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Da Napoli all’Europa. La sinistra si riorganizza e riparte dal Sud

La destra è al governo e la sinistra tenta di riorganizzarsi: trovare le tante tessere del puzzle, sparse per il Paese, e ricostruire una visione unitaria e alternativa della società per tentare di riconquistare la fiducia dei settori popolari.
Va in questa direzione l’appuntamento  del 27 ottobre a Napoli della rete Alternativa Comune, che riunisce appunto esperienze della sinistra civica provenienti da diverse parti di Italia. Sindaci, amministratori locali, l’eurodeputato Massimiliano Smeriglio ed anche Mimmo Lucano.
Ne parliamo con Sergio D’Angelo, eletto consigliere comunale tra le fila di Napoli Solidale, che introdurrà l’incontro e sembra essere, a tutti gli effetti, il padrone di casa.

Sergio D’Angelo


Alternativa comune si riunisce a Napoli per lanciare un nuovo progetto per le europee, chi la compone e con quali obiettivi?

La nostra ambizione è quella di diffondere la rete a livello nazionale con un appello rivolto a chi vuole contribuire a un patto eco-sociale per il clima, la democrazia, la pace e l’uguaglianza. La transizione ecologica contiene strutturalmente una forte domanda di giustizia sociale. La formula secondo cui la sinistra deve ripartire dai territori è stata così abusata in questi anni da essere diventata fonte di facile ironia. Noi invece ci stiamo provando davvero a raccordare esperienze della sinistra civica di diverse regioni italiane dal Lazio alla Lombardia, passando per Campania, Sardegna e Liguria. Non è, come afferma qualche voce incomprensibilmente critica a sinistra, la riverniciatura dello stesso edificio con tonalità più verdi. Basti vedere come si moltiplicano a livello internazionale i segnali di resistenza di chi invece vuole difendere le posizioni di rendita di un mondo inquinato e disuguale. La crisi climatica è una crisi epocale capitalistica, non a caso la destra si oppone esplicitamente al cambiamento.

Non è, però, la prima volta che operazioni come questa vengono fuori. Farete una lista alle europee o collaborerete con le altre forze del centrosinistra, come il Pd?

Noi daremo sicuramente un contributo alle prossime elezioni europee e porteremo con forza le nostre esperienze e biografie come patrimonio politico da mettere a disposizione. L’interlocuzione con le forze di sinistra ed ecologiste esistenti è strutturalmente un’ambizione del nostro percorso politico, ma le ambizioni sono un desiderio, un auspicio, un obiettivo dall’esito non necessariamente scontato. Il nuovo corso del Pd con la segreteria Schlein fa parte di questa categoria dell’auspicio, ma sappiamo tutti che il punto di arrivo proprio in questo caso non è per niente certo. Il punto è che i partiti si sono dissolti, anche una forza politica come il Pd che raccoglie mediamente un consenso intorno al 20% non ha un insediamento territoriale all’altezza dell’elettorato che aggrega. E così sul territorio questo consenso è più la sommatoria di reti intorno a questo o a quell’amministratore locale, a un deputato, piuttosto che l’articolazione di una forza politica che fa riferimento a quelle che una volta erano le sezioni e i militanti. Vedremo l’esito di questa transizione, con l’auspicio più sincero che vada nella direzione che noi auspichiamo.

Quale è il rapporto con l’alleanza Verdi Sinistra (Avs), con cui avete di certo dei tratti in comune?

AVS è sicuramente al momento una forza politica più vicina, ma in questo caso la speranza è che sappia andare oltre il rischio di autoreferenzialità di un gruppo dirigente che ha attraversato in questi anni lo scenario politico italiano dando vita a contenitori diversi sul piano formale, ma restando probabilmente sempre troppo simile a sé stesso. Auspichiamo dialogo e apertura.

Appunto, dialogo e apertura. Il gruppo Napoli Solidale continua ad allargare le sue fila, comprendendo ora anche Europa Verde. È a questo tipo di lavoro che faceva riferimento?

Le dico di più, il nostro gruppo nel Consiglio comunale di Napoli si è allargato ulteriormente, con l’ingresso delle due consigliere di Difendi la Città, Flavia Sorrentino e Fiorella Saggese, provenienti entrambe dal Movimento 5 Stelle. Oggi siamo in cinque e insieme ci battiamo contro le disuguaglianze territoriali, per un allargamento delle politiche sociali e per una città più verde con più trasporto pubblico e meno assediata dal traffico.

Crede che ci siano questioni che toccano maggiormente Napoli rispetto ad altre città?

Le questioni che affrontiamo sono questioni in parte comuni alle altre grandi città e in parte segnate da quei dislivelli esistenti fra nord e sud, che inevitabilmente condizionano molti aspetti del vivere quotidiano a Napoli. Si pensi, per esempio, che qui si concentra la maggior parte dei percettori del Reddito di cittadinanza. Di conseguenza, è molto alto anche il numero di quelli che si sono visti privare del beneficio negli ultimi mesi, in seguito alla scelta punitiva e sbagliata del governo Meloni di cancellare la misura. In una città con una forte incidenza del lavoro nero e irregolare, il Reddito aveva assicurato un maggior potere contrattuale ai beneficiari, che oggi si trovano invece di nuovo esposti senza alternative a offerte di lavoro indecenti, quando non illegali, che la stampa e i social continuano a denunciare. Quando parliamo di legalità, dovremmo sempre ricordarci che permettere la permanenza di forme odiose di sfruttamento è anche un assist alle organizzazioni criminali. L’abolizione del Reddito è addirittura un incentivo indiretto a offrire lavori sottopagati, spero che il governo acquisisca consapevolezza di questa dinamica, evitando di scaricare come già sta avvenendo la situazione sui comuni che sono enti più colpiti dal taglio delle risorse.

L’esperienza in Consiglio comunale sta svolgendo un ruolo di aggregazione e raccordo di realtà civiche e politiche simili alla vostra, come abbiamo visto, anche a carattere nazionale. Per quale motivo è stata scelta Napoli?

