamenti psicoterapeutici della schizofrenia e delle psicosi.
Il volume è un libro da leggere anche da chi non è un operatore psichiatrico, in quanto la malattia mentale, per i suoi effetti comportamentali a volte terrificanti e spesso imprevedibili, interessa la società nel suo complesso.

Davide Conti: Quella matrice neofascista della destra

Nel suo ultimo libro Fascisti contro la democrazia (Einaudi) lo storico Davide Conti, uno dei massimi esperti dello stragismo in Italia, ci offre una ricostruzione minuziosa delle biografie politiche di Giorgio Almirante e Pino Rauti. Il libro di Conti si configura come una lettura del nostro recente passato connessa all’interpretazione del presente.

Davide Conti, come è stato possibile, a meno di due anni dalla Liberazione, che in Italia nascesse un partito annoverante fra le sue fila molti “uomini di Mussolini”, fra i quali anche alcuni iscritti nelle liste dei criminali di guerra stilate dalle Nazione Unite?
La nascita ufficiale del Msi il 26 dicembre 1946 ha rappresentato il segno dei mancati conti dell’Italia con la storia del fascismo. All’alba della Repubblica l’assunzione di responsabilità storico-politica della pesante eredità del regime venne completamente elusa tanto dalle classi dirigenti del Paese (principali responsabili dell’avvento della dittatura) quanto da quell’opinione pubblica che, specialmente nella piccola e media borghesia, aveva consegnato a Mussolini un largo consenso. Questa rimozione si unì al quadro geopolitico della Guerra fredda in chiave anticomunista e alla «mancata Norimberga italiana», ovvero all’impunità garantita ai criminali di guerra fascisti dagli stessi Alleati anglo-americani, creando le condizioni per la nascita di un soggetto politico ostile in radice ai valori fondativi della nostra democrazia costituzionale.

Perché un libro su Almirante e Rauti?
Almirante e Rauti rappresentano due anime centrali del neofascismo. Insieme a Pino Romualdi, artefice della nascita del Msi, e Arturo Michelini, segretario missino dal 1954 al 1969, incarnano il profilo identitario dei «fascisti in democrazia» ovvero di una comunità politica che si pone come obiettivo strategico la fine della Costituzione nata dalla Resistenza. Almirante e Rauti saranno i principali oppositori della linea «moderata» di Michelini. Il primo rimase nel partito aggregando tutte le componenti estremiste «antisistema». Il secondo nel 1956 promosse una scissione da cui nacque il gruppo Ordine Nuovo. È significativo che Rauti rientri nel Msi solo nel novembre 1969, all’indomani dell’elezione di Almirante segretario e a poche settimane dalla strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969 realizzata da uomini del gruppo di Ordine Nuovo non reinseritisi nel partito.

De Luna: Il pensiero nuovo ha radici nella Resistenza

Quella in Medio Oriente non è l’unica guerra che sta travagliando la nostra epoca, forse è quella dalle radici più antiche. E di guerre lo storico contemporaneo Giovanni De Luna, già docente di Storia contemporanea all’Università di Torino, firma de La stampa, ha scritto molto in proposito. Ricordiamo solo Il corpo del nemico ucciso (Einaudi) del 2006. De Luna ha aggiunto un altro tassello alla sua ricerca pubblicando Che cosa resta del Novecento (Utet). «L’unica cosa che sappiamo con certezza – scrive De Luna – è che il passato che ci siamo lasciati alle spalle è il Novecento: un brutto secolo che è comunque stato il nostro, in cui abbiamo gioito, sofferto, in cui ci siamo formati, ma ora quella fase si è chiusa e con la sua fine sono cambiati il tempo e lo spazio della storia».

Professor De Luna, come scrive nel suo libro Il corpo del nemico ucciso, tra il 1990 e il 1993 si sono succedute 54 guerre e nei soli anni Novanta del secolo ci sono stati 2 milioni di morti in Afghanistan, altrettanti nel Sudan, 800mila in Ruanda, 300mila in Angola e l’elenco continua… Attualmente, nel conflitto tra Israele e Hamas, i civili sono le principali vittime. Cosa ci può dire?
Sì sembra che quello dei civili, a poco a poco sia diventato il bersaglio principe di ogni guerra. Nella Prima guerra mondiale “il teatro di guerra”, in Italia, restava confinato sul Carso, sull’Isonzo, etc… Nelle grandi città (Torino, Milano, Roma) la vita era difficile, ma la popolazione non moriva come al fronte. Dopo la Grande guerra, combattuta nelle trincee, tra sacrifici e perdite inimmaginabili, già nella Seconda, con circa 50 milioni di civili uccisi, si era allentato quello che viene definito “il principio di esclusione dal conflitto”, ossia i civili cominciavano ad essere coinvolti nelle azioni militari, trattati anche come merce di scambio ma non erano ancora l’obbiettivo principale, come sembra accadere oggi.

