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Dante era sì un conservatore ma finitela di scambiare la storia con le larve della storia

Grande scalpore ha suscitato la rivendicazione del ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, secondo il quale Dante, con Machiavelli e Gramsci tra gli autori italiani oggi più tradotti al mondo, è «il fondatore del pensiero di destra in Italia». Per il suo significato e le implicazioni nell’attualità del nostro Paese e non solo, l’apodittica affermazione merita di essere sommariamente articolata dal punto di vista culturale e politico.
L’uso delle moderne categorie di destra e sinistra, affermatosi a partire dalla rivoluzione francese, su cui peraltro Norberto Bobbio nel 1994 scrisse lo storico saggio che individua nell’uguaglianza la netta discriminante della distinzione, è certo anacronistico. Ma se ci avvaliamo dei termini di conservatore e progressista, o addirittura di reazionario e rivoluzionario, evocatori di concetti antichi quanto la strutturazione in classi della società, il risultato non è molto diverso.

Si tratta solo di intenderci, e di prendere atto che comunque il ministro ha voluto chiarire l’origine medievale del pensiero della destra, che si affermò al volgere del Trecento con il tramonto dell’età comunale e l’avvento delle signorie. Proprio allora Dante sollecitava l’imperatore Arrigo VII di Lussemburgo a scendere in Italia per reprimere la ribellione dei guelfi fiorentini, restaurando il Sacro romano impero, come per primo lo definì Federico Barbarossa. E nell’ultimo capitolo della Monarchia ribadiva che in caso di dissenso, l’autorità temporale doveva comunque sottomettersi alla suprema autorità spirituale del papa. Il concetto fu ribadito ancora da Benedetto XV nel 1921, tra la nascita del Partito comunista d’Italia e la marcia su Roma di Mussolini.

Nell’enciclica In Praeclara Summorum per il sesto centenario della morte del poeta, il papa elevava Dante a guida morale, sociale e politica dell’Europa uscita dalla guerra mondiale per il tesoro di verità dottrinali contenuto nel suo poema, mirando ad una riappropriazione del terreno perduto dalla Chiesa nel 1870.

Certamente Alessandro Manzoni, quando nel 1867 fu chiamato dal ministro della Pubblica Istruzione, Emilio Broglio, ad esporre la sua posizione sulla lingua dell’Italia unificata e sui mezzi per diffonderla, esprimeva le posizioni della borghesia cattolica illuminata, già presenti in tutta la sua produzione letteraria. Da allora la lettura curricolare nei licei dei suoi Promessi sposi, preceduta dall’Eneide di Virgilio, poema celebrativo delle origini dell’impero romano, seguìta dallo studio triennale delle tre cantiche della Divina Commedia, obbedì al disegno di formare la classe dirigente del nostro Paese. La redazione finale del “romanzo della Provvidenza”, sottoposto alla sciacquatura dei panni in Arno, non faceva che ribadire che la lingua da insegnare nelle scuole italiane dopo la breccia di Porta Pia era nel solco di quella indicata nel Cinquecento da Pietro Bembo con le Prose della volgar lingua, e poi sancita dal Vocabolario dell’Accademia della Crusca. I modelli continuavano ad essere le “tre corone” toscane: Boccaccio, Petrarca e, con il Risorgimento, soprattutto Dante, che alla questione della lingua “del sì” aveva dedicato il primo trattato della storia.

Nel De Vulgari Eloquentia, scritto quando si accinse alla composizione della Commedia, il poeta fiorentino riconobbe il primato cronologico dei siciliani della corte di Federico II e di Manfredi nella poesia d’amore in lingua volgare, che immaginò escogitata per parlare a una donna ignara del latino. Ma sulla questione della lingua espresse in modo decisivo la propria vocazione pedagogica e morale cristiana pienamente conquistata.
La «pantera profumata», ovvero la lingua ideale della poesia d’amore che invano aveva cercato nella rassegna dei dialetti delle regioni italiane, non fu da lui rintracciata. Così il Sommo poeta decise di rivolgersi ad un metodo “più razionale”, filtrando e risemantizzando il lessico volgare delle origini alla luce del latino dei padri e dei teologi cristiani medievali, da Agostino a Tommaso d’Aquino e Bonaventura da Bagnoregio. Parole chiave della poesia d’amore siciliana e stilnovista come “desiderio”, “mercede”, “grazia”, “saluto/e” assumono, in particolare nelle ultime due cantiche del Poema sacro, significati totalmente diversi, spirituali. Nel Canto XXVI del Purgatorio il poeta Guido Guinizzelli, che là purga la propria lussuria, per definire il “peccato ermafrodito” usa il termine appetito, assimilandolo esplicitamente a quello delle bestie.

La Divina Commedia è il grande poema di ispirazione divina che racconta la storia di una conversione dalla “selva oscura” del peccato, di un traviamento morale e intellettuale insieme. Il viaggio di pentimento ed espiazione alla conquista della salvezza eterna è compiuto con il corpo attraverso i primi due regni sotto la guida di Virgilio, e nel Paradiso con la guida di Beatrice, fino alla visione suprema. Ragione e fede si compongono nell’itinerario verso Dio. A Guido Cavalcanti, che era stato maestro di poesia d’amore per la donna ed ex amico, autore di “Donna me prega”, la più bella canzone dottrinale ed estrema sintesi del pensiero del filosofo arabo Averroè sull’amore-passione naturale, Dante sostituisce la guida di Virgilio. Il poeta augusteo del pius Aeneas era infatti considerato nel Medio Evo un profeta del cristianesimo in virtù di un’ecloga in cui celebrava la nascita di un bambino (in realtà figlio del suo protettore Asinio Pollione) che avrebbe segnato l’inizio di una nuova era. Quanto a Beatrice, la donna amata da Dante, la morte prematura e la trasformazione in guida al Paradiso come “figura” di Cristo diventeranno un tópos della letteratura occidentale, a partire da Petrarca.

Guido – mai nominato da Dante per cognome – è destinato, come tutti «color che l’anima col corpo morta fanno», al cerchio infernale degli eretici: in una bella novella del Decameron Boccaccio, autore peraltro di una magistrale Vita di Dante, conferma che tra gli amici girava voce che fosse ateo e che si impegnasse molto nella dimostrazione della non esistenza di Dio. Esiliato da Firenze nel fatidico anno 1300 con un provvedimento firmato in veste di Priore anche da Dante, Cavalcanti morirà di malaria due mesi dopo. L’ombra della sentenza pronunciata nei confronti del compagno di ricerca non solo poetica, ma anche filosofica, sarà presente in tutto il Poema sacro, come a un lettore attento non sfuggirà. Con quell’ombra, allo stesso tempo ragione di polemica e matrice di poesia, Dante farà i conti fino alla fine.

Non stupisce quindi che Antonio Gramsci nei Quaderni del carcere dedichi al Canto X dell’Inferno un’analisi originale, che intende essere esemplare di un metodo critico dichiaratamente diverso da quello “estetizzante” di Benedetto Croce (Q 4, 78-87). E che Guido Cavalcanti sia ricordato come massimo interprete di quella civiltà eretica comunale del Duecento, che «se indeboliva nelle masse l’ossequio all’autorità ecclesiastica, diventava nei pochi un aperto distacco dalla “romanitas”». Inoltre, originale studioso della questione della lingua come strumento di egemonia culturale, Gramsci considera il poeta stilnovista come «massimo fra quegli intellettuali» consapevoli della «discontinuità storica» col pensiero teocratico medievale, che scegliendo il volgare come nuova lingua della poesia, appunto, «pretendono di essere colti senza leggere Virgilio» (Q 7, 68).