Napoli è la più grande città del sud, somma perciò le criticità tipiche delle metropoli a quelle di un paese con marcate differenze territoriali che hanno un carattere strutturale, endemico potremmo dire. Non bastano quindi i poteri amministrativi locali per fare tutto quello che bisognerebbe fare. Si pensi per esempio alla questione migratoria, con una quota rivelante di giovani napoletani laureati, la cui formazione è a carico delle famiglie e del territorio, ma che poi vanno a spendere altrove in altri mercati del lavoro le competenze acquisite. È una vicenda che la politica locale può intercettare solo per via tangente, ma senza la possibilità di aggredirla come sarebbe necessario. Fatta questa premessa, si potrebbe fare di più, soprattutto in termini di indirizzo e di visione, ma anche sul piano di un maggiore coinvolgimento dei cittadini nel processo decisionale.

In che senso?

La Giunta restituisce all’esterno una certa idea di impermeabilità, Napoli ha invece bisogno di percorsi partecipativi per determinare una svolta virtuosa e costruire il proprio futuro a partire dalle eccellenze. Ci trova per esempio contrari la scelta del sindaco Manfredi di non nominare un assessore alla Cultura, tenendo per sé la delega. Un capitolo a parte meriterebbe la gestione del boom turistico che, se da un lato porta con sé un introito e dei posti di lavoro, dall’altro non va pensato come monocultura turistica famelica che determina anche gravi conseguenze sulla popolazione residente. L’aumento sempre più insostenibile degli affitti, ma anche dei prezzi dei generi alimentari, sono un esempio classico e mai come stavolta calzante, senza dimenticare i costi per lo smaltimento dei rifiuti, il consumo di suolo, il sovraffollamento e molto altro.

Di certo c’è un tema che in questi giorni, tra il Medio Oriente e l’Europa, non potrete non affrontare: è la guerra. Un tema che nelle scorse settimane ha più volte messo in difficoltà esponenti politici, anche del centrosinistra. Qual è il profilo del dibattito che animerete a riguardo?

Siamo contro la guerra, per principio e come scelta concreta di convivenza pacifica fra i popoli. La guerra in Ucraina ha visto la ricomparsa di un largo conflitto in Europa, dopo la carneficina della ex Jugoslavia. Eventi naturalmente scioccanti perché, quando i fenomeni avvengono vicino a noi, si è indotti inevitabilmente a una reazione più marcata, condizionata dalla breve distanza. Non si riesce, per esempio, a non pensare che i nomi delle città e delle località riportati nei bollettini di guerra sono gli stessi dei luoghi che magari negli anni scorsi abbiamo visitato per turismo, o dove abbiamo visto giocare una partita di una competizione sportiva internazionale.
Poi, proprio la guerra in Ucraina ci ha mostrato le conseguenze sulla nostra vita. Certamente meno cruente di chi vive con le bombe che gli esplodono sopra la testa e il numero di morti da piangere che non smette mai di salire, ma anche noi comuni cittadini abbiamo pagato e paghiamo il prezzo della speculazione, dei costi energetici alle stelle e di una dinamica dei prezzi che ha fortemente indebolito il potere d’acquisto. Il termine speculazione non è casuale, perché c’è chi si sta arricchendo con gli extraprofitti mentre i popoli europei diventano più poveri, con i salari che non tengono il passo dell’inflazione. Una dinamica dagli effetti drammatici in un paese come l’Italia che non solo non fissa un salario minimo fissato per legge, ma anche caratterizzato da livelli salariali fra i più bassi dell’occidente a fronte di un costo della vita aumentato a dismisura.

E la Palestina?

Il fronte che si è aperto in Palestina, che definire nuovo sarebbe astorico, privo di memoria, è in questo scenario un allargamento dei focolai di guerra che potrebbe, in un contesto di crisi capitalistica come quella che stiamo vivendo, preludere a un’escalation dagli esiti del tutto imprevedibili. Il pensiero va naturalmente alle vittime civili di ogni parte, agli innocenti che non decidono la guerra ma ne subiscono le conseguenze.

La lezione dell’economista che rinuncia all’aereo per non inquinare

Non c’è ancora abbastanza consapevolezza della relazione tra velocità degli spostamenti e riscaldamento globale. Le migliaia di aerei e di jet privati che solcano i cieli non fanno che aggravare, giorno dopo giorno, la malattia del clima. È con questa convinzione che Gianluca Grimalda, economista presso l’Institute for the Global Economy di Kiel in Germania, eco-attivista, si è rifiutato di tornare in aereo dalle isole della Papua Nuova Guinea, dove si trovava per studiare gli effetti del cambiamento climatico. Per lui tornare in volo sarebbe stato certamente più confortevole, ma avrebbe contribuito ad aggiungere altre 3,5 tonnellate di CO2 nell’atmosfera. Ha dunque intrapreso il viaggio verso la Germania con navi mercantili, traghetti, treni, autobus, evitando l’aereo, come aveva fatto già all’andata; una lunga traversata, dal Pacifico all’Europa, di 30 mila chilometri, o forse più, da percorrere per mare e per terra. E rischia pure il licenziamento per avere disatteso alla perentoria richiesta del direttore del suo istituto di rientrare immediatamente in sede (l’11 ottobre è stato licenziato ndr). Sui media, la notizia è stata derubricata come una curiosità, il comportamento eccentrico e stravagante di un ambientalista.

La vicenda ci parla invece della preoccupante sottovalutazione dei governi nei riguardi del problema ambientale ed evidenzia un grave deficit politico che, in verità, investe anche le questioni più rilevanti del nostro tempo: le guerre, la crisi energetica, il dramma dei migranti, le crescenti diseguaglianze. Si deve a questo deficit e ad élites sempre più chiuse a difesa dei loro patrimoni e privilegi, la ricomparsa di nuove forme di nazionalismo e di fascismo, di razzismo, di apartheid, di sopraffazione di interi popoli. D’altronde, anche la diffusione di forme di lotta, individuali e collettive, radicali ma scollegate tra di loro, trova la sua ragione nel disorientamento e nella debolezza di una sinistra che ha perso le sue coordinate culturali e politiche e pare navigare a vista.

