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L’antimafia neomelodica

Oltre alla mafia in Italia sempre di più assistiamo all’antimafia neomelodica.  Il cantante neomelodico siciliano Tony Colombo e la moglie Tina Rispoli sono stati arrestati martedì 17 ottobre 2023 a Napoli e portati in carcere nell’ambito di una vasta operazione anticamorra. L’ipotesi d’accusa è che i due siano stati soci in affari del boss Vincenzo Di Lauro, figlio del capoclan di Secondigliano e Scampia Paolo Di Lauro (quello cui è ispirato il ruolo di don Pietro Savastano in “Gomorra”), da tempo in carcere al 41 bis. 

L’operazione dei Ros sta in un faldone di 1.800 pagine che descrivono minuziosamente le attività della camorra in ottima salute e va ad aggiungersi a decine di operazioni antimafia che quasi quotidianamente in Italia raccontano come le mafie continuino a infestare diversi settori economici, politici, imprenditoriali e sociali. Ma le mafie in questo Paese – da un bel po’ – fanno notizia solo nei loro aspetti più pittoreschi: le avventure amorose di Messina Denaro, il coinvolgimento di qualche politico di basso bordo e il cantante famoso su TikTok. 

Il tema complessivo è scomparso. Scompaiono anche coloro che ai tempi accusarono Roberto Saviano e i giornalisti di Fanpage per avere “criminalizzato” Colombo e la moglie: le trasmissioni televisive che irresponsabilmente iconizzarono la coppia fingendo di dargli l’opportunità di difendersi sono corresponsabili della banalizzazione.

Intanto si leggono i messaggi di Massimo Giletti ai colleghi e agli amici in cui ammette di essere stato bloccato con la sua trasmissione per essere arrivato “troppo vicino a Berlusconi”. Ma di quello non parla quasi nessuno. 

Buon mercoledì. 

Nella foto: Tony Colombo (dalla pagina ufficiale Fb)

Giorgia Meloni e l’acchiapparella con i giornalisti

Carlo Canepa di Pagella Politica fa notare come per la prima volta in dieci anni la presidente del Consiglio non abbia risposto alle domande dei giornalisti sulla Legge di bilancio. Sottolinea Canepa come tra l’altro lo scorso 27 settembre 2023 il governo Meloni ha approvato la Nadef di quest’anno, ma la presidente del Consiglio non ha partecipato alla conferenza stampa di presentazione del documento, a cui ha presenziato invece il ministro dell’Economia e delle Finanze Giancarlo Giorgetti.

Chi ha avuto la sfortuna di assistere in diretta alla scena ha potuto apprezzare la presidente del Consiglio che scocciata si è limitata a un saluto iniziale e ha poi lasciato la parola al ministro Giorgetti, in modo più che brusco. Nel frattempo il ministro agli Esteri Antonio Tajani ha spiegato agli altri di “dover andare anche lui”. Uno scambio di battute simile a quelli di un raduno di alpini quando c’è da scegliere chi deve pagare la bottiglia di vino. 

Già l’anno scorso, il 22 novembre 2022, Meloni era stata criticata per la gestione della conferenza stampa sulla legge di Bilancio per il 2023. In quell’occasione la presidente del Consiglio aveva avvisato che la conferenza si sarebbe dovuta concludere dopo poche domande perché doveva presenziare all’Assemblea nazionale di Confartigianato, creando malumori tra i giornalisti presenti in sala.

Al di là del poco rispetto per la stampa che non è certo una novità la strategia è fin troppo facile: oggi Meloni e compagnia potranno dire che i giornalisti “strumentalizzano” o “fraintendono”. E via con il prossimo giro. 

Buon martedì.

Yuval Dag, obiettore di coscienza israeliano: L’assedio di Gaza è disumano, non è la soluzione

Yuval Dag è un cittadino israeliano di 20 anni. Contrario all’occupazione israeliana della Palestina, quest’anno ha passato più di due mesi in prigione per essersi rifiutato di svolgere il servizio militare. Fa parte di Mesarvot, una rete di supporto per giovani obiettori di coscienza che si rifiutano di prestare servizio militare nell’esercito israeliano. Ci parla da un moshav nel Sud di Israele, a pochi chilometri da Gaza. Mentre parliamo si sentono le bombe che cadono sulla Striscia: una è talmente forte da far tremare i muri della sua casa. Come per tutti i cittadini israeliani, per Yuval il massacro compiuto da Hamas dello scorso 7 ottobre è stato un trauma: soprattutto dal momento che conosceva personalmente diverse persone uccise dai miliziani di Hamas. Ma come oppositore dell’occupazione e difensore dei diritti umani dei palestinesi, è convinto che bombardare e mettere sotto assedio Gaza non sia la soluzione.
Dag, qual è la sua posizione, e la posizione di Mesarvot, sull’escalation di violenza iniziata lo scorso 7 ottobre con l’attacco di Hamas, e continuata con il bombardamento della Striscia di Gaza da parte di Israele?
Come Mesarvot riteniamo che ciò che Hamas ha compiuto sia semplicemente orribile, riprovevole e da condannare fermamente. Condanniamo ciò che è accaduto e non lo riteniamo in alcun modo giustificabile. Ma pensiamo anche che sia necessario guardare al contesto storico e considerare l’assedio che Israele ha imposto su Gaza per anni, e riteniamo che anche i bombardamenti su Gaza siano altrettanto orribili e da condannare. Condanniamo l’uccisione di vite innocenti in qualsiasi luogo. Al contempo conosco persone che sono state uccise nell’attacco di Hamas, e vedo l’attacco come il nostro 11 Settembre. Ma, ripeto, credo che sia molto importante guardarlo in un contesto storico: stiamo parlando di una popolazione, quella di Gaza, in cui la maggior parte dei bambini ha una diagnosi di PTSD [uno studio del 2021 ha rivelato che il 91% dei bambini di Gaza soffre di qualche forma di trauma legata al conflitto], che vive senza acqua potabile. E che ciò che i palestinesi di Gaza chiedono non è qualcosa di radicale. Nessuno vuole vivere in quelle condizioni. Per questo credo che parte di questo sangue grondi dalle mani del governo israeliano e dell’occupazione. Penso anche che non si risolverà nulla con un’altra Nakba, come quella che è in corso a Gaza.

Quanto ad Hamas?
Hamas rappresenta un lato estremo della lotta per la liberazione della Palestina, non rappresenta tutto quello che è la lotta per la Palestina, e molti palestinesi condannano ciò che ha fatto Hamas. Per questo motivo credo che, per quanto l’attacco di Hamas sia stato brutale e disumano, non toglie legittimità e rilevanza alla lotta di liberazione.

In una dichiarazione che Mesarvot ha pubblicato su Instagram dopo il massacro compiuto da Hamas, avete scritto «non era inevitabile che questo succedesse». Come persona che vive lì, che ha visto la situazione svilupparsi per anni, cosa pensa che si sarebbe dovuto fare per evitare l’attacco di Hamas? E chi avrebbe dovuto farlo?
Per quanto mi riguarda è molto chiaro che se non avessimo creato le condizioni che ci sono state per anni a Gaza, se non avessimo creato questo orribile esperimento che è Gaza in cui è inconcepibile come si possa vivere, non avremmo subito queste enormi conseguenze. E non era affatto necessario imporre queste condizioni su Gaza. In Israele, ribadiamo continuamente l’importanza della sicurezza (il concetto di bitahon). Ma l’esercito non porta sicurezza, perché le politiche dell’esercito, sia a Gaza che in Cisgiordania, portano violenza e distruzione: e di rimando poi l’occupazione danneggia anche gli israeliani, ed è una situazione completamente fabbricata da noi. Quando si costringono le persone a
vivere in condizioni così estreme, accadono cose estreme. Questo non le giustifica, ma dice che anche noi abbiamo una responsabilità, e che sì, avremmo potuto evitarle. Nessuno ha tratto alcun beneficio dalla situazione in cui si trova Gaza dal 2007: su noi israeliani venivano sparati i razzi, e 2 milioni di palestinesi soffrivano ogni giorno.

