La legge di Bilancio è stata presentata alla stampa il 16 ottobre. In quell’occasione la presidente del Consiglio Giorgia Meloni fece notare come la veloce compattezza del governo sulla manovra indicasse un’invidiabile compattezza di governo. “La maggioranza è compatta, fatevene una ragione”, ripetè Meloni anche sei giorni fa in Senato, in occasione delle comunicazioni al Senato in vista del Consiglio europeo. Oggi, 31 ottobre, la legge di bilancio non è ancora stata presentata al Parlamento.
Nel frattempo sono circolate bozze mai smentite e mai del tutto confermato che hanno concimato un dibattito praticamente sul nulla. Perfino la dirigenza di Forza Italia ha perso la pazienza per il susseguirsi di voci senza nulla di scritto. Nei giorni scorsi abbiamo assistito anche alla spassosissima scena della presidente del Consiglio che tranquillizzava gli elettori a proposito del pignoramento immediato dei conti correnti da parte dell’Agenzia delle entrate. Ha promesso ai suoi elettori che nella manovra scritta dal suo governo non ci sarebbe stata una norma scelta da loro. Un capolavoro di attorcigliamento e di propaganda, con Meloni che si è posta come difenditrice degli italiani contro gli attacchi di Meloni.
Nel frattempo i partiti di maggioranza hanno chiesto correzioni, chi strattonando da una parte e chi dall’altra, non potendolo fare in Parlamento visto che Meloni ha già preannunciato che non saranno accolti emendamenti. Quindi la discussione che avrebbe dovuto svolgersi in Parlamento di fronte gli italiani si è ridotta a una trattativa privata da governanti. Va così.
Trenta giorni di eccidi, prima di civili israeliani, ora di civili palestinesi. Larga parte del mondo e degli stessi israeliani si chiede quale sia il disegno politico del governo israeliano guidato da Netanyahu che dichiara di voler eliminare completamente Hamas. Ma il risultato è che gli eccidi di civili a Gaza e le uccisioni da parte dei coloni anche in Cisgiordania stanno rafforzando Hamas nella disperata percezione del popolo palestinese; che è un popolo che non si arrenderà mai. A questo punto, allora, siamo ad un genocidio vero e proprio, in base al diritto internazionale.
È, infatti, la Convenzione Onu del 9 dicembre 1948 che regola i canoni del delitto di genocidio. Essa indica atti che vengono connessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un «gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso». Il genocidio non può essere giustificato invocando il diritto di difesa che l’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite riconosce ad ogni Stato che sia vittima di una aggressione armata. Occorrono proporzione e prospettiva. Nel conflitto mediorientale una Conferenza internazionale di pace non può essere nemmeno ipotizzata se non dopo il cessate il fuoco urgente per fermare la “punizione collettiva” del popolo di Gaza.
Per comprendere a fondo l’attuale progetto dello Stato di Israele dovremmo, rompendo la gabbia dei pregiudizi e degli anatemi propagandistici, analizzare il passaggio dal sionismo, nato come movimento laico e liberale, ai suoi approdi attuali, figli dei condizionamenti attuati da movimenti teocratici dei partiti delle destre (come il Likud) e di destra estrema, oggi al governo. È un contesto politico che incide molto anche sugli assetti democratici interni, come dimostra il vero e proprio sommovimento della società civile israeliana nei confronti del tentativo di istaurare una autocrazia. L’attuale governo sostanzialmente tenta di attuare uno Stato “ebraico” con l’esclusione dei Palestinesi . Andando anche oltre l’attuale status di “apartheid” documentato anche da Amnesty International.
Un interrogativo, a questo punto, si impone: in base al diritto internazionale, uno Stato che occupa militarmente i territori di un altro popolo e li sottrae definitivamente attraverso la politica di colonizzazione non distrugge anche il proprio stato di diritto, la propria democrazia? Anche perché un futuro, indispensabile Stato palestinese non potrà essere un “bantustan”; esso dovrà avere, in base alle risoluzioni Onu, continuità e contiguità di territorio, autonomia amministrativa, finanziaria, militare. Si è aperta fra intellettuali democratici sia mediorientali che europei che statunitensi, a proposito delle future statualità, una riflessione decisiva, anche sul terreno politico futuro: falliti gli accordi di Oslo, fondati sui due Stati, resi poco credibili anche per la politica israeliana di occupazioni coloniali e di predazione dei territori su cui dovrebbe sorgere il futuro Stato palestinese, è realizzabile la soluzione di un unico Stato? Sembra impossibile, soprattutto dopo che Israele si è normativamente autodefinito Stato degli Ebrei (dal 2018 ndr).
È interessante la riflessione che attivisti palestinesi ed israeliani stanno, insieme, compiendo. L’importante movimento “Una terra per tutti” propone una confederazione israelo/palestinese che implichi i seguenti principii: due Stati indipendenti, lungo i confini del 1967; una struttura federata con istituzioni condivise che governino questioni di interesse reciproco; frontiere aperte e libertà di movimento per i cittadini di entrambi gli Stati, che possano vivere ovunque vogliano; Gerusalemme città aperta, capitale di entrambi gli Stati. Verrebbe, così, rispettato anche il “diritto al ritorno”. Certo, non sarà facile. Occorrerebbe un tavolo internazionale coordinato da un’Onu rediviva. La soluzione è tutta da costruire. «Senza uguali diritti per tutti, sia in uno Stato, due Stati o in qualsiasi altro quadro politico, vi è sempre il pericolo di una dittatura. Non potrà esserci democrazia per gli Ebrei in Israele finché i Palestinesi vivranno sotto un regime di apartheid». È l’inizio della lettera alla comunità ebraica statunitense duemila accademici, compresi sionisti tradizionali, studiosi dell’Olocausto, docenti di storia alla Chapman University. Uno spiraglio di luce, un soffio di speranza.
Nella foto: frame di un video sui bombardamenti nella Striscia di Gaza (Euronews), 28 ottobre 2023
Dopo Zerocalcare anche Amnesty Italia ha comunicato che non parteciperà al Lucca Comics&Games 2023. “Il patrocinio dell’ambasciata israeliana al Lucca Comics ci spinge a rinunciare alla nostra presenza”, ha scritto l’associazione sul suo profilo X. “Comprendiamo sia prassi consolidata il patrocinio di ambasciate dei Paesi di provenienza degli artisti che realizzano l’immagine del festival ma non possiamo ignorare che le forze israeliane stanno incessantemente assediando e bombardando la Striscia di Gaza, con immani perdite di vite civili”, spiega.
Nella furia bellicista gli stessi che avrebbero voluto vietare ai gatti russi di partecipare alle esposizioni feline si sono strappati i capelli per la decisione di Amnesty, polarizzando uno scontro che inevitabilmente darà al mondo i suoi frutti marci, aumentando ancora di più il reciproco odio.
Tra le conseguenze orribili della furia bellicista c’è la riabilitazione degli ipocriti se sono utili alla causa e così il ministro alle Infrastrutture Matteo Salvini si sente legittimato perfino nel dare patenti di razzismo. Il leader della Lega assicura di “razzismo” Amnesty pochi giorni dopo avere contestato la scelta di Zerocalcare annunciando che sarebbe andato alla manifestazione, probabilmente per fare un disegnino del Ponte sullo Stretto.
Il punto è che l’esperto di razzismo è proprio Salvini. Come ha ricordato il portavoce di Amnesty Riccardo Noury. E già condannato per avere violato la legge Mancino per un coro contro i napoletani: una persona che discrimina i meridionali e dà patenti di razzismo è la fotografia del momento. Ed è un momento buio.