La disobbedienza civile di Gianluca Grimalda mostra un disagio crescente verso la pretesa di aziende ed enti privati di organizzare, fin nei minimi dettagli, il lavoro e la vita delle persone. Il rispetto dell’orario di lavoro, la puntualità, il prodotto realizzato nel minor tempo possibile, costituiscono modalità di comportamento dettate dal mito dell’efficienza, del business, della crescita, costi quel che costi. Grimalda rompe con regole codificate, considerate “naturali” per il buon funzionamento aziendale, riafferma il valore della dignità e dell’autonomia personale, apre una crepa nel modo (prevalente) di concepire il lavoro, rappresenta un esempio per i tanti/e, sempre più numerosi/e, che manifestano malessere e in-sofferenza rispetto a rapporti di lavoro diventati gabbie soffocanti. Da che cosa nasce questo dis-adattamento al lavoro? Marx si sofferma molto sulla distinzione tra «lavoro utile», concreto, che produce valori d’uso (cose, oggetti), e «lavoro astratto», che produce valori di scambio (merci). Con la rivoluzione industriale il primo soccombe davanti al secondo. L’astrazione del lavoro è data dalla separazione (estraneazione) del lavoratore dal prodotto del suo lavoro e dall’insieme del processo produttivo.

«L’oggetto che il lavoro produce, il prodotto del lavoro, si contrappone a esso come un essere estraneo, come una potenza indipendente da colui che la produce». (Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi, 2004, p. 67). Quello che interessa all’imprenditore non è l’utilità dei prodotti ma il suo valore, che è determinato dai tempi di lavorazione e dalla quantità di oggetti scambiati sul mercato. È il tempo di lavoro a dare la misura e il valore delle cose, non le particolari abilità o specifiche competenze dei lavoratori. La quantità prevale sulla qualità. «Il mulino a braccia vi darà la società col signore feudale, e il mulino a vapore la società col capitalista industriale […]Vi è un continuo movimento di accrescimento nelle forze produttive, di distruzione nei rapporti sociali, di formazione nelle idee; di immutabile non vi è che l’astrazione del movimento: mors immortalis». (Marx, Manoscritti, cit., 2004, p.94).

Non è stato sempre così. Nelle società precapitalistiche, in cui dominava il lavoro utile, il tempo seguiva il ritmo delle stagioni e della vita. La durata del lavoro era determinata dai tempi del raccolto, della semina, del pascolo degli animali, della manifattura artigianale. La giornata si allungava o si accorciava in base alle esigenze e alle specificità del lavoro da svolgere. Non c’era la netta separazione tra tempo di lavoro e tempo di vita tipica dei nostri giorni. La vita dell’uomo si svolgeva in uno scambio continuo con la natura. «Il lavoro [nelle società precapitalistiche] è un processo che avviene tra l’uomo e la natura, in cui l’uomo media, regola e controlla con la sua azione il ricambio organico tra sé e la natura». (Marx, Il Capitale, Newton Compton, 1997, p. 146).

Con la transizione dal feudalesimo al capitalismo si verifica una «grande frattura» nel rapporto tra l’uomo e il suo ambiente naturale e avviene una profonda riorganizzazione di tutta l’attività umana. Per Marx il passaggio dal lavoro concreto al lavoro astratto, è il punto d’avvio del capitalismo. «Venne infine un tempo in cui tutto ciò che gli uomini avevano considerato inalienabile divenne oggetto di scambio, di traffico, e poteva essere alienato; il tempo in cui quelle stesse cose che fino allora erano state comunicate ma mai barattate, donate ma mai vendute, acquisite ma mai acquistate – virtù, amore, opinione, scienza, coscienza, ecc. – tutto divenne commercio. È il tempo della corruzione generale […] o, per parlare in termini di economia politica, il tempo in cui ogni realtà, morale e fisica, divenuta valore venale, viene portata al mercato per essere apprezzata al suo giusto valore». (Marx, Miseria della filosofia, Editori Riuniti, 1973, p. 31). Il lavoro astratto prende il sopravvento sul lavoro utile e modella le relazioni sociali, la visione del mondo, i modi di vivere e di pensare. «Gli uomini scompaiono davanti al lavoro, il bilanciere della pendola è divenuto la misura esatta dell’attività lavorativa di due operai, come lo è della velocità di due locomotive. Per cui non si deve più dire che un’ora di un uomo vale un’ora di un altro uomo, ma piuttosto che un uomo di un’ora vale un altro uomo di un’ora. Il tempo è tutto, l’uomo non è più niente; è tutt’al più l’incarnazione del tempo. Non vi è più questione di qualità. La quantità sola decide di tutto: ora contro ora, giornata contro giornata». (Marx, Manoscritti, cit., p. 48).

Il dominio del capitale si afferma nei rapporti di lavoro, nell’economia e nella società attraverso un processo continuo di espropriazione e ogni cosa viene trasformata in merce: il lavoro, il mondo fisico e animale, il corpo e la mente degli uomini.
Nella società del lavoro astratto comanda l’orologio. Fin dalla loro scoperta, gli orologi non si limitano a misurare il tempo che passa, ma diventano strumenti di controllo dei lavoratori, prima nelle campagne e poi nella fabbrica. Il padrone non tollera perdite di tempo, il tic-tac dell’orologio avverte tutti che «il tempo è denaro». Con l’orologio il tempo diventa un continuum omogeneo e uniforme. Le lancette dell’orologio girano e rigirano su sé stesse: oggi è uguale a ieri, domani è uguale a ieri e a oggi. È uno schema che contempla la continuità ma non il cambiamento. La scoperta dell’orologio, non a caso, coincide con l’affermazione del lavoro astratto. È il lavoro astratto che produce il tempo astratto. L’uno è inseparabile dall’altro e il tempo dell’orologio è lì a ricordarci che «è così e basta». Il tempo orario, scrive John Holloway, «è il tempo di un mondo che non controlliamo, un mondo che non risponde alle nostre passioni […]È un tempo fuori di noi, un tempo che corre avanti su binari prefissati […] è un tempo reale ma non è il nostro tempo, non è la nostra storia». (J. Holloway, Crack Capitalism, 2012, Derive Approdi, p.146). Ora con gli algoritmi – con l’uso della potenza di calcolo e dell’intelligenza artificiale (AI) nella gestione aziendale – il controllo sull’attività lavorativa e sulla vita delle persone compie un ulteriore salto di qualità, è destinato a diventare ancora più stringente e alienante.

