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La rivoluzione di Mahsa è inarrestabile

«Vorrei essere libero». Come dimenticare le prime parole di quella canzone di Gaber. È il desiderio di tutti, soprattutto quando l’hai provata e te ne hanno privato, soprattutto quando vedi la gioia e la leggerezza che si prova quando liberi lo si è per davvero.
Prima di partire per Bruxelles, ripensavo a questo anno appena trascorso, ai sacrifici, alle notti insonni a scrivere, a documentarmi su tutto ciò che è in continuo divenire in Iran, tra le censure mediatiche e le violazioni dei diritti di un popolo che potrebbe splendere, che potrebbe fiorire ma che, purtroppo è costretto, ogni giorno, a subire ingiustizie.
Il 6 dicembre 2023, con una delegazione di attivisti, abbiamo portato alcune proposte di azione concreta e di supporto alla rivoluzione in corso in Iran all’attenzione di alcuni europarlamentari. Sapere che, oltre ai riconoscimenti simbolici, come il Premio Sakharov a Mahsa Amini e al movimento Donna, vita, libertà e il Nobel per la pace alla giornalista iraniana Narges Mohammadi, ci sono rappresentanti delle istituzioni che ci ascoltano e sono pronti a portare avanti un progetto di collaborazione concreta con coloro che fanno parte della diaspora iraniana in Europa, ci dà ancora più forza per continuare questa lotta.

Dal 16 settembre 2022, ciascun attivista, nel suo piccolo, ha fatto da eco alle voci degli iraniani. Come? Selezionando le fonti giuste, divulgando le informazioni e spiegando precisamente a puntino, in particolare alle nuove generazioni, le modalità attraverso cui il regime iraniano opera per mantenere il suo controllo su un popolo che si batte per veder riconosciuti almeno i diritti fondamentali. A distanza di un anno, il movimento delle donne e degli uomini iraniani continua a farsi sentire e la disobbedienza civile diventa sempre più solida. Tuttavia, per comprendere il contesto in cui sta operando questo movimento, occorre soffermarsi su alcuni punti. Partiamo dalla politica: i fatti confermano le fratture interne al regime degli Ayatollah. Gli intellettuali ed i tecnocrati sostenitori del regime che, prima della rivoluzione di Mahsa chiedevano il rispetto delle norme contenute nella Costituzione della Repubblica islamica, oggi propongono all’unisono un referendum per istituire un’assemblea costituente e superare l’attuale assetto costituzionale. Primo sostenitore di questa iniziativa è stato Mir-Hossein Musavi, il “pupillo di Khomeini”, ex primo ministro iraniano dal 1981 al 1989, attualmente agli arresti domiciliari.

Tentacoli canadesi sull’Amazzonia

Il Brasile ha partecipato alla recente COP 28 di Dubai con una presenza massiccia. Nel suo discorso alla Conferenza Onu sui cambiamenti climatici il presidente Lula ha sottolineato la drastica diminuzione della deforestazione nel primo anno di governo e ha annunciato l’intenzione di azzerarla entro il 2030. Lula, però, non ha detto come questa meta sarà raggiunta. Al contempo l’espansione e la creazione di nuove aree di sfruttamento minerario, ad esempio, non lasciano presagire nulla di buono.

La banca canadese Forbes & Manhattan starebbe per concretizzare i suoi interessi minerari in Amazzonia. Secondo alcuni documenti ottenuti dall’agenzia giornalistica Publica, dopo una decennale campagna di lobby capitanata da militari, e potenziata durante la presidenza di Jair Bolsonaro, la banca ora può contare sull’appoggio del vicepresidente della Repubblica, nonché Ministro dello Sviluppo, Geraldo Alckmi, dei ministri Alexandre Silveira de Oliveira (Miniere e Energia) e Carlos Fávaro (Agricoltura). Grazie al sostegno di Lula, la F&M può ottenere le licenze per due delle sue società, la Potássio do Brasil e la Belo Sun Mineração Ltda, entrambe decise a realizzare progetti dal forte impatto ambientale.