La Festa del cinema 2023 diretta da Paola Malanga, proietta lo sguardo in avanti, non tralasciando però, al contempo, l’attenzione alle espressioni artistiche e ai protagonisti del passato. Si segnalano, a riguardo, all’interno della ricca sezione ‘Storia del cinema’:Callas Paris 1958, omaggio alla leggendaria soprano – nel centenario dalla nascita – che nel dicembre del 1958 esordiva all’Opéra di Parigi, evento di cui il regista Tom Volf ha recuperato, tra gli altri materiali, le bobine 16 mm; gli omaggi a Jean-Luc Godard con Film annonce du film qui n’existera jamais: “Drôles de guerres” – ultimo film realizzato dal cineasta francese -, Godard par Godard, di Florence Patarets; e i documentari Joseph Losey, l’outsider di Dante Desarthe e Chambre 999 di Lubna Playoust che, quarant’anni dopo Room 666 di Wim Wenders, torna a interrogare la nuova generazione di registi ponendo loro la stessa domanda che il cineasta tedesco, in occasione del Festival di Cannes del 1982, rivolse ai suoi colleghi: «Il cinema è un linguaggio che sta scomparendo o un’arte che sta morendo?»
Ne Il cinema, l’immortale (Einaudi editore), il regista e sceneggiatore Daniele Vicari – ospite della sezione ‘Freestyle Arts’ con il documentario Fela, il mio dio vivente, omaggio al musicista nigeriano Fela Kuti -, percorre e riflette proprio intorno ai cambiamenti e alle innovazioni che hanno travolto non solo la creazione delle immagini in movimento ma anche la loro fruizione da parte degli spettatori, dai primi memorabili esperimenti cinematografici fino ai giorni nostri, e all’avvento della serialità. Mostrando, di fatto, la sorprendente attualità di tali quesiti, attorno a cui ruotano, oltre che la serie di incontri al MAXXI, anche i panel promossi da ‘Fuori Festa’, un nuovo evento complementare della Festa del Cinema, allestito presso l’Hotel St. Regis. Protagonisti del panel, I film del futuro: sala, broadcaster o piattaforme?, il docente e giornalista de Il Foglio Andrea Minuz e lo sceneggiatore e scrittore premio Strega 2014 Francesco Piccolo. Emerge, da questo interessante confronto, innanzitutto la necessità di ri-pensare al cinema del futuro immaginandolo in fecondo e costante rapporto con il passato. Senza fratture. E, allo stesso tempo, sostenendo il cosiddetto ‘principio del progresso’, mediante il quale favorire la nuova apertura produttivo-creativa e il dialogo tra differenti prodotti audiovisivi – in questo caso, cinema e serie Tv – intercettando una sottesa e vibrante continuità di ricerca. Significativa è la sempre minore distanza tra i linguaggi, tanto da constatare la versatilità di registi, attori, sceneggiatori e produttori, che si misurano, oggi più che mai, con la realizzazione di film per la sala e, al contempo, con la creazione di serie Tv. La stessa ‘dittatura della trama’, che in molti sostengono sia stata imposta dalla serialità televisiva, in realtà rimodula – sottolinea Piccolo – le possibilità creative, ad esempio dilatando il tempo del racconto, non più costretto a rispondere alle limitazioni della durata. Auspicabile, inoltre, soprattutto per le piattaforme generaliste, una maggiore attenzione al palinsesto, affinché – conclude Minuz – possano concorrere a ‘formare’ la cinefilia delle nuove generazioni, non ancorandola solamente all’offerta audiovisiva del presente.
A rimarcare il rapporto tra presente e passato anche uno dei diciotto titoli in concorso, nella sezione ‘Progressive Cinema’, Mi fanno male i capellidi Roberta Torre. E lo fa attraverso la storia di una donna, Monica (una delicatissima e intensa Alba Rohrwacher), affetta da un grave disturbo della memoria che la costringe in uno spazio nebuloso e senza tempo nel quale la realtà subisce una progressiva alterazione. Emblematico è l’incipit del film quando lo spettatore sembra condividere la medesima visione distorta di Monica e il suo stesso disorientamento: «Io credo di essermi persa». Suo marito, Edoardo (Filippo Timi), cerca invano di ancorare la donna alla realtà ma finirà ben presto per essere coinvolto nelle ‘rappresentazioni’ che la donna gli propone, ogni volta identificandosi con un personaggio interpretato da Monica Vitti.
«Ho l’impressione di scordarmi ogni giorno qualcosa»: sono le parole prese in prestito a Valentina (Monica Vitti) durante l’incontro notturno alla festa con lo scrittore Giovanni Pontano (Marcello Mastroianni) nel film di Michelangelo Antonioni, La notte (1961). E, ancora, c’è Giuliana de Il deserto rosso (1964), la nebbia che confonde la donna divenendo, da elemento esterno, interiore, fino all’incontro finale con il marinaio turco, durante il quale la donna confessa di essere stata malata.
Nel film di Roberta Torre il racconto della memoria intima e perduta di Monica – sostenuta dalle poetiche sonorità delle musiche originali di Shigeru Umebayashi, compositore di colonne sonore indimenticabili, come quella del film In the Mood for Love di Wong Kar-wai – diventa pretesto per esplorare un discorso ben più ampio sulla memoria collettiva, storica, sul futuro del linguaggio cinematografico appunto. Tuttavia, l’eccedenza di sovrapposizioni, di rimandi, di digressioni e di ritorni al punto di partenza sembrerebbe allontanare tale riflessione dall’individuazione di possibili tentativi di ricerca (sull’immagine cinematografica), e di cura (per la malattia) che lo stesso Edoardo fatica ad intercettare.
Tra gli altri titoli in programma, sempre nella sezione ‘Progressive Cinema’, il film spagnolo di Isabel Coixet, Un amor, Achilles, opera prima di Farhad Delaram che racconta la fuga, attraverso il territorio iraniano, di un ex cineasta e di una prigioniera politica internata in un ospedale psichiatrico, Black Box della regista turco-tedesca Asli Özge, prodotto dai fratelli Dardenne, Un silence di Joachim Lafosse con Daniel Auteil e Emmanuelle Devos, e l’atteso esordio alla regia di Paola Cortellesi, C’è ancora domani.
Altro esordio italiano – questa volta all’interno della sezione ‘Grand Public’ – è quello di Michele Riondino con Palazzina Laf, «la storia di uno dei più famigerati “reparti lager” del sistema industriale italiano» all’interno del complesso dell’Ilva di Taranto.
Wanted è il titolo del film di Fabrizio Ferraro che, presentato all’interno della sezione ‘Freestyle’, propone a sua volta una ulteriore riflessione sul linguaggio e sul genere cinematografico, attraverso le storie di tre donne (interpretate da Chiara Caselli, Denise Tantucci e Caterina Gueli), superstiti in un mondo distopico e inospitale. Presidi, cellule, piani di fuga, deportazioni: tutti gli indizi disseminati nel racconto sembrano ruotare intorno alla ricerca della verità, durante lunghi ed estenuanti interrogatori che si svolgono nelle sale doppiaggio di Cinecittà, dove i Teatri 2 e 5 sono adibiti, invece, a celle di detenzione.
Ricerca della verità, dunque, ma anche ricerca di nuove storie da raccontare, di nuovi incalzanti interrogativi sul tempo presente, di nuove sfide da opporre alla stasi creativa e sperimentale, come la voice over del film ingannevolmente propone: «continua a svolgere la vita di sempre, non modificare le tue abitudini […] comportati come se non stesse accadendo nulla.» Esemplare è la didascalia finale che intima, probabilmente, a mantenere viva la ‘luce’ nello sguardo: «because Nothing had no hand to switch off the light» (Allen Ginsberg).