Gianluca Grimalda non è un moderno Don Chisciotte, non vive fuori dalla realtà, è piuttosto un lavoratore che rifiuta la logica del comando e del calcolo economico, semplicemente non accetta regole e consuetudini consolidate. Il suo gesto di protesta ci segnala un fatto importante, un conflitto che si riaccende nel lavoro: i tempi e i modi del lavoro astratto sono diversi da quelli del lavoro utile. Riemerge il «carattere duplice del lavoro» (Marx) come chiave di un cambiamento possibile. Oggi le forme di sfruttamento si sono moltiplicate, anche in ragione del fatto che i confini del lavoro astratto si sono allargati ben oltre la classe operaia e tendono a includere la totalità delle relazioni sociali. La dominazione capitalista non attiene solo alla proprietà e al controllo dei mezzi di produzione e del sistema finanziario, ma coinvolge tutti gli aspetti della nostra vita e condiziona, in termini distruttivi, i rapporti con la natura e con l’ambiente.

Il lavoro utile, poco considerato, subalterno, ridotto ai margini, può riacquistare, in questo contesto, un nuovo significato come riappropriazione del fattore umano e sociale nei rapporti di lavoro. Può riacquistare terreno estendendo la conflittualità dentro il lavoro ovvero contro tutto ciò che, nei rapporti di lavoro, ostacola la valorizzazione dell’intelligenza, della creatività, delle competenze, delle inclinazioni e dei desideri individuali. La riscossa del lavoro utile contro il lavoro astratto è d’altronde coerente con una visione della rivoluzione da costruire passo dopo passo, attraverso l’azione individuale e collettiva, nelle piazze e nelle istituzioni. La storia ci insegna che non basta la «presa del potere» per realizzare il socialismo. Il cambiamento reale richiede un processo, paziente e difficile, di «liberazione del lavoro dalle sue catene». Inoltre, i problemi che abbiamo di fronte, nella loro complessità e drammaticità, non possono ridursi all’ora X, ma richiedono riforme in grado di abbattere i muri e gli steccati alzati a difesa del sistema. La rivoluzione, in questo senso, si presenta come un lungo viaggio, con i suoi tempi, le sue tappe, le soste e le accelerazioni. Il contrario di un’attesa messianica, sapendo che il capitalismo è un «movimento storico», non è eterno e immutabile come vorrebbero farci credere i suoi apologeti.

Nella foto: Gianluca Grimalda durante il suo viaggio di ritorno dalle isole Papua Nuova Guinea (dal profilo twitter di G.Grimalda)

“Big Pharma”? Un altro ramo della propaganda è caduto

Da quando si è insediato il governo Meloni si vanta di essere contro “i poteri forti”, dopo un anno di governo resta da capire quali siano i “forti” a cui si riferiscono. Di sicuro non è più considerato un pericoloso potere forte Big Pharma, le aziende farmaceutiche che in piena pandemia erano state messe nel mirino dall’attuale presidente del Consiglio e dal suo alleato in propaganda Matteo Salvini. 

In quei tempi “Big Pharma” era presentata come il condensato dei sospetti, del lucro sporco e di sinistri complotti. Oggi all’interno della bozza della manovra l’industria farmaceutica invece gode dell’innalzamento del tetto di spesa per gli acquisti farmaceutici delle Regioni scritto nell’articolo 44 della bozza della legge di bilancio che regala alle aziende un sostanzioso taglio ai loro versamenti allo Stato calcolati in base al cosiddetto payback.

Come spiega Andrea Capocci su Il manifesto da anni i lobbisti premono affinché il rimborso sia abolito o ammorbidito. “Draghi era andato incontro alle loro richieste prevedendo un aumento del tetto fino all’8,3% nel 2024. Meloni ha fatto ancora di più per Farmindustria portando il tetto all’8,6%, circa 11 miliardi di euro. Risultato: secondo gli analisti il payback delle aziende sarà quasi dimezzato. Oltre a far risparmiare centinaia di milioni alle imprese, l’aumento della spesa per i farmaci sottrarrà risorse preziose alla sanità pubblica già penalizzata dalla manovra”. In più, per coprire la maggiore spesa ospedaliera il governo ha tagliato il budget per il rimborso dei farmaci venduti in farmacia.

E un altro ramo della propaganda è stato tagliato. 

Buon mercoledì. 

Argentina al ballottaggio. Il camaleontico Massa sfida il trumpiano Milei

L’immortale peronismo contro il turbocapitalismo trumpiano. Il ministro dell’Economia, Sergio Massa, contro l’outsider, Javier Milei. Due visioni di mondo opposte sono state le più votate alle elezioni presidenziali che si sono tenute in Argentina il 22 ottobre. A dispetto dei principali sondaggi che davano “el loco” Milei avanti, Sergio Massa, con la sua coalizione “progressista”, Unión por la Patria, ha ottenuto il 36,7%, staccando di 7 punti percentuali il suo avversario alla guida della coalizione di estrema destra, La Libertad Avanza e ribaltando l’esito delle primarie dello scorso 13 agosto. Sullo sfondo la candidata di centrodestra di Juntos por el Cambio, Patricia Bullrich, che si attesta al terzo posto con il 24%, con la possibilità di fungere da ago della bilancia il 19 novembre, quando gli argentini si recheranno alle urne per il secondo turno. E questa è parsa subito una consapevolezza condivisa dai due leader in corsa per la Casa Rosada. Infatti, nei primi commenti a caldo entrambi hanno voluto rivolgere dei messaggi a quel bacino elettorale moderato che vale 6.267.152 voti. Se da un lato Massa ha sottolineato la volontà di formare «un governo di unità nazionale composto dai migliori, al di là della loro parte politica», Milei si è diretto chiaramente al popolo moderato, chiedendo di unirsi «contro il Kirchnerismo», auspicando di «lavorare insieme per mettere fine alla casta».