Oltre a Gaza, anche la situazione in Cisgiordania è precipitata nell’ultimo anno. Qual è il contesto più ampio dell’ultimo anno in tutti i territori palestinesi e in Israele?
Da quando il nuovo governo è entrato in carica, c’è stato un forte aumento della violenza in
Cisgiordania, dove il numero di palestinesi uccisi negli ultimi mesi è altissimo. Le violenze dei coloni hanno raggiunto un livello mai visto. Da sabato, è davvero indescrivibile quello che sta succedendo lì. I coloni sono fuori controllo e stanno attaccando sia i palestinesi che gli attivisti.

E come commenta la risposta di Israele sulla Striscia di Gaza?
Gaza non ha mai subito questi livelli di distruzione. Già centinaia di palestinesi sono rimasti uccisi, ci sono mezzo milione di sfollati. Israele ha comunicato a tutti gli abitanti del nord della Striscia di spostarsi, quindi un milione di palestinesi sarà sfollato. Ci sono testimonianze dell’uso di bombe al fosforo bianco, che usate contro i civili costituiscono un crimine di guerra. E l’interruzione della fornitura di acqua, di elettricità e di carburante: gli ospedali ormai non funzionano più, quindi anche i migliaia di feriti adesso non hanno più possibilità di essere assistiti. Abbiamo detto loro di fuggire dalla Striscia passando per Rafah, ma poi abbiamo anche bombardato Rafah più volte. Ho molta paura
per Gaza, penso che siamo di fronte a una Nakba o a un Olocausto. Qualsiasi termine preferisci.

Quanta percentuale della società civile e dell’opinione pubblica israeliana mette in dubbio l’occupazione e critica l’attacco su Gaza?
Al momento, praticamente nessuno. La gente mi guarda negli occhi e mi dice «penso che dovremmo radere al suolo Gaza, non possiamo più vivere vicino ai palestinesi, devono andarsene». Ed è vero che quello che abbiamo vissuto sabato è stato terribile. Ma il punto è che noi israeliani abbiamo percepito la situazione fino ad ora come una coesistenza, pensavamo di coesistere con Gaza e con Hamas. Ma in verità solo noi esistevamo, loro non esistevano. Morivano in ogni guerra, non avevano acqua e elettricità, erano malati e traumatizzati. Ma noi pensavamo che fosse una coesistenza, e ora che Hamas ha rotto questo equilibrio gli israeliani dicono che non possiamo più coesistere. Ma non abbiamo mai coesistito.

Cosa pensa del modo in cui i media, i politici e l’opinione pubblica stanno ritraendo gli eventi, sia in Israele che negli altri Paesi?
C’è un’enorme divisione tra chi è pro-Israele e parla degli eventi, orribili, di sabato senza guardare in alcun modo a quello che abbiamo fatto e stiamo facendo noi di orribile, e chi è pro-Palestina e non vede il dolore degli Israeliani. Molti bambini sono stati e continuano a essere uccisi da entrambe le parti, e da entrambe le parti vengono usati come un modo di mostrare quanto orrendo sia il nemico, ma uccidere un bambino con una bomba non è diverso da uccidere un bambino con un fucile. E a volte il fazionismo è sottile: per esempio un articolo di BBC ha riportato il numero di israeliani che «sono stati uccisi» da Hamas e poche righe dopo il numero di palestinesi che «sono morti» per i bombardamenti. C’è un rifiuto di vedere l’umanità dell’altro lato, e questo non fa fare nessun passo
avanti. Ed è difficile parlare con persone che conosco, a cui voglio bene, e sentirli supportare una vendetta che porterà a un’altra Nakba. E chiaramente capisco il loro dolore, perché è anche il mio dolore, ma non possiamo permettere che questo dolore ci disumanizzi. Non possiamo fare quello che ha fatto Hamas perché a quel punto non saremmo in nessun modo migliori di loro. Non possiamo ricorrere al terrore, e il fatto che l’ha fatto l’altro lato non ci da la legittimità di farlo. Ma in Israele, non solo non mi riconosco più in quello che dicono gli altri, non posso nemmeno più dire con tranquillità quello che penso. Chiunque critica i bombardamenti su Gaza viene additato come terrorista e minacciato.

La spaventa quello che succederà nelle prossime settimane?
Può finire in due modi: o annientando completamente Gaza, oppure permettendo loro di vivere in quanto esseri umani come tutti. Le atrocità contro gli israeliani sono già state commesse, potremmo cercare una via diplomatica invece che commettere ancora altre atrocità. Diciamo di sostenere i diritti umani e di volere che due popoli possano vivere in pace. Ma come possiamo raggiungere questo obiettivo? Certamente non massacrando migliaia di persone e gettando bombe sui civili. La violenza, da qualsiasi parte provenga è altrettanto negativa e non raggiunge l’obiettivo.

L’autrice: Elena Colonna è ricercatrice di SciencesPo a Parigi

16 ottobre 1943: il rastrellamento nazifascista del ghetto di Roma e il silenzio di Pio XII