Per quanto riguarda Dante, il bilancio più sintetico del pensiero gramsciano si legge in una nota del Quaderno 6 su Dante e Machiavelli: «Che, per l’importanza avuta da Dante come elemento della cultura italiana, le sue idee e le sue dottrine abbiano avuto efficacia di suggestione per stimolare e sollecitare il pensiero politico nazionale, è una quistione: ma bisogna escludere che tali dottrine abbiano avuto un valore genetico proprio, in senso organico. […] Direi che Dante chiude il Medio Evo (una fase del Medio Evo), mentre Machiavelli indica che una fase del Mondo Moderno è già riuscita a elaborare le sue quistioni e le soluzioni relative. Pensare che Machiavelli geneticamente dipenda da Dante è uno sproposito madornale. Tra il Principe del Machiavelli e l’Imperatore di Dante non c’è connessione genetica, e tanto meno tra lo Stato Moderno e l’Impero medioevale. Il tentativo di trovare una connessione genetica tra le manifestazioni intellettuali colte italiane delle varie epoche, costituisce appunto la “retorica” nazionale: «la storia viene scambiata con larve della storia» (Q 6, 85). Ma fulminante, nella polemica in corso, sembra quanto dal carcere di Turi nel giugno 1931, mentre la stesura delle note dantesche è in corso, scrive alla moglie russa Giulia Schucht a proposito della precoce passione per la lettura del figlio primogenito: «Ora prevedi che egli leggerà Dante addirittura con amore. Io spero che ciò non avverrà mai, pur essendo molto contento che a Delio piaccia Puškin e tutto ciò che si riferisce alla vita creativa che sbozzola le sue prime forme. D’altronde, chi legge Dante con amore? I professori rimminchioniti che si fanno delle religioni di un qualche poeta o scrittore e ne celebrano degli strani riti filologici». Parole nette e inequivocabili, di cui tenere conto.

Noemi Ghetti è storica, scrittrice e autrice di numerosi saggi. Tra i suoi libri segnaliamo L’ombra di Cavalcanti e Dante (2010) e Gramsci nel cieco carcere degli eretici (2014). Entrambi per L’Asino d’oro editore

In apertura una illustrazione di Marilena Nardi

Prosegue il dibattito su Left a proposito di Dante ascritto alla destra dal ministro della Cultura, Sangiuliano. Per approfondire, ti potrebbe interessare anche Dante fondatore di destra? Quante fandonie degli specialisti di Dante Simone Marchesi (Università di Princeton) e Akash Kumar (università di Berkley)

Resistenza, altro che resilienza

Se ne sono fregati del sanguinario e illegittimo decreto del ministro dell’Inferno Piantedosi e hanno fatto ciò che contraddistingue l’uomo: salvare gli uomini in difficoltà. La Geo Barents, nave umanitaria di Medici senza frontiere, ha deviato la sua rotta – nonostante avesse già un porto assegnato – dopo aver ricevuto un’allerta su un’imbarcazione di migranti in difficoltà, ha salvato 61 migranti in zona Sar e poi altre 107 persone pericolanti su un gommone sbrindellato.

“Le autorità italiane sono state avvertite ma al momento non abbiamo ricevuto nessuna risposta”, hanno spiegato da Msf. Dopo questo secondo salvataggio, la Geo Barents “ha continuato a navigare verso la prima segnalazione che aveva ricevuto, in conformità con il diritto internazionale marittimo”, aveva spiegato la ong. La nave dovrebbe arrivare a La Spezia tra sabato sera e domenica. L’aver cambiato la propria rotta andando a soccorrere altri migranti, come raccontato da Msf, sarebbe una violazione delle norme stabilite dal decreto Piantedosi che vorrebbe ridurre a un solo salvataggio per viaggio la possibilità di essere umani. Il fine del decreto è ovvio: lasciare le mani libere ai tagliagole della cosiddetta Guardia costiera libica (che continuiamo a pagare, dopo avere addestrato) e aumentare i costi dei salvataggi. Quanto possa essere meschino rendere economicamente sconveniente salvare vite umane non c’è nemmeno bisogno di spiegarlo.

Piantedosi, come i suoi pari, continua a mentire: “Il naufragio e il salvataggio sono qualcosa di occasionale non di ricerca sistematica che induce alle partenze. La presenza delle ong, guarda caso, fa ripartire i gommoni, non le barche strutturate. Questo è il dato fattuale che registriamo”, aveva detto nei giorni scorsi. Falso, ovviamente. L’effetto calamita delle navi delle Ong è un’invenzione della ferocissima propaganda. Nessun numero la conferma. Se lo ripetono tra di loro provando a convincere quelli fuori. In mare, nonostante i Piantedosi di turno, vale una legge vecchia di secoli e cementata da mezza dozzina di trattati internazionali: chi è in pericolo va tratto in salvo e sbarcato nel porto più vicino e sicuro.

Da Geo Barents arriva anche una denuncia video: “Il nostro team ha assistito oggi all’intercettazione da parte della Guardia Costiera libica di un’imbarcazione in difficoltà in acque internazionali. Mentre ci avvicinavamo per aiutare le persone e portarle in salvo, hanno minacciato di sparare” spiegano. La Ong ha pubblicato un video sui social in cui si sente lo scambio radio tra la nave di soccorso e la motovedetta libica. “Guardia costiera libica, c’è una persona saltata in mare”, dice l’operatore della Geo Barents. “State lontani figli di p******”, intimano dalla motovedetta. E, ancora, “state lontani dall’area o sarete esposti al fuoco”. “Minacciano di sparare”, osservano quindi dalla nave di Msf.

Resistenza, altro che resilienza.

Buon giovedì.

 

 

Chi si arricchisce, spudoratamente, con la vendita di armi e sistemi militari

Secondo lo Stockholm international peace research institute (Sipri) nel 2021 il commercio di armi, sistemi d’arma e servizi militari valeva 592 miliardi di dollari. Una cifra esorbitante che con la guerra in Ucraina sarà destinata a crescere parecchio.
Il rapporto del Sipri conferma peraltro un dato già emerso nel 2020 e che in occidente è praticamente taciuto: il 78,2% della produzione mondiale di armi, sistemi d’arma e fornitura di servizi militari è controllata da multinazionali dei Paesi Nato e dei loro alleati. Il rimanente 22% se lo dividono Russia (3%), Cina (18%) e India (0,8%). Non solo: la internazionalizzazione della filiera industriale bellica è quasi totalmente controllata dalle stesse multinazionali statunitensi ed europee e di fatto è parte di una strategia che punta da una parte a ridurre i posti ed i costi del lavoro e dall’altra alla saldatura strategica tra il Paese sede della multinazionale ed il Paese dove viene trasferito un segmento della produzione.

