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Il fallimento del diritto internazionale

All’alba del 7 ottobre scorso l’organizzazione politica Hamas ha lanciato migliaia di razzi, un numero senza precedenti, dalla striscia di Gaza verso Israele. «L’operazione militare», come l’ha definita Hamas è stata rivendicata come l’inizio della «rivoluzione contro Israele con l’obiettivo di porre fine ai crimini di Israele » compiuti sia verso i palestinesi che verso i luoghi di culto. La dimensione del conflitto è degenerata in pochissimo tempo, provocando sia reazioni di condanna dell’attacco di Hamas da parte dei Paesi occidentali che di solidarietà verso il popolo palestinese che subito dopo la Seconda guerra mondiale ha visto la progressiva occupazione del suo territorio da parte di Israele. Purtroppo, come spesso accade durante un conflitto armato, la maggior parte delle vittime sono civili, in maggioranza donne e bambini e la solidarietà della comunità internazionale dovrebbe avere una principale e prioritaria destinazione, i civili e coloro che la guerra la subiscono in prima persona.

Il conflitto in Medio Oriente è purtroppo uno dei tanti che affliggono diverse zone del mondo e, sorprendentemente, avviene all’interno di una regione dove è stata intrapresa la prima, e più datata, missione di peacekeeping delle Nazioni Unite (Onu). Si tratta della missione United Nations truce supervision organization (Untso) lanciata nel 1948, con quartier generale a Gerusalemme, ed ha gli obiettivi di monitorare i cessate il fuoco dei fronti in guerra in Medio Oriente, di supervisionare gli accordi di armistizio e prevenire l’aggravarsi di possibili incidenti isolati. Attualmente le missioni di peacekeeping delle Nazioni Unite sono 12 e sono dislocate nel continente africano (6), in Medioriente (3), in Europa (2) e in Asia (1). Ciò che salta all’occhio vedendo le informazioni delle missioni (vedi box) è la loro data d’inizio, in quanto almeno la metà di queste sono state lanciate prima del 2000. Le date di alcune di esse fanno legittimamente pensare a che tipo di valore aggiunto abbiano gli interventi dei “caschetti blu” dell’Onu in alcuni territori e ci si può anche domandare cosa significhi mantenere la pace in territori fortemente instabili caratterizzati da difficili realtà sociali, economiche ed ambientali.

«La guerra è disumana»

Il 7 ottobre 2001 iniziò l’invasione Usa in Afghanistan. «Quel giorno capii di non essere un pacifista ma di essere contro la guerra», ha scritto Gino Strada in Una persona alla volta, uscito postumo. Un libro più attuale che mai, che tratteggia aspetti cardine della personalità e del lavoro del fondatore di Emergency: l’interesse per l’umano, l’amore per la scienza, per la medicina in particolare (proprio in quanto rapporto fra esseri umani), l’ateismo, la passione civile, la lotta per i diritti umani, l’idea che la guerra non sia un destino ineluttabile e che non si possa umanizzare (neanche tramite codici ad hoc) ma vada eradicata come un cancro…
Rileggendo oggi questo prezioso volume edito da Feltrinelli colpisce anche una coincidenza di date. L’attacco dei terroristi di Hamas ai giovani israeliani durante un pacifico rave è avvenuto il 7 ottobre. Quella agghiacciante strage, è stato detto, è l’11 settembre di Israele. L’invasione Usa dell’Afghanistan fu lanciata contro i terroristi, ma a pagarne il prezzo è stata la popolazione civile come bene sanno i medici di Emergency che operano a Kabul e in altre zone del Paese. Oggi l’assedio e l’invasione di Gaza da parte dell’esercito israeliano per debellare Hamas vuol dire una immane strage di civili palestinesi, intrappolati in quel fazzoletto di terra. Perché nessun attore internazionale è intervenuto per spezzare questa catena di violenza? Un quesito che rivolgiamo a Simonetta Gola, dal 2012 a capo della comunicazione di Emergency, compagna di vita di Gino Strada e curatrice del suo ultimo libro.

Nessun colpo di cannone ci ha mai fatto progredire

Se si chiede: chi e quando? E la risposta immediata e unica è: Gandhi. Il mahatma, con la sua incredibile lotta di liberazione senza sangue. Meglio: con poco sangue. Pensate, un intero continente, perché questo è l’India, che si rende indipendente da un impero ormai bolso come quello britannico, senza sparare un colpo, senza dichiarare una guerra, senza armare nessuno.
Se chiediamo dove, quando e con quali protagonisti la storia del mondo, antica o recente, abbia avuto periodi o esempi di assenza di guerra o di conflitti risolti senza combattimenti, Gandhi è il solo punto di riferimento, l’unico esempio che riusciamo a fare. A dire il vero c’è un altro grande esempio di “soluzione pacifica del conflitto”. È quella voluta da Nelson Mandela nel Sud Africa del dopo apartheid. Tutto il mondo giurava ci sarebbe stata una strage, ci sarebbe stata la vendetta da parte della popolazione nera. Invece no, il cambiamento fu incruento. Un grande esempio, come l’India di Gandhi. Ma finiscono lì.
Perché diciamolo, non è mica facile. Frugare nella storia e trovare periodi in cui è stata la pace a governare le cose del mondo – la pace intesa come sistema di relazioni, di distribuzione di ricchezza e diritti, insomma come sistema politico – è quasi impossibile. Sembra sia la guerra a segnare le tappe del nostro tempo come umanità e con la guerra sono gli eroi, mitici o reali, a diventare l’esempio da imitare, da seguire. Tant’è, la pace non si racconta. La mancanza di guerra è ai margini del nostro orizzonte, quasi fosse cosa poco interessante e scarsamente educativa.

Palestina, storie di (stra)ordinaria Resistenza

Generazione Gaza s’intitolava un numero di Left in cui cercavamo di capire cosa pensa la gioventù palestinese stretta fra l’occupazione militare israeliana e il giogo di Hamas. Non ci sono sondaggi, ma dalle testimonianze che avevamo raccolto e che abbiamo continuato a raccogliere emerge con chiarezza la dura quotidianità di una nuova generazione (il 30 per cento della popolazione a Gaza ha meno di 15 anni) senza rappresentanza, che ha sempre vissuto in quel carcere a cielo aperto, che non ha conosciuto altra realtà, ma che sa immaginarla, provando a bucare i muri e la sordità internazionale con video, docufilm, registrati con i cellulari e con mezzi di fortuna. In Italia il Nazra Palestine short film festival, rassegna cinematografica itinerante, ha il merito di avergli offerto una finestra e ora molti di quei lavori si possono vedere gratuitamente sul sito del festival (nazrashortfilmfestival.wordpress.com).