Ottanta anni fa avveniva la razzia degli ebrei romani ad opera dei nazisti aiutati dai poliziotti fascisti. Verranno tutti deportati ad Auschwitz, da cui faranno ritorno solo in 16, tra cui una sola donna e nessun bambino.
Dal 25 luglio 1943, giorno della caduta di Benito Mussolini, all’8 settembre 1943, giorno della comunicazione dell’avvenuto armistizio con gli Alleati, passarono in tutto 45 giorni nel corso dei quali il nuovo governo italiano fu guidato dal generale Pietro Badoglio. Durante questi giorni, le organizzazioni internazionali ebraiche, in vista dell’imminente invasione nazista del nord e centro Italia, fecero pressioni al governo Badoglio affinché facesse trasferire tutti gli ebrei che si trovavano nella penisola italiana, nel sud Italia, dove sarebbero stati al sicuro. Il governo però non approvò il trasferimento richiesto, tuttavia era ben conscio del pericolo, e mentre abbondonava gli ebrei in balia dei nazisti, organizzò il trasferimento al sud per se stesso e per la casa reale. Inoltre, nonostante le insistenze dell’Unione delle comunità israelitiche, il governo Badoglio si rifiutò di distruggere le liste del censimento degli ebrei italiani del 1938 aggiornate nel 1942. Questa scelta viene giustamente definita da Giacomo Debenedetti, nel suo 16 ottobre 1943, come «criminosa responsabilità». Infatti proprio grazie a questi elenchi, i fascisti della Repubblica sociale italiana e i nazisti, riuscirono a individuare, catturare e deportare gli ebrei con molta più facilità.
Dopo l’8 settembre 1943 i tedeschi occuparono Roma, tuttavia venne deciso che il territorio sarebbe stato amministrato dalla Rsi. A Roma il 25 settembre, Herbert Kappler, maggiore delle SS e comandante della Polizia di sicurezza della capitale, ricevette, direttamente da Heinrich Himmler, l’ordine di catturare e deportare gli ebrei romani. Il giorno seguente Kappler fece convocare e ricevette, presso l’ambasciata germanica, il presidente della comunità israelitica di Roma, Foà, e il presidente dell’Unione delle comunità israelitiche italiane, Dante Almansi. A questi Kappler impose la consegna di 50 kg d’oro entro le ore 11 di martedì 28 settembre, in caso di inadempienza sarebbero stati catturati e deportati in Germania 200 ebrei. Quel martedì mattina tale quantitativo di oro era stato raccolto, anche grazie ai cristiani cattolici, già prima delle ore 11, ma venne chiesta e ottenuta una proroga fino alle ore 18. Tuttavia la consegna dell’oro non bastò, e la mattina seguente reparti delle SS fecero irruzione nel Tempio Maggiore e nei locali della Comunità, depredarono tutto ciò che trovarono compresi archivi, documenti, registri e i due milioni liquidi avanzati dalla raccolta dell’oro. Naturalmente non mancarono di requisire la documentazione necessaria a rintracciare tutte le abitazioni degli ebrei romani. L’11 ottobre nei locali della Comunità, accompagnato da una scorta di SS, arrivò un ufficiale delle SS cultore di paleografia e filologia semitica. Questi dopo un’ispezione fece requisire l’intera biblioteca del Collegio rabbinico di Roma e della Comunità, contenenti cataloghi preziosissimi ormai andati perduti. La cattura degli ebrei in Italia sarebbe stata gestita dalla sezione IVB4. A Roma per gestire la cattura e la deportazione degli ebrei fu inviato, assieme a un reparto speciale delle SS, l’SS-Hauptsturmführer Theodor Dannecker, il quale aveva la fiducia di Adolf Eichmann e aveva esperienza di rastrellamenti e deportazioni in Francia. Questi, dopo essersi occupato del rastrellamento degli ebrei di Roma, nei mesi successivi si occuperà, con l’aiuto della polizia locale, dei rastrellamenti di: Firenze, Siena, Montecatini Terme, Bologna, Torino, Genova e Milano. Nel gennaio 1944 verrà sostituito dall’SS Friedrich Bosshammer. Questi verrà arrestato nel 1968 e condannato all’ergastolo da un tribunale tedesco nel 1972, tuttavia morirà poco dopo. Theodor Dannecker invece verrà catturato dagli Alleati nel 1945, e morirà lo stesso anno pochi giorni dopo la cattura suicidandosi.
Alle ore 5.30 di sabato 16 ottobre, i camion tedeschi arrivarono non solo nell’ex ghetto ma in tutta la città. Raggiunsero tutte le abitazioni grazie alle liste col censimento degli ebrei suddivise per quartieri, per edifici e per interni, grazie all’aiuto dei poliziotti italiani guidati dal commissario Raffaele Alianello, colui che in seguitò compilò le liste dei condannati per le Fosse Ardeatine. Quando le SS trovavano i portoni delle case chiusi, se li facevano aprire dai poliziotti italiani. La razzia si concluse prima delle ore 14. Quel giorno per preparare la retata anche da un punto di vista dell’opinione pubblica, il quotidiano romano Il Messaggero pubblicò l’editoriale antisemita “Il nemico numero uno”. In tutto su 10-13mila ebrei presenti a Roma, ne vennero catturati 1.259, un terzo dei quali nell’ex ghetto di Roma. Le persone vennero trasportate nel grande spazio del Collegio militare, in via della Lungara. La maggioranza degli ebrei riuscì a nascondersi e a mettersi in salvo, tra le altre cose, grazie al fatto che la notizia del rastrellamento si sparse velocemente in città. Nelle ore seguenti vennero liberati i figli e i coniugi di matrimonio misto, tuttavia non fu merito del Vaticano bensì di un ordine proveniente da Berlino prima della razzia. In questo modo al Collegio militare rimasero 1.023 ebrei.
Tornando al Vaticano, quel giorno assieme a Papa Pio XII non manifestò nessuna protesta pubblica verso i nazisti contro il rastrellamento e la deportazione degli ebrei. Per tutta la durata della seconda guerra mondiale, Papa Pio XII non prese mai posizione in difesa degli ebrei, rimanendo quindi sempre indifferente e in silenzio. A differenza sua, molti esponenti ed istituti della chiesa cattolica svolsero azioni di aiuto e protezione verso tanti ebrei. Nel dicembre 1943 la Santa Sede e Papa Pio XII erano stati informati dell’eliminazione degli ebrei romani ad Auschwitz, infatti padre Palazzini, addetto alla cura dei rifugiati durante l’occupazione tedesca a Roma, lo disse a Michael Tagliacozzo (che divenne poi uno storico dell’Olocausto ndr). Nonostante ciò, come già detto, non ci fu nessuna presa di posizione. Inoltre bisogna sottolineare che Papa Pio XII fin dal 1942, era informato su quanto stesse succedendo da due Nunzi apostolici, e dalle note informative inviategli da Myron Taylor e Ronald Campbell, rappresentanti diplomatici americano e inglese al vaticano. I due Nunzi apostolici erano mons. Bernardini in Svizzera, che riceveva informazioni dettagliate dalle Organizzazioni ebraiche per poi ritrasmetterle subito, e Angelo Roncalli, futuro Papa Giovanni XXIII, allora in Turchia. Inoltre una recente scoperta di Giovanni Coco, archivista e ricercatore all’Archivio Apostolico Vaticano, che ne ha parlato su La lettura del Corriere della Sera, dimostra che Papa Pio XII sapeva. Si tratta di una lettera, datata 14 dicembre 1942, di Lothar König, un gesuita tedesco antinazista, nella quale rivolgendosi al segretario di Papa Pio XII, padre Robert Leiber,  parla dell’uccisione di massa degli ebrei da parte dei nazisti facendo esplicito riferimento al forno crematorio delle SS nel lager di Bełzec, e inoltre menziona anche il campo di concentramento di Auschwitz. Questa lettera dimostra come il Pontefice fosse a conoscenza della Shoah ma rimase indifferente in silenzio, mentre, nell’estate 1942, i vescovi in Francia di varie città assieme al cardinale di Lione protestarono pubblicamente contro i nazisti per le retate. In Danimarca, sempre nell’ottobre del 1943, i vescovi cristiano luterani scrissero una lettera collettiva contro i nazisti e per spingere la popolazione ad aiutare gli ebrei. Proprio in questi mesi la Santa Sede tra l’altro sta discutendo in merito alla santificazione di Papa Pio XII. Io mi chiedo: ha senso santificare la sua indifferenza e il suo silenzio? Secondo me no, e inoltre sarebbe una mancanza di rispetto nei confronti dei milioni di vittime della Shoah, ebrei e non.

L’autore: Andrea Vitello è specializzato in didattica della Shoah e graduato a Yad Vashem. Ha scritto il libro, con la prefazione di Moni Ovadia, intitolato “Il nazista che salvò gli ebrei. Storie di coraggio e solidarietà in Danimarca” (Le Lettere 2022)

Nella foto: un’anziana donna con dei bambini ad Auschwitz, Bundesarchiv Bild 183-74237-004, KZ Auschwitz-Birkenau (wikipedia)

“Fascisti e ridicoli codardi”: brutte figure dalla Spagna per Matteo Salvini

Ieri è accaduto – come spesso gli capita – che il ministro alle Infrastrutture nonché leader della Lega Matteo Salvini abbia pensato bene di utilizzare una guerra che sta trucidando civili in Israele e a Gaza per lucrare elettoralmente. Al centro dello scontro c’è la guerra tra Israele e Hamas, con un tweet della ministra dell’Uguaglianza in Spagna Irene Montero che prende le distanze dalla stretta di mano tra Ursula Von der Leyen e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu: “Not in my name”, scrive Montero.