I principali produttori di armi nel mondo (Fonte Sipri 2022)

La produzione di armi peraltro non è “neutra”. Chi le produce tendenzialmente le usa. La quota maggiore delle armi prodotte è per il “cliente domestico”, solo una minima parte risulta come export. E infatti se consideriamo le guerre e i conflitti interni scoppiati in questi ultimi trent’anni e mettiamo insieme gli attori diretti ed indiretti che le hanno combattute, provocate o sostenute, allora ci rendiamo conto che le “quote” di responsabilità di guerra non solo sono sovrapponibili al grafico ricavato dai dati Sipri ma vanno ben oltre, visto che la Cina è completamente assente dai vari campi di battaglia.

Armi e sistemi d’arma sono prodotti industriali di altissimo livello perché incorporano il meglio della tecnologia disponibile. Ogni Paese che ne abbia le capacità si dota di una filiera industriale che possa produrli direttamente. Quanto poi sia l’industria delle armi a controllare le scelte governative con lobby e porte girevoli e non viceversa, dipende da caso a caso. Le armi sono “prodotti” alla stessa stregua delle automobili o delle lavatrici ma con un valore aggiunto decisamente superiore: sono al centro di una concorrenza globale molto particolare. Anche in Italia, dodicesima nella top ten mondiale dei produttori, non manca occasione in cui gli amministratori delegati delle industrie belliche, i ministri competenti e purtroppo gli stessi sindacati confederali rivendicano la necessità di difendere con sussidi ed investimenti “il prodotto” nazionale da una concorrenza sempre più agguerrita. L’ultimo “brindisi” di Fiom-Cgil, Fim Cisl e Ulm per una grossa commessa militare è avvenuto pochi giorni fa a Palermo in occasione del varo della nave anfibia “Al Fulk” consegnata da Fincantieri alla marina del Qatar.

C’è davvero poco per cui brindare: con le armi e i sistemi d’arma si fa politica estera, oltre che profitto per manager e azionisti e la nave da guerra alla petromonarchia del Golfo sigilla una relazione bilaterale molto stretta.
Per tutti i Paesi produttori di armamenti vale il peso specifico strategico che il “prodotto” porta con sé e questo diventa il vettore di rapporti bilaterali privilegiati con Paesi terzi acquirenti. Anche per questa ragione l’ex ministro della Difesa Guerini (Pd, Conte bis e Draghi) ha trasformato lo stesso ministero in agente di commercio dell’industria di bandiera con la norma “Government to Government” e ha definito la stessa industria bellica il pilastro della politica estera nazionale. Il suo successore Guido Crosetto (FdI), già presidente della federazione delle Aziende italiane per l’Aerospazio, la difesa e la sicurezza (Aiad), chiude il cerchio. Eppure il comparto vale meno dell’1% del Pil, meno dello 0,7% dell’export e meno dello 0,5% in termini di occupazione. Il suo “peso” deriva dal fatto che alla compravendita di tecnologia bellica si accompagna spesso la sottoscrizione di accordi bilaterali legati a petrolio, gas, cooperazione militare e, non ultima, la disponibilità ad ospitare basi operative. Le forze armate, al di là della retorica ufficiale, svolgono un ruolo attivo nella partita commerciale: consumano il prodotto e ne diventano la “migliore vetrina” all’estero grazie alle “missioni di pace”. Lo ha affermato candidamente Alessandro Profumo, amministratore delegato di Leonardo e presidente dell’Associazione europea delle industrie dell’Aerospazio e della Difesa (Asd). Le stesse forze armate diventano infine esse stesse parte integrante dei pacchetti commerciali bellici, offrendo servizi molto speciali come l’addestramento.

Prendiamo ad esempio l’Arabia Saudita, uno tra gli importatori bellici più dinamici e spregiudicati. I piloti dell’aviazione saudita si formano e si addestrano anche presso l’Accademia Aeronautica di Pozzuoli e le Scuole di Volo del 70° stormo di Latina e del 61° stormo di Galatina (Lecce). L’Italia vende armi e addestramento ad una monarchia oscurantista che ha raso al suolo lo Yemen scatenando la più grave strage di civili e crisi umanitaria degli ultimi sette anni.

I re sauditi hanno potuto violare il diritto internazionale grazie al supporto logistico-militare fornito da Stati uniti e Regno unito e all’appoggio di Emirati Arabi Uniti, Qatar, Bahrain, Kuwait, Giordania, Egitto e Sudan. Lo hanno fatto con le armi vendute dai grandi colossi industriali della “difesa” statunitensi ed europei ma non solo.
Nel 2017 la Russia ha venduto all’Arabia saudita (ossia il peggior nemico dei suoi alleati nell’area) le batterie antiaeree S400, sistemi controcarro KORNET-EM, lanciarazzi campali TOS-1A e la licenza per produrre il nuovo Ak103. Una commessa da poco più di 3 miliardi di dollari. Lo stesso anno gli Stati uniti di Trump hanno piazzato agli emiri una mega commessa da 110 miliardi di dollari.

Così fan tutti verrebbe da dire. È vero, ma alcuni molto, molto più di altri. I numeri parlano chiaro. Ogni industria che produce un qualunque bene di consumo deve venderlo per prosperare e realizzare profitto. Più sono i consumatori e più rapido è il ciclo di consumo, più i profitti aumentano. È il capitalismo.
Nel caso delle armi, eserciti, marine ed aviazioni sono il principale acquirente mentre esercitazioni e guerre sono i luoghi del consumo. Più estese saranno le esercitazioni e le guerre sia in termini temporali che di dimensione geografica maggiori saranno gli stock consumati, maggiori le occasioni di testare nuovi “prodotti”, maggiori saranno i profitti per azionisti e manager dell’industria di riferimento (comprese le grandi multinazionali delle ri-costruzioni).

Una industria militare senza guerra è destinata al fallimento in particolare quando si tratta di una società per azioni lanciata alla conquista del mercato interno e globale.
Ecco spiegato come mai il blocco euro-atlantico trainato dagli Stati Uniti, che comprende Paesi Nato ed extra-Nato anche nel quadrante del Pacifico, è in assoluto il più bellicoso ossia il responsabile diretto ed indiretto, negli ultimi trent’anni, della maggior parte dei conflitti armati, delle stragi di civili e delle violazioni del diritto internazionale.
Senza considerare gli effetti devastanti di un’altra arma terribile che il Sipri non considera ma che vede l’occidente ancora monopolista: le sanzioni economiche. Solo in Iraq queste hanno ucciso 400mila bambini che, come disse Madeleine Albright in una celebre intervista (per la quale si è poi scusata ndr), furono il prezzo da pagare per l’esportazione della democrazia (mai pervenuta).

Quando i nostri governi ci raccontano che dobbiamo armarci sempre di più e bombardare altri Paesi per difendere pace, diritti umani e interessi nazionali mentono sapendo di mentire. Né la pace, né i diritti umani né gli interessi nazionali sono difesi da questa economia di guerra e dalla belligeranza permanente nella Nato.
L’interesse dell’Italia e della grande maggioranza degli italiani non risiede nello schierarsi in una guerra tra superpotenze ma nel rilancio della scuola e della sanità pubbliche, nell’investimento in cultura e ricerca, nel reddito, nella grande opera di manutenzione del territorio, nella vera conversione ecologica che potrà garantirci un futuro. Di questo ha bisogno il Paese e solo una politica estera sganciata dall’atlantismo e dai fatturati dell’industria bellica e rivolta alla cooperazione strategica equa e proficua potrà accompagnarne il passo.