Il piano della Potássio do Brasil situato nel comune di Autazes a circa 111 km da Manaus, capitale del più grande stato amazzonico, prevede la produzione mensile di circa 200mila tonnellate di fertilizzanti, il che genererebbe 480mila tonnellate di rifiuti in forma di sale da cucina, oltre a 120mila tonnellate di sabbia. Ciò comporterebbe la costruzione di una diga di scarti simile a quelle del cosiddetto quadrilatero ferrifero, nello Stato di Minas Gerais, luogo di due dei maggiori disastri ambientali del Paese: Mariana, nel 2015, e Brumadinho, nel 2019. Belo Sun invece mira a costruire «il più grande progetto aurifero mai sviluppato in Brasile», nel territorio di Volta Grande do Xingu, nello stato di Pará. Un piano che prevede l’uso del cianuro nella gestione dei minerali, una sostanza estremamente tossica. Ampiamente utilizzato nell’estrazione dell’oro dalla roccia, il cianuro modifica il ciclo riproduttivo della fauna e rappresenta una minaccia tossica per l’ecosistema amazzonico, i popoli indigeni e i ribeirinhos, le comunità fluviali tradizionali.

Elezioni Usa: Kennedy, peccato che sia un complottista

Dopo un’attesa che ha attraversato molti decenni, un Kennedy torna a sfidare nella corsa alla presidenza degli Stati Uniti d’America. Dopo John Fitzgerald Kennedy eletto nel 1960 e assassinato nel 1963 e il fratello Robert candidato alle primarie per il Partito democratico alle elezioni del 1968, ora, nel 2024, è il turno di Robert F. Kennedy Jr.. È il figlio di Robert Kennedy, anch’egli tragicamente assassinato in circostanze misteriose nel 1968, proprio come il fratello John Fitzgerald.
Questo segna un ritorno significativo per una delle famiglie più potenti e influenti nella storia politica americana. Robert Jr., noto per la sua posizione controversa soprattutto nei confronti della pandemia e dei vaccini, che secondo lui provocherebbero l’autismo, si è lanciato nella corsa presidenziale inizialmente sfidando apertamente il presidente in carica Biden annunciando la sua candidatura alle primarie democratiche, per poi candidarsi ufficialmente il 9 ottobre come sfidante indipendente. Il figlio della famiglia Kennedy si presenta come un candidato che porta avanti la bandiera del complottismo, denunciando le presunte trame oscure che, secondo le teorie cospirazioniste, guidano il destino degli Stati Uniti. Il ritorno di un Kennedy sulla scena politica nazionale promette di essere un evento che attira l’attenzione di molti, con il candidato che si presenta come una figura polarizzante, in grado di catalizzare l’interesse e la discussione in un panorama politico già vivace e al momento particolarmente incerto. Il presidente in carica, infatti, sembra particolarmente debole, mentre una candidatura come quella di Robert Jr. rischia di indebolire anche il candidato di destra, per ora più quotato a candidarsi nelle file dei repubblicani, Trump, vero e proprio personaggio messianico per il mondo complottista americano, soprattutto per i sostenitori di Qanon.

Vento protezionista su Washington

I sondaggi di Gallup e del Pew Research Center mostrano che la maggior parte degli americani pensa che il proprio Paese sia in declino. Un punto di vista largamente condiviso dai due probabili contendenti alla presidenza nel novembre 2024, Joe Biden e Donald Trump.
Nel 2016, la campagna di Trump era basata su una visione impregnata di sventura e tristezza: l’economia americana era in uno «stato triste»; gli Stati Uniti erano stati «mancati di rispetto, derisi e derubati» all’estero e il mondo era «un disastro totale». Nel suo discorso inaugurale parlò di «carneficina americana» e i suoi due slogan erano America first! e Make America great again (Maga). La sua attuale campagna ha ripreso questi temi fondamentali. Tre mesi prima di dichiarare la sua candidatura, Trump ha pubblicato un video intitolato Una nazione in declino, e i trumpiani del Partito repubblicano sono ritornati all’isolazionismo che caratterizzò il partito negli anni Trenta. La campagna presidenziale del 2020 di Joe Biden è stata molto tradizionale. Ha spesso esaltato le virtù degli Stati Uniti e recitato la frase familiare: «I nostri giorni migliori devono ancora venire». Eppure, gran parte della sua strategia di governo si è basata sull’idea che il Paese avesse seguito la strada sbagliata, anche sotto presidenti democratici come l’amministrazione Obama-Biden.