Il leader della Lega come al solito non si trattiene dall’attaccare l’esponente di un altro governo europeo. “Prima ancora di provare a nascere, il (forse) nuovo governo socialista spagnolo già litiga su Hamas e Israele, con la ministra dell’Uguaglianza (!) contraria all’unità contro il terrorismo islamico…”. Dura la replica Montero: “Vicepresidente, lei sta legittimando le violazioni del diritto penale internazionale, come le punizioni collettive, e difendendo l’impunità per i crimini di guerra? L’Europa – conclude la ministra – è nata dalla vittoria dell’antifascismo sui colpevoli di genocidio”.

Il sigillo finale lo mette il marito della ministra e storica guida di Podemos Pablo Iglesias che scrive: “Mentre in Italia c’è un governo con fascisti e ridicoli codardi come te. Ti auguro il meglio”. In allegato c’è la foto di Salvini con la maglietta di Putin, quella che qui abbiamo dimenticato in fretta. 

Peccato per Salvini che non possa trascinare in tribunale gli avversari di turno. Oltre a dare lezioni di democrazia avrebbe potuto insegnarci a “dibattere senza offendere”, come si è permesso di dire a Roberto Saviano. 

Buon lunedì.

Nella foto: il tweet di Pablo Iglesias

Sospesa la premiazione della palestinese Shibli, che scrive per ridare voce a Gaza

Adina Shibli, courtesy La Nave di Teseo

La Fiera del libro di Francoforte ha annunciato la sospensione della cerimonia di premiazione della scrittrice palestinese Adania Shibli per il suo libro “Un dettaglio minore” (La Nave di Teseo). Nei suoi libri Shibli racconta le conseguenze fisiche ed emotive dell’occupazione israeliana sui civili palestinesi. Raccomandiamo anche la sua raccolta di racconti “Pallidi segni di quiete”, e “Sensi” (Argo). Ecco l’intervista di Santoro per Left realizzata nel 2021 e apparsa nel numero di Left intitolato “Generazione Gaza“. Dopo l’inaccettabile attacco terroristico di Hamas in Israele e la violenta controffensiva di Tel Aviv contro Gaza, aiuta a capire le condizioni di vita dei palestinesi di Gaza oppressi dal 1967.

«Confesso che qualche volta desidero di non provare nulla. Se permettessi ai miei sentimenti di emergere in superficie, sarei incapace di confrontarmi con questa atroce realtà». L’autrice palestinese Adania Shibli, nata nel 1974, voce importante della letteratura araba contemporanea e non solo, che vive soprattutto a Ramallah, parla da Berlino. Nello sguardo di Shibli si coglie il senso di vuoto davanti al panorama di rovine israeliane e palestinesi destinate a stratificarsi su quelle passate.
Nelle librerie italiane è arrivato il suo romanzo Un dettaglio minore (La nave di Teseo, traduzione di Monica Ruocco), già finalista al National Book Award 2020 e in corsa per il prestigioso Man Booker Prize.
Shibli ha dedicato dodici anni alla creazione della storia che si sviluppa in due tempi distanti uniti dal dolore e dal tentativo di trovare una lingua per esso. Il primo scenario è il deserto del Negev, un anno dopo la guerra arabo-israeliana del 1948, dove militari israeliani di stanza nell’area per presidiare il confine con l’Egitto stuprano una giovane beduina, poi sepolta nella sabbia. Nel secondo tempo del romanzo una donna palestinese di Ramallah indaga sul crimine per restituire dignità alla vittima. Nel viaggio esplora l’attuale condizione di vita nei territori palestinesi.
Che cosa l’ha colpita della pronuncia della Corte suprema israeliana per l’allontanamento di quattro famiglie palestinesi dal quartiere di Sheikh Jarrah, a Gerusalemme Est?
La strada intrapresa corrisponde alla legalizzazione dell’ingiustizia. Per decenni è apparso che il sistema giudiziario israeliano agisse con maggiore equità, ma da anni registriamo un processo inverso anche nella nomina dei giudici della Corte suprema che è un organo fondamentale. Prima aveva un ruolo di contrappeso rispetto alle scelte politiche governative. Ora ha virato a destra. Lo spostamento ideologico conservatore ha permeato la giustizia.
Qual è la sensazione dominante?
Tento di essere razionale e di pensare a che cosa si possa fare per non percepirsi sconfitti e paralizzati. Ho paura che le ferite sempre più laceranti sprofondino i palestinesi nell’assenza di speranza. Quando le armi tacciono, la calma non significa pace ma resa disperata. È una depressione severa che consiste nella sfiducia di poter realizzare qualsiasi atto di svolta.
Intravede segnali per fermare l’escalation bellica?
La capillarità della violenza è penetrata nei gangli vitali delle nostre società, cominciando dallo sdoganamento di formazioni dell’ultradestra israeliana che negli anni Novanta erano bandite dal Parlamento. La sinistra israeliana è stata distrutta.
Dove conduce la strategia di Hamas?
Mi oppongo a qualsiasi forma di male inflitta agli altri compresi i metodi violenti adottati da loro. Il ricorso alla violenza riflette quella patita. Nessun uso di armi è giustificato e s’inquadra nella dinamica della crescente occupazione. I palestinesi dovrebbero rifiutarsi di riprendere i metodi per i quali soffrono. Le scelte e le azioni dei militanti a Gaza ricordano una definizione del contesto israelo palestinese di Murakami: un uovo che si schianta su un muro. L’uovo macchia la parete e si autodistrugge.
Da scrittrice, e donna palestinese, come si rapporta con il concetto di confine?
Mi interrogo sul modo in cui colpisce la scrittura. A che cosa la mia immaginazione, la libertà di movimento, e di conseguenza il linguaggio, hanno il permesso di accedere? Nel contesto israeliano parlare arabo può determinare l’esclusione e dunque la discriminazione. Nelle città la coesistenza tra israeliani e arabi israeliani era messa in discussione già prima di questa crisi con le disuguaglianze formali e sostanziali. Quando non si può articolare pienamente il linguaggio si rimane chiusi dentro un confine che diventa anche interiore.
Un dettaglio minore esprime il desiderio di guarire le ferite della storia, dando voce a chi non l’ha avuta?
Questo è il tema essenziale del romanzo. Quale voce possiamo offrire, quando il nostro linguaggio è guasto, pieno di paure? Nella seconda parte del libro, la donna si misura con questo tentativo di rimediare alla Storia, ma lei stessa deve maneggiare le proprie rovine. E non funziona. La voce che può restituire alla vittima della violenza è quella di una persona che fatica a dire la verità, perché è sempre stata costretta a nasconderla. Quando i palestinesi sono forzati nel descrivere il proprio dolore e i vissuti, mi rendo conto del fallimento. Non si può essere obiettivi sul proprio dolore.
In che modo ha creato il parallelismo tra le due donne?
La domanda è interessante ancora dal punto di vista linguistico. Siamo disponibili a descrivere il carnefice e la vittima con lo stesso linguaggio? È possibile che le parole abbiano la medesima funzione? La donna, volendo ricostruire la verità sulla violenza subita dalla giovane, testimonia come le stesse parole possano avere ruoli e realtà differenti pur nel medesimo contesto.
Lei ha sempre scritto in arabo?
Sì e mi sono chiesta se potesse essere usato contro di me. Ho varcato i confini interni e quelli imposti al linguaggio in termini di connessione tra le persone. Tra la popolazione sono state erette delimitazioni fisiche, psicologiche e linguistiche.
Nel romanzo compare spesso l’immagine dei check point.
È la quotidianità dei palestinesi alla quale non ci si può abituare. È una messa in stato di accusa. Provi un senso di alienazione che ti annulla.
Che cosa simboleggia il Muro nella West Bank?
La rottura di ogni legame dei palestinesi con la terra. Abbiamo perso qualsiasi familiarità e l’amore per il paesaggio.
È possibile raccontare Gaza?
L’accesso è talmente limitato che è difficile descriverla. Come può parlare Gaza e come possiamo ascoltare la sua sensibilità? È stata disconnessa anche dalla nostra immaginazione. La mia posizione non è nazionalistica. Vivere o visitare i territori palestinesi ti dà la dimensione di un’ingiustizia concreta dalla stessa quantità di acqua disponibile per una doccia.