E alla fine la legge 194 è sotto attacco

Ieri la ministra alla Famiglia, le Pari opportunità e al Ritorno al Medioevo Eugenia Roccella è ripartita all’attacco spiegandoci che «per quanto riguarda la proposta di legge sullo statuto del concepito, sono stata la prima a fare una dichiarazione sul tema, ma comunque autorevolmente l’ha fatta subito il capogruppo di FdI, il senatore Malan, e in tutto il percorso della campagna elettorale la presidente del Consiglio ha più e più volte in modo reiterato dichiarato la posizione del partito e del Governo sulla questione della legge 194», ha detto la ministra.

Varrebbe la pena sottolineare che qualche tonto ci aveva ammonito perché “i diritti non saranno toccati” e aveva additato come allarmisti chi sommessamente aveva segnalato il rischio. Invece siamo qui. Come sottolineano le senatrici del Pd Cecilia D’Elia, portavoce della Conferenza delle donne democratiche e Valeria Valente «la ministra Eugenia Roccella in Senato ha confermato una visione propria della destra, distante anni luce dalla nostra, che continua a vedere le donne esclusivamente come madri e che pensa di combattere la denatalità aiutando le donne sostanzialmente a stare a casa per fare figli».

E ora? Tra le voci giustamente sdegnate di ieri vale la pena sottolineare quella di Anna Pompili, ginecologa e socia fondatrice di Amica-Associazione medici italiani contraccezione e aborto: «C’è un peccato originale in tutta questa storia: quando si parla di aborto si ragiona sempre come se ci fossero due individualità, due soggetti di diritto uguali e contrapposti. Questo – aggiunge – è un falso biologico e una distorsione della realtà. Siamo abituati a pensare al feto come se fosse un individuo contrapposto a una donna e dimentichiamo una cosa fondamentale, la realtà materiale biologica: ossia il fatto che c’è un organismo, un embrione, dentro l’utero di una donna. E non si può quindi pensare di forzare una donna a portare avanti una gravidanza che non desidera, perché è proprio quel legame a darle il diritto e la libertà di decidere. Quando parliamo di diritto all’aborto, dobbiamo tenere presente che non si può vietare l’aborto. Al massimo si può vietare l’aborto sicuro perché, come vediamo nei Paesi in cui non è consentito, le donne che vogliono interrompere una gravidanza lo fanno lo stesso, clandestinamente, con il conseguente aumento del tasso di mortalità da aborto»

«Daremo alle donne il diritto di non abortire» diceva Giorgia Meloni a settembre dell’anno scorso. Qualcuno ha fatto finta di non cogliere il messaggio. Ora eccoci qua.

Buon mercoledì.

Nella foto: frame del video dell’audizione in commissione al Senato della ministra Roccella, 24 gennaio 2023

PER APPROFONDIRE LEGGI LEFT

La resistenza delle donne iraniane ci riguarda tutti. Perché «nostra patria è il mondo intero»

Sono passati ormai più di tre mesi dall’inizio delle mobilitazioni che hanno dato nuova linfa alla coraggiosa resistenza del popolo iraniano.
Tre mesi in cui il regime ha drammaticamente inasprito la repressione di un popolo innocente, reo di esercitare il proprio diritto a resistere contro i soprusi della dittatura che durano da 44 anni. Giorno dopo giorno i manifestanti rischiano la vita tra processi sommari, esecuzioni e atti di violenza ingiustificata.
Giorno dopo giorno le donne continuano a lottare per smantellare l’apartheid di genere ed eliminare la sharia che vige Teheran.

È lì che deve essere rivolto il nostro sguardo per non restare impassibili davanti alle ingiustizie e condannare con fermezza ogni forma di sostegno al regime di Khamenei.
Lo dobbiamo a Masa, a Masooumeh, a Keyvan, alle oltre 400 persone che hanno perso la vita per la libertà.
È con questa convinzione che abbiamo manifestato sotto l’ambasciata iraniana dentro la sfida di questa nostra campagna elettorale regionale nel Lazio.
Cosa c’entra la corsa alle regionali, in cui sono impegnato in prima persona con la lista Verdi e Sinistra, con l’Iran?
Perché un collettivo di donne e uomini, oggi chiamati in prima persona a fronteggiare l’avanzata delle destra a Roma e nel Lazio, hanno deciso di mobilitarsi per chiedere subito pace e giustizia in Iran e a tutte le latitudini in cui si sviluppano e insistono guerre e privazioni?

Siamo convinti che sia arrivato il momento in cui le forme della politica, ancora meglio, in cui la rappresentanza torni a occuparsi a tutto tondo delle relazioni politiche, ideali e valoriali con le lotte che si sviluppano nel mondo.
Il progetto di Verdi e Sinistra rappresenta oggi per tutte e tutti noi questa straordinaria opportunità: rompere l’isolamento in cui migliaia di esperienze civiche, associative, di intervento sociale sono costrette da anni per ricostruire un vincolo di solidarietà tra tutte e tutti noi, offrendoci lo spazio e lo strumento di un campo comune in cui unire le lotte e metterci in connessione sentimentale con chi reclama pace e giustizia a Teheran, a Kiev, a Gaza, in Latinoamerica. Favorendo la diplomazia dal basso tra l’attivismo e la società civile che si esprime e lotta in qualsiasi regione del mondo.

La nostra battaglia oggi per la Regione Lazio è dentro la coalizione progressista riunita intorno ad Alessio D’Amato, l’unico candidato in grado di contrastare la vittoria della destra. Ma la nostra battaglia, la battaglia di Verdi e Sinistra, è anche quella di costruire una regione di pace e porto sicuro: un territorio aperto, che sappia accogliere chi fugge da guerre, dittature e carestie. Lo abbiamo fatto benissimo negli ultimi mesi con i fratelli e le sorelle che fuggivano a causa dall’invasione russa dell’Ucraina. Dobbiamo continuare su questa strada, quella di una regione unita e solidale che fa della pace e dell’accoglienza un marchio di riconoscimento in Italia, in Europa e nel mondo. La Regione deve essere un ponte di pace favorendo il dialogo tra diversi, per porre fine all’assedio in Ucraina e all’incubo della guerra globale che incombe in Europa. Una regione europea che guarda al Mediterraneo come opportunità per il futuro. Una regione che si candida a svolgere funzioni di pace e di denuncia come nel caso della mattanza del regime iraniano.

E per fare questo serve un’invasione di campo nella politica da parte di tutte e tutti coloro che in questi anni si sono sperimentati nella costruzione di una società più giusta. Abbiamo bisogno di tornare ad occuparci tutte e tutti della dimensione politica comune superando la segregazione che ci siamo imposti tra chi fa pratica sociale e chi è professionista del politicismo. Rompiamo questo accerchiamento, torniamo a praticare solidarietà.
Uniti saremo più forti e daremo gambe a un processo, quello della sinistra ecologista, che va aperto e innervato affinché anche in Italia si affermi un’opzione politica autonoma e indipendente in grado di rappresentare chi non trova voce nelle secche del dibattito interno del Pd o nelle torsioni identitarie del M5s.
A partire anche dagli scenari internazionali, perché siano ben piantate a terra le nostre istanze e vertenze c’è bisogno di una nuova visione globale fondata su un concetto semplice e antico: nostra patria è il mondo intero.