Per capire come si viveva nella Striscia, quali già erano gli enormi problemi economici, sanitari umanitari – prima del  del criminale di Hamas  e prima dell’assedio e bombardamento israeliano che ha quasi raso al suolo Gaza- il consiglio è leggere il numero monografico della rivista-libro The Passenger, edita da Iperborea e dedicato alla Palestina. Un numero bellissimo e toccante, che offre un importante approfondimento con contributi di scrittori e attivisti, che si alternano nel dare voce a chi non ha voce nella città di Gaza, occupata da Israele fin dal 1967 (nel silenzio internazionale e in violazione della risoluzione Onu nr. 242/67) a chi vive in Cisgiordania dove l’Autorità palestinese, ala laica e socialista, erede di Arafat è contestata perché non indice elezioni da molti anni (per il timore che Hamas possa vincere anche in questa regione).

Ciò che The Passenger ci racconta di più rispetto alle cronache che leggiamo sui giornali e vediamo in tv è come vivono da anni i palestinesi, da stranieri nella loro terra. E lo fa attraverso intensi reportage, alcuni anche di spessore letterario. Lo scrittore e avvocato Raja Shehadeh, per esempio, racconta che come tanti altri palestinesi amava camminare sulle colline intorno a Ramallah, ma l’espansione degli insediamenti dei coloni israeliani impedisce ora anche questa possibilità. «Partire per una sarha significa lasciarsi andare. È una cosa tutta palestinese, uno sballo senza droghe. Ma oggi – scrive – è diventato impossibile dedicarsi alla sarha per via del continuo aumento degli avamposti e degli insediamenti israeliani, ormai più di 419, e dei reiterati atti di violenza compiuti dai coloni ai danni dei palestinesi». Shehadeh spiega anche come sia avvenuto tutto questo: «Qui è in atto un processo di colonizzazione per il quale un gruppo religioso utilizza un ingente afflusso di capitali provenienti soprattutto dagli Stati Uniti per impadronirsi della terra di proprietà dei nativi palestinesi, al fine di edificare insediamenti e infrastrutture sempre più estesi a uso esclusivo dei cittadini israeliani».

Ramallah, Palestine: Manwa Shaheen is the wife of Ahmad who was arrested in 2001 and sentenced to 22 years in prison. (ph. Antonio Faccilongo)

Il processo è cominciato molti anni fa, addirittura dopo gli accordi di Oslo del 1993-1995, ma da quando il governo di destra e i partiti dei coloni sono al potere la situazione è precipitata, sostiene l’avvocato e scrittore: «Ora, sempre più spesso, si sente il ritornello: “Non vogliamo palestinesi sulla terra che ci è stata data da Dio”. Sono da tempo quotidiani gli atti di violenza perpetrati dai coloni ai danni di agricoltori, pastori e raccoglitori di olive allo scopo di spaventarli e costringerli ad andarsene».
Dai dintorni di Ramallah, al cuore della città, da sempre quartier generale dell’Autorità palestinese, in cui i giovani ormai non si riconoscono più. La scrittrice Taiye Selasi (autrice de La bellezza delle cose fragili, Einaudi) indaga su un tabù: è possibile un amore fra israeliani e palestinesi? Lo fa a partire dalla storia di vita del poeta palestinese Mahmud Darwish e componente dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) che si innamorò di una ragazza israeliana. Morto a 67 anni, il poeta nazionale palestinese era nato nel 1941 nel villaggio di Birwa da cui la sua famiglia dovette fuggire quando fu occupato nel 1948. Ha scritto molti testi sulla lotta di indipendenza del suo popolo, criticando l’occupazione militare israeliana. Nelle sue poesie dava voce alle sofferenze dei rifugiati dopo la Nakba. «Il cuore del lavoro poetico di Darwish – scrive Selasi – era affermare con forza la comune appartenenza all’umanità». Con la forza della poesia lottava contro la deumanizzazione strategica imposta dallo Stato di Israele e contro la deterritorializzazione del popolo palestinese, anche il suo contrastato amore per Rita, la cui reale identità rimase nascosta per anni, racconta come pubblico e privato, scrittura e biografia non conoscessero in lui scissioni.

L’ultimatum di Israele ai civili di Gaza, intimando di lasciare le loro case, pena il rischio di essere uccisi, ha riaperto antiche ferite, non solo quella storica della Nakba, l’esodo forzato dei palestinesi nel 1948, ma anche quelle più recenti. L’ultimatum echeggia le operazioni di pulizia etnica a Gerusalemme est: nel quartiere di Sheikh Jarrah lo Stato israeliano ha consentito indebite cacciate di palestinesi come abbiamo documentato a più riprese su Left. Su questo numero di The Passenger ne scrive Nour Abuzaid, del gruppo di ricerca Forensic Architecture, documentando una serie di azioni di deliberata pulizia etnica messe in atto nel quartiere. Tutta l’operazione è culminata nell’ottobre del 2021 con una dichiarazione del ministro della Difesa israeliano che ha definito movimenti terroristici sei tra le principali organizzazioni palestinesi che lottavano democraticamente per il riconoscimento dei diritti dei palestinesi residenti. «Una pronuncia calunniosa – scrive Nour Abuzaid – che mira a indebolire i loro tentativi di ristabilire la verità e la giustizia, e di accertare le effettive responsabilità».

