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Quel rapporto Italia-Grecia che infrange la legge da un quarto di secolo

Un rapporto congiunto di diversi media investigativi in ​​Europa ha rilevato che alcune persone che arrivano in Italia dalla Grecia nella speranza di presentarsi come richiedenti asilo vengono detenute in stanze buie negli scafi delle navi passeggeri e rispedite in Grecia. Vedrete che non ne parlerà quasi nessuno.

La detenzione illegale può durare a volte più di un giorno e, secondo quanto riferito, viene usata anche nei confronti di bambini e minori. In alcuni casi si scopre che rifugiati e migranti siano stati persino ammanettati. Tra le persone colpite negli ultimi 12 mesi c’erano decine di richiedenti asilo provenienti da Afghanistan, Siria e Iraq.

Lighthouse Reports , un’organizzazione senza scopo di lucro che si occupa di giornalismo investigativo afferma che «… alle persone che rischiano la vita nascondendosi sui traghetti diretti ai porti adriatici italiani di Venezia, Ancona, Bari e Brindisi nella speranza di chiedere asilo viene negato l’opportunità di farlo». «Invece, vengono trattenuti al porto prima di essere rinchiusi sulle navi su cui sono arrivati ​​e rispediti in Grecia», sottolinea l’organizzazione. I dati forniti dalle autorità greche mostrano che negli ultimi due anni almeno 157 persone sono state rimpatriate dall’Italia alla Grecia in questo modo, mentre si pensa che più di 70 abbiano subito la stessa sorte nel 2020. Tuttavia quasi tutti sono d’accordo che questi siano solo i numeri ufficiali.

I luoghi di detenzione illegale (fonte Lighthouse Reports)

Le navi, insomma, diventano prigioni non ufficiali in cui avvengono detenzioni illegittime sulla base di un accordo bilaterale tra Italia e Grecia fin dal 1999. Secondo l’accordo l’Italia è legalmente autorizzata a rimpatriare nel Paese i migranti privi di documenti arrivati ​​dalla Grecia. Tuttavia, secondo i principi dell’accordo, i richiedenti asilo sono esclusi e dovrebbero essere autorizzati a presentare la loro domanda e farla esaminare. L’Italia ha ripetutamente violato questa disposizione, portando a un contenzioso davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) quasi dieci anni fa: nel 2014, la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva già stabilito che questo tipo di rimpatrio dei richiedenti asilo in Grecia fosse illegittimo. Ma l’Italia ha continuato.

Un uomo illegalmente detenuto (fonte: Lighthouse Reports)

Un richiedente asilo dall’Afghanistan racconta di essere stato rinchiuso in «una stanza lunga due metri e larga 1,2 metri». «Hai solo una bottiglietta d’acqua e niente cibo […] Abbiamo dovuto rimanere in quella piccola stanza all’interno della nave e accettare le difficoltà», ha detto ai giornalisti. Dana Schmalz, Senior Research Fellow in Refugee Law presso il Max Planck Institute for Comparative Public Law and International Law, ha dichiarato all’agenzia di stampa AFP che l’inchiesta ha mostrato «una sistemazione chiaramente disumana» dei migranti a bordo delle navi sottolineando come questa pratica violi «sia il diritto dell’Ue che i requisiti della Convenzione europea dei diritti dell’uomo».

Buon venerdì.

Nella foto: una immagine dall’inchiesta Lighthouse Reports 

Mašen’ka, il romanzo acerbo e più intimo di Nabokov

Nel 1926, a Berlino, un ventisettenne Nabokov, dopo aver pubblicato un buon numero di racconti e raccolte poetiche, dà alle stampe Mašen’ka, il suo romanzo d’esordio. Dopo cinquant’anni esatti dalla prima traduzione italiana con titolo Maria, per i tipi di Mondadori, ripescato dal dimenticatoio dove era rimasto relegato a lungo, quel romanzo torna in libreria grazie alla nuova traduzione di Franca Pece, per Adelphi.
Il romanzo ha come scenario una modesta pensione di Berlino, scossa dal frequente sferragliare dei treni della vicina stazione; in essa alloggia un microcosmo formato da alcuni russi espatriati dalla madrepatria e a essa legati da una nostalgia più o meno confessata. Nella pensione, i ricordi della patria si aggirano come fantasmi sulle gambe degli alloggianti, brandelli di passato si sovrappongono a un presente altrimenti privo di movimento e significato. La nostalgia e l’attesa di qualche cosa di risolutivo sono le vere protagoniste: c’è chi attende il visto sul passaporto, buono a lasciare la Germania per Parigi, c’è chi attende l’occasione per manifestare i propri sentimenti, ci sono due artisti in attesa di un ingaggio, e c’è chi, in questa continua tensione fra il passato e il futuro, attende Mašen’ka, la donna che presta il proprio nome al romanzo, costantemente presente attraverso la sua assenza, oggetto di una attesa piena di trepidazione.
Quella Berlino, tappa intermedia per migranti della Russia bolscevica diretti altrove, in cui Ganin passeggia, è la medesima in cui passeggiava Nabokov, ed è la stessa città dalla luce sospesa e caliginosa che aveva già fatto da sfondo ad altri suoi racconti. Una sera, in un cinema, Ganin assiste a una proiezione in cui con somma sorpresa riconosce se stesso, impegnato nella parte di comparsa in una narrazione di cui lui, come tutti gli altri figuranti presi a vendere «la propria ombra», sapeva poco o nulla. Nell’inaspettato incontro del proprio Doppelgänger, Ganin ha una volta di più la percezione di Berlino come di uno scenario teatrale di illusioni su cui si stagliano vite spettrali e inquiete.