Claudio Marotta è candidato per Verdi e Sinistra alle elezioni regionali del Lazio a sostegno di Alessio D’Amato presidente

In apertura: Manifestazione di solidarietà con la resistenza iraniana, Roma, 3 ottobre 2022 – Foto di Rossella Carnevali

La politica (e Gianni Cuperlo)

Gianni Cuperlo di sicuro non vincerà queste stanche primarie del Partito democratico. Il deputato del Pd ha troppa esperienze sulle spalle per non sapere che la sua candidatura serve più che altro a fomentare la politica in un dibattito congressuale che molti temevano incagliato in questioni di caminetti e di equilibri interni. Finora sta andando esattamente così.

«Perché la mia candidatura è arrivata in ritardo? Se avessi potuto non l’avrei fatto. E non per mancanza di passione, ma al contrario per troppa passione per questo congresso, che pensavo che fosse l’occasione per fare discussioni che non abbiamo mai fatto», ha detto ieri Cuperlo a un incontro del partito alla sala Candilejas a Bologna.

Ieri con un mazzo di rose bianche Gianni Cuperlo ha portato il suo omaggio alle vittime della strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980. Nella prima giornata emiliano-romagnola della sua campagna per il congresso Pd, e prima dell’iniziativa in programma sotto le Due torri, ha voluto far visita alla lapide con i nomi delle 85 vittime nella sala d’aspetto della stazione. E da lì critica la proposta di una commissione parlamentare di inchiesta sugli anni di piombo, arrivata nei giorni scorsi in Parlamento su iniziativa di Fdi, che ha preoccupato subito l’associazione dei familiari delle vittime. «Non vorrei che la destra al potere volesse rileggere la storia di questo Paese – attacca Cuperlo – le pagine gloriose e le pagine tragiche. Usare il potere che si ha per condizionare la lettura storica di fatti che sono da decenni di fronte all’opinione pubblica è un qualcosa che confligge con il nostro senso di verità e giustizia, ma anche di etica pubblica e di memoria condivisa». La lapide in sala d’aspetto, afferma il candidato alla guida del Pd, «è un luogo simbolico di questa città, del dolore e della sofferenza di Bologna. Ma è anche il luogo dove la città ha mostrato la sua dimensione e il suo orgoglio, la sua passione civile e la matrice antifascista dei bolognesi. Il 2 agosto è uno spartiacque e questo luogo è il simbolo della richiesta di verità e giustizia, rivendicata ogni anno. Non potevo che partire da qui».

Leggendo le parole di Cuperlo mi sono tornate in mente le critiche di chi accusa il Partito democratico di cose del passato. Sono gli stessi che vorrebbero insegnarci il progressismo intendendo come una tiepida pulsione a non esagerare mai nei progetti e nelle proposte. In fondo la strage di Bologna a molti farebbe comodo archiviarla come “storia passata”. E invece la politica è anche la perseveranza della memoria usata come arma bianca per scegliere la resistenza mentre tutti ci invitano alla resilienza. E l’ho trovata un’uscita politicissima, questa di Cuperlo.

Buon martedì.

Qui l’intervista di Gianni Cuperlo rilascata alla direttrice Simona Maggiorelli Gianni Cuperlo: la dimensione etica è inderogabile a sinistra 

Nella foto: frame del video dell’incontro con Gianni Cuperlo, sala Candilejas, Bologna, 23 gennaio 2023

Il senso per i golpisti pro-Bolsonaro di Carlo Cauti, l’uomo di Meloni a Brasilia

Anche dopo il tentato golpe dei suoi sostenitori a Brasilia, Jair Bolsonaro continua ad avere estimatori in Italia. La decisione della Corte suprema brasiliana di autorizzare un’indagine sull’ex presidente Bolsonaro è sostenuta dal Parlamento europeo, in quanto «potrebbe aver contribuito, in modo molto rilevante, alla commissione di crimini e atti terroristici», ma all’atto del voto i parlamentari di Fratelli d’Italia si sono astenuti. È accaduto il 19 gennaio, quando è stata adottata con 319 voti a favore, 46 contrari e 74 astensioni la risoluzione con cui i deputati del Parlamento europeo hanno espresso solidarietà al presidente democraticamente eletto Luiz Inácio Lula da Silva, e quindi al suo governo e alle istituzioni brasiliane, condannando, «con la massima fermezza», gli atti criminali compiuti dai sostenitori dell’ex presidente Jair Bolsonaro e invitandoli ad accettare l’esito delle elezioni. Tuttavia c’è chi da noi è fermo su altre posizioni. A destra, ovviamente.

Basta andare a leggere o ascoltare ciò che ha scritto e detto Carlo Cauti, coordinatore della comunicazione del partito di Meloni per il Sud America, per farsi un’idea di quale sia la linea del partito che guida il governo italiano. In ogni sua intervista e articolo pubblicati in Italia, in veste di professore dell’università privata Ibmec (Instituto brasileiro de mercado de capitais) e collaboratore di Limes, Cauti promuove la tesi dell’estrema destra brasiliana sull’illegittimità della candidatura di Lula, affermando che sarebbe il frutto di «una manovra politico-giudiziaria decisa da un solo giudice della Corte Suprema, indicato dal partito». La vittoria dell’attuale presidente della Repubblica non sarebbe il frutto del voto democratico, ma è avvenuta «chissà come».

Oltre al ruolo di coordinatore della comunicazione del partito di Giorgia Meloni per il Sud America, Cauti ricopre quello di presidente dell’Associação dos correspondentes estrangeiros no Brasil (Ace). Da ex stagista dell’attuale ministro degli Esteri, Antonio Tajani (quando ricopriva il ruolo di vicepresidente del Parlamento europeo), il meloniano Cauti è diventato professore dell’Ibmec. Questo istituto fu fondato dal dittatore golpista Maresciallo Humberto de Alencar Castelo Branco proprio nel 1964 anno in cui diede inizio alla repressione, sciolse i partiti politici e determinò che alla democrazia era molto meglio il terrore.

«Le Forze armate vedono il governo Lula come pericoloso», afferma Cauti. A detta sua, il Partido dos Trabalhadores avrebbe cercato di introdurre, nei curricula delle accademie militari brasiliane, questioni politiche. «Si parla di una vera e propria ideologizzazione, com’è stato fatto in Venezuela, per trasformare l’esercito da un organo di Stato a uno politico». Inoltre, i militari considererebbero il governo Lula «un rischio per l’economia del Brasile» e manifesterebbero il timore «per la tenuta democratica e anche e soprattutto per il futuro della Nazione». Per questa ragione, molti dei suoi alunni dell’Ibmec avrebbero vissuto per mesi accampati davanti le caserme, per pretendere dai militari «un golpe di Stato, a causa dell’arrivo di Lula al potere, per il timore che il Brasile facesse la stessa fine dell’Argentina, fra 6 mesi, o del Venezuela, fra due anni». A quanto pare, si tratta di una visione avuta da Cauti dopo aver frequentato, lo scorso anno, il corso di Geopolitica dell’Escola de Comando e dell’Estado-Maior do Exército (Eceme), storicamente legata a militari torturatori, come Carlos Alberto Brilhante Ustra, l’ex comandante del Doi-Codi, uno dei maggiori centri di tortura della dittatura militare.