In un discorso dell’aprile 2023, il consigliere per la sicurezza nazionale, Jake Sullivan, ha criticato «gran parte della politica economica internazionale degli ultimi decenni», incolpando globalizzazione e liberalizzazione per aver svuotato la base industriale del Paese, esportato posti di lavoro e indebolito alcune industrie chiave, consentendo alla Cina di diventare il maggiore esportatore e il secondo importatore del mondo (con quasi il 20% del Pil globale), nonché il principale partner commerciale di 130 Paesi, a cominciare da tutti gli altri principali Paesi dell’Asia orientale, compresi gli alleati degli Usa. Sullivan ha sostenuto che «sebbene gli Stati Uniti rimangano la potenza preminente del mondo, alcuni dei suoi muscoli più vitali si sono atrofizzati». Questa è una critica familiare all’era neoliberista, in cui pochi hanno prosperato mentre molti sono rimasti indietro.

Elezioni Usa: Il candidato ombra, “amico” di Xi

Viaggi in Israele e in Cina, dibattito televisivo in prime time su Fox News e forte presenza comunicativa nei principali media: no, non stiamo parlando del presidente Joe Biden e della sua strategia per la rielezione, ma di Gavin Newsom, governatore della California dal 2019. A differenza del presidente Biden, che con i suoi 81 anni inizia a sentire il peso dell’età e quando parla a braccio spesso incappa in errori anche grossolani, il cinquantaseienne Newsom può esibire un sorriso smagliante, una pettinatura perfetta e risposte taglienti sempre pronte da dare ai suoi avversari. Probabilmente conscio delle difficoltà del duo Biden-Harris, il governatore della California si sta muovendo contemporaneamente lungo due direttrici. Da una parte, fa gioco di squadra esaltando i successi di questa amministrazione e lavorando per la riconferma dell’attuale inquilino della Casa Bianca, a cui sta contribuendo anche a livello finanziario (ha raccolto più di 6 milioni di dollari), e dall’altra ha iniziato una lunga campagna elettorale in vista delle presidenziali del 2028, ma con un occhio vigile e attento al voto del 5 novembre prossimo, giorno in cui gli Stati Uniti si troveranno di nuovo di fronte a un bivio della loro storia. Newsom si sta muovendo come un candidato ombra, pronto all’occorrenza se ci fosse bisogno di lui già in questo 2024.

Rebus Casa Bianca

Harry Greb, Murale raffigurante Donald Trump, Roma, 2021

«Se Trump non si fosse ricandidato, non sono sicuro che l’avrei fatto anche io. Ma non possiamo lasciarlo vincere», ha detto a inizio dicembre Joe Biden, presidente in carica e frontrunner del partito democratico. Benvenuti alla lunga maratona elettorale verso le presidenziali del 2024, che sembrano un bis poco riuscito di quelle del 2020. I candidati, almeno per ora, saranno gli stessi (lo sapremo per certo solo in estate, dopo le convention di partito durante le quali verranno annunciati ufficialmente): Joe Biden, appunto, e Donald Trump per i repubblicani, a sua volta ex presidente sconfitto quattro anni fa nel ring elettorale. Una sconfitta, però, che né Trump né i suoi più strenui sostenitori hanno saputo elegantemente accettare, anzi: il 6 gennaio 2021 abbiamo assistito all’attacco al Congresso da parte degli ultras trumpiani, un vero e proprio tentativo di colpo di Stato con lo scopo di sovvertire il risultato elettorale e riportare il loro paladino alla Casa Bianca. Prima di un episodio così eclatante, Trump stesso aveva provato a racimolare i voti necessari ad assicurargli la vittoria arrivando ad implorare il Segretario di Stato della Georgia, Brad Raffensperger, di trovare un modo per farli uscire fuori da qualche parte.

Se i candidati alle presidenziali del 5 novembre 2024 fossero davvero Joe Biden e Donald Trump, sarebbe solo il settimo rematch della storia statunitense, con un presidente (Trump) sconfitto a una tornata elettorale che si ripresenta alla successiva. Il principale problema, allo stato attuale delle cose, sembra essere il poco coinvolgimento degli elettori in questa elezione. I personaggi non sono particolarmente accattivanti e l’età avanzata di entrambi (77 anni Trump, 81 Biden) non aiuta affatto. In quasi quattro anni alla Casa Bianca, Biden ha ottenuto degli ottimi risultati dal punto di vista pratico, ma non è riuscito a rubare il cuore degli statunitensi. È sempre stato un po’ l’alternativa migliore di Trump, e a quanto pare anche lui sembra esserne consapevole. Politico di lungo corso, eletto al Senato quando c’era ancora la guerra del Vietnam, Biden era il presidente necessario a portare gli Stati Uniti fuori da un’amministrazione sui generis come quella di Trump e dalla crisi scatenata dalla pandemia di Covid-19, un evento senza precedenti che il tycoon non aveva saputo né gestire, né sfruttare a suo favore per farsi rieleggere.