In foto Adania Shibli, courtesy La Nave di Teseo

Partigiane dei diritti tra i murales di Passoscuro

La lettura, tutta d’un fiato dei venticinque articoli del nuovo libro di Left: Partigiane dei Diritti, induce reazioni difficili da esprimere a parole . Mi ha soccorso, così, la memoria di un pensiero che facevo lavorando in scavi archeologici che al più restituivano povere suppellettili. Mi interrogavo allora su cosa si provasse a liberare da strati di tempo un mosaico: tessera dopo tessera, fino a comporre figure che daranno vita all’intera composizione. E davanti a me si svolge, ora, un’immagine intrigata e intrigante, quella del rapporto che le donne hanno intessuto con la «politica», sia nell’accezione di “potere”, dominio dell’uomo sull’uomo, a cui le donne hanno avuto accesso come regnanti (da Hatshepsut alla regina Vittoria ) o capi di governo in tempi vicini a noi (Margaret Thatcher ecc.), cosa che non costituisce garanzia per la causa delle donne, anzi… sia in quella di terreno in cui operare per il cambiamento. Le protagoniste di questo libro, rifiutando l’uso della forza, lottando per l’uguaglianza, la libertà e la realizzazione di un nuovo rapporto uomo-donna, hanno ridefinito la politica come luogo della cittadinanza e dello sviluppo dell’identità, propria e di quelli che subiscono esclusione e asservimento: possibilità concreta di intervento sulla realtà economica, sociale e umana e di modificarla.
Indovinando dunque la complessità del disegno generale, ho cercato un fil rouge che mi guidasse nell’intrigo di temi, ostacoli, delusioni e violenze che le donne subiscono, attivandosi nella politica, fin dall’affermarsi del capitalismo e del mondo moderno. Un filo trovato nelle parole di Lidia Menapace: «Il movimento delle donne è come l’acqua che scorre ovunque. Ogni tanto però si perde. Sembra che si imbuchi, ma poi riemerge. Ha un andamento, un modo sotterraneo che rappresenta una vitalità nascosta. A me piace dire che il femminismo assomiglia a questo. È un fenomeno tra ombre e luce, tra superficie e sottoterra, è sempre vissuto insieme all’umanità. Ogni tanto sprofonda e sono tempi di terribile dominio maschile e basta. Qualche volta emerge un pochino.
Non è ancora mai emerso definitivamente. Non è ancora quel grande fiume placido che occupa tante pianure quando va in piena. Però pensando che è una storia lunga millenni non possiamo neanche lamentarci, abbiamo fatto abbastanza baccano».
Gli articoli seguono dunque un andamento carsico, fin dalla prima emersione durante la Rivoluzione francese con due protagoniste della statura di Olympe de Gouges e Mary Wollstonecraft, entrambe a Parigi nel momento più aspro della lotta politica, due donne che con gli scritti e l’azione politica sono andate ben oltre la “querelle des fammmes” centrata sulla questione uguaglianza o differenza delle donne nella legislazione e nell’ambito familiare, e hanno individuato le rivendicazioni fondamentali per l’affermazione dei diritti delle donne. Entrambe ribelli a una rivoluzione che, predicando l’uguaglianza di tutti gli esseri umani, escludeva dalla cittadinanza la metà del genere umano: le donne.
Dal testo emerge potentemente il rapporto drammaticissimo tra movimenti femministi e rivoluzioni; ma il colpo di stato del 18 Brumaio di Napoleone evidenzia che non si tratta tanto della sconfitta delle donne rivoluzionarie bensì delle idee rivoluzionarie repubblicane, poiché si dà vita ad un potente stato militare-tecnocratico che diffonderà in Europa ideali di libertà e uguaglianza, da cui le donne sono escluse. Napoleone puntualizza l’impossibilità della cittadinanza femminile: «dal momento che le donne non esercitano diritti politici, non è appropriato definirle cittadine». Dunque non sarà il diritto politico ma quello civile o privato ad esprimere i valori della nuova società civile.
I regimi reazionari e dittatoriali opprimono, ma non deludono dal momento che non creano aspettative, molte invece le speranze, le attese nutrite nei confronti di rivoluzioni che propongono la trasformazione radicale della società e maggiore risulta la delusione per i movimenti di donne che, nella seconda metà dell’800 avanzano all’insegna del socialismo e della rivoluzione sociale a partire dalla Comune di Parigi, di cui protagonista, insieme a tantissime altre è Louise Michel «Quelli, donna, davanti alla tua indomita maestà, meditavano, e malgrado la piega amara della tua bocca, malgrado il maldicente che accanendosi su di te, ti gettava addosso tutte le grida indignate della legge,
malgrado la tua voce fatale e alta che ti accusa, vedevano risplendere l’angelo attraverso la medusa». Scrive di lei Victor Hugo.
Rapporto conflittuale delle donne con la politica progressista, rivoluzionaria e marxista nell’800 caratterizzato dalla Restaurazione, ma con scoppi, in tutta Europa, di fuochi rivoluzionari che vedono la presenza costante delle donne. Intanto si sviluppa il suffragismo, sì che il 20 maggio del 1867 John Mill porta alla camera dei Comuni la proposta del voto alle donne, benché nel 1848 le rivoluzioni in Francia, Austria, e Germania si siano concluse con il divieto delle associazioni politiche femminili e nel 1860 Jenny d’Héricourt avesse scritto a Proudhon: “La donna è come il popolo, non ne vuol più sapere delle vostre rivoluzioni che ci distruggono a favore di pochi chiacchieroni ambiziosi. Vuole invece la libertà e l’uguaglianza per tutte le donne e per tutti gli uomini. ”
Conflittualità che non risparmia la Rivoluzione Russa e si esprime attraverso la voce di Aleksandra Kollontaj. La lotta delle donne è un Giano bifronte: contro i privilegi maschili nelle società reazionarie e contro la sordità dei grandi rivoluzionari che continuano a considerare le donne esseri inferiori e incapaci: non razionali. Una differenza nel modo di intendere la politica è che agli uomini piace l’astrazione e la costruzione di teorie politiche, mentre le donne prediligono la prassi sociale attuata con fantasia e l’intelligenza. Dovremo arrivare a Rosa Luxemburg, Emma Goldman e, nella seconda metà del 900, ad Hanna Arendt per trovare le teoriche della filosofia politica.
A fine ‘800 si sviluppano in Inghilterra e Stati Uniti movimenti di emancipazione che per
raggiungere la piena cittadinanza mirano alla conquista del voto. In Italia è Anna Maria Mozzoni, che, profondamente laica, guardando con acume al progetto del primo Codice Civile italiano, ne critica la mancata attuazione della cittadinanza femminile e si fa fautrice del voto alle donne in quanto gli uomini “ non sono i rappresentanti naturali degli interessi delle donne”.
È nel ‘900 che si raggiungono le conquiste più importanti, grazie a rivoluzionarie come Rosa Luxemburg, da sempre nel cuore di uomini e donne che hanno fatto della politica la speranza per una umanità più giusta. Rosa è sempre stata in bilico tra amore e oblio per le condanne staliniane di “spontaneismo”, “determinismo” ed “economicismo”, lei che aveva scelto di stare con le masse, come soggettività organizzata e contro ogni dogmatismo, lei che, avendo preso posizione per la pace, trascorse gli anni della prima Guerra Mondiale nelle patrie galere e, tradita poi dal governo socialdemocratico, fu barbaramente assassinata.
Le donne aderiscono al socialismo: Argentina Altobelli, al comunismo, Pia Carena, all’anarchia, Emma Goldmann, deluse da uomini che si dichiarano rivoluzionari ma non tollerano che i loro privilegi “maschili” vengano messi in discussione. Ad Emma toccherà confrontarsi con “mostri sacri” quali Proudhon o Fourier, lei che si batte per un’identità femminile che non escluda quella maschile ma che contribuisca a liberarla.
La Resistenza è il momento più alto della partecipazione delle donne alla politica, sia con azioni collettive a Paraloup, dove tutta la collettività resiste, e nelle manifestazioni di Forlì per liberare i renitenti alla leva rastrellati dai nazisti, sia come combattenti: Teresa Mattei, staffette Lidia Menapace, Joyce Lussu e Giulia Ingrao; un elenco infinito.
Nel dopoguerra assistiamo di nuovo, con la vittoria di un partito confessionale, la DC, a una battuta d’arresto nel percorso dei diritti delle donne e ci vorranno lunghi anni di militanza nei partiti, di lotte personali per affermarsi come scienziate: Laura Conti, in astrofisica: Margherita Hack e di impegno in tutti i campi per il progresso delle donne; ci vorrà il femminismo degli anni ’70 per ottenere il divorzio, l’aborto, la parità sul lavoro ecc.
Conquiste oggi sotto attacco ovunque e abbiamo l’obbligo di ricordare che diritti costati lacrime e sangue, vanno difesi giorno dopo giorno, perché coloro che da millenni vivono imponendo il proprio potere, hanno i mezzi, il tempo e gli strumenti per riappropriarsi di tutto. Ed è quello che queste donne coraggiose e intelligenti ci insegnano; ascoltiamole.