Nella rete dei sogni

Domenico Fargnoli, Trasparenze

Non tutti trovano attraente il genere “fantasy” di J.R. Tolkien che crea un mondo parallelo dominato dalla contrapposizione etica del bene contro il male, inscrivendo una complessa ed articolata invenzione letteraria in una dimensione sacrale e metafisica: la rappresentazione dell’umano non può che risultare distorta, paradossale se non addirittura caricaturale essendo il destino dell’umanità già scritto e inserito in una prospettiva escatologica scontata in partenza e riaffermata all’infinito. Si raccontano storie senza storia e senza movimento, dietro l’apparente affannarsi dei personaggi verso una conclusione già scritta e conosciuta. Non per questo la mostra sul professore inglese alla Galleria d’arte moderna di Roma (fino all’11 di febbraio) è priva di interesse: getta luce su una figura di intellettuale la cui vicenda umana e artistica è degna di essere indagata e approfondita al di fuori di polemiche e strumentalizzazioni ideologiche. Ci si potrebbe chiedere, al di là del successo commerciale e di pubblico, cos’è che caratterizza la grande arte.
Si potrebbe rispondere con le parole dello scultore Henry Moore, le cui opere sono disseminate in tutto il mondo, anch’egli inglese e contemporaneo di J.R.R Tolkien. A proposito dello scultore Giovanni Pisano, Moore diceva che quest’ultimo aveva una qualità umana che era la stessa di Masaccio o di quella che si riscontra negli ultimi disegni di Michelangelo. Giovanni Pisano attraverso la sua scultura avrebbe mostrato «l’intera situazione dell’essere umano» ed espresso così la sua “grandezza”, il suo umanesimo al di là della narrazione religiosa. Nella specie umana sarebbe stata presente fin dalla preistoria, secondo l’artista inglese, una condizione universale caratterizzata dal pensiero e dalla fantasia senza discontinuità temporali o vincoli geografici.

Viva l’Europa antifascista

Il 2024 è un anno importante. Un anno in cui in cui l’Europa (fin qui afona) e le Nazioni Unite (fin qui paralizzate da veti incrociati) sono chiamate a lavorare seriamente ad accordi di pace in Medio Oriente  dove l’escalation del conflitto è estrema, senza dimenticare l’Ucraina, lo Yemen, la Siria, il Sudan e tantissimi altri Paesi lacerati da conflitti “dimenticati”.

Non c’è più tempo, come dicono i giovani dei Fridays for future. Non solo perché conflitti e disastri ambientali vanno a braccetto, potenziando l’un l’altro (come abbiamo scritto tante colte su Left  (vedi Effetto guerra effetto serra). Il punto è che non è più possibile restare immobili di fronte a conflitti che – come sottolinea Giovanni De Luna su questo numero della rivista – colpiscono, e hanno come target direttamente i civili.

È successo con l’efferato attacco dei fondamentalisti di Hamas dello scorso 7 ottobre ai giovani israeliani che pacificamente ballavano in un rave. È successo con l’attacco sistematico del fondamentalista governo israeliano di ultra destra guidato da Netanyahu, che ha sterminato, per vendetta, un’intera popolazione innocente a Gaza. Mentre scriviamo le vittime sono ormai quasi 20mila, senza contare i dispersi. La percentuale di donne e bambini uccisi è altissima. Non sono dati che vengono solo da fonti di Hamas, ma anche da ricerche di scienziati della rivista The Lancet in collaborazione con l’Oms e da organizzazioni indipendenti come Save the Children. A questa immane tragedia che continuano a subire i civili a Gaza dedichiamo il libro del mese di Left intitolato La strage dei bambini (con contributi di attivisti, giuristi, scrittori, esperti di geopolitica e dell’Onu).