Così anche nella pensione in cui alloggia, microcosmo rispecchiante la grande città tedesca, i sette inquilini gli sembrano ombre in pena, e l’esistenza è «una ripresa cinematografica in cui delle comparse distratte ignorano tutto del film al quale partecipano».
Fino a che l’inquieta sospensione in cui tutta Berlino galleggia viene spezzata dall’annuncio dell’imminente arrivo della moglie di uno dei pensionanti, la cui foto, esibita con orgoglio dal marito, fa riaffiorare alla memoria del protagonista i più dolci ricordi della vita in Russia: lui conosce quella donna, con lei ha vissuto il sentimento d’amore più intenso e vero della sua vita, e ora quel volto appartenente al suo passato «giaceva nella scrivania di un altro». I giorni trascorsi a rincorrersi in campagna e a Pietroburgo prendono a proiettare, allora, la loro tinta rosea sul presente, intrecciandosi con la vita presente e ridonandole una parvenza di nuovo significato.
Attesa e nostalgia ora hanno un volto, la cui presenza assente ricuce l’intero panorama biografico di Ganin, attraendone i movimenti e le azioni come il punto di fuga di una nuova prospettiva. Con determinato cinismo, appartenente a quel mondo spettrale che è Berlino, mette fine alla relazione affettiva in corso, e poi si libera risolutamente di quella sua personalità apatica e scostante, per ridiventare il dolce ragazzo che era stato una decina di anni prima, nelle campagne russe.
«La nota propensione dei principianti a violare la propria vita privata inserendo se stessi, o un sostituto, nel loro primo romanzo – si legge nell’introduzione dell’autore – è dettata, più che dall’attrattiva di un tema già pronto, dal sollievo di sbarazzarsi di sé prima di passare a cose migliori». E davvero in

Mašen’ka ritroviamo frammenti tratti dalla biografia dello stesso Nabokov, adornati con l’arte dell’incanto, tratto che lo stesso Nabokov nelle sue lezioni americane elegge a precipuo per il narratore. Mašen’ka è un romanzo sospeso tra il ricordo nostalgico e l’amaro timore che il tempo dell’infanzia e della giovinezza sia per sempre «finito, spazzato via, distrutto». Mašen’ka è per Ganin il primo grande amore, quello che fu Tamara (nome fittizio per parlare di Valentina Šul’gin) per Nabokov: un amore inghiottito dai turbinii della Rivoluzione, che rendono difficile anche la sola corrispondenza, e «c’era qualcosa di commovente e di meraviglioso nel modo in cui le loro lettere riuscivano ad attraversare la terribile Russia di allora, come bianche farfalle cavolaie in volo sopra le trincee». I viali di Berlino attraversati da Ganin sono gli stessi attraversati da Nabokov; l’Oredež è un dolce ricordo per Ganin come per Nabokov. Un romanzo certo acerbo per stessa ammissione dell’autore, eppure così intimo da contenere estratti di realtà più veri e inebrianti di quanto non saranno le rigorose narrazioni contenute nell’autobiografia stilata decenni dopo da Nabokov.

In apertura, immagine di Walter Mori (Mondadori Publishers), public domain

Dante fondatore del pensiero di destra? Quante fandonie

Il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano ha detto di recente che Dante è «il fondatore del pensiero di destra nel nostro Paese». Non sorprende, dato che spesso la politica prende la via della polemica, che questa affermazione, nata per polemizzare, sia finita al centro di un dibattito che si è sforzato di verificare o falsificare se davvero «quella visione dell’umano, della persona, delle relazioni interpersonali che troviamo in Dante Alighieri, ma anche la sua costruzione politica che è in saggi diversi dalla Divina Commedia, sia profondamente di destra».

Come si è sottolineato da più parti, è assurdo misurare con parametri contemporanei la visione politica di Dante, che non prevedeva categorie come la destra o la sinistra, ma ne aveva storicamente altre: i conflitti che contavano per lui erano quelli tra Guelfi e Ghibellini, tra Guelfi Bianchi e Neri, tra Chiesa ed Impero, tra monarchie come quella Angioina e quella Aragonese a cui guardava con mai celato sospetto. Tutte categorie che hanno in comune con quelle moderne di destra e di sinistra forse solo l’altrettanto spiccata fluidità nella pratica politica.

È forse più utile, dunque, e sicuramente più corretto dal punto di vista che accomuna chi scrive, riflettere su altre categorie, oltre «la visione dell’umano e la costruzione politica di Dante», per chiedersi se davvero lo si possa usare per articolare un “pensiero di destra” o di sinistra, guardando più direttamente alla categoria che è più propria a un intellettuale-poeta, cioè a qualcuno che ragiona sempre, anche quando fa politica, in termini di linguaggio.

Chi scrive poesia, in fondo, pensa al mondo sempre in termini di linguaggio. E sul linguaggio, su che cosa sia e a che cosa serva la lingua che parliamo e che scriviamo, ci sono idee di lungo periodo che possono, quelle sì, essere considerate di destra o di sinistra. Non è un caso, infatti, che spesso chi ha eletto Dante a nume tutelare di un pensiero di destra, facendone il campione di una visione individualista e nazionalista dell’esistenza, lo abbia fatto associandogli il titolo di padre della lingua italiana e profeta della patria – la Nazione con la lettera maiuscola che si trova nelle parole del ministro Sangiuliano.
Eleggere Dante al ruolo di padre della lingua italiana è una prassi non nuova nella destra nazionale. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni, ad esempio, da deputata di opposizione proprio in occasione del Dantedì celebrato il 25 marzo 2021, aveva affidato a un video pubblicato su Facebook un messaggio che conteneva la netta rivendicazione di Dante come «autenticamente nostro, autenticamente italiano, autenticamente cristiano». Per l’attuale premier già allora Dante era «il padre della nostra identità» e questa identità si definisce per lei immediatamente su base linguistica. La “nostra” identità, continuava il messaggio, è «un’identità che noi vogliamo difendere a partire dalla nostra lingua».

A rafforzare il nesso tra identità nazionale e lingua veniva, infatti, menzionata nello stesso messaggio la proposta da parte di Fratelli d’Italia sia di una legge costituzionale sia di una mozione volte a riconoscere l’italiano come lingua ufficiale della nazione, e dunque a stipularne l’utilizzo esclusivo «negli atti del Parlamento, della pubblica amministrazione e degli enti locali». Esisterebbe, dunque, un’identità italiana, mono-linguistica e cristiana che si ritroverebbe in Dante, un’identità da recuperare correggendo i presunti errori commessi da lettori e lettrici del nostro tempo.