La motosega e il pancake: due visioni a confronto

In un contesto politico e sociale totalmente polarizzato e una crisi economica stagnante, con un’inflazione al 138% e un tasso di povertà che ha raggiunto il 40%, la campagna elettorale è stata intensa e senza esclusione di colpi. Non c’è dubbio che il candidato che ha lasciato il segno in queste presidenziali è stato Javier Milei. Un mix tra Trump e Bolsonaro in salsa argentina o, a tratti, anche qualche populista della destra europea, “El loco” ha subito catturato l’attenzione di gran parte del popolo argentino e dell’opinione pubblica internazionale. Economista e opinionista politico in tv, Milei si è definito anarco-capitalista. In realtà, ascoltando le sue uscite infelici e osservando il suo modus operandi spregiudicato, è un tipico neo-populista/neo-liberista di estrema destra che si presenta come il nuovo, l’anti-casta, ma che in realtà si muove da anni all’interno di quel sistema di potere che egli stesso vuole scardinare. Come rappresentazione plastica del suo messaggio elettorale appare nei comizi elettorali brandendo una motosega – come a Mar del Plata il 12 settembre – a simboleggiare le sue promesse di tagliare la spesa pubblica, eliminare i sussidi pubblici, abolire ministeri, chiudere la Banca centrale argentina contemporaneamente convertire al dollaro il sistema economico e, addirittura, rompere le relazioni con il Mercosur e la Santa Sede (con il papa non corre buon sangue). Insomma, «rompere con lo status quo». Altrettanto folli sono le sue dichiarazioni xenofobe, razziste, contro l’aborto, mortificando le vittorie, ottenute anche a costo della vita, di attivisti e attiviste dei movimenti femministi, lgbtqia+ e dei popoli originari. Ma forse, ancor più gravi, sono state le sue frasi negazioniste durante l’ultimo dibattito tra i candidati presidenziali, in cui ha sostenuto che «non erano 30mila desaparecidos, ma 8.753», e qualificato semplicemente come «eccesso» i crimini contro l’umanità perpetrati dall’infame giunta militare tra la seconda metà degli anni Settanta e i primi anni Ottanta. Sentenze azzardate rispetto a una stagione torbida guidata dai quei «Gorillas» che hanno aperto una ferita profonda all’interno del paese latinoamericano, non del tutto rimarginata. Difficile affermarlo con certezza, ma probabilmente hanno inciso negativamente su Milei a fine corsa elettorale.

Va detto che se in un primo momento le sue posizioni estremiste hanno spinto molti elettori, forse per disaffezione nei confronti della classe dirigente, a renderlo il candidato più eletto alle primarie, durante le battute finali della campagna elettorale, ha generato paura e incertezza. Il dato è che Massa, rispetto alle primarie, è riuscito a recuperare e a ribaltare i sondaggi. Bisognerà capire, più avanti, come il ministro in carica dell’Economia di un Paese con un’inflazione del 138,3%, le riserve della Banca centrale ai minimi termini e una moneta in costante svalutazione, sia riuscito a ottenere una vittoria inaspettata e lanciarsi da favorito verso il secondo turno del 19 novembre. Probabilmente la risposta è nel peronismo che, nonostante le metamorfosi, trascende dal contesto politico attuale e riesce sempre ad avere presa sull’immaginario collettivo della società argentina. Ma a proposito di metamorfosi, vale la pena conoscere il candidato di Unión por la Patria e capire perché viene chiamato negli ambienti politici «el panqueque», il pancake. Avvocato di professione e considerato un politico centrista all’interno del peronismo, Massa è un politico camaleontico che negli ultimi anni ha assunto posizioni diverse nei confronti del kirchnerismo. Capo di gabinetto della «Presidenta» tra il 2007 e il 2008; nel 2015 appoggia la candidatura della coalizione di centrodestra guidata da Macri (risultato vincente); nel 2018 dichiara «Cristina Kirchner dovrebbe essere in prigione». Sia nel 2019 che per queste elezioni ha siglato un accordo di coalizione proprio con lei. Un tira e molla con la Kirchner che gli è valso il soprannome di pancake, volta faccia. Durante la sua permanenza nel dicastero dell’economia, Massa ha visto accrescere la sua popolarità. Secondo l’opinione di più di un analista, il suo recente successo non solo è dovuto ad un programma dove vengono messi al centro i lavoratori e il sistema del welfare e di godere dello zoccolo duro peronista ma anche al suo «Plan Platita», cioè una serie di aiuti e benefici annunciati da Massa nelle ultime settimane per alleviare gli effetti dell’inflazione e della svalutazione monetaria e migliorare le sue possibilità elettorali. Tra gli altri, l’eliminazione dell’imposta sul reddito per quasi due milioni di lavoratori o il rimborso totale dell’IVA sugli acquisti alimentari effettuati con carta di credito fino alla fine dell’anno.

Analisi di una vittoria

Risulta convincente l’analisi della testata moderata Perfil secondo cui «Massa ha saputo incanalare il voto di paura di una società che guardava con timore al discorso di Javier Milei, un cambiamento radicale che genera adesione tra milioni di argentini, ma anche panico, per ciò che implica un salto nel vuoto». Ma come avverte il quotidiano di sinistra Pagina 12, la «vittoria della paura sulla rabbia, non può essere l’unico fattore» per spiegare il successo di Massa. Il merito del candidato, per il momento, è quello di aver saputo far convergere sulla sua figura quasi tutte le forze del progressismo argentino. Ma non basterà il 19 novembre.
Dunque, si apre (quasi) un mese di campagna elettorale in cui Sergio Massa dovrà essere in grado di convincere la sinistra che si è presentata da sola alle elezioni (che rappresenta il 2,7% dei voti), ma soprattutto quel centro che aveva deciso di appoggiare la coalizione Juntos por el Cambio, come la Union Civica Radical (quella di Raul Alfonsin, primo Presidente democratico dell’Argentina post-dittatura). Non è un caso, infatti, che in queste ore frenetiche siano in corso delle trattative con esponenti del radicalismo più vicini alle posizioni della coalizione progressista e che temono il salto nel vuoto rappresentato dal «loco» Javier Milei.

I temi di cui non parla quasi nessuno

Se avessimo voglia di sganciarci per qualche ora dal vittimismo del governo e dalle beghe sentimentali di uno dei milioni di Giambruno che si incontrano sui luoghi di lavoro italiani ci si potrebbe accorgere che i problemi dell’Italia sono l’esatto opposto della propaganda che ormai beviamo assuefatti da mesi.