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Libri

Uscire dalla pazzia della guerra, In Palestina e ovunque

Non si può trattare la guerra come un’emergenza intermittente, alla quale guardare di volta in volta con orrore sui diversi scenari, perché è ormai un dato permanente e globale del nostro tempo che si va intensificando anno dopo anno. Siamo all’interno di una guerra mondiale a pezzetti che si vanno, ma mano, rinsaldando; ce lo dice il Conflict data program dell’Università di Uppsala: ci sono sul pianeta 170 conflitti armati e, tra questi, decine di guerre vere e proprie.

La guerra tra Russia ed Ucraina andava avanti dal 2014, con 13mila morti, ma noi ce ne siamo accorti solo il 24 febbraio 2022, con l’invasione russa dei territori ucraini. L’occupazione di Israele dei territori palestinesi va avanti almeno dal 1967, ma negli ultimi anni questo conflitto è stato completamente cancellato dall’attenzione dei media, e la condizione di oppressione strutturale e militare del popolo di Palestina non vista, fino alla brutale esplosione di violenza da parte di Hamas dello scorso 7 ottobre. Con la prevedibile e brutale ritorsione violenta da parte di Israele. Eppure solo negli ultimi 15 anni, fino al settembre 2023, si contavano 6.407 morti tra i palestinesi e 308 tra gli israeliani.
Nel conflitto israelo-palestinese non si può stare con Hamas, organizzazione terroristica la cui leadership violenta è una sciagura per il popolo palestinese, e non si può stare con il governo di Israele la cui violenza militare e militarista è una sciagura per il popolo israeliano: “tra un’ondata e l’altra di violenza, rendiamo la vita impossibile ai cittadini di Gaza e poi ci sorprendiamo quando la situazione esplode”, scrivono sulla loro pagina facebook i veterani di guerra israeliani dell’associazione Breaking the silence. Non si può che stare con le vittime di entrambe le parti, consapevoli che nessuna soluzione del conflitto possa venire dall’aggiungere violenza a violenza: i crimini di guerra non sanano i crimini di terrorismo, ma raddoppiano i crimini e moltiplicano le vittime. L’unica via d’uscita è lo spezzare la catene della violenza, interrompere la sua riproduzione all’infinito.
Che cosa possiamo fare a questo scopo?
Possiamo, in primi luogo, sostenere le componenti pacifiste e nonviolente presenti in entrambe le parti, che le violenze mettono nell’angolo. Così come il movimento Nonviolento italiano sostiene gli obiettori di coscienza e i pacifisti russi e ucraini, vanno sostenuti i costruttori di ponti israeliani e palestinesi, come i giovani refusnik israeliani che rifiutano il servizio militare nei territori occupati e per questo subiscono il carcere; come i movimenti palestinesi che nella Prima Intifada hanno raggiunto con la lotta nonviolenta gli accordi di Oslo tra Rabin (non a caso ucciso da un estremista israeliano) e Arafat: l’unica “vittoria”, per quanto parziale, è stata conquistata con la nonviolenza, ossia con una lotta che attira a se l’empatia e la solidarietà dell’avversario, anziché l’odio. Non a caso in quel periodo fiorirono in Israele le organizzazioni pacifiste Peace Now, Donne in nero, Parent circle.
E poi dobbiamo incalzare le organizzazioni internazionali, dalle Nazioni Unite all’Unione Europea, affinché svolgano il ruolo attivo di mediazione invece di soffiare sul fuoco. Senza doppi standard morali e lessicali. Se, come disse Ursula von der Leyen il 19 ottobre 2022, “Gli attacchi della Russia contro le infrastrutture civili, in particolare l’elettricità, sono crimini di guerra. Privare uomini, donne e bambini di acqua, elettricità e riscaldamento con l’arrivo dell’inverno: questi sono atti di puro terrore. E dobbiamo chiamarlo così.” Allora, un anno dopo, bisogna chiamare “puro terrore” anche quello di Israele contro la popolazione civile della striscia di Gaza, condannandolo, non sostenendolo. Anche perché ogni casa abbattuta a Gaza, ogni strage sotto le macerie, non riduce ma moltiplica il numero dei palestinesi disposti a prendere le armi. Ed è impossibile e incredibile che il governo israeliano non lo comprenda e che nessun governo amico lo suggerisca. Occhio per occhio il mondo diventa cieco, diceva Gandhi.
Invece, in un impazzimento generale, a tutte le latitudini la guerra è tornata ad essere un valore, le spese militari globali a schizzare sempre più in alto un anno dopo l’altro, guerra dopo guerra; politicamente e mediaticamente l’opinione pubblica viene aizzata a schierarsi in una propaganda di guerra continua e martellante, in cui le posizioni pacifiste che provano a indicare la ragionevolezza delle vie d’uscita sono considerate alleate del “nemico”. Siamo dentro, anche e soprattutto nel nostro Paese, ad uno spaventoso arretramento civile e culturale: mentre fino a poco tempo fa si elogiava e diventava punto di riferimento chi
abbandonava la lotta armata e la logica di vendetta, scegliendo strade alternative, da Nelson Mandela a Yasser Arafat, oggi si esalta chi promuove la lotta armata di Stato senza quartiere.
È necessario, dunque, sia costruire strumenti di intervento nei conflitti, prima che degenerino in guerre, in coerenza con l’articolo 11 della Costituzione italiana: mezzi che, ripudiando la guerra, possano svolgere attività di interposizione e riconciliazione tra le parti in conflitto, per esempio i Corpi civili di pace. Sia ricostruire una cultura di pace e di
nonviolenza a tutti i livelli, per cui così com’è condannata senza appello – sempre e comunque – la “soluzione” dei conflitti interpersonali con la violenza, sia condannata senza appello – sempre e comunque – anche la “soluzione” dei conflitti internazionali con la violenza. Perché la guerre non risolvono davvero nessun conflitto, ma lo perpetuano e lo radicalizzano. È l’insegnamento che alla televisione israeliana ha dato, piangendo, Jacob Argamani, papà di Noa una delle ragazze rapite brutalmente da Hamas durante la barbarica incursione al rave ai confini di Gaza: “Facciamo pace con i nostri vicini, in ogni modo possibile. Voglio che ci sia pace; voglio che mia figlia torni. Basta guerre. Anche loro hanno vittime, anche loro hanno prigionieri e madri che piangono. Siamo due popoli per un solo padre. Facciamo una pace vera.” Non ci sono alternative. In Palestina, in Ucraina ed ovunque.