Rivendicare l’italianità di Dante, insistendo sull’idea che egli sia autenticamente “nostro”, è funzionale a una strategia di esclusione, questa sì marcatamente di Destra, che rifiuta di considerare valida una lettura delle sue opere in ogni altro contesto culturale che non sia quello italiano e che si sforza di tenere il mondo fuori da Dante e Dante fuori dal mondo. La rivendicazione di Dante come “nostro” è in realtà il frutto di un doppio anacronismo. Da un lato è un modo di negare in via di principio quanto è in realtà accaduto per la Commedia, la cui vitalità in un contesto internazionale è innegabile: le opere di Dante sono oggetto di insegnamento fuori dall’Italia, di continue traduzioni in una vasta gamma di lingue, e di sempre nuove pratiche di adozione e riuso artistico globali. Dall’altro lato, parlare di italianità per Dante implica l’illusione che niente sia cambiato nei sette secoli che ci separano dalla morte di Dante e che, anzi, la tanto vantata sua autenticità culturale si possa trovare proiettando il paradigma monolinguistico dello Stato nazionale moderno sulla situazione tardo medievale di quell’area geografica che adesso si chiama Italia, sia travisandone la natura sia retrodatandolo di più di cinque secoli.

Quando ci si avvicini alla questione della lingua in Dante con occhi non accecati dall’amor patrio, ci rendiamo conto di quanto poco nazionalista o localista fosse il poeta della Commedia nelle sue prese di posizione. Già nel De vulgari eloquentia, Dante aveva rivendicato un’identità cosmopolita, scrivendo: Nos autem cui mundus est patria velut piscibus equor. Come il mare per i pesci, così per me la mia patria e il mondo. Non contento, Dante aveva attaccato con un sarcasmo spietato, che anticipa quello della Commedia contro ogni campanilismo politico e culturale, tutti coloro che pensano che la loro lingua sia la stessa parlata da Adamo. Per lui questo errore di prospettiva, che impedisce di immaginare che esistano lingue diverse (Dante dice anche più nobili e più dolci) di quella con cui siamo nati, equivale alla miopia di coloro che, vivendo lì, pensano che il mondo inizi e finisca a Pietramala. Lo scherno con cui ipotizza che una frazione fuori Firenze viva in un’insularità così estrema da illudersi che il proprio idioletto sia il migliore che possa esistere è un meraviglioso antidoto, tutto dantesco, ad ogni politica basata su di un’astratta purezza linguistica e una restrittiva identità nazionale.

Anche in un momento di accentramento linguistico come quello che sembra emergere nel primo libro del De vulgari eloquentia, quando Dante rintraccia nella corte di Federico II e Manfredi le origini della tradizione poetica a cui dichiara di appartenere, l’italianità del volgare sovramunicipale che il trattato si sforza di definire è bilanciata dalla natura particolarmente multietnica e multiculturale di quel contesto politico. Se è vero che al centro della corte si trovano i due monarchi, degli illustres heroes che sanno coltivare nobiltà e rettitudine, non vivendo come bruti, ma seguendo virtù e conoscenza («humana secuti … brutalia dedignantes»), è anche chiaro che il prodotto della loro politica culturale non nasce dall’italianità dei soggetti che vi aderiscono. Casomai, la produce. «Coloro che erano nobili d’animo e ricchi di grazie si sforzavano», scrive Dante, «di associarsi alla grandezza di quei monarchi. Così avvenne che tutto ciò che in quel tempo veniva prodotto dai più eccellenti individui tra gli italiani, veniva alla luce in quella corte». È importante notare che gli individui che vengono attratti dai regnanti di Sicilia non sono chiamati “italiani” immediatamente: di loro si dice solo che sono tutti coloro che hanno cuori nobili e virtuosi; è solo dopo essere venuti a corte e aver prodotto le loro opere che vengono definiti «excellentes animi Latinorum». È un processo di acculturazione, questo, che rispecchia la natura multi-linguistica e multi religiosa della corte federiciana. Questo modello di società aperta, che ispira intellettuali di diversa formazione ad attraversare confini geografici e linguistici e collaborare nella creazione di cultura è esattamente quanto il pensiero della Destra si preclude costituzionalmente, quando insiste su di una definizione restrittiva dell’autenticità culturale. Parole come quelle dell’onorevole Meloni tendono infatti a rigettare la mescolanza linguistica che non è solo al cuore della poesia di Dante, ma anche, più in generale, della cultura in volgare nell’Italia medievale.

Di fronte all’insistenza che Dante sia “autenticamente” italiano per la lingua che usa, infine, è importante ricordare quanto ibrido e poliglotta sia in realtà il poema che ha scritto. Lo si può fare concentrandosi sui quei momenti di alterità linguistica e culturale che suggeriscono quanto Dante sia pronto a mescolare lingue diverse e valutare quanto questa pratica di ibridazione sia in linea con una prospettiva globale sul medioevo. Alla fine di Purgatorio 26, ad esempio, quando assegna al trovatore Arnaut Daniel otto versi in provenzale, Dante non solo dà voce a una tradizione lirica non toscana, ma si spinge fino a creare un neologismo in quella lingua, il termine “escalina”. Non diversamente, ma con un oltranzismo linguistico ancora più spiccato, all’inizio di Paradiso 7, Dante mescola ebraico, latino e italiano e, anche in quel caso, crea un neologismo in una lingua che, in teoria, non gli apparterrebbe: il participio ‘superillustrans’. Siamo, insomma, davvero troppo abituati a pensare a Dante come un padre fondatore di una tradizione letteraria e linguistica, ma quella tradizione è più variegata e complessa di quanto si tenda a farci credere.

Sarebbe un errore ritenere che questi momenti di ibridazione linguistica, che sono certamente localizzati nel tessuto linguistico della Commedia, siano un’eccezione o un’incoerenza nel pensiero linguistico di Dante. Per tutto il poema ci sono segnali che Dante considera la lingua che nel suo testo ha scelto come strumento di comunicazione un aspetto contingente e in nessun modo essenziale al messaggio che veicola. Basta guardare a tre canti che portano lo stesso numero nel poema, i Canti XXVI, per rendersi conto che quando Dante parla di lingua nostra, ha in mente un paradigma più vasto e più articolato di quanto appaia. Nel ventiseiesimo dell’Inferno, dove va in scena l’impossibile dialogo tra un personaggio come Ulisse, a cui Dante assegna un’identità linguistica ben definita (lui e Diomede “fuor greci”), e il protagonista che vari dannati hanno riconosciuto già più di una volta come fiorentino, Virgilio si offre come interprete linguistico prima ancora che culturale. Non possiamo leggere quell’episodio senza percepire sullo sfondo i continui scarti tra le tre lingue della poesia epica, che esiste allo stesso tempo e nello stesso spazio in greco, latino e volgare – un volgare che Dante non esita ad attribuire anche a Virgilio, dandogli nell’attacco del canto successivo una battuta in vernacolo lombardo: «Istra ten va, più non ti adizzo».