La pitturessa Nagasawa
Ospiti della Festa anche due originali ritratti d’artista presentati nella sezione ‘Freestyle Arts’: Grandmother’s Footsteps di Lola Peploe che racconta la storia di sua nonna, la pittrice Clotilde Brewster Peploe che visse tra l’Italia e la Grecia e fu madre degli sceneggiatori e registi Clare e Mark Peploe; e la La pitturessa di Fabiana Sargentini che, mediante uno stile immediato, rigoroso e, allo stesso tempo delicato, ripercorre la vita artistica di Anna Paparatti, sua madre, intrecciandone le vicende più intime e private, con quelle degli ultimi cinquant’anni di storia dell’arte contemporanea italiana e internazionale.
Nata e cresciuta a Reggio Calabria, Anna si trasferisce a Roma per frequentare l’Accademia di Belle Arti dove segue i corsi di Toti Scialoja, per poi divenire la straordinaria protagonista – come ribadisce Pizzi Cannella – degli eventi della galleria d’arte contemporanea L’Attico, in via del Paradiso 41 a Roma, crocevia di artisti ed espressioni avanguardistiche che si distinse negli anni Sessanta e Settanta per la sua vivacità e i suoi slanci innovativi.
Si snodano, nella memoria della pittrice ricordi e aneddoti legati alla sua casa romana di via del Babuino 176, all’incontro con Julian Beck e il Living Theatre nel 1965, e in particolare con lo spettacolo Misteries and Smaller Pieces; alla storia d’amore con Fabio Sargentini – fondatore nel 1957, insieme al padre Bruno, de L’Attico -, di cui è stata storica compagna, fino alla nascita di sua figlia e ai i viaggi in India: tutto rivive nelle parole e nello sguardo di Anna. E, sopra ogni cosa, a risplendere è la creatività quale linfa salvifica per intercettare quello spazio intimo, solitario e necessario alla ri-creazione di immagini e affetti legati alla propria storia personale: «mia madre non mi amava» è la schietta e diretta dichiarazione di Anna.
Nel 2021 la gallerista Elena Del Drago organizza una sua mostra a Roma e la direttrice artistica di Dior, Maria Grazia Chiuri, le propone di curare le scenografie delle sfilate della Maison Dior, utilizzando i suoi quadri geometrici degli anni Sessanta: Pop-oca, Le jeu qui n’existe pas, Il gioco del non-sense e Il grande gioco (che venne utilizzato anche per la scenografia del film del 1967 di Luciano Salce, Ti ho sposato per allegria, con Monica Vitti).
Un ritratto intimo e ironico capace di far affiorare la forza di una donna e di un’artista che non smette, a 87 anni, di sorprendere. Anche se stessa.
La chimera di Alice Rohrwacher e The Zone of Interest di Jonathan Glazer (Gran premio Speciale della Giuria all’ultima edizione del Festival di Cannes) sono, invece, due tra i titoli selezionati nella sezione ‘Best of 2023’, che sono stati precedentemente presentati, con successo, nell’ambito di importanti festival internazionali.
«Non so se si possa chiamarlo teatro, il teatro è per me un luogo troppo sacro per avventurarmici davvero. Lo prendo in prestito, per una volta, per dare gambe a parole che secondo me devono continuare a camminare, anzi, correre, dentro la memoria e la vita di tutte e tutti noi.» Tante facce nella memoria è lo spettacolo teatrale, scritto insieme a Mia Benedetta – anche interprete -, che Francesca Comencini porta sul grande schermo; e che viene presentato alla Festa del Cinema all’interno della sezione ‘Special Screenings’.
A partire dai testi tratti dalle registrazioni che Alessandro Portelli ha raccolto tra il 1997 e il 1999 intorno all’eccidio delle Fosse Ardeatine a Roma, Tante facce nella memoria ripercorre, attraverso le voci di sei donne, quei tragici avvenimenti che portarono alla morte 335 uomini, fucilati e interrati in una fossa comune il 24 marzo del 1944.
Mogli, figlie, partigiane che, con crescente intensità, riportano alla luce non solo i fatti, ma anche l’intimo sentire, talmente vivido e palpabile da affiancare al ricordo della descrizione di quanto accaduto l’immagine di un cielo coperto, buio, in attesa del temporale – anche se nella realtà la giornata era stata molto bella – poiché «faceva parte di una sensazione che mi aveva preso l’anima». Sono le storie di Lucia Ottombrini, Carla Capponi, Marisa Musu, Ada Pignotti, Vera Simoni, Gabriella Polli.
La voice over delle reali protagoniste delle testimonianze, nell’incipit dello spettacolo, cedono il passo ad altre voci, quelle di Lunetta Savino, Carlotta Natoli, Simonetta Solder, Chiara Tomarelli, Bianca Nappi e Mia Benedetta. Un passaggio di consegne a decretare l’importanza e la necessità della memoria che – come ricorda Ascanio Celestini – «è una drammaturgia, una riscrittura del passato…qualcosa che serve a ricordare a me in quale presente vivo». E Celestini, proprio a partire dal libro dello stesso Alessandro Portelli – L’ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria(Donzelli editore, 1999) -, mise per la prima volta in scena nel 2000 uno dei suoi spettacoli più intensi, Radio Clandestina.
Sulla scena di Tante facce nella memoria, insieme alle interpreti sedute una accanto all’altra, l’audacia di parole consegnate con coraggio e ostinata resistenza, perché «noi dobbiamo raccontare», sostiene con forza Carla Capponi (partigiana, Medaglia d’oro al valore militare), per ri-trovare in quelle parole la spontaneità dell’abbraccio, una memoria non solo istituzionale ma autentica. Una memoria che divenga pensiero, lotta dell’umano contro il disumano: «il fascismo ci ha impedito di pensare».
Dopo il ritmo incalzante della memoria di fatti e sensazioni, ecco giungere un sogno, un invito a restare umani: tutto è ricoperto d’acqua e si sta aggrappati in cima a una quercia galleggiante; ci sono, nell’acqua scura, il corpo esanime di una mucca gonfia e un bambino: bisogna buttarsi e nuotare. Per salvarsi.
A vent’anni dall’anteprima al Festival di Cannes, e grazie alla collaborazione tra Alice nella Città e Cinecittà, ospite della Festa anche il restauro dell’opera prima di Costanza Quatriglio, L’isola. Davanti allo scorrere delle immagini sembra di intercettare molto di quanto ricercato tra queste pagine, e di quanto difeso e promosso da quest’ultima ricca edizione della Festa del Cinema: un semplice ritorno al passato? oppure un fecondo e necessario dialogo con esso? La storia di Teresa (Veronica Guarrasi) e Turi (Ignazio Ernandes), cresciuti in una famiglia di pescatori sull’isola di Favignana, è il delicato racconto senza tempo degli impercettibili – seppur repentini – cambiamenti che accompagnano gli importanti passaggi dall’infanzia all’adolescenza, dove autobiografia ed elementi di finzione si incontrano in una danza poetica e visionaria, insieme alle musiche di Paolo Fresu. Dall’odore acre della mattanza al vento che scompiglia i capelli, all’aria salata che pervade acqua e terra, il film è un inno alla gioia di vivere, alla libertà, al coraggio finanche di abbattere imponenti muri che impediscono la vista del mare. Ma, soprattutto, è – a vent’anni di distanza – un invito alla ri-scoperta di un linguaggio che sappia raccontare il presente ma, allo stesso tempo, proporre la fondamentale ricerca sulle immagini, sulla loro capacità di rappresentare e veicolare idee, pensiero, dinamiche e affetti.