Fin qui, purtroppo, anche rispetto a questa ecatombe umanitaria l’Europa non ha battuto un colpo. Ma da convinti e ostinati europeisti pensiamo che qualcosa potrebbe cambiare con le elezioni del 9 giugno 2024. Sono elezioni europee importanti anche perché il risultato sarà sincero, basato com’è sulla legge proporzionale. E potrebbero avere un immediato riverbero sul nostro presente in quanto cittadini italiani alle prese con un governo di destra che marcia a ranghi serrati verso una duplice controriforma costituzionale, deciso a stravolgere la Costituzione e a limitare i poteri del Parlamento e del presidente della Repubblica. Obiettivi, va detto, non molto diversi da quelli del Piano di rinascita democratica che l’ex repubblichino, fieramente fascista, Licio Gelli non riuscì a portare a compimento.

Ma come accennavamo alle elezioni europee si affronteranno schiettamente due opposte visioni. Da un lato l’idea di un’unione europea politica, una federazione di Stati ispirata al manifesto di Ventotene che fu immaginato con grande visione e capacità di resistenza umana da un gruppo di giovani esuli antifascisti mandati al confino (Altiero Spinelli e Ernesto Rossi, con Eugenio Colorni, Ursula Hirschmann e Ada Rossi).
Dall’altra, la retriva idea di un’Europa delle nazioni (che ha sempre generato guerre), delle piccole patrie propugnata da Meloni e dalle destre, basata sull’esclusione, sulla costruzione di nuovi muri, antimoderna e antiscientifica.
Non è una questione astratta. Tocca da vicino le nostre vite. E tocca a noi come cittadini farci sentire. La legge proporzionale con cui si vota per le europee diversamente da quella italiana, lo consente. Ci sono in ballo questioni che ci riguardano da vicino. Quale società europea vogliamo e immaginiamo più giusta e solidale? Come affrontare la sfida ai cambiamenti climatici dopo l’affossamento del Green new Deal e il fallimento di Cop28, che a Dubai è stata una mera operazione di greenwashing?
Il patto europeo sull’immigrazione ci rappresenta dal momento che normalizza le violazioni dei diritti e mette in pericolo i minori, non contrastando i trattamenti disumani e violenti? Ci rappresentano le esternalizzazioni dei confini europei siglate dall’Europa con autocrati come il turco Erdoğan, il tunisino Saïed l’albanese Rama? Sta a noi scegliere.

Sta noi decidere se vogliamo presentarci in Europa rappresentati da una destra – Lega e Fratelli d’Italia – che si è astenuta o ha votato contro il via libera europeo alla convenzione di Istanbul per fermare la violenza sulle donne, (seguendo la strada aperta dalla Turchia che l’ha rinnegata). Quella stessa destra italiana, dopo la grande sollevazione civile seguita al femminicidio di Giulia Cecchettin, oggi si propone di fare qualche ora facoltativa di “educazione affettiva” nelle scuole, affidandola alle personalità più improbabili, giusto per lavarsene le mani.
Noi invece prendiamo sul serio questo tema, importante e delicatissimo, e gli dedichiamo la storia di copertina di questo nuovo Left, con contributi autorevoli di insegnanti, dirigenti scolastici, pediatri, pedagogisti, psichiatri e psicoterapeuti, tracciando anche un utile confronto con quanto negli anni è stato già realizzato e discusso in altri Paesi europei, in particolare nel Nord Europa. All’idea di questo governo di destra che cerca di risolvere tutti i problemi sociali con la coercizione, con il carcere, con l’olio di ricino, con l’idea di inculcare nozioni, come se i bambini fossero tavolette di cera, privi di un bagaglio affettivo, opponiamo una articolata, laica e scientifica proposta che si nutre di una nuova e diversa lettura della realtà umana.

Nella foto: l’opera di Banksy contro la guerra a Gaza (Instagram Banksy)