Nel ventiseiesimo del Paradiso, tornando ancora sulla questione della lingua, Dante fa i conti con l’idea che possa esistere un idioma migliore degli altri, una lingua che abbia uno statuto che va oltre la semplice contingenza, che sia naturalmente stabile, sempre uguale a se stessa, e mette in evidenza l’assurdità di ogni tentativo di fermare la sua naturale metamorfosi. Lo fa chiamando in causa nientemeno che il primo parlante, Adamo, che confessa che la lingua da lui fabbricata si esaurì completamente e naturalmente, prima ancora che fosse comminata al genere umano la punizione divina per la Torre di Babele. Al centro di questo trittico linguistico, infine, Dante mette l’episodio di Arnaut Daniel, in cui non solo decide di scrivere direttamente in provenzale, cioè in una lingua che, per i parametri della Destra di oggi, non sarebbe la sua, ma insiste anche sul fatto che quella alterità linguistica non è in nessun modo un impedimento alla comunicazione.

Anzi, come avrebbe detto Walter Benjamin, la comunicazione più riuscita è quella che si basa sul desiderio intrinseco a tutte le lingue di comunicare, un desiderio che nell’attività di traduzione si manifesta nella sua forma più pura come volontà reciproca di comunicare tra i parlanti. La Commedia si presenta, insomma, come testo costituzionalmente basato su di un dialogo tra le lingue, un’opera che aspira sempre ad essere aperta alla traduzione.
Non è, questa, certo una scoperta nostra. Il potenziale messaggio cosmopolita della Commedia lo aveva avvertito perfettamente già Primo Levi, quando, in Se questo è un uomo, aveva usato proprio Dante e proprio il Canto di Ulisse per rivendicare, in un momento di parziale libertà strappato alla violenza sistematica del Lager, la condivisa umanità con il compagno di prigionia Jean. Ed è proprio nel contesto di uno scambio tra parlanti di lingue diverse, un dialogo motivato dal desiderio di uno di loro di allargare il proprio orizzonte linguistico imparando una lingua nuova, che la lezione di Primo su cosa significhi essere esseri umani si svolge passando continuamente da una lingua all’altra, dando corpo perfettamente, attraverso la definizione più inclusiva immaginabile, all’espressione di Dante: lingua nostra.

Dantista, autore di numerosi saggi, Simone Marchesi insegna all’Università di Princeton. A sua volta studioso di Dante, Akash Kumar insegna all’Università della California, a Berkeley

Immagine di apertura: Dante, di Luca Signorelli – Opera propria Georges Jansoone (JoJan), 2008

Un’altra sentenza: il respingimento in Libia è illegale. E quindi quello italiano è favoreggiamento

È il 30 luglio del 2018. La Asso 28, rimorchiatore della società armatrice “Augusta Offshore” che operava a supporto della piattaforma Sabratha della società petrolifera “Mellitah Oil & Gas” – è stata allertata da personale della piattaforma della presenza di un gommone con 101 persone migranti in acque internazionali, tra cui donne e bambini. La Asso 28, dopo aver accolto a bordo un presunto agente libico, ha intercettato il gommone ed ha riportato i migranti in Libia, dove sono sbarcati al porto di Tripoli per essere poi nuovamente detenuti e sottoposti a trattamenti degradanti e violazioni dei propri diritti.

Dopo la condanna in primo grado di giudizio anche la Corte d’Appello all’esito dell’udienza del 10 novembre 2022 conferma la decisione del Tribunale di Napoli che aveva ritenuto che la condotta del capitano integrasse i reati di “sbarco e abbandono arbitrario di persone”, di cui all’art. 1155 del codice di navigazione, e di “abbandono di minore” di cui all’art. 591 del codice penale. Le motivazioni saranno disponibili a marzo 2023.

Scrive Asgi che «se finora queste prassi hanno goduto di un’effettiva impunità e sono state adottate in maniera sistematica dalle autorità italiane per impedire alle persone migranti di raggiungere le coste italiane, la conferma della condanna rafforza il principio che nessun capitano è esentato dal rispetto del diritto internazionale ed in particolare dalla necessità che i naufraghi siano condotti in un porto sicuro quale non è la Libia».

Ma c’è un altro particolare interessante. Il governo italiano con il suo memorandum con la Libia e con la silenziosa accettazione dell’Unione europea fornisce mezzi e addestramento alla cosiddetta Guardia costiera libica per accalappiare i disperati in mezzo al mare e riportarli all’inferno. Tecnicamente quindi l’Italia favorisce gli esecutori di un reato accertato da un tribunale italiano.

Buon giovedì.

Il senso del ridicolo su Matteo Messina Denaro

Era inevitabile che l’arresto del latitante più ricercato d’Italia scatenasse l’euforia che smutanda i vizi. Come la virologia e la geopolitica anche l’antimafia è un tema divertente su cui scannarsi, facile da strumentalizzare perché ricco di misteri e comodo per riempire le pagine dei giornali.

Sull’attribuzione del merito al governo Meloni (come vale da sempre per qualsiasi governo) tocchiamo le prevedibili vette della banalità della propaganda. Il governo che su qualsiasi argomento da giorni si difende spiegandoci che i problemi sono ereditati “dal governo precedente” e che “in tre mesi non si può risolvere tutto” vorrebbe convincerci di essere riuscito a risolvere l’arresto di Messina Denaro prima del problema di accise e bollette. Basta un po’ di logica per cogliere l’inganno. Ma è notevole anche l’orda di editorialisti che hanno il fegato di scrivere che “con il governo Meloni sono cadute le protezioni del boss”. I fatti – mica le opinioni – dimostrano che la latitanza di Matteo Messina Denaro è stata coperta da famiglie politiche appartenenti a una precisa area politica (in primis quella dell’ex senatore berlusconiano D’Alì). Va bene l’entusiasmo ma almeno evitiamo di cancellare la storia.