Si potrebbe, tanto per cominciare, riflettere sul drammatico dato comunicato qualche giorno fa dall’Istituto statistico dell’Unione europea (Eurostat) in cui si legge che l’Italia è l’unico fra i grandi Paesi europei (Francia, Germania e Spagna) in cui la quota di famiglie che riporta almeno qualche difficoltà a far quadrare i conti nel 2022 è sopra il 63%. Una percentuale così ampia indica una situazione sistemica e diffusa che non può essere scrollata come indolenza diffusa di gente che non ha voglia di lavorare.

Si potrebbe continuare con quei 600mila italiani che negli ultimi vent’anni hanno deciso di emigrare dall’Italia senza tornarci più. Gente regalata al Regno Unito, alla Germania, alla Svizzera, alla Francia, agli Stati Uniti e alla Spagna perché qui non riusciva più a immaginare un futuro lavorativo. Non sono solo i “cervelli in fuga” su cui si lambiccano taluni, lì in mezzo ci sono anche ragazze e ragazzi che lasciano l’Italia per svolgere lavori poco qualificati, ad esempio nella ristorazione, nell’accoglienza, nel lavoro agricolo, come spiega Lorenzo Ruffino sul sito di Pagella politica.

Sono solo due della decina di temi che da noi vengono dati per persi, irrimediabili, buoni solo per qualche articolo di tanto in tanto. Solo che per raccontare il Paese bisognerebbe conoscerlo.

Buon martedì.

Anche un anno dopo un’unica strategia: il vittimismo

Viene difficile pensare che gli strateghi e i dirigenti di Fratelli d’Italia ritengano percorribile anche dopo un anno di governo la solita strategia: il vittimismo. Già l’idea di “festeggiare” i dodici mesi di governo si inserisce perfettamente nella rappresentazione di “reduci” che il partito della presidente del Consiglio Giorgia Meloni insiste nel dare alla sua compagine. È tutta una manfrina di “nonostante”, come se ogni giorno in già a Palazzo Chigi sia figlio di un’epica battaglia che solo dalle parti di Fratelli d’Italia riescono a intravedere. 

Così accade che l’assenza di Giorgia Meloni alla sua festa di partito per questioni strettamente personali diventi l’occasione per attaccare all’opposizione (sarebbe meglio dire: per opporsi all’opposizione) seguendo lo solito schema: usare un fatto privato per martellare gli avversari e se gli avversari rispondono accusarli di utilizzare il privato in politica. Anche la sorella della presidente del Consiglio, Arianna Meloni, che attacca i giornalisti non graditi è una scena facile da prevedere: da quelle parti le voci non allineate rientrano di fretta tra gli ostili da delegittimare e da abbattere, che siano giornalisti o magistrati o cantanti o scrittori.

L’anima della festa è “siamo ancora qui”, come in un malinconico ritrovo degli ultimi giapponesi che si sentono in guerra quando la guerra è terminata da un bel po’. La capa del governo ci dice di avere dimostrato “che si potevano raggiungere risultati inimmaginabili e fare cose straordinarie senza dover essere meschini o dover prendere scorciatoie o fare cose impresentabili o dover compiacere persone impresentabili”. L’analisi però non è sui risultati ma tutta sui “meschini” immaginari. 

Buon lunedì. 

Gli “amichevoli” (con gli evasori)

Di fronte a una platea di commercialisti riuniti al Lingotto di Torino il viceministro dell’Economia Maurizio Leo ha strappato applausi alla platea con il grimaldello più facile della politica fiscale: «le sanzioni vanno ridotte», ha dichiarato Leo, come racconta Diego Longhin su Repubblica in edicola oggi. 

Leo ha promesso due «decreti per la revisione dello Statuto del contribuente e per la revisione degli adempimenti e dei versamenti» per «adeguare le sanzioni alla media Ue» ma soprattutto il viceministro l’ha detto chiaro e tondo: «sulla lotta all’evasione occorre cambiare verso o saremo sempre al solito punto di partenza visto che il tax gap oscilla tra 80 e 100 miliardi. Cambiamo rotta, anche perché fino ad ora non è stato fatto nulla. Ora proviamo con la politica del dialogo».

Quindi il governo che si inalbera quando viene definito “amico degli evasori” dichiara apertamente di voler utilizzare con gli evasori un approccio amicale. Non male.

Sia chiaro: ogni governo ha il legittimo diritto di applicare le modalità che ritiene più opportune. È stato votato proprio per quello. A noi da fuori però rimane il diritto di sottolineare almeno un paio di cose: la prima è che la schizofrenia di voler apparire “sceriffi con l’evasione” mentre regolarmente si favoriscono gli evasori è una contraddizione che non funziona e non funzionerà; poi c’è quella vecchia regola delle opportunità secondo cui ogni governo decide nei paraggi della Legge di Bilancio dove prendere i soldi e soprattutto dove non prenderli.

Varrebbe la pena almeno assumersi le proprie responsabilità. 

Buon venerdì. 

Nella foto: il viceministro dell’Economia e finanze Maurizio Leo durante l’incontro governo-sindacati per la riforma fiscale, 14 marzo 2023 (governo.it)