L’estrema destra brasiliana, capitanata dall’ex presidente Bolsonaro, considera, anzi, il sadico torturatore Ustra un eroe, per aver torturato l’ex presidente della Repubblica Dilma Rousseff, appena ventenne, donne incinte, e genitori davanti ai loro bambini.
La narrazione di Cauti sulla stampa italiana, se replicato dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni, potrebbe provocare un raffreddamento delle relazioni diplomatiche tra i due Paesi, in un momento storico particolare, che vede il Brasile superare l’India come Stato che più importa prodotti alimentari italiani, secondo quanto riportato dalla banca dati del ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. A detta di Cauti, «i brasiliani non vogliono provocare una guerra civile, ma allo stesso tempo non condannano coloro che hanno vandalizzato e devastato la capitale del Paese». Tuttavia, Cauti non rivela alla stampa italiana che, subito dopo l’attacco degli estremisti di destra a Brasília, un sondaggio dell’Instituto Datafolha aveva rilevato che il 93% dei brasiliani disapprovava l’azione terroristica.

La notizia era stata divulgata anche sui canali YouTube più seguiti dall’estrema destra, come il JP News (Jovem Pan News), con ben 7 milioni di inscritti, demonetizzato dai gestori della piattaforma per le notizie false, il golpismo e i messaggi di odio dei presentatori nei confronti dell’elettorato di sinistra. Il golpismo dei commentatori del canale Jovem Pan ha provocato la perdita di molti sponsor di rilievo, come Tim e Burger King, nonché la sospensione degli account personali dei suoi anchormen sulle piattaforme YouTube, Instagram, Telegram, Facebook e Twitter, anche per aver usato le immagini dell’assalto a Capitol Hill per stimolare i golpisti brasiliani, accampati nelle caserme, a seguire le loro orme. I responsabili risultano indagati dalla magistratura.
Nella Jovem Pan, il coordinatore della comunicazione di Fratelli d’Italia per il Sud America, è una presenza costante. Tra i generali che hanno partecipato maggiormente alle loro trasmissioni figura Augusto Heleno Ribeiro Pereira, soggetto ad un’interrogazione parlamentare nel 2019, dopo aver dichiarato al giornale Folha de São de Paulo che, per contenere la Sinistra “modello cileno”, era necessario “studiare a tavolino” la messa in atto di un nuovo Atto Istituzionale n. 5, che altro non è che la legge più dura del periodo dittatoriale. Come conseguenza dell’istituzione dell’AI-5, il Parlamento fu definitivamente chiuso, le garanzie costituzionali sospese, le manifestazioni vietate, la stampa censurata, oltre alle uccisioni e alle torture degli oppositori notevolmente aumentate.

Il generale Heleno raggiunse la notorietà internazionale nel 2005, quando gli venne assegnata dall’Onu un’operazione molto delicata: la missione di peacekeeping Minustah, ad Haiti. Nella favela chiamata Cité Soleil, di Port-au-Prince, le truppe comandate dal generale sopraggiunsero nel cuore della notte, sparando circa 22mila proiettili e lanciando bombe, in modo indiscriminato, mentre gli abitanti dormivano. L’ennesimo atto barbarico. Il loro obiettivo era Dread Wilme, un narcotrafficante che teneva in pugno l’intera comunità: trucidato, insieme ad altre decine di uomini, donne, vecchi e bambini, alcuni appena nati.
I documenti desecretati dall’organizzazione internazionale senza scopo di lucro, WikiLeaks, e analizzati dal quotidiano The Guardian, dimostrano che la Minustah, con la partecipazione diretta degli Stati Uniti, e le truppe militari, di cui la maggior parte sotto il comando dei generali dell’esercito brasiliano, peggiorarono di gran lunga la situazione del Paese. I militari furono accusati dalla popolazione haitiana di violenza generalizzata e centinaia di stupri, commessi anche nei confronti di bambine.
Un rapporto dettagliato sugli stupri compiuti dai militari è stato pubblicato dalle ricercatrici Sabine Lee e Susan Bartels, nel 2019, sulla rivista scientifica International Peacekeeping, dopo aver valutato negli anni oltre 2.500 testimonianze.

In qualità di presidente della Repubblica, Bolsonaro ha premiato ogni singolo militare della Minustah con Ministeri e incarichi di rilievo: per esempio, nominà il generale Augusto Heleno a capo del dipartimento di Sicurezza istituzionale (Gsi), il ministero che avrebbe dovuto garantire la sicurezza del Palácio do Planalto, vandalizzato lo scorso 8 gennaio, anche a causa dell’assenza delle guardie; il ministero della Difesa toccò all’ex generale Fernando Azevedo e Silva, sotto il comando di Heleno, ad Haiti; quello delle Infrastrutture a Tarcísio de Freitas, ingegnere militare in servizio nella Minustah, eletto governatore di San Paolo, nel 2022; al generale Carlos Alberto dos Santos Cruz, al comando delle truppe tra il 2007 e il 2009, toccò la Segreteria di Governo della Presidenza. Così, dal portavoce di Bolsonaro alla direzione delle Poste, i militari legati alla disastrosa operazione di peacekeeping ad Haiti, nostalgici del regime militare, e i parenti dei peggiori torturatori del regime, assieme all’estrema destra, difendono caparbiamente la loro teoria, cioè che un governo di sinistra sarebbe il vero disastro del Paese, non loro.

L’ipotesi paventata sulla stampa italiana dal coordinatore della comunicazione di Fratelli d’Italia per il Sud America, secondo cui il governo Lula ha favorito deliberatamente gli attentati terroristici dell’8 gennaio, presso le sedi dei tre poteri e la Corte Suprema, è grave e appartiene alla propaganda del partito al quale è affiliato in Brasile, il Partido Novo, con il quale presentò la sua candidatura a deputato per lo Stato di San Paolo. Lo scopo del machiavellico governo di Sinistra, a 7 giorni dalla cerimonia dell’insediamento, sarebbe quello di “delegittimare” gli elettori di Bolsonaro, per “iniziare la repressione”. Con questo pretesto, il neopresidente eletto avrebbe potuto promuovere una vera e propria “caccia alle streghe” contro gli organizzatori e i fautori della “manifestazione di Brasília”, descritti come una turba pacifica, in Havaianas, disarmata, zie da WhatsApp, ultrasessantenni adoratrici di Bolsonaro, vecchietti e studenti dell’università dove insegna. Una propaganda respinta al mittente dal Parlamento Europeo.

La tensione sociale, la polarizzazione politica, le manifestazioni golpiste e, infine, la violenza terrorista che ha colpito le istituzioni brasiliane l’8 gennaio sono il frutto degli attacchi sistematici alla democrazia, indebolita dalla disinformazione propagata dall’estrema destra, attraverso mezzi di comunicazioni prescelti. Omettendo informazioni essenziali alla comprensione dei fatti, pregiudizi e stereotipi vengono perpetrati. Così facendo, ogni Paese democratico che sceglie un leader di Sinistra può continuare ad essere dipinto come “una semplice repubblica delle Banane”, paradossalmente più libera, se governata da militari torturatori, pronti a zittire, intimidire, schiacciare e sopprimere quei giornalisti che, per dovere di cronaca e in nome della libertà di stampa, osano raccontare storiche verità. E la cosa agghiacciante per loro è che lo fanno senza alcuna paura.