C’è poi il solito vizio di romanticizzare il boss e di raccontarlo come corpo alieno alla borghesia, alla politica e all’imprenditoria. Anche questo è già accaduto sia per Totò Riina sia per Bernardo Provenzano. Raccontarne i profumi, gli orologi, gli abiti, i profilattici è un errore di spostamento di attenzione. Ciò che ci interessa di Matteo Messina Denaro è capire chi lo ha protetto così a lungo, con chi ha fatto affari, chi ha fatto eleggere, con chi ha riciclato i suoi soldi. Volendo ci sarebbe anche da sapere chi fossero i veri mandanti dell’uccisione di Falcone e di Borsellino. Questi sono i punti. A meno che la romanticizzazione del boss non sia utile a indorare la sua prossima facoltà di non rispondere. Meno letteratura, più pressante richiesta di verità. Sarebbe meglio per tutti.

La latitanza. Ah, la latitanza. Matteo Messina Denaro frequentava il quartiere («usciva, salutava, faceva una vita normale», racconta un vicino di casa), era in cura nella clinica più prestigiosa di Palermo, scattava selfie insieme agli infermieri, scambiava messaggi con le pazienti della clinica per corteggiarle. Questo significa qualcosa in particolare? Troppo presto per arrivare a conclusioni. Un cosa è certa: che certi politici e commentatori vadano su giornali e televisioni a spiegarci che l’impunità e la libertà con cui si muoveva Matteo Messina Denaro lo rendessero ancora più difficile da individuare è una bestemmia illogica che non si può sentire.

Un po’ di serietà, per favore, sull’antimafia.

Buon mercoledì.

Nella foto: Matteo Messina Denaro nel 1993 (identikit della Polizia di Stato)

Il vero problema: la disuguaglianza che cresce

In Italia, i super ricchi con patrimoni superiori ai 5 milioni di dollari (lo 0,134% degli italiani) erano titolari, a fine 2021, di un ammontare di ricchezza equivalente a quella posseduta dal 60% degli italiani più poveri. È quanto emerge dai nuovi dossier di Oxfam diffusi per l’apertura del World economic forum di Davos

«Nel biennio pandemico ’20-’21 – si legge nel report dedicato alle sperequazioni globali, La disuguaglianza non conosce crisi – l’1% più ricco ha visto crescere il valore dei propri patrimoni di 26.000 miliardi di dollari, in termini reali, accaparrandosi il 63% dell’incremento complessivo della ricchezza netta globale (42.000 miliardi di dollari), quasi il doppio della quota (37%) andata al 99% più povero della popolazione mondiale. Battuto dunque il record dell’intero decennio 2012-2021, in cui il top-1% aveva beneficiato di poco più della metà (il 54%) dell’incremento della ricchezza planetaria. Per la prima volta in 25 anni aumentano inoltre simultaneamente estrema ricchezza ed estrema povertà».

«Mentre la gente comune fa fatica ad arrivare a fine mese i super-ricchi hanno superato ogni record nei primi due anni della pandemia, inaugurando quelli che potremmo definire i ruggenti anni 20 del nuovo millennio. – ha dichiarato Gabriela Bucher, direttrice esecutiva di Oxfam international – Crisi dopo crisi i molteplici divari si sono acuiti, rafforzando le iniquità generazionali, ampliando le disparità di genere e gli squilibri territoriali. Pur a fronte di un 2022 nero sui mercati a non restare scalfito è il destino di chi occupa posizioni sociali apicali, favoriti anche da decenni di tagli alle tasse sui più ricchi, che ne hanno consolidato le posizioni di privilegio. Un sistema fiscale più equo, a partire da un maggiore prelievo sugli individui più facoltosi, è uno degli strumenti di contrasto alle disuguaglianze. Un’imposta del 5% sui grandi patrimoni potrebbe generare per i Paesi riscossori risorse da riallocare per obiettivi di lotta alla povertà a livello globale affrancando dalla povertà fino a 2 miliardi di persone».

«Tra il 2020 e il 2021 cresce la concentrazione della ricchezza in Italia», spiega poi una nota di Oxfam dedicata alle disuguaglianze nel nostro Paese intitolata Disguitalia. «La quota detenuta dal 10% più ricco degli italiani – prosegue la nota – (6 volte quanto posseduto alla metà più povera della popolazione) è aumentata di 1,3 punti percentuali su base annua a fronte di una sostanziale stabilità della quota del 20% più povero e di un calo delle quote di ricchezza degli altri decili della popolazione. La ricchezza nelle mani del 5% più ricco degli italiani (titolare del 41,7% della ricchezza nazionale netta) a fine 2021 era superiore a quella detenuta dall’80% più povero dei nostri connazionali (il 31,4%). I super ricchi con patrimoni superiori ai 5 milioni di dollari (lo 0,134% degli italiani) erano titolari, a fine 2021, di un ammontare di ricchezza equivalente a quella posseduta dal 60% degli italiani più poveri».

«Nonostante il calo del valore dei patrimoni finanziari dei miliardari italiani nel 2022, dopo il picco registrato nel 2021, il valore delle fortune dei super-ricchi italiani (14 in più rispetto alla fine del 2019) mostra ancora un incremento di quasi 13 miliardi di dollari (+8,8%), in termini reali, rispetto al periodo pre-pandemico – si legge ancora in Disguitalia -. Seppur attenuata fortemente dai trasferimenti pubblici emergenziali, cresce nel 2020 – ultimo anno per cui le dinamiche distributive sono accertate – la disuguaglianza dei redditi netti, per cui l’Italia si colloca tra gli ultimi paesi nell’Ue. La povertà assoluta, stabile nel 2021 dopo un balzo significativo nel 2020, interessa il 7,5% delle famiglie (1 milione 960 mila in termini assoluti) e il 9,4% di individui (5,6 milioni di persone). Un fenomeno allarmante che ha visto raddoppiare in 16 anni la quota di famiglie con un livello di spesa insufficiente a garantirsi uno standard di vita minimamente accettabile e che oggi vede quelle più povere maggiormente esposte all’aumento dei prezzi, in primis per beni alimentari ed energetici.