Occupied Palestinian Territories, West Bank, Za’tara, 06 January 2013
Hayat (left) teaches yoga to the residents of her village, Zataara, on the outskirts of Bethlehem in the West Bank. The women are increasing in number each week (ph. Tanya Habjouqa-Noor)

Per capire più a fondo i meccanismi della politica di esproprio e di frammentazione del territorio palestinese particolarmente utile è l’intervento della nota giornalista israeliana Amira Hass, fra le voci più critiche del governo di Bibi Netanyahu, che su The Passenger denuncia una pianificata operazione per sezionare il territorio palestinese costruendo quartieri di lusso, immersi nel verde e per soli ebrei. «Tutto avviene con fredda efficienza chirurgica grazie all’appoggio di leggi e al supporto di una sofisticata propaganda unita da una spinta di matrice religiosa». Ovvero, spiega Hass, la frammentazione del territorio viene giustificata «con motivi di sicurezza oppure invocando una promessa divina contenuta nella Torah». Si tratta di «uno stupro del territorio seriale e di massa», scrive Amira Hass ed ha un preciso scopo: «La israelizzazione tramite la progettazione degli spazi trasmette un messaggio inequivocabile: i palestinesi sono superflui e non appartengono a questo luogo». Dunque si possono anche rinchiudere in un ghetto.

Ed eccoci ad Gaza che era già una prigione a cielo aperto prima di questa violenta controffensiva di Israele in risposta alla strage del 7 ottobre compiuta da Hamas. Su The Passenger Asma’ al-Atwna, ricercatrice e scrittrice, racconta cosa significa crescere a Gaza, uno dei luoghi più densamente popolati al mondo, in una città sotto il giogo conservatore, patriarcale, a cui si è aggiunto quello fondamentalista di Hamas, che ha vinto le elezioni nella Striscia nel 2007. «Da allora la popolazione, che conta più di 2 milioni di persone, è stata sottoposta a un blocco areo marittimo e terrestre che impedisce di entrare e uscire da questo fazzoletto di terra, che si estende per 41 km. Il blocco ha causato il deterioramento delle condizioni economiche, sanitarie e sociali per gli abitanti della Striscia». Aiutata da un suo professore dell’università, Asma è riuscita a fuggire da Gaza dopo un pestaggio subito da suo padre perché lei non portava il velo e protestava contro i matrimoni combinati di cui erano vittime le sorelle. «Ho scelto di vivere in esilio dal 2001- racconta Asma – non ho mai pensato di tornare a Gaza, soprattutto dopo che Hamas ha preso il potere nel 2007. Il popolo di Gaza ha votato per l’organizzazione islamista pensando che l’avrebbe salvato dall’Anp, con il suo sistema mafioso e autoritario. Oggi vive nella prigione di Hamas, dentro la prigione a cielo aperto che è Gaza. Negli anni successivi Hamas ha imposto il velo alle donne e ha istituito la polizia morale per opprimerle».

In questo viaggio in Palestina guidati da The Passenger arriviamo infine nel campo profughi di Jenin, simbolo della resistenza contro l’occupazione israeliana. Gli edifici sono crivellati di proiettili e coperti di manifesti di attivisti uccisi. «Qui – racconta la giornalista Yumna Patel- vivono e hanno vissuto diverse generazioni di rifugiati e la stessa esistenza del campo sono la testimonianza di tre quarti di secolo di esilio, della Nakba- catastrofe che ha plasmato una nazione e un intero popolo». Nel campo di Jenin vivono 15mila palestinesi, è uno dei 19 campi profughi esistenti in Cisgiordania. È stato creato nel 1948, all’indomani della Nakba, quando circa 750mila palestinesi furono cacciati dalle proprie case ad opera delle milizie sioniste e del neonato Stato di Israele. Oggi le nuove generazioni imbracciano i fucili, sotto continui raid israeliani. Sono giovani che non hanno avuto un’infanzia, fin da piccolissimi hanno visto persone uccise ogni giorno non solo “combattenti” ma anche donne e bambini. Hanno vissuto un’occupazione e un’oppressione via via sempre più crudele. E sentono di non aver altra via che difendersi e resistere. «Chiunque pensi che uccidere e distruggere possa portare pace e salvezza alla sua gente è un illuso», dice Mohammed al Sabbagh, capo del comitato popolare del campo a Yumna, riferendosi alla politica israeliana di effettuare raid sul campo. «Questa politica costerà cara a tutti, palestinesi e israeliani e non porterà né pace né salvezza, né sicurezza a nessuno». Parole più attuali che mai.

Foto in apertura di Paddy Dowling, courtesy The passenger (Iperborea)

Crimini contro l’umanità

Dal 7 ottobre, dopo l’attacco di Hamas a Israele, stiamo assistendo a una delle più disperate crisi umanitarie nella Striscia di Gaza, dove vivono più di 2,2 milioni di persone già sottoposte al blocco illegale da parte dell’esercito di Tel Aviv, iniziato nel 2007. Il 9 ottobre, il governo di Netanyahu ha annunciato l’assedio totale di Gaza, bloccando l’ingresso di cibo, carburante e assistenza umanitaria e interrompendo la fornitura di acqua ed elettricità, nel mezzo di una massiccia campagna di bombardamenti. La sofferenza, le lacrime, lo strazio che queste famiglie stanno vivendo da quando si sono riaccesi gli scontri lungo la Striscia di Gaza sono le stesse: nessuno dovrebbe vivere l’incubo di non sapere se arriverà alla fine della settimana. La vita di una donna palestinese vale quanto la vita di una donna israeliana. E questo è un concetto che dovremmo ripetere all’infinito e ovunque. Lo documentiamo ogni giorno, come Amnesty international. Siamo un’organizzazione imparziale per l’affermazione dei diritti umani che cerca di assicurare che tutte le parti coinvolte in un conflitto armato rispettino il diritto internazionale umanitario e il diritto internazionale dei diritti umani. Nel tempo, e non solo dall’esplosione di questa nuova crisi, abbiamo indagato e stiamo continuando a indagare sulle azioni delle forze israeliane e sulle attività di Hamas e di altri gruppi armati palestinesi per verificare se rispettino il diritto internazionale umanitario, comprese le norme che chiedono di prendere tutte le precauzioni per ridurre al minimo i danni alla popolazione civile, alle strutture civili e di evitare attacchi e forme di punizione collettiva contro i civili.

