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La questione italiana

Chi di solito osserva le condizioni presenti dell’Italia e le confronta con quelle degli altri Paesi avanzati osserva ormai da anni che esse sono di gran lunga peggiori in molti ambiti della vita nazionale: arretramento del livello medio delle retribuzioni, disuguaglianze sociali e territoriali, disoccupazione, precarietà del lavoro, condizioni della scuola, numero dei laureati, risorse per la ricerca, perfino regresso demografico, il segnale meno controvertibile – per lo meno nella società della crescita – della decadenza di un Paese. Tale evidente disparità dello stato della nostra vita sociale ci impone uno sforzo di analisi che vada oltre le cause generali che da 30 anni fanno arretrare le condizioni dei ceti popolari in gran parte dei Paesi europei e del mondo.

Le pratiche neoliberiste, vale a dire i programmi del capitalismo scatenato, messi in atto da un servizievole ceto politico, sono stati applicati in Germania come in Francia, in Spagna o nel Regno Unito, ma è in Italia che esse sembrano avere effetti così marcatamente disgregatori. Perfino sul piano politico e di governo: due esecutivi tecnici, adesso uno di destra destra, con a capo un’erede del neofascismo del dopoguerra. Io credo che se non si vuole restare sulla superficie della questioni bisogna cercare spiegazioni all’ anomalia italiana nelle strutture profonde della nostra storia nazionale. Occorre gettare uno sguardo ai caratteri originali della nostra vicenda civile, alla cultura antropologica degli italiani. Può apparire azzardato nel 2023 tentare di spiegare la grave involuzione dell’economia e della società di oggi interrogando contesti troppo lontani nel tempo. Ma occorre considerare innanzitutto che alcuni caratteri di un popolo durano nei secoli anche se si trasformano con il mutare complessivo della società.

«La mentalità – scriveva Fernand Braudel – è la più tenace delle strutture», uno strato di roccia culturale che il trascorrere dei processi e degli eventi intaccano solo in parte. D’altronde, in tutte le epoche di involuzione e regresso i fondi più oscuri del passato sembrano riemergere e farsi vivi, sia pure in nuove forme. E oggi viviamo non un rinculo, ma un clamoroso collasso di civiltà.

Naturalmente, non è certo il caso di rammentare che la teorizzazione del “particulare” di Francesco Guicciardini della realtà umana, vista come un aggregato incomponibile di egoismi, sia fiorita sintomatologicamente in Italia, per giunta nel cuore del Rinascimento, la fase più alta della nostra storia. Nè tanto meno rammentare che tre secoli più tardi, nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani Giacomo Leopardi poteva osservare «che l’Italia è, in ordine alla morale, più sprovveduta di fondamenti che forse alcun’altra nazione europea». Basti considerare che la sua secolare frantumazione civile, la lacerazione politica dei suoi ceti, anche all’interno delle città, vanto e splendore della nostra storia, ma agenti permanenti di disunione, hanno imposto all’Italia quasi quattro secoli di servaggio a potenze straniere. Il Paese che nel tardo medioevo aveva conseguito il primato economico e finanziario in Europa e nel Mediterraneo era rimasto un nano politico e aveva dovuto attendere il 1860 per avviare il processo di unificazione delle sue sparsa membra e conseguire l’indipendenza nazionale. Uno Stato-Nazione, tuttavia, che non riuscirà mai a conseguire un assetto egemonico.

Ma occorre cogliere l’essenziale della tragica originalità della nostra storia lunga: genio individuale delle élites, creatività e inventiva, spirito di intraprendenza dei ceti popolari, vivissimo senso artistico, intrecciati inestricabilmente a individualismo anarcoide, indisciplina civile, inclinazione a costituire fazioni e logge, assenza di classi dirigenti dotate di visione unitaria. E il filo rosso che giunge oggi fino a noi è rintracciabile in due aspetti che carsicamente riaffiorano nella vita nazionale. Uno è il carattere elitario e separato dei gruppi di potere, l’altro è la frantumazione dei ceti popolari, divisi dai dialetti, dalle forme della vita religiosa, dalle culture gastronomiche, dalle tradizioni politiche, ecc. Vale a dire da quella straordinaria varietà e diversità di caratteri che sono anche una straordinaria risorsa, la ricchezza della nostra storia.

Fino a metà Novecento il carattere separato delle élite si è manifestato plasticamente nel mezzo della comunicazione collettiva: la lingua nazionale. Finché non è arrivata la Tv, come ricordava Tullio De Mauro, l’italiano era appannaggio dei ceti borghesi colti, mentre gran parte delle masse popolari comunicava con la ricca costellazione dei nostri dialetti. Evidentemente non era bastato quasi un secolo di unità perché tra il nostro popolo si realizzasse una piena comunità linguistica.