La latitanza trentennale in Sicilia di Messina Denaro è una sconfitta per lo Stato

La cattura di Matteo Messina Denaro è una vittoria di carabinieri e magistratura. Il governo non ha alcun merito. La sua latitanza per trent’anni è una sonora sconfitta dello Stato. La circostanza che la sua latitanza si sia svolta in gran parte nei pressi del suo Comune di nascita, in provincia di Trapani, vuol dire che ha goduto di omertà, connivenze e complicità, ma anche che non è stato efficacemente cercato. Il suo volto degli ultimi tempi non era nemmeno tanto dissimile dalle ultime immagini prima che si rendesse latitante. Faceva acquisti, andava in bar e ristoranti, viaggiava, frequentava persone, si faceva foto. Tutto questo è più che una sconfitta per uno Stato che complessivamente non considera più il contrasto alle mafie una priorità. Perché secondo alcuni era un arresto nell’aria ? Si è consegnato? Messina Denaro ha mollato la sua concentrazione? Qualcuno ha voluto fare un regalo oppure mandare un avvertimento al governo delle destre per equilibri interni a pezzi di Stato? Avremo gli ultimi rimbalzi delle trame frutto della trattativa? Si è voluta chiudere in modo simbolico definitivamente la stagione stragista per legittimare ulteriormente la convivenza con le mafie frutto della trattativa tra pezzi di Stato e cosa nostra? Chi ha coperto la latitanza e chi ha operato più alacremente per catturarlo? Oppure non c’è nulla di anomalo ed è tutto a posto?

In Italia molti sospettano non perché sono complottisti pregiudiziali ma perché pezzi di Stato negli anni hanno fatto di tutto per far perdere credibilità allo Stato stesso: le verità parziali sulle stragi di Capaci ma soprattutto via D’Amelio, la stagione delle stragi a grappolo per l’Italia e la trattativa Stato-Mafia, i misteri sulle catture di Provenzano e Riina, la mancata perquisizione del covo di Riina, le delegittimazioni e gli ostacoli istituzionali nei confronti di magistrati che hanno indagato sui massimi livelli di complicità di cosa nostra e ‘Ndrangheta, le interferenze di ministri della Giustizia, capi di governo e capi di Stato nei confronti di magistrati scomodi al potere, il coinvolgimento di alti ufficiali del Ros dei Carabinieri in fatti giudiziari di estrema gravità, il Palamaragate, il ruolo delle massonerie deviate. Insomma una questione morale gigantesca con riferimento alla quale mi meraviglio che ci si sorprenda se la gente ripone qualche dubbio sulla credibilità di numerosi rappresentanti delle istituzioni.

Semmai c’è da chiedersi perché la gente non si ribella di fronte ad un letame diffuso dal quale non nascono nemmeno i fiori. Perché la mimetizzazione delle mafie nel cuore delle istituzioni del nostro Paese ha fatto crescere ignoranza, indifferenza, assuefazione, sottovalutazione, rassegnazione. Purché non facciano rumore con le mafie si può convivere. La visione politica, la capacità istituzionale e la vocazione imprenditrice fanno dell’ndrangheta l’organizzazione mafiosa che da tempo ha scelto la strategia vincente. Eversione piduista con la legalità formale, inquinamento dell’economia, occupazione di luoghi un tempo difficilmente corruttibili. Con l’ndrangheta si passa dalle mele marce al frutteto contaminato. Il livello di corruzione e di pezzi di Stato divenuti mafiosi è talmente alto che è la borghesia mafiosa che si serve della mafia tradizionale e non più viceversa come un tempo.

E quale è la risposta del nuovo governo per contrastare le mafie di ultima generazione? Ridurre le intercettazioni, che invece sono assolutamente fondamentali proprio per scardinare il livello di convivenza delle mafie nelle istituzioni. Ridimensionare autonomia ed indipendenza della magistratura anche eliminando il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, magistrati meno liberi e reati non obbligatori da perseguire sono fattori determinanti per il condizionamento politico della magistratura e la cancellazione di fatto del principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Credo che la cattura di Messina Denaro si inserisca in pieno ma non a gamba tesa in questa fase di assetto di nuovi equilibri che dall’interno corrodono sempre di più le fondamenta democratiche del nostro Paese.

Morti che non noterà nessuno

Il luogo è quello già letto e sentito altre volte. Sentito solo di sfuggita perché si tratta di una di quelle notizie che sfioriamo e ricordiamo solo per assonanza. Borgo Mezzanone. Borgo Mezzanone, nel foggiano, è un buco d’umanità in cui buttiamo i rifiuti che non vogliamo vedere: il ghetto dei braccianti che valgono solo per i chili che riescono a raccogliere o a trasportare.

A Borgo Mezzanone sono stati ritrovati stamattina un uomo e una donna morti probabilmente per le esalazioni provenienti dal braciere che avevano acceso durante la notte per soffiare una tiepidezza utile almeno a non congelarsi. Da queste parti il ristoro non esiste, al massimo è consentito sopravvivere. E anche sopravvivere è un privilegio.

A Borgo Mezzanone però non vive un pugno di braccianti che questo Paese ha dimenticato. A Borgo Mezzanone sono in 1.500, pronti a sparpagliarsi ogni mattina per fare gli schiavi e imbandire le tavole del “Made in Italy” che esportiamo con fierezza nel mondo, sempre attenti a lavarlo dal colore del sangue e dall’odore della fatica senza diritti.

Borgo Mezzanone non è un’eccezione.

Sono 150 i ghetti presenti sul territorio italiano. La prima indagine, voluta dal ministero del lavoro e politiche sociali, in collaborazione con l’Anci, l’Associazione nazionale dei comuni italiani, intitolata Le condizioni abitative dei migranti che lavorano nel settore agroalimentare, li definisce “insediamenti informali”. Ma di fatto sono ghetti, formati da baracche, casolari abbandonati, tende e malmesse roulotte, dove abitano oltre 10mila persone di origine straniera che lavorano nelle campagne. Manodopera fondante il comparto dell’agroalimentare.

150 ghetti, sparsi in 38 comuni, divisi in undici regioni lungo lo Stivale. Presenti per lo più tra Puglia e Sicilia, Calabria e Campania. Foggia, la provincia con il numero maggiore di insediamenti (8 i comuni coinvolti, oltre il 20% del totale), seguita dalla provincia di Trapani (4), Reggio Calabria (3), Andria-Barletta-Trani (2), Caserta (2), Cuneo (2) e Rovigo (2). Realtà dalle dimensioni diverse (gli insediamenti più grandi, quelli che superano il migliaio di persone, sono a Borgo Mezzanone, frazione di Manfredonia, dove si contano 4 mila presenze, e nel gran ghetto di Rignano a San Severo, dove sono oltre 2mila presenze), in cui lo Stato consente che si viva nel totale degrado, senza servizi sanitari e igienici.

Dove mancano interventi finalizzati all’integrazione, la mediazione culturale, l’alfabetizzazione. Dove spesso è presente il caporalato e il lavoro irregolare è all’ordine del giorno. Insediamenti che, nel 41,3% dei casi, hanno carattere stabile e permanente. Basti pensare che undici, tra questi, esistono sul territorio da oltre 20 anni; 16 fino a dieci anni, 21 da sei, 27 da uno a tre anni. Luoghi dove manca lo Stato e dove i morti non li nota nessuno.