FIGC: una partitella in famiglia

Lo stadio Olimpico, a Roma, fonte wikipedia

Nella Federazione Italiana Gioco Calcio (Figc) da poco lavora Filippo Tajani, non omonimo ma figlio del ministro agli Esteri Antonio, vice presidente del Consiglio nonché capo nel partito Forza Italia. Come racconta Lorenzo Vendemiale su il Fatto Quotidiano oggi in edicola il giovane Tajani lavorerà nel dipartimento che si occupa degli Europei 2032, con un contratto (per ora) fino al prossimo aprile.

Nelle Figc lavora anche Marta Giorgetti che non è un’omonima ma è la figlia del ministro Giancarlo, ministro all’Economia dello stesso governo di Antonio Tajani nonché uomo di punta della Lega con Matteo Salvini. Si occupa dell’organizzazione delle partite della nazionale allo stadio e dopo avere completato uno stage un anno e mezzo fa è stata continuamente confermata nel suo ruolo. Nella Figc, lo scrive il Fatto, ha lavorato anche un parente dell’ex ministro Vincenzo Spadafora (M5S) quando il partito aveva un peso politico maggiore essendo in maggioranza. 

Forse è davvero una coincidenza che il presidente della Federcalcio Gabriele Gravina abbia pescato talenti inaspettati nelle parentele strette dei ministri dei governi che si sono succeduti. O forse ancora non è passato quel tempo in cui le classi dirigenti di questo benedetto Paese sono convinte di non dover mai rispondere ai principi di opportunità che sviliscono e disperano un giovane qualsiasi che provi a entrare nel mondo del lavoro. 

Nell’anno 2023 continua tranquillamente a succedere qui in Italia che il “chi ti manda” sia una caratteristica fondamentale per accedere a determinate posizioni lavorative. E quelli – notate bene – sono gli stessi che si accaniscono contro i giovani svogliati.

Buon giovedì. 

Di il direttore, CC BY 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=57316792

Spagna. Passi avanti verso il terzo governo Sànchez

“In nome della Spagna, nell’interesse della Spagna, in difesa della convivenza tra gli spagnoli, difendo oggi l’amnistia in Catalogna per gli eventi degli ultimi dieci anni”. Pedro Sánchez, presidente del governo ad interim e candidato del Psoe all’investitura, ha esplicitamente difeso una legge per l’amnistia per tutte le persone coinvolte nello svolgimento del referendum e nella dichiarazione unilaterale di indipendenza della Catalogna nel 2017. Lo ha fatto durante un intervento al Comitato federale del suo partito. Sánchez ha difeso l’amnistia sulla base della necessità di formare “un governo progressista” di fronte alla “battuta d’arresto” che una coalizione tra Feijóo dei Popolari e Abascal di Vox comporterebbe, e soprattutto per chiudere definitivamente la frattura politica vissuta in Catalogna dopo il processo giudiziario agli indipendentisti.
È una decisione dettata dall’aritmetica parlamentare definita dalle ultime elezioni politiche. “È cambiato qualcosa nella realtà che giustifica un cambiamento da parte nostra? La risposta è semplice: sì. Le elezioni del 23 luglio” e ha aggiunto “Ci sono 56 deputati che chiedono una amnistia per sostenere l’investitura. È la condizione per avere un governo progressista. Il programma elettorale può essere identico al programma di investitura solo quando un partito raggiunge la maggioranza assoluta. Ma non è questo il caso, e il nostro programma di governo deve includere richieste di altri gruppi politici”. Soprattutto è l’unica condizione per ottenere il sostegno degli indipendentisti alla sua rielezione a presidente del governo.
Nello stesso giorno arrivano le parole della vicepresidente del governo e leader di Sumar, Yolanda Díaz, che dà per scontato che l’investitura di Pedro Sánchez avverrà “tra pochi giorni” e che ci sarà un governo di coalizione con i socialisti. Non si può tornare indietro. Sánchez ha fatto il passo definitivo, quello che molti gli chiedevano da settimane.
È solo di qualche giorno fa la firma di Pedro Sánchez e Yolanda Díaz sull’accordo di governo per i prossimi quattro anni. Un programma che contiene più di 230 diverse misure per definire le linee guida per la legislatura. Certo c’è una tabella di marcia, ma un governo, al momento, non esiste. Per ora a sostegno dell’investitura del leader socialista, ci sono 158 voti sicuri – 121 del Psoe, 31 di Sumar e 6 di EH Bildu i nazionalisti baschi -, mancherebbero 17 voti necessari per raggiungere la maggioranza assoluta o, nel peggiore dei casi, almeno 14 per superare i 171 sufficienti in una seconda votazione del Congresso per portare a casa il prossimo governo e evitare altre elezioni politiche che potrebbero vedere il ritorno delle destre. Ma ci sono ragioni per essere ottimisti e il programma con il piano per combattere la disoccupazione giovanile, l’aumento del salario minimo e la riduzione dell’orario di lavoro a 37,5 ore settimanali, “senza riduzione del salario”; l’aumento del patrimonio edilizio pubblico, l’aumento degli obiettivi climatici della Spagna e una riforma fiscale volta ad aumentare il contributo dei gruppi bancari ed energetici alla spesa pubblica, è un accordo che può funzionare e comunque un passo importante per la formazione del nuovo governo basato sulla coalizione delle due sinistre.
Ma se è indispensabile strappare il consenso dell’insieme delle forze autonomiste o dichiaratamente indipendentiste che agiscono in Catalogna, in Galizia, nella Comunità Valenziana e nei paesi Baschi, forse si comprende meglio la scelta dell’amnistia.
Podemos ha annunciato che nei prossimi giorni sottoporrà l’investitura di Pedro Sánchez al voto dei suoi membri, perché “Tutte le decisioni importanti di Podemos vengono prese dagli iscritti”. Ultimamente il partito viola ha criticato la mancanza di ambizione del Psoe e dei leader di Sumar, coalizione di cui fanno parte, nel negoziare il patto di governo e non ha valutato il documento d’accordo di cui, sostengono, non erano a conoscenza. Tuttavia, finora, né in pubblico né in privato, la leadership ha messo in discussione il sostegno all’investitura. Lo stesso ex vicepresidente Pablo Iglesias lo ha dato per scontato la scorsa settimana in televisione.
Anche i militanti del Psoe sono chiamati a una consultazione, Sánchez ha inviato loro una lettera chiedendo di sostenere il patto di governo con Sumar e i negoziati con i partiti nazionalisti e indipendentisti per ottenere la sua investitura, nella lettera ha ribadito che l’amnistia per gli accusati del processo pro-indipendenza è “la strada giusta”.