Ma il distacco elitario delle forze dominanti, della nostra borghesia, per lo meno di sezioni più o meno ampie di essa, si è manifestato in maniera molto più grave e cruenta sotto il profilo politico. Esso ha preso le forma della infedeltà al “contratto” della Stato-nazione, tramite una serie di varianti di rottura delle regole, di eversione, di secessione, di violenza anche terroristica. Se ne può fare un rapidissimo elenco. Un riepilogo anche sommario di fatti salienti del nostro passato consente infatti di comprendere in quale storia siamo immersi. Chi ricorda più oggi la parola d’ordine, a fine ‘800, del “ritorno allo Statuto” lanciata da alti esponenti del mondo politico nazionale? Vale a dire la richiesta di un assoggettamento del governo ai poteri del re, che svuotasse la funzione del Parlamento? E l’imposizione, in quegli stessi anni, dello stato d’assedio contro i lavoratori di Milano che tumultavano per il pane? E le sparatorie contro la folla dei manifestanti ordinate dal generale Bava Beccaris che lasciò 80 morti in strada? E chi ricorda che il nostro ingresso nel macello della Prima guerra mondiale fu deciso da un colpo di mano del re e di pochi politici, che siglarono il Patto di Londra a insaputa del Parlamento e contro la volontà della maggioranza del popolo italiano?

Certo, la ferita più grave è il fascismo, il “colpo di Stato” che liquidò gli ordinamenti liberali, la risposta di quasi tutta la borghesia italiana all’irrompere delle masse popolari nella vita politica nazionale, dopo l’esperienza della guerra. Ma la volontà di sottrarsi al patto degli ordinamenti nazionali si è manifestata anche in forme localizzate. Ad esempio, sul finire della Seconda guerra. Pochi giovani oggi ricordano i moti del separatismo siciliano, il tentativo di gruppi di borghesia isolana, favorito dai servizi segreti americani e inglesi, di costruirsi un potere separato, uno Stato siciliano autonomo. E forse che i 75 anni dell’Italia repubblicana sono meno ricchi di tentativi e di pratiche di eversione? Chi ha dimenticato i tentativi di colpi di Stato nel 1964 e nel 1970? Chi non ricorda la risposta sanguinaria con cui oscuri settori degli apparati statali hanno cercato di intaccare i rapporti di forza e le conquiste sociali guadagnati dalla classe operaia con le lotte del biennio 68-69? Un pagina infame della nostra storia che ha sparso il sangue di centinaia di vittime innocenti, a partire dalla bomba alla Banca dell’agricoltura a Milano, nel 1969, sino all’attentato alla Stazione di Bologna nel 1980, con in mezzo la strage di Piazza della Loggia a Brescia, l’attentato al treno Italicus e tanti altri oscuri episodi di violenza terroristica. E chissà quale ruolo hanno giocato i servizi segreti di Paesi di cui siamo fedeli e servizievoli alleati.

Ma l’infedeltà, la fellonia di parti estese di borghesia nazionale si manifestano ancora oggi in forme diversissime, normalmente senza il ricorso alla violenza. Come dimenticare, tanto per restare al lungo periodo, la longevità secolare di almeno due criminalità organizzate, la mafia siciliana e la camorra? E potevano durare e prosperare così tanto queste organizzazioni senza legami segreti con pezzi dello Stato e della borghesia imprenditoriale e dei colletti bianchi? Basti dire che il più potente uomo di Stato della cosiddetta prima Repubblica, Giulio Andreotti, è risultato legato alla mafia da una sentenza della Cassazione.

Oggi, inoltre, lo spirito di diserzione e di rottura dell’unità del Paese si manifesta in maniera incruenta ma gravissima attraverso l’iniziativa della Lega, seguita da altri presidenti di regione, mirata a realizzare la cosiddetta autonomia differenziata. E non si creda che si tratti di una mera trovata elettoralistica di alcuni dirigenti politici. Dietro di essa c’è la profonda pulsione separatista di vaste aree della borghesia imprenditoriale del Centro-Nord, che guarda al Mezzogiorno come a un intralcio alla sua espansione in Europa. È la stessa pulsione che da decenni spinge vasti settori della nostra borghesia a evadere le tasse, a trasferire ingenti fortune nei paradisi fiscali, a rompere il patto di mutua cooperazione tra le classi, che è il fondamento stesso dello Stato moderno: la contribuzione fiscale.