«Quando i tonni vengono dalle nostre parti, noi caliamo ‘l’isola’. ‘L’isola’ è formata da diverse reti che chiudono il mare per il quale i tonni devono passare. Reti che formano delle pareti che dal fondo del mare affiorano a pelo d’acqua, mentre toccano il fondo mediante i contrappesi di tufo: ‘i rusasi’.» Andare a fondo e poi riemergere: che sia questo il possibile e auspicabile incontro? ‘Isola’ e ‘rusasi’. Cinema e poesia. Immagine e linguaggio. Ricerca.
Dove e quando
L’Auditorium parco della musica di Roma, la Casa del cinema, il Teatro Palladium, le sale del cinema Giulio Cesare, del nuovo cinema Aquila e del cinema nuovo Sacher sono soltanto alcuni tra gli innumerevoli spazi che ospitano la 18esima edizione della Festa del Cinema di Roma che, fino al 29 ottobre, anima la capitale. Non solo una festa di proiezioni, ma anche – sottolinea il presidente della Fondazione Cinema per Roma Gian Luca Farinelli – una festa di incontri, che si svolgeranno quotidianamente presso il MAXXI: una serie di dialoghi tra professionisti del settore sul futuro del cinema italiano.
Come si può ricordare oggi la tragedia del Vajont? Come accostarsi allo spettacolo Ilracconto del Vajont, portato in scena da Marco Paolini il 16 ottobre al teatro Strehler di Milano, dopo dieci anni dall’ultima rappresentazione? La prima volta che ho assistito a questo spettacolo è stato ventisei anni fa. L’ho visto in televisione quando ancora la televisione faceva servizio pubblico. È lì che ho appreso che il 9 ottobre del 1963 alle 22:39 una gigantesca frana si è staccata dal monte Toc precipitando nella diga del Vajont, provocando un enorme ondata che ha scavalcato gli argini e spazzato via cinque paesi del Veneto, lasciando il Piave gonfio di morti, in un mattino livido con un bilancio finale di 2000 vittime.
La rappresentazione allo Strehler in serata unica è stata preceduta qualche giorno prima da VajontS per una Orazione Civile Corale. Si è trattato di un’operazione culturale che ha visto cento teatri in Italia e in Europa portare in scena il lavoro di Marco Paolini e Gabriele Vacis.
A teatro c’era grande folla arrivata ben prima che in sala si spegnessero le luci, per riaffermare la voglia, il bisogno di esserci, di ritrovarsi, in uno dei pochi luoghi in cui rintracciare ancora un’ombra di senso, il teatro. Possibile antidoto ai tempi confusi che stiamo attraversando.
Il racconto del Vajont è uno spettacolo che a poco a poco perde i contorni dell’evento verificatosi sessanta anni fa, per diventare un’orazione laica e civile, che reclama giustizia, attenzione verso un pianeta che muore.
Paolini lo dice bene, le tragedie industriali non sono qualcosa di meno di una guerra. Ce lo fa capire nelle due ore in cui calca le scene, mixando con perfetto equilibrio drammaturgico dati tecnici e momenti passionali. Attraverso le sue parole non vediamo soltanto la scena della tragedia annunciata del Vajont, prefigurata con largo anticipo dai tecnici, dalla giornalista del L’Unità Tina Merlin, che per questo subì un processo per diffamazione e fu poi assolta perché il fatto non sussiste ( della sua storia scrive Piero Ruzzante ne L’acqua non ha memoria, Utet ndr).
Scene come quelle che l’attore mostra, evocandole solo a parole, ci portano anche alle migliaia di morti di questi giorni. Perché i morti con la bocca digrignata sono gli stessi, il patimento, la sofferenza, la tragedia sono gli stessi, come ha sottolineato Paolini nel corso della sua orazione/spettacolo.
A Marco Paolini va riconosciuto un grande merito di riuscire con la messa in scena di Vajont, che racconta uno degli eventi industriali più catastrofici che ha percosso l’Italia, di riuscire a rendere il teatro di parola assolutamente perfetto. Di fronte a rappresentazioni come quelle di Vajont la parola spettacolo risulta riduttiva e imprecisa come spesso sono le parole. Marco Paolini in Vajont raggiunge il suo apice. Così come accade nel suo Ausmerzen. Vite indegne di essere vissute che racconta dei programmi nazisti per eliminazione le persone disabili nella Germania del Reich. Così come avviene nel suo I-TIGI. Canto per Ustica, che ci aiuta a non dimenticare ciò che accadde nei cieli di Ustica, quando il DC9 dell’Itavia, in volo da Bologna a Palermo con a bordo 81 passeggeri, precipitò (abbattuto?) nei pressi di Ustica il 27 giugno 1980.
Vajont è un atto politico, di denuncia del malaffare italiano in cui le sue responsabilità si perdono nella nebbia, nella confusione di ruoli in cui controllore e controllato si mischiano, in cui alla fine nessuno è responsabile. Il teatro di Paolini diventa denuncia civile, diventa un modo come ben affermato durante lo spettacolo per trasformare la solitudine in moltitudine, per non alzare le spalle di fronte al dissesto morale e idrogeologico del nostro Paese, ma per trasformare la rabbia e l’impotenza in atto politico.
È un teatro di cui abbiamo bisogno. È un teatro che non consola. Ci rende responsabili della memoria affinché questa non sia qualcosa in cui rifugiarsi, ma diventi presupposto del nostro agire, per dire no al Vajont, al ponte Morandi, all’Ilva, a Bophal, a Černobil, a Fukushima. Per dire no ai luoghi dove la morte provocata dall’uomo prende il sopravvento sull’uomo, e ribadire il sì alla vita.
Marco Paolini, VAJONT (photo Gianluca Moretto)
L’autore: Gianfranco Falcone è psicologo e blogger (Viaggi in carrozzina, DisAccordi) e collabora con la rivista on line Mentinfuga, dove scrive di temi culturali, di teatro e diritti. Da alcuni anni è costretto a vivere su una sedia a rotelle. Ha da poco pubblicato il romanzo 21 volte Carmela (Morellini editore)
Sono 7.028 le vittime a Gaza causate dai bombardamenti israeliani nelle ultime tre settimane: lo ha comunicato l’Organizzazione Mondiale della Sanità, attestando che il 40% dei morti sono bambini. Sono dati del ministero della Salute di Hamas a Gaza ma l’Oms precisa di aver riscontrato la veridicità di questi dati raffrontandoli con le informazioni e dati anagrafici su coloro che sono stati uccisi.
Intanto mentre si svolge oggi la manifestazione per la pace a Roma (20mila presenze), crescono in molte città del mondo le manifestazioni per il cessate il fuoco a Gaza, colpita da violenti attacchi aerei che hanno distrutto e compromesso quasi tutto l’abitato. Ma molto interessante è anche che crescono anche in Israele.
Metà degli israeliani non vuole l’invasione della Striscia,un numero che è molto cresciuto rispetto alla settimana successiva all’attacco terroristico di Hamas nello Stato ebraico, che è costato la vita a 1.400 persone, in massima parte civili. Il dato emerge da un sondaggio pubblicato da Maariv, secondo il quale per il 49% “sarebbe stato meglio aspettare” a lanciare l’annunciata operazione di terra nell’enclave palestinese. Il 29% degli intervistati ritiene invece che bisogna agire subito mentre il 22% è indeciso. Un sondaggio analogo fatto il 19 ottobre segnalava il sostegno del 65% a favore di una grande offensiva di terra.