Europa a misura di bambino

Foto di Simone Padovani, Justice initiative

Un numero importante, da tenere a mente: 541.041. Tante sono le firme di cittadini Ue raccolte in meno di due anni a sostegno di una proposta di legge europea per aumentare il più possibile la protezione dei minori dalle molestie e dalle violenze “sessuali”, con particolare attenzione ai pericoli che arrivano dal web, e fornire assistenza psicologica alle vittime.
Nel 2022, nel mondo, ci sono state 32 milioni di segnalazioni di sospetto adescamento e pedo-pornografia online. Circa 1,5 mln (quasi il 5%) ha riguardato bambine e bambini residenti nei Paesi dell’Unione europea, Italia compresa. L’Europa è diventata ormai il centro di distribuzione e commercio di immagini pedopornografiche. Dietro ogni fredda e straziante statistica, troviamo storie di bambini sopravvissuti che hanno subito gravissimi danni fisici e psicologici da predatori che approfittano della facilità con cui possono interagire con le loro vittime attraverso Internet. «Questa situazione deve cambiare e la proposta di legge dell’Unione europea ha il potere di farlo» sostengono i promotori dell’iniziativa che il 6 dicembre scorso hanno depositato le firme presso il Parlamento Ue di Bruxelles nelle mani dell’eurodeputata Hilde Vaultmans, copresidente dell’Intergruppo per i diritti dell’infanzia. “Justice initiative”, questo il nome del progetto, che è stato lanciato nel settembre del 2021 a Berna dalla Fondazione Guido Fluri, con il supporto di 40 organizzazioni per i diritti dei minori e centinaia di sopravvissuti a molestie e violenze subite in età prepubere. Anche Left, da sempre sensibile a questi temi, ha contribuito alla raccolta firme (v. Left dell’1 ottobre 2021) che è avvenuta in tutti i Paesi dell’Ue, dalla Spagna alla Germania, dalla Grecia alla Romania, dalla Finlandia alla Svezia e altri ancora.
«Avevo tra gli 8 e gli 11 anni quando un mio prozio, che era un prete missionario, mi violentò. Me lo presentò come una scoperta del mio corpo, poi come una forma di educazione sessuale. Seguirono quasi 10 anni di parziale amnesia traumatica. Avevo 12 anni quando due miei cugini (di 13 e 15 anni) mi violentarono. Hanno presentato il loro crimine come un gioco. Ne seguirono 15 anni di amnesia traumatica totale» racconta Arnaud, una delle vittime francesi che hanno sostenuto Justice initiative sin dall’inizio, la cui testimonianza insieme a tante altre è stata raccolta dal fotografo e psicologo di comunità Simone Padovani nel suo libro Shame. European stories allegato al dossier depositato al Parlamento Ue.

Lavoro. Un Governo senza qualità

TvBoy, La serenata, Roma

«Quanto sia laudabile in uno principe mantenere la fede e vivere con integrità e non con astuzia, ciascuno lo intende». Così Niccolò Machiavelli apre il XVIII Capitolo, dedicato alla lealtà del monarca, de Il Principe. Spiega, per converso, il resto del primo paragrafo di quel capitolo, che i Principi capaci di non mantener fede alla parola data e di compiere inganni abbiano pure prevalso su coloro che si sono affidati alla sola lealtà.
Il Machiavelli ci parla, naturalmente, delle virtù di governo che egli intende essenziali per il Principe del suo tempo. Epoca di potere assoluto, ben diversa dalla nostra, nella quale ci troviamo, comunque, a dover a difendere con grandi sforzi la democrazia liberale e i suoi valori.

Osservando Giorgia Meloni e il suo governo, in carica ormai da più di un anno, c’è di che chiedersi, tra integrità o astuzia, quale virtù prevalga nella natura di questo Esecutivo. E il fatto è che trovare una risposta è davvero difficile. Perché è difficile rintracciare sia l’una che l’altra. «Pronti a governare» era l’efficace, c’è da ammetterlo, slogan con il quale, dopo lunghi anni di coerente opposizione mantenuta fin dalla nascita, Fratelli d’Italia si è presentato alle elezioni del 2022, nelle quali ha conquistato la maggioranza relativa come partito e ha prevalso in coalizione con Forza Italia e con la Lega. Ma la promessa, alla luce dei fatti, appare alquanto eccessiva.