Come preludio al sostegno degli indipendentisti all’investitura di Pedro Sánchez, il segretario organizzativo dei socialisti, Santos Cerdán, numero tre del partito, è volato a Bruxelles per incontrare l’ex presidente catalano Carles Puigdemont, proprio in coincidenza con il sesto anniversario dell’espatrio in Belgio dell’ex presidente della Generalitat. La foto con Puigdemont, scattata in una saletta del Parlamento europeo, anticipa un imminente accordo tra Junts per Catalunya e Psoe in attesa della decisione di Erc, la sinistra repubblicana catalana. Questa istantanea dell’incontro, a cui la destra ha reagito a raffica, rappresenta anche il riconoscimento pubblico da parte del Psoe di Puigdemont come interlocutore politico dopo anni di contrasti e dichiarazioni che lo screditavano.
Pedro Sánchez, di fatto, è disposto a fare tutti i passi necessari, anche quelli simbolici, per trovare un accordo legislativo che non si limiti alla sua investitura, cioè cerca garanzie di stabilità parlamentare in un Congresso senza una maggioranza progressista. Il Psoe non è intenzionato a approvare una legge di amnistia e a dare una svolta radicale per porre fine a tutti i processi giudiziari in corso, senza la garanzia di non trovarsi, un paio di mesi dopo, in un inferno parlamentare incapace di applicare il suo programma e che finirebbe per portare a elezioni anticipate che aprirebbero nuovi varchi al disegno reazionario delle destre. Sánchez vuole stabilità e garanzie.
Tutto sembra convergere su un governo Sánchez 3, cercando di non guardare i punti deboli, in particolare quelli sulla politica estera spagnola che, con le guerre in corso, potrebbero vanificare la futura maggioranza e proprio l’unità delle sinistre. Questo non sarebbe un problema solo per la Spagna, sarebbe qualcosa che riguarda tutta l’Europa, che ha bisogno di qualcuno che la spinga a liberarsi della politica subalterna nei confronti della Nato e degli Stati Uniti.

In foto Pedro Sanchez con la moglie María Begoña Gómez Fernández, scattata da Carlos Delgado – Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=66242204

Alternativa Comune per battere le destre. Non c’è tempo da perdere

l'eurodeputato Massimiliano Smeriglio all'assemblea di Alternativa Comune a Napoli

Adunata napoletana per la Rete Alternativa Comune, in cammino per organizzare la sinistra civica che non vuole rimanere alla finestra nella sfida alle destre e sceglie una bussola, radici salde nelle città e sguardo ambizioso sull’Europa che va salvata dai nazionalismi. Né una partenza, né un arrivo ma un momento di passaggio, carico di significato quello che a Napoli ha riunito una Rete civica nazionale pronta a dare battaglia.
Partenope generosa e solidale apre le braccia e per un pomeriggio il Consiglio Comunale di questa capitale del Mediterraneo si riempie delle storie differenti di una rete politica che da qualche mese a questa parte si è riunita in un progetto comune, un progetto per la sinistra ecologista. La novità c’è: a differenza del più classico cliché del frazionismo a sinistra, Alternativa Comune nasce per riunire e costruire con altri e diversi. Il tempo terribile che viviamo non richiede di meno.
Tutti in campo allora: iniziamo da sei città riunite insieme e altre pronte a raccogliere l’appello di una nuova stagione di battaglie. Non c’è tempo da perdere.
Napoli, Roma, Cagliari, Milano, Genova, Riace, le rappresentanze della Sinistra Ecologista si sono riunite insieme per un pomeriggio di assemblea e discussione, la testa già rivolta al prossimo 5 novembre quando AVS, l’Alleanza Verdi e Sinistra, si incontrerà in un evento nazionale per un percorso a tappe verso le prossime elezioni europee.