pasqualepugliese.wordpress.com

associazione Movimento noviolento

L’Ucraina come la Corea: una guerra prolungata a oltranza

La guerra continua da oltre un anno e mezzo senza neanche un giorno di tregua. La controffensiva che avrebbe dovuto portare l’Ucraina alla vittoria è iniziata da più di tre mesi, senza produrre nessuno spostamento significativo del fronte. È in corso una orribile guerra di attrito che ci ricorda quella delle prime undici battaglie dell’Isonzo combattute da giugno 1915 a agosto 1917. Battaglie combattute praticamente senza spostamenti significativi del fronte, ma con centinaia di migliaia di morti da entrambe le parti. «La realtà, da un lato e dall’altro, è una guerra di trincea – ha scritto il generale Antonio Li Gobbi su Analisi difesa – che pensavamo fosse relegata con le sue brutture nella nostra preistoria. Combattimenti senza gloria condotti in fetide trincee dove le lacrime si mischiano al sudore, il sangue agli escrementi, il fango ai cadaveri che non possono trovare tempestiva sepoltura». I numeri di questa carneficina, fatti trapelare dal colonnello Douglas Macgregor (cfr Mini, il Fatto quotidiano, 13/9/2023), già consigliere del Pentagono, sono impressionanti. «Valutiamo che gli ucraini abbiano avuto 400 mila morti in combattimento. Nell’ultimo mese di questa presunta controffensiva che avrebbe dovuto spazzare il campo di battaglia, hanno avuto almeno 40.000 morti. Non sappiamo quanti siano i feriti, ma sappiamo che probabilmente tra i 40 e i 50.000 soldati hanno subito amputazioni, che gli ospedali sono pieni».

Gli esperti militari avevano avvertito i responsabili politici che la “vittoria” sul campo dell’Ucraina era un obiettivo impossibile. In particolare, il Capo di Stato maggiore dell’esercito americano, gen. Mark Milley, aveva avvisato: «Né l’Ucraina né la Russia sono in grado di vincere la guerra che, invece, può solo concludersi ad un tavolo negoziale». Le scelte degli Usa e della Nato, invece, puntano ad istigare Zelensky alla guerra ad oltranza. Da ultimo il segretario di Stato Antony Blinken si è recato a Kiev, il 6/7 settembre, portando aiuti per un miliardo di dollari. Gli aiuti statunitensi – ha detto Blinken – consentiranno alla controffensiva ucraina di “acquisire slancio”. L’orientamento degli architetti della politica internazionale dell’Occidente di proseguire la guerra ad oltranza (promettendo a Zelensky una vittoria impossibile) comporta il prolungamento di un massacro senza senso e senza nessuno sbocco, come fu la guerra di Corea, che si concluse con un armistizio lasciando inalterata la linea del fronte, dopo aver provocato quasi tre milioni di morti. L’armistizio, firmato il 27 luglio del 1953, pose fine ai combattimenti ma non allo stato di guerra poiché dopo settant’anni non è stato ancora stipulato un Trattato di pace.

Mentre continua il coro, intonato da politici e mass media sulle note di Biden e Stoltenberg, che invoca la vittoria e promette la continuazione del massacro, nessuna Cancelleria, nessuna forza politica è capace di aprire una finestra sul futuro. Nessuno è in grado di azzardare un progetto per il futuro, anche perché gli eventi che hanno provocato la guerra e che determinano la sua continuazione ad oltranza, annunziano un futuro oscuro del quale è meglio non parlare. È stato uno dei principali interpreti della prima guerra fredda, Henry Kissinger (in un intervista al Corriere della Sera del 28 giugno 2022) ad avvertirci che bisogna guardare come porre fine al conflitto: «Stiamo arrivando a un momento – afferma – in cui bisogna affrontare la questione della fine della guerra in termini di obiettivi politici altrettanto che militari: non si può semplicemente continuare a combattere senza un obiettivo».

Per Kissinger l’unico obiettivo realistico che può garantire la pace è di reintegrare la Russia nell’Europa, non certo spingerla ad est nelle braccia della Cina. Perché questo è il punto centrale del suo ragionamento: va sconfitta l’invasione dell’Ucraina, «non la Russia come Stato e come entità storica». E dunque, quando le armi alla fine taceranno, «la questione del rapporto fra Russia ed Europa andrà presa molto seriamente». Il presupposto, sottolinea Kissinger, è che la Russia è stata parte della storia europea per cinquecento anni, è stata coinvolta in tutte le grandi crisi e «in alcuni dei grandi trionfi della storia europea»: e pertanto «dovrebbe essere la missione della diplomazia occidentale e di quella russa di tornare al corso storico per cui la Russia è parte del sistema europeo. La Russia deve svolgere un ruolo importante».

Senonchè l’obiettivo di reintegrare la Russia nel sistema europeo è diametralmente opposto agli obiettivi perseguiti da una politica che, attraverso l’allargamento ad est della Nato e la svolta russofoba dell’Ucraina dopo il golpe di Maidan, ha identificato la Russia come nuovo nemico da sostituire alla dissolta Unione Sovietica, scavando un solco per dividere per sempre la Russia dal resto dell’Europa. Questo solco adesso si è trasformato in una cortina di ferro fondata sul sangue e sull’odio. Una cortina invalicabile perché alimentata dall’odio generato da 500.000 morti, milioni di profughi e distruzioni incommensurabili.
Il conflitto in corso rischia di essere una guerra costituente su cui si decideranno gli equilibri geopolitici internazionali, la posta in gioco è il futuro del mondo. Un mondo nel quale, alla collaborazione fra le principali potenze posta a base del progetto di pace delle Nazioni Unite, si sostituirebbe la logica della contrapposizione inevitabile e del confronto politico-militare fra l’Occidente collettivo a guida Usa e la Cina, in un crescendo di tensioni e di corsa al riarmo. Questo vale soprattutto per Europa dove – qualora si dovesse giungere ad una tregua di tipo coreano – la guerra proseguirebbe con altri mezzi. Resterebbero in piedi le sanzioni, la separazione economica e l’apartheid nei confronti della società e della cultura russa. Resterebbe in piedi l’accumulo delle minacce militari e la corsa al riarmo, a danno delle spese sociali. Una cappa di terrore e di odio, graverebbe sul continente avvelenando la vita delle nazioni.