Kapoor oltre lo specchio

Un'opera di Anish Kapoor in mostra a Firenze

Come l’Angelus Novus, di Walter Benjamin, ispirato a un celebre acquerello di Paul Klee, l’anno nuovo dell’arte ci proietta verso il futuro con uno sguardo sul passato e in particolare su una delle più importanti mostre inaugurate nel 2023. Parliamo della mostra Kapoor. Untrue Unreal, aperta a Palazzo Strozzi a Firenze fino al 4 febbraio 2024.
Una retrospettiva che – proprio come il vortice emotivo che avvolge l’Angelus Novus di cui parla Benjamin nel suo celebre frammento edito da Einaudi ci fa ripercorrere tutte le più importanti tappe della ricerca di questo affascinante artista anglo-indiano. E al contempo apre anche alle prospettive future della sua ricerca che hanno a che fare con una interrogazione radicale sul rapporto fra reale e irreale, fra segno concreto e immaginazione, fra razionalità e pensiero non cosciente, fra femminile e maschile.
Così la visita della mostra si trasforma in cammino esplorativo, in un viaggio interiore stimolato dal dialogo con il suo quarantennale lavoro, da cui si esce con un respiro diverso da quello che avevamo quando, dopo un lungo viaggio di prima mattina, abbiamo varcato la soglia della mostra. Questa almeno è stata la nostra esperienza. Fin dall’ingresso dove si viene risucchiati in un monolite bianco, l’opera site specific Void Pavillon, costruita al centro del cortile rinascimentale.

Anish Kapoor, Svayambhu (2007)

A chi serve l’Unesco?

Angkor wat in Cambogia

“Lo spirito di Napoli” è il titolo del documento finale della conferenza Unesco che si è svolta nella città partenopea. Obiettivo degli incontri era la celebrazione dei 50 anni della Convenzione sul patrimonio culturale del 1972 su cui è incardinata la World heritage list (Whl) che raccoglie i siti dotati di outstanding universal value e in quanto tali meritevoli di protezione e, assieme, dei 20 anni della Convenzione sul patrimonio culturale immateriale che risale al 2003. La World heritage list (che annovera ora 1.199 siti culturali e naturali, rappresenta il programma Unesco di maggiore successo, quello attraverso il quale è stata istituzionalizzata, a livello mondiale, una continuità ideologica fondata sulla supremazia culturale dell’Occidente ed espressa attraverso un canone – l’insieme dei siti – che di fatto ha consolidato gerarchie politiche e culturali esistenti. Durante le sessioni napoletane di fine novembre 2023 i 195 rappresentanti dei Paesi aderenti alla Convenzione del 1972, hanno discusso sui problemi che il patrimonio si trova a fronteggiare nel XXI secolo, dalla crisi climatica all’overtourism. L’appello finale, intriso degli onnipresenti richiami alla necessità di un approccio al patrimonio mirato al benessere delle comunità, all’inclusione sociale e ad una sostenibilità ambientale e turistica, rivela puntualmente, pur nella retorica di circostanza, le gravi criticità che pesano sulla World heritage list e la sua gestione.

Un canto si levò da Teheran

Zoya Shokoohi, frame video da Crossing the border, 2021

Due recentissime pubblicazioni, dedicate alla poetessa iraniana Forugh Farrokhzad (Tutto il mio essere è un canto, uscito per i tipi di Lindau, a cura di Faezeh Mardani, e l’edizione completa delle poesie dal titolo Io parlo dai confini della notte pubblicata da Bompiani a cura di Domenico Ingenito) ci offrono una bella occasione per tornare a parlare di una straordinaria figura, ancora non abbastanza conosciuta in Italia.
Forugh Farrokhzad era nata nel 1935, terza di sette figli di cui quattro maschi e tre femmine in uno dei quartieri più antichi di Teheran (Amiriyye) in seno alla famiglia di un colonnello. Malgrado la disciplina militare che vigeva in casa, il padre coltivava anche interessi culturali (nella grande casa circondata da alberi di acacia, che spesso la poetessa ricorderà con nostalgia, non mancava una ampia selezione di libri) e incoraggiava i figli a studiare e leggere.

Forugh Farrokhzad

In un’epoca in cui la maggioranza delle donne era ancora analfabeta, voleva che anche le sue tre figlie ricevessero un’istruzione pari a quella dei loro fratelli.
Forugh cominciò a scrivere versi già da adolescente. A sedici anni, mentre frequenta una scuola d’arte, si innamorò perdutamente del cugino Parviz Shapoor, di quindici anni più grande di lei, e lo sposò contro il volere del padre. L’anno seguente nacque il figlio Kamyar, ma due anni dopo, quando si separò dal marito, fu costretta dalle leggi e dalle prescrizioni religiose, secondo cui una donna separata non sarebbe in grado di prendersi cura dei figli, a rinunciare alla sua tutela. L’allontanamento dal bambino, a cui la famiglia del padre raccontò che era stata lei ad abbandonarlo, fu per lei fonte di dolore e di sofferenza per tutta la vita.