La destra sociale è una invenzione. Questa manovra lo dimostra

La legge di bilancio è stata presentata in conferenza stampa dalla presidente del Consiglio senza dati e numeri certi, con molte affermazioni propagandistiche e materialmente infondate. Su 24 miliardi quasi 16 sono in deficit, quindi coperti con un debito dal costo non facilmente prevedibile. Altri 2 miliardi dovrebbero provenire da una spending review e altri 2 da una global minimum tax. Le stesse misure, al netto degli effetti e del segno politico e sociale regressivo, sono valide solo per un anno. Il taglio del cuneo fiscale, l’accorpamento delle aliquote e gli sgravi sulle assunzioni sono finanziati in deficit. Tale finanziamento in deficit per il 2024 è consentito a condizione che nel 2025 il rapporto deficit/Pil scenda al 3,6% e il debito si stabilizzi al 140%: due parametri che per essere raggiunti prevedono il mancato rinnovo, per il 2025, proprio del taglio del cuneo, degli accorpamenti e degli sgravi previsti per il 2024.
Le stesse stima sulla crescita del Pil, seppur ridimensionate, sono assolutamente infondate e disallineate con quelle della totalità degli istituti di ricerca: un +1,2% oggettivamente sovrastimato rispetto all’andamento reale della nostra economia.
Sul quadro d’insieme la Cgil e la Uil hanno dato un duro giudizio negativo sul merito e si vedranno per concordare iniziative di lotta e di mobilitazione fino allo sciopero generale da effettuare nell’arco temporale di discussione parlamentare della legge, che non prevede possibilità da parte delle forze di opposizione e della stessa maggioranza di produrre modificazioni significative. Riteniamo utile soffermarci sul quadro d’insieme definito dal documento preparatorio.
A settembre 2023 è stata approvata dal consiglio dei Ministri la Nota di aggiornamento al documento di economia e finanza (Nadef). L’economia italiana, dopo la frenata del secondo trimestre, sarà debole anche nel terzo e quarto: insieme all’industria e alle costruzioni stanno frenando anche i servizi; e – dal lato della domanda – continua a scendere quella interna mentre l’export flette ormai da tempo.
Si prefigura e si afferma esplicitamente come scelta politica del governo un contenimento brutale della spesa pubblica sia in rapporto al Pil che in termini reali. Non adeguandola all’inflazione, infatti, la spesa pubblica si ridurrà in media del 10% nel triennio, a partire da sanità e istruzione: niente risorse necessarie per i rinnovi dei contratti pubblici 2022/2024, per le assunzioni e le stabilizzazioni/reinternalizzazioni. Vengono riproposte le privatizzazioni (svendita di quote delle partecipate pubbliche): 22 miliardi nel triennio. Una manovra dunque all’insegna dell’austerità per rassicurare i mercati, in netto contrasto col bisogno di protezione sociale e di ritorno dello Stato nella vita e nell’economia che si stava affermando nella fase pandemica con le politiche del Governo Conte II. La stessa decontribuzione – un terreno che, seppur richiesto dalle organizzazioni sindacali, resta oggettivamente discutibile e scivoloso – viene portata avanti, esplicitamente, in una logica di contenimento e moderazione salariale – a sostegno più delle imprese che dei lavoratori – come alternativa e freno ai rinnovi contrattuali, per contrastare una inesistente spirale prezzi/salari.
Ma il punto politico e di riflessione generale che vogliamo riprendere e rilanciare è quali effetti, da parte dello stesso Governo, sono previsti sul piano della crescita come risultante della manovra – tralasciando il tema delle diseguaglianze sociali e territoriali.
Le previsioni per il prossimo triennio appaiono allo stesso tempo molto modeste e comunque molto ottimistiche.
L’azione economica è pressoché irrilevante secondo lo stesso governo, come emerge chiaramente dalla differenza minima (+0,2) tra il quadro tendenziale (+1,0%) e quello programmatico (+1,2%) che include gli effetti delle misure di politica economica. Tra tali misure, la più importante è la proroga di un anno della decontribuzione, che dovrebbe ammontare attorno ai 10 miliardi di euro. L’effetto di questo provvedimento temporaneo è da ritenersi inoltre sovrastimato. Si tratta, infatti, della conferma di una misura già vigente da quasi due anni – per cui l’effetto sulla domanda è calcolato come assenza di riduzione della domanda – e che, quindi, non può più creare ulteriori aspettative né espansione dei consumi. Se si analizza il contributo delle azioni programmatiche alla crescita nel triennio, è possibile rilevare che esse sono del tutto neutrali rispetto alle esportazioni e alle scorte, mentre apporterebbero una crescita dello 0,2% della domanda interna nel 2024, dello 0,1% nel 2025 e una riduzione della domanda interna nel 2026. Nei fatti, tutte le azioni del Governo, tutto l’extra deficit e tutta la manovra puntano ad un obiettivo molto modesto, ovvero un lieve incremento di domanda, in massima parte dal lato dei consumi, attraverso una riduzione delle imposte. Non è tuttavia una scelta e una impostazione caratterizzante solo questo governo: nel corso degli anni la finanza pubblica ha progressivamente perso la sua funzione di strumento di governo dei fenomeni economici. I presunti margini sempre più stretti e la scelta costante dei governi anche e soprattutto con la presenza del Partito democratico (incentivata anche dai patti europei, assunti come vincolo esterno non negoziabile e legittimante) di puntare sulla riduzione della pressione fiscale e della spesa pubblica hanno determinato una progressiva marginalizzazione del ruolo pubblico nel governo dell’economia. Questo è dimostrato, analizzando i documenti di Bilancio dell’ultimo decennio, dallo scarto sempre più basso tra scenario tendenziale e programmatico.
La finanza pubblica con il passare degli anni è passata da strumento di governo dei fenomeni economici a un esercizio ragionieristico che assicura l’indipendenza del mercato. La discussione politica è incentrata solamente sulle tasse e le imposte, sempre da ridurre. Forse che l’astensionismo selettivo nei confronti del voto risieda proprio in questo fatto strutturale? Che le scelte della “politica” non cambiano le condizioni materiali della “classe più numerosa e più povera”?
I grandi assenti nella proposta del governo e per troppo tempo nell’iniziativa della sinistra sindacale e politica sono i salari e il recupero del potere d’acquisto perso dagli anni Novanta ad oggi. Il governo – pur dovendo riconoscere la significativa erosione dei salari reali dovuta ad un’inflazione elevata e persistente – affida poi il loro recupero alla sola decontribuzione prevista per il 2024 e al presunto contenimento dei prezzi al consumo conseguente ad iniziative inconsistenti quali il “carrello tricolore” o la prescrizione, nelle stazioni di rifornimento, dei cartelli coi prezzi medi dei carburanti. Questo approccio – che punta a contenere una fantomatica “spirale prezzi-salari” – appare del tutto inaccettabile proprio perché l’attuale crescita dell’inflazione non è determinata da alcun aumento né della domanda né dei salari. La crisi inflattiva è infatti tutta imputabile alla speculazione finanziaria e da un comportamento opportunistico da parte del sistema delle imprese che non solo ha sistematicamente scaricato a valle l’aumento dei costi di produzione ma, contemporaneamente, ha colto l’occasione per aumentare anche i margini di profitto. Questa dinamica speculativa è esplicitamente riconosciuta dallo stesso Governo nella Nadefs- a p. 40, infatti, si evidenzia come, nel nostro Paese, la natura dell’inflazione sia in gran parte da profitti -: «Durante il 2022, il deflattore del valore aggiunto ha accelerato al 3,0 per cento e i profitti hanno contribuito mediamente in misura maggiore alla sua variazione, rappresentando più del 60 per cento dell’aumento complessivo. Ciò riflette la tendenza dei margini di profitto, in quel periodo, a rafforzare le pressioni interne sui prezzi, contribuendo attivamente all’inflazione».
Il quadro descrive come – dopo una iniziale internalizzazione dei rialzi nel 2021 e un suo scarico sui prezzi nel 2022 – il sistema delle imprese abbia «rivisto le proprie aspettative, modificando le strategie di prezzo per tutelarsi da possibili ulteriori forti aumenti dei prezzi degli input». In pratica: nel corso del 2023 le imprese avrebbero incrementato i prezzi anche oltre l’incremento degli input per ammortizzare preventivamente i possibili rialzi futuri.
L’Italia è il Paese – tra le maggiori economie dell’Eurozona – con la quota dei salari sul PIL più contenuta. Essa è pari al 52,7% del PIL nel 2022, mentre il livello medio dell’Eurozona è pari al 55,8%. Sempre nel 2022, il reddito da lavoro dipendente sul PIL è pari al 58,7% in Francia, al 57,3% in Germania e al 54,4% in Spagna. Sarebbe dunque indispensabile una politica che puntasse ad un riequilibrio di tale quota, che non può essere perseguito per via fiscale come il taglio del cuneo, utilizzando quindi le risorse pubbliche, ma attraverso una più equa distribuzione primaria del reddito che porti la quota dei salari italiani alla media delle altre principali economie europee.
È questa l’unica strada per battere nella società il consenso alla destra di governo, ancora capace di apparire “sociale” per le politiche di austerità condivise e propugnate anche da schieramenti politici sedicenti alternativi, con la lodevole eccezione del Conte II, significativamente fatto cadere da Matteo Renzi da mandanti ben più robusti e significativi.
È la strada Maestra, che la Cgil e la Uil assieme stanno decidendo di percorrere: non lasciamole sole nella lotta e nelle mobilitazioni.