Il vertice Ue a Bruxelles intanto si conclude adottando la proposta della Spagna di tenere una conferenza di pace, nei prossimi sei mesi, sic!) sul conflitto tra Israele e Hamas: lo ha detto il primo ministro spagnolo ad interim Pedro Sanchez, a margine della conclusione del Consiglio a Bruxelles. La Spagna detiene la la presidenza di turno dell’Unione europea e oggi il sindaco di Barcellona ha offerto la disponibilità della città a ospitare la conferenza di pace a margine del vertice dei ministri degli Esteri dei Paesi dell’Unione per il Mediterraneo il 27 e 28 novembre. Nei giorni scorsi Sanchez si era espresso a sostegno delle parole del segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres, che avevano scatenato le reazioni di censura da parte di Israele . «E’ importante riconoscere anche che gli attacchi di Hamas non sono arrivati dal nulla – aveva detto Guterres -. Il popolo palestinese è stato sottoposto a 56 anni di soffocante occupazione». L’ambasciatore di Israele all’Onu, Gilad Erdan ne aveva chiesto le dimissioni.
Aggiornamento del 29 ottobre 2023
I civili palestinesi uccisi sono più di ottomila. 3.195 bambini uccisi a Gaza in tre settimane, un numero superiore a quello annuale dei bambini che hanno perso la vita in conflitti armati a livello globale, negli ultimi tre anni
Lo scrive Save the children in questa nota: Il numero di bambini uccisi a Gaza, in sole tre settimane, ha superato il numero di quelli che ogni anno hanno perso la vita nelle zone di conflitto del mondo dopo il 2019: questo l’allarme lanciato da Save the Children, l’Organizzazione internazionale che da oltre 100 anni lotta per salvare i bambini e le bambine a rischio e garantire loro un futuro. Secondo i dati diffusi rispettivamente dai Ministeri della Sanità di Gaza e Israele[1], dal 7 ottobre, sono stati segnalati più di 3.257 bambini uccisi, di cui almeno 3.195 a Gaza, 33 in Cisgiordania e 29 in Israele. Il numero di bambini uccisi in sole tre settimane a Gaza è superiore al numero di bambini uccisi in conflitti armati a livello globale – in più di 20 Paesi – nel corso di un intero anno, negli ultimi tre anni. [2] I bambini rappresentano più del 40% delle persone uccise a Gaza e più di un terzo di tutte le vittime nei Territori Palestinesi Occupati e in Israele. Il bilancio delle vittime è probabilmente molto più alto, poiché ad essi si potrebbero aggiungere circa 1.000 bambini dispersi a Gaza che si presume siano sepolti sotto le macerie. In seguito all’annuncio di venerdì di “operazioni di terra estese” nella Striscia di Gaza da parte delle forze israeliane, Save the Children sottolinea come tutto questo non potrà che causare altri morti, feriti e sofferenze, e continua a chiedere un cessate il fuoco immediato. “Tre settimane di violenza hanno strappato i bambini alle famiglie e distrutto le loro vite a un ritmo inimmaginabile. I numeri sono strazianti e con la violenza che in questo momento a Gaza non solo continua, ma si intensifica, molti altri minori sono in grave pericolo”, ha dichiarato Jason Lee, Direttore di Save the Children nei Territori palestinesi occupati. “La morte di un bambino è sempre una morte di troppo, ma queste sono violazioni di proporzioni epiche. Il cessate il fuoco è l’unico modo per garantire la loro sicurezza. La comunità internazionale deve anteporre le persone alla politica: ogni giorno trascorso a discutere, fa sì che altri bambini vengano uccisi e feriti. Abbiamo il dovere di proteggerli in ogni momento, soprattutto quando cercano riparo nelle scuole e negli ospedali”. Al numero delle vittime si aggiunge il bilancio dei feriti. Secondo quanto riportato, almeno 6.360 bambini di Gaza sono stati feriti, così come almeno 180 in Cisgiordania e almeno 74 bambini in Israele. Più di 200 persone, tra i quali ci sono dei minori, rimangono in ostaggio a Gaza.
Il rischio che i bambini muoiano a causa delle ferite non è mai stato così alto; le Nazioni Unite hanno riferito che un terzo degli ospedali della Striscia di Gaza non è più operativo a causa dei tagli all’elettricità e dell’assedio totale da parte del governo di Israele, che blocca l’ingresso di beni come carburante e medicine. Secondo quanto riportato da Medici senza Frontiere, la carenza di anestesia ha costretto il personale medico ad eseguire amputazioni a bambini senza alcun sollievo dal dolore.
Save the Children esprime la propria grave preoccupazione per l’ampliamento delle operazioni di terra a Gaza da parte delle forze israeliane, che provocherà inevitabilmente altre vittime tra i bambini, particolarmente vulnerabili alle armi esplosive, e chiede un cessate il fuoco immediato. L’Organizzazione esorta tutte le parti in conflitto ad adottare misure immediate per proteggere la vita dei minori e la comunità internazionale di sostenere questi sforzi, come è loro dovere.
«Questo album è dedicato alla gioventù che arricchirà il genere umano. Alla gioventù che è costantemente consapevole del tumulto in cui si trova il mondo e che sta cercando di correggere tutto ciò che è sbagliato, sia nella musica che nel linguaggio, o in qualsiasi altro modo lavorando positivamente».
Con questo formidabile incipit a firma di Woody Shaw si aprivano le note di copertina di Blackstone legacy (Contemporary Records – 2LP – 1971/2023), un album leggendario la cui ristampa originale è tornata finalmente disponibile su doppio vinile. L’importanza del disco è ben nota a tutti gli appassionati per diversi ed importanti motivi.
Innanzitutto, si tratta del disco di esordio come leader di Woody Shaw (1944 – 1989), un lavoro di grande spessore perfettamente calato nel momento storico e culturale nel quale fu concepito. Siamo nel 1970 in America, all’acme della lotta dei movimenti per i diritti civili, contro la segregazione razziale e contro la guerra nel Vietnam.
Il mondo del Jazz per tutti gli anni Sessanta era stato attraversato dal vento iconoclasta e rivoluzionario del Free Jazz che, al di là del verbo più radicale dei propugnatori della “New Thing” – Ornette Coleman, Albert Ayler, Cecil Taylor e nell’ultimo scorcio della sua carriera anche John Coltrane – le nuove forme sonore avevano più o meno direttamente influenzato tutta una schiera di musicisti che, partendo dal linguaggio più canonico dell’Hard Bop, sviluppato nella nuova direzione “modale”, avevano spinto in avanti la propria ricerca verso forme espressive più libere e aperte, mantenendo salde le proprie radici afro-americane all’interno di un disegno ritmico-armonico comunque riconoscibile.
Questa avventurosa esplorazione, a partire dalla metà degli anni Sessanta, coinvolse figure di primo piano come quelle di Jackie McLean, Grachan Moncur, Bobby Hutcherson, Andrew Hill, e dello stesso Miles Davis che in quegli anni mise a punto il suo secondo “quintetto perfetto” con Wayne Shorter, Herbie Hancock, Ron Carter e Tony Williams.