«Nuovi accordi tra le parti sociali sono particolarmente necessari per i circa 6,3 milioni di dipendenti del settore privato (oltre la metà del totale dei dipendenti privati) in attesa del rinnovo dei contratti nazionali alla fine del mese di settembre 2022» si legge nel comunicato Oxfam dedicato al nostro Paese. «Lavoratori che rischiano, con le regole di indicizzazione attuali, di vedere un adeguamento dei salari, calati in termini reali del 6,6% nei primi nove mesi del 2022, insufficiente a contrastare l’aumento dell’inflazione. Se il miglioramento del mercato del lavoro italiano nel 2022 dovrà essere valutato alla luce dei rischi di una nuova recessione, restano irrisolti i nodi strutturali della “crisi del lavoro” nel nostro Paese: la ridotta partecipazione al mercato del lavoro della componente giovanile e femminile, marcate e crescenti disuguaglianze retributive, il crescente ricorso a forme di lavoro non standard e conseguente diffusione del lavoro povero».

Ecco il primo punto di programma di un partito di sinistra.

Buon martedì.

* Foto di Manuel Alvarez da Pixabay

Così la riforma Cartabia e il governo delle destre affossano la giustizia

L’ennesima pessima riforma sulla giustizia porta il nome di chi l’ha proposta: l’ex ministro della giustizia Marta Cartabia del governo Draghi, autoproclamatosi “governo dei migliori” per volontà dei poteri forti mediatico-finanziari. Poi dimostratosi un governo mediocre per gli interessi del popolo. Quando è stata approvata la riforma, sull’onda dell’affaire Palamara, però, pochi l’hanno analizzata e criticata con la giusta profondità, perché fu deliberata da un governo la cui maggioranza era composta da quasi tutti i partiti del sistema. E quindi anche i vari poteri mediatici di riferimento, in particolare della carta stampata, sono stati zitti e buoni. Ora con il governo delle destre e con un’apparente opposizione parlamentare si assiste ad un riposizionamento dei poteri del Paese: dalla guerra all’autonomia differenziata, dalla giustizia ai temi del lavoro e dell’economia. La politica delle finte contrapposizioni che poi trova, in genere, l’accordo e la sintesi nell’iceberg sistemico che è la spesa pubblica (oggi soprattutto Pnrr, dove si consumano le trattative più sporche). Il partito unico del denaro pubblico dove in genere si trova la quadra perché è il cemento dei rapporti più opachi del nostro Paese. Ritorniamo alla giustizia, che con questo governo e questa maggioranza vivrà giorni ancora più bui, con il “redde rationem” che si sta avvicinando.

La Cartabia, così come fece il ministro della giustizia Mastella nel governo Prodi, modifica l’ordinamento giudiziario in modo tale da delineare un magistrato sempre più burocrate, conformista, impaurito, più attento alla forma e al formalismo che a provare a rendere giustizia secondo legge e Costituzione. Valutazioni e controlli della professionalità che non puntano ad un magistrato più preparato ed equilibrato, ma conformista, più prono alle gerarchie giudiziarie e ai rapporti sempre meno trasparenti tra alcuni capi degli uffici ed il sistema istituzionale extra-giudiziario. Il Palamaragate invece di essere stato da lezione per ritornare al potere diffuso della magistratura, ossia all’autonomia ed indipendenza dei singoli magistrati, ha spinto la politica, che non vuole una magistratura che amministra in nome del popolo come sancisce la Costituzione a verticalizzare ancora di più il sistema giudiziario. Il potere in poche mani è anche un potere più controllabile. Così che pochi capi degli uffici, in un silenzio diffuso della stampa e dei media, selezionano anche le notizie meritevoli di essere conosciute dalla popolazione. Con buona pace del diritto di cronaca. Meno il popolo conosce più il Sistema si rafforza.

La Cartabia nulla fa, poi, per intervenire efficacemente su custodia cautelare, carceri e certezza della pena ed anzi elimina anche strumenti efficaci nella ricerca della giustizia e della verità. Pensiamo al dibattito degli ultimi giorni su alcuni delitti di mafia in cui è stata prevista la perseguibilità a querela di parte. Non ci vuole un addetto ai lavori per comprendere che, non di rado, le vittime di delitti mafiosi non hanno lo stato d’animo e la libertà per poter agire senza paura e anche subendo la pressione e la minaccia della mafia. Sulle carceri non si è affrontato il tema delle strutture carcerarie e della funzione rieducativa della pena. Anche nel rapporto tra custodia cautelare e certezza della pena non si è inciso. Continua ad esserci un eccesso di custodia cautelare e allo stesso tempo non vi è certezza della pena, con migliaia di persone condannate in via definitiva che sono libere e non in carcere, pur essendo state ritenute responsabili. Molto poco è stato fatto per ridurre il peso della degenerazione correntizia e, quindi, per spezzare il legame tra magistratura e politica. Poi esiste un tema di cui poco si parla e non attiene più solo alla politica ma anche allo stesso ordine giudiziario. Il calo della credibilità e della fiducia nella magistratura. Il mio osservatorio privilegiato, avendo fatto il magistrato e l’uomo delle istituzioni e poi della politica sempre in prima linea, mi ha fatto riscontrare un sentimento sempre più diffuso tra le persone perbene: la paura nel sistema giudiziario e la mancanza di affidabilità sotto il profilo dell’autonomia e della indipendenza di strati non residuali della magistratura. Se si arriva al punto che le persone oneste hanno paura dei magistrati e del sistema giudiziario nel suo complesso e i criminali allo stesso tempo pensano sempre più di farla franca, allora c’è più di qualcosa che non funziona e c’è da preoccuparsi non poco. Non è solo la mancanza di certezza della pena, la lungaggine dei processi, il tema della prescrizione.