Sei città pronte a dare il loro contributo, dopo aver riconquistato e difeso metro per metro dalla diaspora della sinistra-sinistra del nostro Paese, senso di appartenenza e comunità di destino, tenendo insieme sociale e politico, eleggendo portavoce nei consigli municipali, comunali, regionali, fino in Parlamento, oggi, queste sei città, vogliono fare un passo di più.
Sergio D’Angelo, capogruppo di Napoli solidale che ha aperto l’incontro lo spiega bene: sono talmente tante le battaglie comuni, le biografie intrecciate, le passioni che spingono a riunirsi che non possiamo più farne a meno. Veniamo da anni pazzeschi e oggi che l’Europa e il Mediterraneo si risvegliano nella loro pagina più buia da decenni, strette tra l’eco della guerra, l’impoverimento di massa, la cavalcata egemonica dell’estrema destra, e una spietata crisi ecologica, c’è un vuoto da riempire.
Anita Pirovano, Selena Candia, Claudio Marotta, Rosario Andreozzi, Francesca Ghirra, un gruppo di teste di ponte, portavoce di storie collettive più grandi, comunità ribelli, con cui insieme in questi mesi abbiamo attraversato spazi istituzionali e territori in lotta per cucire insieme storie differenti. Storie di periferie urbane e aree interne abbandonate, storie di sperimentazione e invenzione, e ancora storie di riscatto e speranza. Al sentimento dominante dei nostri anni, quella paura psicotica che può dare assuefazione su cui le destre in tutta Europa e a livello globale si riconoscono riunite in una unica lingua comune, insieme abbiamo scelto l’esatto opposto, la lingua della speranza e della fiducia che non tutto è già scritto.
Una grande battaglia culturale serve a questo paese, una battaglia per contendere con una egemonia positiva, le aspirazioni dei post fascisti italiani.
Quale luogo quindi migliore che cominciare dal Sud questo nuovo capitolo. Diritto ad un abitare degno, energia pulita e solidale, scuola pubblica e cooperativa, sanità di prossimità, e la grande partita sul mondo del “lavoro che viene”, dove tutele, redistribuzione e reddito si contrappongono agli scenari di una economia disumanizzata e estrattiva.
La destra ha una ricetta semplice: carcere. Sempre e comunque carcere. A ogni conflitto sociale, carcere; a ogni grido d’aiuto, carcere; a ogni grande dramma generazionale, carcere.
E se fino ad oggi non siamo riusciti ad alzare una voce univoca per dire che un’alternativa c’è, libertaria e solidale per il nostro paese, non ci tiriamo indietro di fronte a un’urgenza necessaria. E allora val bene che parta dalle città, una riscossa. Nelle città si costruisce e sperimenta, nelle città si lotta e si immagina. Ci sono storie, tante, che questo incontro non può tenere tutte insieme. Storie di resistenza: le Vele di Scampia da rigenerare, le comunità energetiche della Liguria, le comunità educanti di Roma, l’urbanistica femminista di Milano, la Sardegna che non si piega al disinteresse del continente. Nelle città ci si riconosce e si fa inchiesta sul paese che si disgrega e su quello che ha ancora desiderio di futuro.
Potrebbero essere isole nella corrente, ma c’è ambizione e coraggio in questa assemblea. L’ambizione e il coraggio che arriva come un vento dalla Spagna di Yolanda Diaz e Sumar dove la destra ha sbattuto la faccia contro un progetto di società all’altezza dei nostri tempi.
Potrebbero essere isole nella corrente, ma queste città non vogliono rimanere alla finestra, attendere che passi la tempesta, cercare un accordo di comodo in attesa di tempi migliori. Fuori da quest’aula nel cuore del Sud, una tempesta si abbatte sul vecchio continente e di là dal mare, come un incubo che preannuncia il peggio.
Non è un risveglio inatteso, purtroppo. Abbiamo visto crescere da tempo il mondo terribile che scorre davanti ai nostri occhi in queste ore. L’eco e i bagliori delle bombe su Gaza, non si sentono o vedono da Napoli, ma negli occhi di questa sala gremita ci sono le lacrime di chi spera in una parola proibita, capace ancora però di riempire le piazze di mezzo mondo: pace, pace, pace.
Qua questa parola ha cittadinanza. Si può chiedere pace e disertare la logica degli schieramenti, disertare la vendetta come categoria politica. Quello che il sogno di una Europa unita non riesce più a dire.
La pace, e insieme tutto quello che significa per continuare a credere in un altro mondo possibile, sarà la posta in palio alle prossime elezioni europee. Massimiliano Smeriglio che ha difeso questa bandiera e questa idea in questi anni da europarlamentare a Bruxelles e da militante in Italia, è la prima voce a cui abbiamo chiesto di chiudere questo incontro perché da qua, per dignità, dobbiamo ripartire: per ridare alla sinistra il senso di chi fa quello che dice e che dice quello che insieme possiamo praticare. Nessuna donna o uomo solo al comando ma una storia comune, perché abbiamo bisogno di una difendere l’Europa dall’aggressione nazionalista e razzista, e di farlo insieme a tante e tanti.
Si può vincere? Si. Si può vincere, a patto di rimetterci pancia a terra a costruire quello che è necessario. Senza l’ansia di rinnovare a ogni stagione politica l’album di figurine dei nuovi volti della sinistra, ma andando a cercare le storie di cui abbiamo bisogno nelle biografie di chi ha tenuto in piedi una casamatta di umanità senza cedere all’opportunismo. Senza l’ansia di vincere a tutti i costi, sacrificando credibilità sull’altare della responsabilità.
Si può vincere, oggi o domani, ma bisogna iniziare e non darsi per vinti in partenza.
Quante volte hanno dato per morta la straordinaria storia di Riace e del suo sindaco ribelle Mimmo Lucano? Mimmo a Napoli c’era per chiudere questo incontro e dare voce con la sua storia, a un simbolo di umanità che ha sfidato le prove più ardue, l’umiliazione, la sconfitta, il discredito, ma che oggi non abbassa la testa, contro un governo razzista, e mostra dove la sinistra che non passa nei telegiornali, ha tenuto duro, e oggi può tornare a camminare, per una nuova battaglia.

L’autore: Amedeo Ciaccheri è Presidente Municipio Roma 8 e portavoce della Rete Alternativa Comune

Cosa c’è di più stupido del soffiare su tutto questo?

Craig Mokhiber è il direttore dell’ufficio di New York dell’Alto Commissariato per i diritti umani delle Nazioni Unite. Ieri ha deciso di dimettersi per urlare la sua impotenza (e quella dell’Onu) di fronte agli eccidi di questo tempo. 

“Ancora una volta – ha scritto Mokhiber nella lettera indirizzata all’Alto Commissario dell’Onu per i diritti umani, Volker Turk – stiamo assistendo a un genocidio che si sta svolgendo sotto i nostri occhi e l’organizzazione che serviamo sembra impotente a fermarlo“. “Le Nazioni Unite – scrive – non sono riuscite a prevenire i precedenti genocidi contro i Tutsi in Ruanda, i musulmani in Bosnia, gli yazidi in Yemen e i Rohingya a Myanmar: Alto Commissario, stiamo fallendo di nuovo”.

Mokhiber aggiunge: “Come avvocato per i diritti umani con più di tre decenni di esperienza, so bene che il concetto di genocidio è stato abusato a livello politico, ma l’attuale carneficina contro il popolo palestinese non lascia spazio a dubbi”. Sulla guerra a Gaza spiega: “Questo è un caso da manuale di genocidio“, accusando nella sua lettera gli Stati Uniti, il Regno Unito e gran parte dell’Europa non solo “di rifiutarsi di rispettare i loro obblighi” ai sensi delle Convenzioni di Ginevra, ma stanno anche armando l’attacco di Israele e fornendo ad esso una copertura politica e diplomatica”. 

Mentre il genocidio si consuma nel pomeriggio dell’altro ieri, sei bombe da una tonnellata ciascuna hanno completamente distrutto un intero quartiere del campo profughi di Jabalia, Intanto a Parigi sono comparse stelle di David su case e negozi di ebrei. 

Cosa c’è di più stupido del soffiare su tutto questo?

Buon mercoledì.