In questo scenario si inserì perfettamente il giovanissimo Woody Shaw, che già nel 1963 – appena diciannovenne – aveva avuto l’opportunità di seguire in tour in Europa il grande sassofonista e polistrumentista Eric Dolphy, e poi, tornato in America dopo la tragica e improvvisa scomparsa di Dolphy, ebbe modo di partecipare da co-protagonista ad alcuni dei dischi-manifesto di quell’epopea d’avanguardia, basta ricordare tra i tanti Unity di Larry Young, Passing Ships di Andrew Hill, The Cape Verdean Blues di Horace Silver, Demon’s Dance di Jackie McLean.
Fu proprio Miles Davis, influenzato dalla giovane ed esuberante moglie Betty Mabry (meglio nota come Betty Davis) a rivolgersi per primo verso le nuove forme del rock e del funk che imperversava in quegli anni con Jimi Hendrix, i Cream e Sly and The Family Stone.
Dopo i primi esperimenti con l’inserimento di alcuni strumenti elettronici nell’album In a Silent Way del 1968, l’anno dopo Miles ruppe gli indugi sfornando un doppio album assolutamente rivoluzionario come Bitches Brew che, ancora oggi, a distanza di quasi cinquantacinque anni dalla pubblicazione, continua ad alimentare accese discussioni tra gli appassionati di Jazz e non solo.
L’utilizzo reiterato di vamp (figura musicale che si ripete ndr) e ritmi funk, la presenza simultanea di due o tre batterie e percussioni, due contrabbassi, uno elettrico ed uno acustico, due o tre tastiere elettroniche, la chitarra elettrica di John McLaughlin, i fiati e la tromba di Davis che, allontanandosi dalla rigorosa eleganza del suo stile, disegna linee spezzate, grappoli di note ora urlate ora soffocate, in una lancinante sequenza di sussurri e grida. La perfetta rappresentazione di un uomo che mette a nudo la propria solitudine scontrandosi con il sinistro clangore di una metropoli che lo assedia.
A prima vista molti sono i punti di contatto che legano i due album pubblicati a meno di un anno di distanza l’uno dall’altro. Si tratta di due doppi album di due trombettisti, che seppur di generazioni diverse, si sono avvicinati da direzioni convergenti al nuovo verbo “elettrico”. Inoltre sono diversi i musicisti hanno partecipato alla realizzazione di entrambi i lavori. Il batterista Lenny White, il polistrumentista e clarinettista Bennie Maupin, il contrabbassista Clint Houston avevano suonato tutti in Bitches Brew, dal canto suo Ron Carter era stato fino a poco tempo prima colonna portante del famoso quintetto di Miles, mentre il sassofonista Gary Bartz si era da poco aggregato al gruppo di Davis, partecipando nell’agosto del 1970 alla storica esibizione al festival dell’Isola di Wight.
Quindi ben cinque dei sette componenti del gruppo di Blackstone legacy avevano avuto legami diretti con il divino Miles.
Se però andiamo ad analizzare più profondamente la musica appaiono delle sostanziali differenze stilistiche tra i due lavori.
Intanto, al di là dell’utilizzo alternato o in contemporanea dei due contrabbassi, l’elettrificazione del gruppo di Shaw appare assai più sobria e sostanzialmente limitata al solo inserimento del piano elettrico da parte di George Cables.
Resta la novità dell’utilizzo ricorrente di vamp e di ritmi funky che però non vanno a snaturare l’atmosfera generale del disco che resta ancorata a sapori più genuinamente jazzistici. Un lavoro che, più che strizzare l’occhio al rock imperante, vira spesso verso atmosfere più vicine al Free Jazz, soprattutto nell’originalissimo approccio alla tromba di Woody Shaw, che per sua stessa ammissione, stava cercando di innestare sul suo stile Hard Bop, l’approccio improvvisativo “verticale” di John Coltrane, trasponendo sulla tromba le linee melodiche dei sassofonisti contemporanei. Lo dimostra brillantemente il lungo brano di apertura che dà il titolo all’album, nel quale, dopo l’esposizione guizzante del tema, Woody Shaw apre le danze con un furioso assolo, seguito a ruota dai sodali Gary Bartz al sax contralto e soprano e da Benny Maupin al clarinetto basso con i quali instaura un’infuocato contrappunto dalle serpeggianti linee melodiche che trascinano l’ascoltatore in territori contigui al free jazz.
Lungo tutti i sedici minuti della performance il piano elettrico di George Cables crea per contrasto un’atmosfera sospesa, onirica, quasi ad evocare il suono misterioso di un vibrafono. La sezione ritmica con il possente contrabbasso acustico di Clint Houston e la metronomica batteria di Lenny White mantiene la rotta con polso sicuro, permettendo ai solisti le più spericolate improvvisazioni senza correre il rischio di perdere la bussola.
“Think of Me” si sviluppa su un mid-tempo tipicamente modale dal sapore vagamente latino. Qui, in un’atmosfera più rilassata, le capacità espressive della tromba risaltano al massimo, mettendo in campo l’intera tavolozza di fraseggi e di colori che Woody riesce mirabilmente a ricreare sullo strumento.
I due brani centrali del disco “Lost and Found” e “New World” portano invece la firma di George Cables. “Boo-Ann’s Grand” è dichiaratamente un affettuoso omaggio alla moglie di Woody – Betty Ann Shaw – e per traslato al “sentire” alla fantasia e all’intuito di tutto l’universo femminile – laddove gli improvvisi cambi di ritmo e di atmosfera della musica sembrano alludere all’inafferrabile mutevolezza del carattere femminile.
“A Deed for Dolphy” è invece dedicato al suo maestro, il grande Eric Dolphy. Prendiamo a prestito le parole dell’artista riportate nelle note di copertina: «Ho cercato di raffigurare Eric come se ci stesse osservando proprio adesso. Ho sentito che lui deve essere in una terra di pace, un posto dove gli uccelli cantano. Quando incontrai Eric nel 1963, lui cambiò totalmente la mia concezione. Io suonavo un certo tipo di Hard Bop, ed Eric mi insegnò ad essere libero e liricamente aperto, ad essere me stesso nella mia musica. Io credo che tutti i grandi maestri – Trane, Bird – continuano a guardarci».
Si tratta per il ventiseienne Woody Shaw di una profonda e consapevole assunzione di responsabilità: lui sa ed è convinto che tutta la storia del Jazz lo guarda dall’alto e, conscio del proprio talento, sente il peso e l’obbligo morale di essere all’altezza della tradizione, della storia e della cultura del popolo afroamericano.
Nelle medesime meravigliose note di copertina ribadisce:
«Questo album è dedicato alla libertà della gente di colore in tutto il mondo. Ed è dedicato alla gente che qui vive nei ghetti. La “pietra” che compare nel titolo è un’immagine di resistenza. Io sono cresciuto in un ghetto – case cadenti, topi e scarafaggi, corridoi puzzolenti. Io ho visto tutto questo e ho visto gente superare tutto questo. Questa musica ha il significato di essere una luce di speranza, un suono di resistenza e di attraversamento. È fatta per il ghetto. Noi stiamo cercando di esprimere cosa sta accadendo oggi nel mondo, nella maniera in cui noi – una nuova generazione di giovani musicisti – lo sentiamo.
Mi riferisco alle differenti tensioni nel mondo, la ridicola guerra in Vietnam, all’oppressione della gente povera in questa nazione che invece ha tante ricchezze. I ragazzi durante queste sessions discutono in continuazione di questi argomenti, ma stiamo anche cercando di raggiungere uno stato di illuminazione spirituale nel quale essere costantemente consapevoli di ciò che sta accadendo, nell’ottica però di reagire in maniera positiva.
La musica di questo album, come vedi, esprime la resistenza-convinzione che noi riusciremo a superare tutto questo».