Buon lunedì.

Nella foto: frame del trailer del film One Day One Day di Olmo Parenti sul ghetto di Borgo Mezzanone

Il discorso di Liliana Segre per la ricostituzione della Commissione contro intolleranza e razzismo

Care colleghe, cari colleghi,
quella di oggi è una seduta importante del Senato della Repubblica. Una seduta che ci vede impegnati nella discussione ed approvazione della mozione che istituisce anche per questa legislatura la Commissione straordinaria per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza.

Abbiamo svolto un lavoro utile e proficuo la scorsa legislatura. Abbiamo approfondito ed analizzato aspetti fondamentali di una delle questioni più importanti e sensibili del nostro tempo: la diffusione dei social media e il rischio, purtroppo sempre incipiente, di favorire la diffusione anche dello hate speech e di campagne mirate alla discriminazione, al pregiudizio, alla diffusione tossica di fake news.

I lavori della Commissione nei mesi scorsi sono andati avanti in modo proficuo e partecipato, con decine di audizioni ed approfondimenti. Si sono infine conclusi con l’approvazione alla unanimità di un Documento che riassume il senso complessivo del nostro lavoro e dà utili indicazioni per l’impostazione dell’attività che resta ancora da fare.
Perché da fare resta ancora molto. Sia a livello di approfondimento dei temi, sia per favorire una nuova produzione legislativa, che si armonizzi con le novità importanti nella normativa europea, che noi abbiamo sempre seguito e sostenuto con particolare attenzione.

Nel luglio scorso, il Parlamento europeo ha approvato a larghissima maggioranza la nuova legge sui servizi digitali (Dsa) e la legge sui mercati digitali (Dma), leggi che affrontano gli effetti sociali ed economici del settore tecnologico, in sostanza delle grandi piattaforme social, stabilendo regole chiare per le modalità di funzionamento e di fornitura dei servizi.

Tutte questioni evidentemente di rilevante valore economico, ma anche valoriale, da cui ne va della qualità della nostra vita civile e quindi delle nostre democrazie. Non a caso da alcuni anni si è cominciato a parlare di “algoretica” cioè di etica degli algoritmi; il fine di questo nuovo campo di ricerca è proprio contribuire a regolare l’attività delle grandi piattaforme social sulla base di valori e diritti irrinunciabili per tutti i cittadini e le cittadine dell’Unione europea, ma poi ovviamente per tutti gli esseri umani.

Ma dunque la mozione che oggi siamo chiamati a discutere ed approvare riguarda questioni cruciali come la libertà di espressione e la tutela della dignità della persona; due esigenze che, come numerose audizioni svolte la scorsa legislatura ci hanno ricordato, non sono alternative ma complementari. Perché certo non ci può essere libertà di espressione senza rispetto dell’altro, della libertà altrui di essere e di esprimere la propria personalità in un ambiente, virtuale e reale, libero da aggressioni e discriminazioni. Libertà e dignità, insieme.

A partire da questi punti fermi politici, documentali e di civiltà dobbiamo immaginare la ripresa dei lavori della Commissione antidiscriminazioni anche in questa legislatura.
La nostra bussola dovrà essere come sempre la Costituzione repubblicana, che proprio in questo gennaio 2023 celebra il 75° anniversario dell’entrata in vigore.

Anche stavolta infatti il lavoro di scavo e conoscenza in materia di discorsi d’odio dovrà svolgersi recuperando in pieno lo spirito e i valori della nostra Carta fondamentale, ma con l’impegno anche ad attuarla, a promuovere leggi d’inclusione, ad estendere diritti sociali e civili.

Tutto questo però avendo sempre chiara consapevolezza, in quanto parlamentari e rappresentanti della Nazione, che esiste anche un nesso tra malessere sociale e utilizzo dei discorsi d’odio. E che si tratta di qualcosa che impatta direttamente sul senso e sul lavoro di una Commissione come quella che ci accingiamo a votare.

In questi mesi di passaggio dalla XVIII alla XIX legislatura sono accadute cose importanti con riferimento ai temi d’interesse della Commissione. E sono accadute su scala generale, internazionale. C’è stata infatti negli ultimi mesi del 2022 una grave crisi dell’universo dei social, del sistema cioè che ha cambiato il nostro modo di comunicare, informarci, comprare, vendere, garantire la sicurezza e la privacy. Ebbene in questo mondo ci sono state decine di migliaia di licenziamenti di lavoratori e manager, un processo di crisi che ha investito media quali Meta e Twitter, ma anche realtà globali come Amazon o Uber. Si tratta di una crisi seria, profonda, preoccupante. Se non certo la fine dei social media e della diffusione online, come qualcuno ha detto, sicuramente un passaggio cui guardare con attenzione e senso di responsabilità.

Tutto questo dovrà necessariamente riguardare anche la Commissione che ci accingiamo a ricostituire. Perché il fatto che le grandi piattaforme vivano un periodo di difficoltà e cambiamento ha effetti diretti sui milioni di messaggi che circolano in rete, sulla loro quantità e anche però qualità. I discorsi d’odio infatti conoscono sempre un’impennata nei momenti di crisi. Di crisi economica e sociale, interna e internazionale. In questi periodi infatti la crescita delle tensioni e del risentimento può spingere le piattaforme a una minore attenzione all’opera di contrasto di forme di discorso d’odio che comunque attirano e trattengono utenti.

Analizzare dunque lo status dei maggiori media ed i rischi connessi al fatto che le grandi piattaforme possano venire meno ai doveri di contrasto e rimozione tempestiva dei discorsi d’odio dovrà essere uno dei campiti, io credo, della nuova stagione di lavori della Commissione antidiscriminazioni.

Per questo insieme di ragioni, che definirei di natura strategica, credo che sia utile e opportuno ricostituire anche nella XIX legislatura la Commissione anti-discriminazioni.

Care colleghe e cari colleghi, dalla mozione che ci troviamo ad approvare conoscete tutti i particolari per la costituzione della Commissione e per la migliore organizzazione dei lavori. Quello che tengo a dire alla fine di questo mio breve intervento è che considero ancora oggi, come quattro anni fa, di grande momento le ragioni a sostegno di una Commissione per la lotta ai discorsi d’odio e ad ogni forma di discriminazione.

Nella mia veste di Presidente della Commissione della scorsa legislatura mi sono battuta perché i lavori avessero una conclusione unitaria e condivisa e che il documento finale fosse approvato all’unanimità. Quel risultato alla fine fu raggiunto e quello spirito mi auguro vivamente venga recuperato oggi.

È di grande significato infine che questa nostra votazione si tenga nell’imminenza del prossimo 27 gennaio, Giorno della memoria. Molto più infatti di tante celebrazioni che rischiano di apparire rituali, la ricostituzione di una Commissione che accoglie nel suo stesso statuto i valori della difesa della dignità delle persone e della promozione del rispetto delle minoranze, attraverso la concreta prevenzione delle campagne di odio e pregiudizio, rappresenta un segnale importante e positivo. L’approvazione della nostra Commissione sarà così il modo migliore per onorare il Giorno della memoria.

* In alto, un frame della diretta video della seduta del Senato del 19 gennaio 2023