Quando la politica spegneva la fiducia delle persone oneste si confidava molto nella stampa libera e nell’indipendenza della magistratura. Oggi questa sensazione si è notevolmente affievolita. Ogni partito e leader politico ha almeno un giornale di riferimento. La magistratura non viene più percepita sempre come l’arbitro imparziale, ma pezzi della categoria come soggetti che giocano la partita dalla parte del Sistema contro chi osa non allinearsi. Non è più sufficiente la credibilità e la coerenza di alcuni politici o di diversi magistrati per salvare la situazione, le mele marce purtroppo sono divenute nel frattempo un frutteto avvelenato. Il popolo assorbe questo veleno democratico e, disorientato, si avvilisce, si deprime. Anche qui è, come sempre, un tema di questione morale. L’etica, la morale, l’onestà, la libertà, l’autonomia, l’indipendenza, la competenza, il coraggio e la dedizione non si comprano al mercato. Sono valori che fanno la democrazia. Oggi un disegno eversivo silenzioso che veste i panni della legalità formale sta avvelenando la democrazia e l’indifferenza quasi generale sta producendo una bomba letale per gli equilibri stessi della nostra Repubblica.

L’Africa di Emergency raccontata da Monika Bulaj

Nella città di Venezia ci sono sei quartieri detti appunto “sestieri”: Cannaregio, Castello, Dorsoduro, Santa Croce, San Marco, San Polo. Poi vi è l’isola della Giudecca, che fa parte sin dalle origini della città ma non è collegata con nessun ponte ai Sestieri. Ci si arriva solo in barca. Amministrativamente fa parte del sestiere di Dorsoduro che si trova di fronte alla Giudecca, entrambi affacciano sul canale molto largo della Giudecca. Un ponte di barche che unisce le due “fondamenta” (rive) del canale viene costruito solo per i giorni della festa del Redentore nella terza domenica di luglio. Anche sulla gondola vi è un segno molto chiaro della “diversità” della Giudecca rispetto agli altri quartieri veneziani. Nella parte anteriore dell’imbarcazione vi è infatti un elemento metallico, il ferro da prua o pettine, chiamato in veneziano fero da próva o dolfin, in cui sono assemblati molti simboli dei sestieri della città lagunare. E la Giudecca si distingue: è l’unica con il pezzo metallico rivolto verso la gondola, mentre tutti gli altri sono verso l’esterno.

L’isola è stata originariamente luogo di coltivazione e di orti, poco frequentata dai turisti, considerata lontana dai veneziani dei sestieri. Le cose stanno cambiando, sono alcuni anni che arrivano nuovi abitanti alla Giudecca, anche stranieri e artisti. Vengono aperti ristoranti, gallerie, luoghi di cultura. Uno dei più belli si affaccia sul canale della Giudecca, vicino alla famosa chiesa del Redentore realizzata da Andrea Palladio: è la sede veneziana di Emergency, modernissima, su diversi piani, con tutte le attrezzature necessarie ad una vasta attività culturale tra le quali l’organizzare mostre. Ed una mostra, lo scorso 15 novembre, è giunta alla Giudecca dopo essere stata in altre città italiane. Una mostra di fotografie intitolata All’ombra del baobab e dedicata alle attività che Emergency svolge nel mondo, in particolare agli ospedali e centri di cura in Africa.

Come si legge nella presentazione alla mostra, si va «dall’Atlantico, passando per il Lago Vittoria, fino al Mar Rosso: una traversata dell’Africa in orizzontale, lungo la catena degli ospedali di Emergency, dove lavorano medici, chirurghi, tecnici, infermieri, anestesisti, radiologi, amministratori, giardinieri».

Le immagini sono state realizzate dalla fotogiornalista e reporter Monika Bulaj in Sierra Leone, Uganda e Sudan, e raccontano le storie di sfide quotidiane e talvolta di sconfitte, di disgrazie endemiche e urgenze prevedibili.

Dice Monika Bulaj: «In questo reportage racconto storie come quella di Aisha, dall’esofago bruciato dalla soda caustica, che insegna a nutrirsi ai bambini vittime come lei; di un progetto per le madri delle bidonville (…) Sfide come quella del viaggio trans africano di Aminata per sostituire le valvole del cuore minato da un’infezione da streptococco non curata. E, ancora, la rinascita di Ibrahim in Sud Darfur, dopo l’ennesima trasfusione dovuta all’anemia falciforme, la spietata risposta genetica a una continua esposizione alla malaria».

Sono immagini che mostrano, attraverso i progetti dell’Anme (African network of medical excellence), la rete sanitaria di Emergency nata con l’obiettivo di costruire centri medici d’eccellenza gratuiti in tutta l’Africa. Della rete fanno parte il Centro Salam di cardiochirurgia a Khartoum, in Sudan, e il Centro di chirurgia pediatrica di Entebbe, progettato da Renzo Piano in Uganda, seguendo le indicazioni di Gino Strada, che gli aveva commissionato un ospedale “scandalosamente bello”. Ospedali dove vengono forniti gratuitamente servizi medici per i pazienti che soffrono di specifiche patologie che difficilmente verrebbero curate altrove.

Monika Bulaj è una pluripremiata fotogiornalista e reporter, ha realizzato un centinaio di mostre personali in tutto il mondo ed è alla sua seconda collaborazione con Emergency, dopo la rassegna fotografica Nur. Afghan diaries esposta a Brescia nel 2021. È, inoltre, autrice di numerosi libri reportage e ha pubblicato su National geographic, New York times, Time, Al jazeera e The guardian.

La mostra sarà visitabile fino al 27 gennaio 2023 dal lunedì al venerdì dalle ore 11 alle 17. Certo, per visitarla la mostra bisognerà attraversare (su un comodo vaporetto) il canale della Giudecca ed esplorare quella terra per molti incognita. Ne varrà la pena.

* In foto: una delle immagini esposte alla mostra “All’ombra del baobab” organizzata da Emergency

Ci avevano già provato i fascisti ad arruolare Dante

L’imbarazzante ministro alla Cultura Sangiuliano continua a nuotare nel ridicolo. «So di fare un’affermazione molto forte, io sono convinto che Dante Alighieri sia il fondatore del pensiero di destra nel nostro Paese». Lo ha detto dal palco della convention di Fratelli d’Italia a Milano. «Quella visione dell’umano, della persona, delle relazioni interpersonali, ma anche la sua costruzione politica, credo siano profondamente di destra» ha aggiunto il ministro.