Parole forti, drammaticamente e perfettamente attuali, come la musica che le esprime.
WOODY SHAW – BLACKSTONE LEGACY (Contemporary Records – 2LP – 1971/2023)
«C’è un grande trombettista in giro, ed è in grado di suonare differente da tutti gli altri» (Miles Davis su Woody Shaw)
Woody Shaw (1944 – 1989) è stato uno dei grandi trombettisti del Jazz moderno, ed è considerato ancora oggi forse l’ultimo autentico innovatore sul suo strumento.
Dopo più di mezzo secolo – grazie all’iniziativa di Craft Recordings and Jazz Dispensary – è tornato finalmente disponibile su doppio vinile la ristampa dell’edizione originale del capolavoro di Woody Shaw – Blackstone legacy, inciso nel dicembre del 1970 e pubblicato l’anno successivo. Occorre infatti ricordare che nell’edizione su CD del 1999, due brani del disco furono rieditati con dei minimi tagli allo scopo di riportare la lunghezza dell’album nel limite degli ottanta minuti di un singolo CD. Una scelta senz’altro discutibile, che accresce ulteriormente il valore filologico della nuova ristampa su vinile, che riporta altresì le fondamentali note di copertina originali a firma di Nat Hentoff.
La grafica, nel formato del doppio album, valorizza la suggestiva foto di copertina che rimanda poeticamente all’Africa, e ritrae una lunga fila di donne di etnia Bari che camminano sui lastroni di pietra scura in un altipiano nel Sud Sudan.
La tassa sugli extraprofitti delle banche che ha contribuito a disegnare la presidente del Consiglio Giorgia Meloni come “donna forte al comando” non c’è più. Dopo UniCredit anche Intesa San Paolo, la banca italiana guidata dal ceo Carlo Messina, quella tassa sugli extraprofitti delle banche varata dal governo Meloni, non la pagherà.
Nel corso della conference call con gli analisti nei giorni scorsi, il ceo di UniCredit Andrea Orcel ha ricordato che, con quell’ultima versione della misura sbandierata con orgoglio dalla stessa presidente del Consiglio Meloni, due sono le opzioni che il governo italiano ha messo a disposizione delle banche italiane: «una era pagarla, l’altra era di rafforzare le nostre riserve e non pagarla, a meno che queste non vengano distribuite in un secondo tempo». E UniCredit ha deciso di rafforzare le sue riserve, destinando 1,1 miliardi a riserve proprie non distribuibili.
Due giorni fa anche Intesa San Paolo ha emesso un comunicato di “destinare a riserva non distribuibile un importo pari a circa 1.991 milioni di euro, corrispondente a 2,5 volte l’ammontare dell’imposta di circa 797 milioni, in luogo del versamento di tale imposta, avvalendosi dell’opzione prevista dal predetto provvedimento” annunciando che “la Capogruppo darà indicazione alle banche controllate interessate dal provvedimento (Fideuram, Intesa Sanpaolo Private Banking e Isybank) di adottare analogo orientamento”. Sostanzialmente, invece di versare la tassa sugli extraprofitti, la banca ha deciso di destinare a riserva una somma che ammonta a circa 2 miliardi di euro.
Così la “tassa sugli extraprofitti delle banche” si aggiunge alla collezione di annunci irrealizzati.
Buon venerdì.
Nella foto: la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, il ministro dell’Economia e Finanze, Giancarlo Giorgetti, il vice Ministro Maurizio Leo, e i vice presidenti del Consiglio e ministri, AntonioTajani e Matteo Salvini (governo.it), Roma, 16 ottobre 2023
Di un artista che è vissuto una manciata di anni, trentatrè per l’esattezza, che ha vissuto rapinosamente la sua vita tra belle donne, motociclette, in una Roma dei primi anni sessanta che avrebbe creato il quadrilatero dell’arte e la scuola di piazza del Popolo, con amici come Kounellis, Schifano, Mattiacci, Penone, Tacchi, Ceroli e maestri come Toti Scialoja; di un artista che recuperava attrezzi agricoli, ruderi su prato, labbra di donna e dorso di negra, utilizzando rafie, materiali sintetici, ferri e bitume; che si faceva fotografare come un modello giocando tra lance da pastore, grandi rastrelli e zolle di terra e che dondolava su finte liane e dentro un mare tagliato a fette; insomma di un artista siffatto che chiese ad un certo momento al padre di distruggere molte delle sue opere, e che lavorava in una finta officina dove solo pochi amici avevano realmente accesso; di un artista che per mantenersi agli studi e alla dolce vita di quegli anni scelse di entrare come grafico e illustratore nella Lodolo Film, una di quelle agenzie pubblicitarie che hanno fatto la storia dell’animazione e di certa televisione, come la Pagot; e che pare sia stato scenografo e anche attore; ebbene di un’artista siffatto, le cui vere grandi mostre arrivarono subito già il giorno dopo della sua scomparsa, sembrerebbe alquanto improbabile oggi proporre qualcosa di nuovo, di veramente inedito e determinante al mondo dell’arte. E invece il nostro tempo distratto, compulsivo e dispersivo insieme, rapinoso e in fondo con una corta memoria, ha riservato a chi scrive questo pezzo la ventura di ritrovarsi un giorno tra le mani l’unica animazione integrale e perfettamente conservata di Pino Pascali: Intermezzo 23 del 1966. Un’opera di grafica applicata, perché nata appunto come stacco pubblicitario per l’allora programma concorrente di Carosello, per il secondo canale della Rai, che si chiamava appunto Intermezzo. Un progetto ambizioso del nascente secondo canale che presto venne interrotto per altre avventure televisive, ma che resta un esempio luminoso e indimenticabile di una televisione che dava ampio spazio ai geni della pittura, del disegno, dell’animazione appunto, vi ricordate Cavandoli dell’Omino Lagostina? Dopo un lavoro di due anni insieme all’Archivio per l’Opera Grafica di Pino Pascali che ne ha autenticato il ritrovamento e ricostruito la sequenza, e con il prezioso e fondamentale aiuto di Daniela Ferraria ed altri storici dell’arte e dell’animazione come Marco Giusti, Anna D’Elia, Bruno di Marino, Simonetta Lux, Roberto La Carbonara, e un ricordo di prima mano di Ernesto Bassignano, riesco a raccogliere l’intero lavoro, anche ricostruito digitalmente da Marco Schiavoni nel suo laboratorio di Spoleto, in un libro da poco uscito per la NFC edizioni dal titolo appunto Pino Pascali/Intermezzo 23 con la curatela appunto di chi scrive. Un QR sull’ultima pagina consente di puntare il telefonino e vedere l’animazione spiegata, dettagliata, ricostruita. Nel libro trova spazio anche un lungo immaginario monologo di Pino Pascali dove ad un certo punto il grande poeta Nanni Cagnone traduce per il lettore Paranoid Android dei Radiohead, Insomma è come entrare dentro i segreti di una pagina della televisione scomparsa e di un modo di fare animazione come lo realizzava Walt Disney. Si tratta di 51 scene ricostruite e rimesse in sequenze, ma in realtà consta di decine e decine di movimenti e tavole suddivise tra lucidi e acetati, grafiti, scomposizioni a pastello, tutte della stessa misura millimetrica di 18 per 22 cm, alcune su carta giapponese da disegno. Con in bella vista i tipici forellini rettangolari e tondi per la reggetta che serviva per sospenderli e poi filmarli dalla cinepresa. Così funzionavano le animazioni un tempo. Racconta la storia di tre Postero’s, tre personaggi da barzelletta; un tedesco, un generale francese e un inglese, alle prese con ritrovamenti archeologici ed imprevisti, come diceva Pascali, di oggetti «di diecimila anni fra» dei quali i tre omini non conoscono l’uso e il funzionamento. E questo scatena una serie di gag che nascono dallo spostamento del senso e del segno, a volte tramite un uso quasi decontestualizzato ad arte degli oggetti. Tutto nell’animazione ruota attorno al ritrovamento di un misterioso oggetto che altro non è se non una macchina fotografica e verso la cui funzione tutti e tre i personaggi si accaniscono uno alla volta, restandone ogni volta delusi, fino al gesto finale del Gran Generale che decide di distruggerla perché non ha restituito l’immagine che si aspettava. Sembra un pensierino della sera, uno sketch animato per ritardare il sonno dei ragazzi dell’epoca, ma in verità nasconde alcune delle tematiche centrali del dibattito culturale degli anni Sessanta, come acutamente scrive Anna D’Elia nel suo saggio: il ruolo dell’arte in confronto alla scienza e alla tecnologia, la relazione tra pensiero magico e ragione, tra progresso e regresso. Tutto si svolge in pochi minuti, tra risate e consigli d’acquisto, gag e capitomboli, colpi di clava e macinacaffè. Erano gli anni in cui la pubblicità somministrava ancora pillole di filosofia e gli artisti si mimetizzavano da grafici. Pascali lavora con gli oggetti e si preoccupa in poche parole che il consumismo possa, privilegiando l’uso degli oggetti, cancellarne il loro valore rituale, quello che invece avevano nelle culture arcaiche e contadine. Il futuro appare per Pascali dunque nell’accezione di Walter Benjamin e tutto sta nel mantenere vivo lo stupore, l’epifania del segno e dell’incontro. L’artista smonta gli oggetti non tanto per ricostruirne di nuovi, ma per disegnare con il loro cambiamento di senso una nuova visione del mondo. Come fosse un selvaggio che solo inseguendo il limite stesso della materia determina la vera grande scoperta. Spesso Pino Pascali si è difatti definito un uomo che cammina nudo, poi Edoardo Sanguineti arriva ad appellarlo persino novello Adamo.