 

L’autore: Maurizio Brotini, Ufficio di programma Cgil Toscana e Assemblea nazionale Cgil

La foto di apertura è di Renato Ferrantini, scattata alla manifestazione della Cgil la via maestra a Roma il 7 ottobre 2023

Non va bene neanche Pertini

illustrazione di Fabio Magnasciutti

Infastiditi perfino da Sandro Pertini. Martedì il consiglio comunale di Lucca ha deciso di respingere una normale mozione per intitolare una strada o una piazza all’ex presidente della Repubblica, primo socialista salito al Quirinale e leader della Resistenza al fascismo. 

17 voti contrari e 12 a favore. L’assessore di Lucca Fabio Barsanti, ex leader di Casapound con cui la destra va serenamente a braccetto mentre rilascia patenti di antisemitismo, ha provato a silenziare l’opposizione. il Pd locale parla di motto fascista “A noi!” da parte del capogruppo di FdI Lido Fava e di “spiegazioni fuori dell’emiciclo ‘che no, a Lucca una strada ad uno che è stato partigiano non la si può proprio dedicare’”, col richiamo quindi al “silenzio imbarazzante del sindaco” Mario Pardini.

La giustificazione ufficiale per rigettare la mozione è una barzelletta: “una diversa road map che contiene priorità differenti”, dice la maggioranza, “probabilmente la stessa che porta i loro compagni di partito grossetani a chiedere a gran voce l’intitolazione di una strada al missino Giorgio Almirante” secondo Emiliano Fossi, segretario Pd Toscana, e Francesco Battistini, membro della segreteria.

Ovviamente la strategia è sempre quella del vittimismo. Dice il consigliere di Forza Italia Giovanni Ricci: “quanto viene chiesto poteva essere fatto dai proponenti durante il periodo in cui hanno governato la città, nella precedente amministrazione. Non vediamo il motivo per cui oggi debbano chiederlo a noi dopo che per dieci anni hanno intitolato piazze, vie e monumenti ad altre figure”. Colpa degli altri, insomma. 

Buon giovedì. 

L’antimafia neomelodica

Oltre alla mafia in Italia sempre di più assistiamo all’antimafia neomelodica.  Il cantante neomelodico siciliano Tony Colombo e la moglie Tina Rispoli sono stati arrestati martedì 17 ottobre 2023 a Napoli e portati in carcere nell’ambito di una vasta operazione anticamorra. L’ipotesi d’accusa è che i due siano stati soci in affari del boss Vincenzo Di Lauro, figlio del capoclan di Secondigliano e Scampia Paolo Di Lauro (quello cui è ispirato il ruolo di don Pietro Savastano in “Gomorra”), da tempo in carcere al 41 bis. 

L’operazione dei Ros sta in un faldone di 1.800 pagine che descrivono minuziosamente le attività della camorra in ottima salute e va ad aggiungersi a decine di operazioni antimafia che quasi quotidianamente in Italia raccontano come le mafie continuino a infestare diversi settori economici, politici, imprenditoriali e sociali. Ma le mafie in questo Paese – da un bel po’ – fanno notizia solo nei loro aspetti più pittoreschi: le avventure amorose di Messina Denaro, il coinvolgimento di qualche politico di basso bordo e il cantante famoso su TikTok. 

Il tema complessivo è scomparso. Scompaiono anche coloro che ai tempi accusarono Roberto Saviano e i giornalisti di Fanpage per avere “criminalizzato” Colombo e la moglie: le trasmissioni televisive che irresponsabilmente iconizzarono la coppia fingendo di dargli l’opportunità di difendersi sono corresponsabili della banalizzazione.

Intanto si leggono i messaggi di Massimo Giletti ai colleghi e agli amici in cui ammette di essere stato bloccato con la sua trasmissione per essere arrivato “troppo vicino a Berlusconi”. Ma di quello non parla quasi nessuno. 

Buon mercoledì. 

Nella foto: Tony Colombo (dalla pagina ufficiale Fb)