Non è uno scivolone e non è una novità. Come ricorda giustamente in un tweet il direttore di Oggi Carlo Verdelli «i fascisti del Ventennio, nella loro scenografia di cartapesta, #Dante lo avevano già arruolato: precursore del Duce. Proprio vero che la Storia si ripete: la prima volta come farsa, la seconda pure».

Ne scrisse in un articolo Nicolò Crisafi, che insegna letteratura italiana all’Università di Cambridge. La sua monografia Dante’s Masterplot and Alternative Narratives in the Commedia è in stampa per i tipi di Oxford University Press. «Dante era a un divario: da una parte era stato il simbolo dell’idealismo, delle speranze, e delle ansie risorgimentali per una patria da creare; dall’altra era diventato lo strumento retorico dello Stato liberale che l’aveva incarnata tradendone le aspettative più alte. Fu – scrive Crisafi –  tra queste delusioni e polemiche che il fascismo mise mano a Dante. Nel momento in cui si impadronì del potere, lo Stato fascista non si fece problemi a sfruttare il nazionalismo del Dante risorgimentale epurandone però con cura il lato vulnerabile e oppresso e facendone invece a sua volta uno strumento per opprimere, confinare, esiliare, ed arrestare. In un suo scritto dantesco del 1928 (dedicato proprio all’Italo Balbo celebrato dai manifesti di mio zio Carlo) il capitano della Regia Guardia di Finanza Pietro Jacopini faceva di Dante uno strumento del potere: “Dante […] è un precursore del Fascismo e, se fosse vissuto ai giorni nostri, ci avrebbe onorato sicuramente della sua compagnia, impugnando il manganello contro tutti i socialisti e i comunisti rinnegatori e disgregatori della Nazione”».

Aldo Cazzullo in risposta a una lettera al Corriere ricorda come «il fascismo ovviamente rivendicò Dante per sé, fin da quando nel 1921, a seicento anni dalla morte, Italo Balbo guidò una “marcia su Ravenna” conclusa davanti alla fatidica tomba. E Margherita Sarfatti, la donna che creò Mussolini, venerava Dante, al punto che quando si interrogava sul futuro apriva la Divina Commedia, leggeva una terzina a caso e vi cercava un’indicazione per quel che doveva fare o una profezia per quel che sarebbe accaduto».

Non avviene nulla per caso. Nulla.

Buon lunedì.

La foto del monumento a Dante Alighieri a piazza Santa Croce a Firenze (1865), Jörg Bittner (Unna)Opera propria

Accordo “gratuito” Inps/Caritas, quando la smentita è una fake news

L’ossimoro è una figura retorica consistente nell’accostare, nella medesima locuzione, parole che esprimono concetti contrari, e dunque è un ossimoro inserire in una sola locuzione il cattolicesimo e la gratuità delle attività svolte.
“Gratis et amore Dei” è una locuzione che non può essere mutuata nelle istituzioni cattoliche, perché nel cattolicesimo nulla è gratis.
L’Avvenire, organo di stampa della Conferenza episcopale italiana, ovvero il Consiglio dei ministri dello Stato extracomunitario del Vaticano, un quotidiano che ha un capitale sociale di 6 milioni di euro e che gode anche dei finanziamenti pubblici (la prima rata 2022 è stata pari a 2.711.246,31 euro), ha negato l’esistenza di un accordo milionario tra la Caritas e l’Inps sostenendo che “Inps per tutti”, ovvero la convenzione stipulata tra i due enti, sia in effetti un accordo a costo zero perché nelle casse della Caritas non saranno versati, in via diretta, i soldi dell’Inps. Pertanto l’inchiesta di Left che svela gli aspetti inquietanti di questo accordo, a loro dire è una fake news.
Eppure nei due articoli dell’inchiesta pubblicata sul numero di gennaio 2023 non è mai stato sostenuto che i soldi dell’Inps sarebbero andati direttamente nelle casse della Caritas, perché l’articolazione del privilegio denunciato è decisamente più complessa e investe un secondo accordo tra Caritas e patronati Acli.
Di questa intesa di secondo livello ovviamente su Avvenire non se ne parla, anche se non hanno potuto fare a meno di scrivere che «l’accordo quadro nazionale non ha valore sui singoli territori» e che «a livello locale basta contattare l’Inps provinciale per verificare che il progetto sia attivo e chiedere di poter aderire».
Il privilegio sotteso all’accordo è tutto qui. Nessuno ha mai affermato che nelle casse della Caritas nazionale sarebbero arrivati in via diretta i soldi dall’Inps, mentre le realtà territoriali, ovvero i patronati Acli che hanno stipulato accordi con le Caritas provinciali, con le diocesi e altre istituzioni cattoliche, in forza ed in virtù dell’accordo quadro nazionale, potranno godere del privilegio di stipulare intese con gli istituti Inps provinciali e avere dunque corsie preferenziali e privilegiate per gestire l’assistenza, in barba agli altri patronati che non hanno un identico accordo quadro.
L’accordo quadro si sostanzia in un accordo tra due enti con cui si stabiliscono a priori i termini e le condizioni per futuri contratti, si stabiliscono le tipologie dei servizi e le procedure, si accorpano in una sola procedura una serie di prestazioni predefinite, e saranno poi gli enti territoriali a beneficiarne, in una diffusione capillare che l’accordo quadro ha già previsto.
È un po’ come quando il Vicariato di Roma – un ente che sovrintende a tutte le parrocchie della città – in occasione del passaggio dalla lira all’euro aveva inviato a tutte le parrocchie una circolare in cui indicava il cambio di prezzi da praticare in occasione della celebrazione di un rito: «L’ obolo per la celebrazione di una messa, che prima era di sole 15.000 lire, passa a 10 euro (19.363 lire). L’ offerta massima per un matrimonio, che prima era di 450.000 lire, aumenta a 270 euro (523.000 lire)».
Era chiaro a tutti che i soldi guadagnati con matrimoni e funerali non sarebbero stati erogati in favore del Vicariato di Roma, ma sarebbero rimasti nelle mani dei singoli parroci che esercitavano in via diretta il mercimonio.