In Intermezzo 23 abbiamo così inseguito l’idea pascaliana per eccellenza che il mondo è come un grande meccano composto da tanti pezzi diversi che solo incastrandoli uno nell’altro si riesce ad esplorare una o l’altra possibilità. Non necessariamente interessa il buon finale. Ma quello che succede nel mezzo. La storiella che ci racconta Intermezzo 23 ha come sottotitolo appunto “A mille anni fra”. Frase pascaliana, che ho ritrovato nei suoi sketches disegnati, proprio a significare quanto la lezione di De Martino sia entrata in lui e l’inganno della Taranta tutto da sfatare. I suoi Posteros che vengono dal futuro, ma che adoperano la clava; questo giustifica che la macchina fotografica della sequenza possa diventare come Hal 9000 di Stanley Kubrick. Pascali artista ma in fondo ancora cavernicolo del futuro.
E proprio in questi giorni, che ci ha lasciato il grande Luca Maria Patella, che del cinema sperimentale anche ha fatto uno dei suoi credi e linee di forza, ripenso ad una frase segreta che mi disse in una delle sue ultime importanti interviste, riportata nel libro, quando finimmo a parlare inevitabilmente di Pino Pascali e della loro amicale collaborazione in SKMP2 del 1968, film sperimentale che voleva essere una roba alla René Clair, stile Entr’acte, con questi personaggi che appaiono all’improvviso evocati dalla bacchetta del Mago, impersonato da Fabio Sargentini e poi, così come arrivano, spariscono, con un gesto, una smorfia, un sorriso. Pino Pascali abbandona al rigagnolo del finto mare una barchetta di finta carta che si perde, là dalle parti di Fregene, a pochi passi dalla casa di Alberto Moravia, dove avevano scelto di girare e facendo questo guarda poi Patella e quasi accenna un sorriso, come a dire: questo l’ho fatto, ho affossato il moderno e la classicità e ora? Beh, dopo, se in quell’assurdo settembre del 1968 non ci fosse stato l’ancor più assurdo incidente in motocicletta che lo strappa alla vita a soli trentatrè anni, i due avrebbero fatto insieme un altro film in cui Patella avrebbe ripreso Pino Pascali costruire un grande nido, un altro, e poi tentare da quel nido il volo e sicuramente altro. Come già poi avrebbe fatto Gino De Dominicis con i suoi Tentativi di volo l’anno successivo, da qualche parte sulle montagne appostato, vestito rigorosamente di nero, come gli chansonnier maudit, come Jacques Brel o i piccoli grandi Gufi, con quell’idea di attirare l’attenzione di chi guarda solo sul gesto, sul filo sottile della sagoma, quasi ad annullare ogni orizzonte, ogni confine, qualsiasi altra distrazione. Non importa il risultato, la riuscita o meno del tentativo. Così probabilmente anche a Pino Pascali non sarebbe importato di riuscire realmente a volare. Arte che tenta, che affossa e che nello stesso concentra l’attenzione sul puro gesto, sulla sagoma dell’opera stessa. Sul suo puro profilo.
L’appuntamento: il libro Pino Pascali Intermezzo 23(NFC edizioni) è stato presentato il 26 ottobre al MaMbo di Bologna. Con il curatore del volume Jonathan Giustini, Ernesto Bassignano, storico cantautore e giornalista, Claudia Lodolo, membro dell’Archivio per l’Opera grafica di Pino Pascali, Lorenzo Balbi, direttore MAMbo.
Frame dal film Gaza di Garry Keane e Andrew McConnell
Mentre noi qui stiamo a lambiccarci per trasformare in una battaglia identitaria una tragedia umanitaria il presidente di Israele Benyamin Netanyahu ha annunciato l’invasione via terra di Gaza definendo il momento il «culmine di una lotta per la nostra esistenza».
Nel suo discorso ha utilizzato lo slogan che inebria un pezzo di Occidente e di editorialisti nostrani: «Hamas è l’Isis, e l’Isis è Hamas». In un mondo con memoria minimamente funzionante si potrebbe ricordare che la strategia adottata contro ll’Isis è stata completamente sballata. Quanto può essere cretino riproporla?
Nel frattempo gli ostaggi israeliani nelle mani di Hamas sono il loro capitale bellico mentre la vendetta di Netanyahu dal 7 ottobre ha provocato l’uccisione di6.546 palestinesi di cui 2.704 bambini, secondo il ministero della Sanità di Gaza. I feriti sarebbero 17.439. Solo tra martedì e mercoledì a Gaza sono state uccise 756 persone, tra cui 344 bambini. A Rafah una scuola dell’Unrwa, l’Agenzia delle Nazioni unite che assiste i profughi palestinesi, con 4600 sfollati nelle sue aule, è stata danneggiata da un attacco ravvicinato. Sono 38 a oggi i lavoratori morti dell’agenzia Onu. Ieri la farina dell’Onu era appena arrivata al panificio del campo profughi di Moghrabi (Deir Al Balah), uno dei pochi ancora aperti in tutta Gaza, quando hanno cominciato a cadere le bombe dei raid aerei. A Gaza molti indossano braccialetti per essere riconoscibili nel caso in cui una bomba israeliana li faccia a pezzi.
Dice l’Occidente che “la difesa non deve giustificare la vendetta” e la domanda sorge spontanea: cosa serve di più per vedere la vendetta?