Nella foto: il campo profughi di Jabalia dopo il bombardamento israeliano (frame del video di Euronews), 31 ottobre 2023

Lo scrittore Serhij Zhadan: Racconto gli invisibili che vivono sotto le bombe in Ucraina

Lo scrittore ucraino Serhij Zhadan racconta agli studenti di alcuni licei italiani come la popolazione civile vive sotto la guerra e la funzione sociale della letteratura e della cultura. L’occasione è stata la XVIII edizione del Premio internazionale città di Cassino “Letterature dal fronte”, promosso dall’omonima associazione culturale e dedicato agli scrittori contemporanei europei che nelle loro opere hanno parlato delle crisi umanitarie legate a recenti conflitti bellici.
Una particolarità di questo premio (la premiazione è avvenuta il 5 ottobre nell’aula magna dell’Università di Cassino) è che la giuria è formata dai ragazzi di alcune classi dei licei, ai quali è affidato il compito di leggere quattro libri di autori contemporanei e, tra questi, di scegliere il vincitore.

Nell’edizione di quest’anno, dedicata all’Ucraina, gli studenti hanno premiato il romanzo Il convitto (edito dalla Voland nel 2020, traduzione Giovanna Brogi e Mariana Prokopovyč), di Serhij Zhadan, ambientato proprio nelle regioni dell’Ucraina orientale dove, a cominciare dal 2014, si combatte una guerra della quale non si vede ancora la fine.
Purtroppo per motivi legati al conflitto bellico l’autore non ha potuto essere presente alla cerimonia, ma si è collegato dalla sua città, Kharkiv (la seconda città ucraina a quaranta chilometri dal confine russo teatro di violentissimi combattimenti nei primi mesi della guerra e dove i bombardamenti non sono mai cessati), ha seguito la cerimonia attraverso una traduzione simultanea e ha risposto alle domande degli studenti.

Ha dichiarato Zhadan all’inizio dell’incontro:

“Mi sembra molto importante il fatto che in questo momento si parli di letteratura che si occupa di un tema così tragico e doloroso come la guerra, è una sensazione molto strana essere uno scrittore che scrive della guerra e sulla massima prossimità con la morte e così è capitato che proprio ieri mi sono trovato nel Donbas in quei luoghi descritti nel romanzo Internat. Con degli amici siamo stati vicini alla linea del fronte a trovare dei nostri conoscenti e siamo tornati la sera tardi, ed è una strana sensazione quando ti trovi fisicamente nelle pagine descritte dal tuo libro e altrettanto singolare è la sensazione che la letteratura in queste circostanze perda la sua normale cornice, i propri confini; la realtà della guerra è molto crudele e molto forte, spesso molto più forte dei nostri tentativi di rifletterla, ma la cosa che a me pare ancora più importante in questa situazione è che la letteratura e la cultura le diano una voce, siano testimoni dei fatti. Qualcuno dei colleghi ha giustamente citato Umberto Eco, il quale scriveva che la letteratura offre la possibilità di vivere cento vite, ma allo stesso tempo la letteratura e l’arte in generale, ci offre la possibilità di ascoltare cento voci, sono le voci che solitamente non ascoltiamo quando parliamo di politica, economia o della lingua dei mass-media, invece la cultura, nella sua dimensione soggettiva e privata, ci offre la possibilità di ascoltare queste voci. Il premio nobel polacco Czesław Miłosz le definiva “le voci della povera gente povera”, delle persone intrappolate in mezzo al fuoco, nella zona teatro del conflitto bellico, nella zona della morte, e a me è sempre sembrato importante riportare la voce di queste persone, quelle che formano lo sfondo generale di questa guerra, proprio di questo parla il romanzo Il convitto, la voce degli uomini che vogliono sopravvivere e salvarsi. Ma, credetemi, la cosa che vogliamo di più è che questa guerra finisca il prima possibile, che l’Ucraina possa ristabilire la sua unità territoriale e che si possa parlare di una letteratura non di guerra, ma dell’amore, delle passioni e delle cose belle della vita. E io credo che sarà proprio così”.

Ecco l’intervista a Serhij Zhadan.

Paša, il protagonista de Il convitto, inizialmente sembra essere indifferente, sembra che voglia non sentire i rumori, le notizie della guerra con cui poi sarà costretto a confrontarsi. Questo comportamento è più simile a quello con cui le persone in Ucraina percepiscono il conflitto adesso o come lo percepivano all’inizio del conflitto?

Questo atteggiamento riguarda più che altro l’atteggiamento delle persone all’inizio della guerra. Qui è importante ricordare che la guerra non dura da tre anni, è cominciata non dal 24 febbraio 2022, ma nella primavera del 2014 e i primi soldati russi sono comparsi con le armi in Ucraina nella primavera del 2014, quasi dieci anni fa. E allora l’atteggiamento di molte persone nei confronti di questa guerra era molto diverso. E quello che volevo mostrare era proprio come un civile, una persona che non si occupa di politica si trova di fronte a scelte importanti e deve prendere posizione. È una sorta di iniziazione di un personaggio letterario che attraversa il territorio della morte e torna indietro.

Dal momento che all’interno del romanzo Il convitto il protagonista Paša più volte fa riferimento all’uso delle lingua russa, a volte si sforza di parlare in russo, soprattutto con le autorità le volevo chiedere quanto fosse importante la lingua per uno Stato, per una nazione, nella sua identità, e quanto fosse importante per unire o disunire due popoli differenti.

Questa coesistenza di queste due lingue, il russo e l’ucraino, ha una grande influenza e una grande importanza. La lingua è un elemento identitario molto importante. Ma come mi pare abbia detto Lorenzo, in realtà a livello della vita quotidiana non c’è alcun conflitto, queste due lingue coesistono e questa coesistenza potrebbe essere del tutto neutrale. A me interessava sottolineare il fatto che proprio la scelta di servirsi di entrambe le lingue fosse legata alla sua mancanza di una presa di posizione netta. La scelta della lingua in questo romanzo rappresenta un importante strumento, ma non chiarisce tutta la questione. In realtà, senza entrare nel dettaglio di questioni politiche, possiamo dire che questa non è una guerra per la lingua. I Russi sottolineano spesso che sono venuti in Ucraina per difendere la lingua russa e i parlanti in russo, ma il tragico paradosso consiste nel fatto che le loro vittime sono prima di tutto gli abitanti civili dell’Ucraina orientale delle zone dove storicamente si parlava in russo.