Educazione sessuale, l’esperienza della Germania

La proposta di legge del ministro dell’Istruzione sull’introduzione nelle scuole secondarie di secondo grado del progetto «Educare alle relazioni» per «affrontare il tema della violenza fisica e psicologica sulle donne» scatena, osservato da un Paese del Nord (la Germania) tante considerazioni legate a ognuna di queste parole, importanti, tra virgolette.
Il primo pensiero però va al taglio consistente dei fondi per i centri antiviolenza e alla chiusura effettiva eppur silente in questi giorni (come ha denunciato da Marta Bonafoni «senza bando e senza neppure una comunicazione ufficiale») dei centri antiviolenza nelle università.
Ma come? penso, ma il governo non ha appena dichiarato di voler combattere la violenza contro le donne?. Ribellarsi in questo caso è giusto e necessario, penso d’acchito. Intanto la reazione basita e senza parole trova non consolazione ma una possibile spiegazione nella letteratura: Giuseppe Tomasi di Lampedusa fa dire al giovane Tancredi ne Il Gattopardo «Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi».

Tornando alle parole importanti partiamo da educazione. Molti autori in questo numero ne descrivono la radice latina del nome. Silva Stella e Serena Vinci, oltre a regalarci una ricostruzione storica della violenza sulle donne a partire dal neolitico (quindi non originaria nella nostra specie), ci spiegano perché i bambini devono essere compresi e amati oltre che accuditi dai genitori, ma non abbiano bisogno di essere educati agli affetti, in quanto gli affetti sono presenti fin dalla nascita in ogni bambino, proprio come la capacità di immaginare per cui ogni essere umano è alla nascita, universalmente, naturalmente propenso alla socialità. «È il libero avvento di ogni nascita necessaria», direbbe Pirandello. Educatori e insegnanti dovrebbero quindi «al più agevolare con qualche mezzo la nascita». Personalmente, la parola educazione mi provoca una reazione di fastidio e leggera allergia, perché non riesco a non considerare, al di là del prefisso latino e- che vuol dire fuori, all’esterno, il nucleo semantico derivante da ducere cioè condurre, guidare. Come se in qualche modo ci sia sempre l’idea di un percorso predefinito dall’adulto verso cui dirigere il bambino. Per fortuna una insegnante sul campo come Alessia Barbagli ne fa subito all’inizio del suo articolo una descrizione talmente bella e vitale da spazzare via ogni mia remora. Penso che abbia ragione, una dialettica costruttiva deve essere coraggiosa e in grado di accettare l’ovvio: la parola educazione è accettata in tutti i sistemi scolastici del mondo e con la fantasia di sparizione che ne ridefinisce i margini e ne riscrive i contenuti è possibile una convivenza dialettica.

La mala education

Dal Novecento, in vari ambiti è stata fatta molta ricerca sull’infanzia, dalla medicina alla pedagogia, alla psicologia, ma tutt’oggi il pensiero comune è che i bambini e i ragazzi vadano educati. Cercare il senso della genitorialità nella storia è un viaggio lungo, in cui ci si scontra con una cultura che per secoli ha reso donne e bambini invisibili. Alcune ricerche hanno ipotizzato che la disparità tra i sessi sia nata più o meno nel Neolitico, quando l’uomo ha cominciato a comprendere il proprio ruolo nella procreazione. Egli avrebbe cominciato a pensare alla donna come ad una sua proprietà e creatrice dei suoi figli, che doveva educare al fine di non far emergere la naturale bestialità insita nell’essere umano fin dalla nascita. Nel Logos occidentale risiede il fulcro di quel pensiero secondo cui, tutto ciò che è irrazionale, è malato e perverso. Storicamente, il bambino poteva essere considerato persona solo quando cominciava a parlare, ovvero quando acquisiva la ragione. Ciò che contava era un buon comportamento ed il pensiero logico-razionale, infatti solo la ragione e la religione, grazie all’educazione morale, potevano agire un controllo sull’innata cattiveria dell’essere umano.
In questo periodo leggiamo del grande dibattito sulla necessità di entrare nelle scuole per “educare all’affettività”, allora è importante fare chiarezza.
Analizzando la parola educazione, dal latino educere che significa trarre fuori, emerge subito un controsenso in quanto, nonostante il significato etimologico, la nostra società è intrisa dell’idea che educare invece voglia dire “mettere dentro”: buoni insegnamenti, comportamenti, buone maniere, non per ultima l’affettività.