Non bisogna rassegnarsi al futuro orribile che il conflitto in corso lascia intravedere. Se è indifferibile un’azione politica per fermare la prosecuzione della guerra, a cominciare dal blocco della fornitura di armi, è altrettanto urgente pensare a come uscire dalla guerra e dalle cause che l’hanno generata.
In realtà è proprio durante la guerra che è più forte l’esigenza di pensare la pace, di delineare un progetto che consenta di superare le cause che hanno provocato la guerra per ristabilire la convivenza pacifica fra le nazioni. Come fecero quei visionari che nel 1941 misero mano al Manifesto di Ventotene. Come ci ha ricordato Pasqualina Napoletano (CRS:Pensare la pace sotto le bombe): «quel gruppo di visionari, riuscì a concepire un progetto capace di andare oltre l’odio, con l’intento di riappacificare popoli e nazioni, responsabili di due Guerre Mondiali. Un progetto coraggioso, che non si fondasse sull’umiliazione e sulla vendetta ma sulla integrazione economica e politica: gli Stati Uniti d’Europa». Quale progetto per la riappacificazione e la convivenza pacifica, o quanto meno per la sicurezza collettiva in Europa abbiamo articolato? Quale progetto abbiamo in mente per prosciugare l’oceano di odio che la guerra ha creato fra due popoli fratelli e ripudiare il conflitto tribale fomentato dai nazionalismi, l’un contro l’altro armati? Se si oscurano le cause che hanno portato alla scoppio del conflitto, ivi compreso il fatto che per oltre 25 anni gli Usa hanno praticato una nuova guerra fredda per umiliare ed isolare la Russia, come si fa a rimediare agli errori commessi per impostare un nuovo criterio di convivenza pacifica?

La visione del futuro può nascere solo da una revisione critica del passato, dal ripudio di una politica orientata a costruire l’ostilità nei rapporti fra le nazioni, a perseguire la “sicurezza” di una parte (la nostra) a danno dell’altra parte, incrementando le minacce militari e l’assedio geopolitico al “nemico”. Bisogna costruire un percorso a ritroso, riprendendo la strada che portò alla Conferenza sulla Sicurezza e cooperazione in Europa, conclusasi nel 1975 con l’Atto finale di Helsinki. I principi della Conferenza, condensati nell’Atto finale sono serviti a favorire la distensione fra i contrapposti blocchi militari in un’epoca in cui erano ancora presenti tutte le insidie della guerra fredda, ed hanno configurato la sicurezza in Europa come sicurezza collettiva fondata sul disarmo. Questi principi sono stati calpestati da una politica che ha privilegiato la contrapposizione al posto della cooperazione, l’emarginazione al posto del dialogo, il riarmo unilaterale al posto del disarmo negoziato, la costruzione dell’ostilità al posto dell’amicizia fra i popoli.

Per prima cosa occorre ripudiare la pretesa di costruire la pace attraverso la “vittoria”, cioè l’umiliazione della Russia e la negazione dei suoi interessi. Questa pretesa esclude ogni possibilità di negoziato, la mediazione non contempla vittorie, ma è, per antonomasia, la conciliazione di interessi geopolitici contrapposti, a cui si deve dare identica legittimità .
Bisogna pensare ad un futuro “disarmato”, in cui la sicurezza per i singoli Stati e per l’Europa nel suo complesso non sia fondata sul riarmo e l’estensione della minaccia militare, bensì sul disarmo negoziato e sulla riduzione della pressione militare. La Nato deve cessare di “abbaiare” ai confini della Russia e l’Ucraina non può essere la lancia della Nato nel costato della Russia. Deve essere restaurata la convivenza pacifica fra i due popoli dell’Ucraina e fra l’Ucraina e la Russia. Il baratro di dolore che la guerra ha scavato fra i due popoli può essere colmato solo col negoziato e non con le armi o la vendetta. Un negoziato sotto l’egida dell’Onu che dia la parola alle popolazioni interessate, perché se le frontiere sono inviolabili, ancora più inviolabili sono gli esseri umani, che non possono essere sacrificati dai loro governi per tracciare i confini con i coltelli.

È questo il momento di definire un progetto che superi non solo il conflitto in armi, ma quel sistema di dominio e di contrapposizione politica e militare che ha generato la guerra e sta distruggendo l’Europa. È il momento di pensare che un altro mondo è possibile e di progettarlo, come fecero quegli intellettuali cattolici che scrissero fra il 18 e il 24 luglio del 1943, prima della caduta del fascismo e nella fase più drammatica della guerra, il “codice dei Camaldoli”, prefigurando un nuovo ordinamento che trovò inveramento, grazie al contributo fecondo di altre culture, nella Costituzione della Repubblica italiana.
Bisogna pensare a come reintegrare la Russia nell’Europa, ad un negoziato che punti a ristabilire il dialogo, il confronto, la fiducia, gli scambi culturali con il popolo russo, in modo che la Russia non sia più avvertita come una minaccia per l’Europa e l’Europa non sia più avvertita come una minaccia per la Russia. Bisogna ripensare all’Europa recuperando l’impostazione originaria dei padri fondatori che hanno messo la costruzione della pace a fondamento del progetto europeo.
Il mondo che verrà sarà orribile se non saremo capaci di ripudiare le scelte che hanno aperto la strada al ritorno della guerra in Europa e nel resto del mondo. Questo è il momento di progettare un altro mondo per non andare tutti all’altro mondo.

L’autore: Il magistrato Domenico Gallo è stato presidente di sezione della Corte di Cassazione. Già senatore della Repubblica, fa parte del comitato esecutivo del Coordinamento per la democrazia costituzionale. Ha scritto il libro Il mondo che verrà (Deltra3edizioni)

 

 

Lo squadrismo e Roberto Saviano

La condanna di un giornalista in un processo per un reato di opinione intentato da una presidente del Consiglio è già, di per sé, qualcosa che profuma di autarchia. Poiché Roberto Saviano è Roberto Saviano qui in Italia ci siamo concessi il lusso di non sottolineare la sproporzione spostando la vicenda sul piano dello scontro politico. Questa sete di vendetta ormai pacificamente normalizzata nel nostro Paese sarà la stessa rabbia impaurita che farà crollare prima o poi questo governo che la alimenta.

Una condanna con attenuanti per “motivi di particolare valore morale” smentisce in toto l’architettura della propaganda. No, non erano offese, anche se oggi qualche stralunato editorialista finge di non averlo capito. Nel discorso di Saviano, anche dentro quel “bastardi” indirizzato al governo, c’è un giudizio politico nei confronti di chi accumula potere attraverso la mendacia strutturale della sua propaganda sulla pelle degli altri. Si tratta di un modo canagliesco di fare politica che lucra sulle sofferenze dei fragili e sulle paure degli altri. È il giudizio di Roberto Saviano ma è anche il giudizio di centinaia di giornalisti, migliaia di attivisti, milioni di italiani.

Il processo comunque ha raggiunto lo scopo. La condanna è simbolica perché come un tetro simbolo campeggia sulle teste di chi da ieri sa che criticare il governo costerà caro: costerà processi, costerà esposizione alla ferocia pubblica. E quando ci si accorgerà che non è una questione “contro Saviano” ma è un metodo sarà sempre troppo tardi.

Buon venerdì. 

Ritratto di Roberto Saviano. Fonte: Di International Journalism Festival from Perugia, Italia – Flickr, CC BY-SA 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=17246727