Si riconosce nella situazione e nei personaggi di questo romanzo? Qual è l’argomento del libro che sta scrivendo dopo questo romanzo?

Mi riconosco in alcuni di questi personaggi perché il romanzo si svolge nelle zone della regione di Luhansk dove sono nato. Conosco bene quella regione, attualmente occupata dalla Federazione Russa. Ma non posso dire che mi identifichi direttamente in uno dei personaggi, ma naturalmente loro mi sono vicini, mi sono familiari. Ed è una cosa molto dolorosa quando, negli ultimi anni, scrivo della guerra in saggi e prosa, racconto di persone con le quali sono cresciuto. Adesso sto scrivendo un romanzo dedicato ai primi mesi dopo l’invasione a larga scala dell’Ucraina. La storia si svolge nella città di Kharkiv. Il libro dovrebbe uscire nel prossimo anno.

Il romanzo Il convitto descrive un viaggio, nel cuore e nella mente di una famiglia e all’interno di un conflitto armato. Al momento, cosa è cambiato rispetto a prima della guerra?

La situazione è cambiata in modo radicale, dal momento che adesso il confine non è immaginario, oggi non è possibile oltrepassare la linea del fronte. Adesso ricorda la linea del fronte così come l’abbiamo conosciuta nella Seconda, o forse anche nella Prima guerra mondiale. Adesso è diventata una guerra completamente diversa, una guerra totale che ci riguarda tutti. Nel 2015, l’anno in cui ho scritto ed è ambientato il romanzo, se ti allontanavi quindici o venti chilometri dal fronte, ti potevi ritrovare in una situazione assolutamente normale. Adesso non è possibile prescindere o astrarsi da questa guerra, io ad esempio mi trovo a Kharkiv e quasi tutti i giorni arrivano missili russi e risuonano le sirene degli allarmi antiaerei. E proprio mentre stavamo parlando, più di una volta è risuonato l’allarme antiaereo. Una situazione molto diversa da quella di qualche anno fa.

Come i ragazzi ucraini riescono a vivere l’esperienza drammatica della guerra, conciliandola con il mondo giovanile fatto di amori, interessi, spensieratezza e speranza?

Una domanda molto interessante, ma che richiederebbe una lunga risposta con molti esempi. Perché, se da una parte in Ucraina è in corso una guerra totale con una linea del fronte lunga oltre mille chilometri, e al fronte combattono centinaia di migliaia di cittadini ucraini, dall’altra parte della linea del fronte comunque continuano a vivere decine di milioni di civili ucraini. Molti giovani adesso sono al fronte, molti altri, soprattutto donne e bambini, sono stati costretti a lasciare il Paese, ma comunque in Ucraina continuano a svolgersi concerti, serate letterarie e festival. Secondo me è una cosa molto importante e molto giusta perché a mio avviso la cultura non è un intrattenimento, non serve per distanziarsi dalla realtà della guerra, ma deve servire per salvaguardare le cose importanti, la propria identità e il proprio punto di vista sul mondo. Inoltre in questo momento la cultura ucraina possiede una funzione sociale molto importante. Quasi in tutti i concerti si raccolgono fondi per gli aiuti umanitari. Negli ultimi tempi ho presieduto molti incontri e presentazioni dove erano presenti molti giovani interessati alla lingua e alla cultura del loro Paese. Quindi possiamo dire che i giovani fondamentalmente fanno quello che hanno sempre fatto: studiano, cercano lavoro, tentano di farsi largo nel mondo degli adulti cercando di cavarsela e di trovare sé stessi. Ma la cosa tragica è che devono superare anche il trauma della guerra. Ed è importante il fatto che vogliano rimanere nel loro Paese, cercare lavoro e continuare a studiare conciliando varie cose.

Quali sentimenti stanno vivendo gli studenti di Kharkiv, rassegnazione, pausa e odio, oppure cercano qualche forma di riscatto e in che modo chiedono di poter leggere, potere studiare, fare cultura nelle scuole e nelle università?

E’ una domanda difficile perché non si può generalizzare, una domanda per uno studio sociologico, ma non bisogna essere un sociologo per comprendere che la società sta vivendo un enorme stress, e non solo i giovani, ma tutte le generazioni. Ma non credo che la società sia caduta in una depressione o sia apatica. Anche perché non abbiamo scelta, o combattiamo e rimaniamo noi stessi o scompariamo come popolo. Se voi adesso avreste la possibilità di visitare Kharkiv, vedreste che c’è il sole, ci sono i bambini che corrono a scuola, i giovani a passeggio e la gente a fare la spesa, anche se tutti i giorni la città viene bombardata, e a quaranta chilometri da qui passa il confine con la Federazione Russa. E a me sembra che in un certo senso ci sia un meccanismo di adattamento alla situazione di stress. Questo non è per forza un bene, perché da una parte alcuni sentimenti vengono oppressi, ma dall’altra parte è un modo per cercare una via d’uscita.

Ne Il convitto appare evidente la funzione distruttrice assunta dalla guerra, che sbiadisce e cancella la dignità individuale, l’onore, il rispetto e la giustizia che spettano a ciascun uomo. Effettivamente è possibile ripristinare la dignità umana dopo un conflitto che l’ha messa in discussione?

La capacità di resistenza nasce proprio nel momento in cui una persona percepisce il pericolo per la propria dignità. Se vi ricordate bene, le manifestazioni sul Majdan di dieci anni fa furono chiamate “rivoluzione della dignità”. Quando la società sta attraversando un periodo di ingiustizia, quando la legalità non è osservata dallo Stato, ma viene messa in pericolo, in quel momento la gente comincia spontaneamente a mobilitarsi per resistere. Ed è proprio quello che è successo in Ucraina negli ultimi anni. Quando nel 2022 i primi carri armati russi sono comparsi nei sobborghi di Kharkiv, molte persone che non si occupavano di politica hanno preso le armi per difendere la città. Proprio perché era in gioco la dignità. Qualcosa del genere accade anche al protagonista del romanzo Il convitto che a un certo punto comprende che non a essere minacciata non è solo la sua famiglia, ma la sua dignità.

Nella foto: Sergey Zhadan, Euromaydan Rock for change, Kharkiv, 2013 (Wikipedia)