Voglio terminare questa rapida rassegna ricordando che il tradimento degli interessi nazionali si viene realizzando anche nel pieno rispetto delle forme istituzionali. Non mi riferisco qui al presidente della Repubblica, che accetta di buon grado la violazione della nostra Costituzione approvando la continuazione dell’invio di armi in Ucraina, ma all’ex presidente del Consiglio. Ricordo che Mario Draghi si è insediato a capo del governo in un momento grave della vita nazionale. L’opinione pubblica era tramortita dalla pandemia del Covid-19, sotto lo shock collettivo più grave della storia repubblicana. Allora l’ex presidente della Bce godeva di un prestigio indiscusso, di un’autorevolezza che forse così totalitaria non era mai arrisa ad alcun altro presidente del Consiglio. Ebbene, Mario Draghi aveva il potere di porre mano alla più importante riforma legislativa possibile per arrestare il declino dell’Italia, la riforma fiscale. Nessuna patrimoniale, solo un fisco progressivo che nel giro di qualche anno avrebbe in parte riequilibrato le laceranti disuguaglianze dei redditi in Italia, ridare slancio e fiducia alla nostra vita e collettiva. Com’è noto, la sua riforma ha tolto uno scaglione e favorito i ceti medio-alti. Nessuna iniziativa di contrasto all’evasione fiscale. Il filo rosso della sedizione non si è spezzato: un rappresentante della finanza internazionale ha giocato a favore della sua classe di appartenenza, contro gli interessi del suo Paese.

Questa storia di secessioni, com’è noto, ha subito un arresto e una controffensiva popolare con la nascita della Repubblica, la Costituzione, l’avvento dei partiti di massa, la costituzione di solide strutture sindacali. Senza questa nuova pagina di storia, nata dalla Resistenza antifascista, il nostro Paese difficilmente avrebbe retto a tutti i tentativi di abbattere lo Stato democratico, alle trame della P2, ai vari terrorismi, compreso quello delle Brigate rosse.

Ma c’è una parte di questa nuova storia che inizia col dopoguerra che ci interessa per riafferare il nodo della seconda originalità negativa del carattere degli italiani, a cui abbiamo fatto cenno: la disunione anarcoide dei ceti popolari. Tra la fine degli anni 40 e gli anni 70 i partiti di massa sono stati il collante che ha sottratto i lavoratori e le masse proletarie alla loro dispersione e irrilevanza politica e li ha trasformati in società civile consapevole. Non si apprezzerà mai abbastanza l’opera gigantesca del Partito comunista italiano che in tre decenni ha trasformato la massa disgregata di braccianti, operai, impiegati, piccoli imprenditori, intellettuali, in una comunità politica, culturale, spirituale. In tre decenni questo partito ha realizzato un’opera di nation building, di costruzione della nazione, di plasmazione e disciplinamento civile di una parte estesa di società, sconosciuta in tutta la nostra storia precedente. Quasi un “Paese parallelo” a quello reale.

È per tale ragione che oggi la dissoluzione dei partiti di massa fa regredire e disgrega più gravemente che in altri Paesi il tessuto della società civile in Italia. È in questo carattere originario anarcoide di ritorno che occorre cercare la speciale debolezza della sinistra italiana. Da noi l’egocentrismo individualistico dell’antropologia neoliberista ha riportato indietro, in un certo senso, le lancette della storia, che certo rielabora il passato in forme sempre nuove, ma pur lo conserva e ripropone. La sinistra in frantumi andrebbe inquadrata in questo drammatico percorso. Per tale ragione l’opera più rivoluzionaria che le forze politiche possono intraprendere in Italia non consiste tanto nell’elaborare un programma di riforme radicali. Questa è la premessa. Il compito gigantesco cui metter mano è lo sforzo costante, tenace e irriducibile, questo si altamente politico e dotato di respiro strategico, di ricucire con tutti i mezzi la soggettività polverizzata delle forze in campo, lasciate sul terreno da una lunga serie di errori, settarismi, sconfitte, egolatrie narcisistiche dei capi. La creazione di un nuovo tipo di partito politico, una nuova aggregazione collettiva in grado di governare il pluralismo pur creativo delle menti disseminate e attive sui territori, è la grande sfida da affrontare. È qui la chiave di volta.

L’egemonia del neoliberismo è in frantumi e il capitalismo non sta tanto bene, ma sopravvivono e ci trascinano nella loro rovina, perché non riusciamo ad offrire alla grandi masse, che chiedono di essere protette e rappresentate, se non la nostra impotente frantumazione.

Letizia Moratti come James Bond

Stancamente in Lombardia trascina la sua campagna elettorale Letizia Moratti, ex sindaca di Milano per conto di Berlusconi poi ex ministra per conto di Berlusconi e infine vicepresidente regionale e assessora alla sanità per conto del leghista Attilio Fontana.

La campagna elettorale di Letizia Moratti sarebbe una storia perfetta per un romanzo dell’assurdo, un paradosso paradigmatico di questi tempi liquidi in cui si può essere tutto e il contrario di tutto, basta essere supportati da una buona comunicazione. Così dopo avere provato a candidarsi per il centrodestra (sulla base di una promessa che le sarebbe stata fatta, non si è mai capito bene da chi), Letizia Moratti si è offesa perché il centrosinistra non ha scelto lei. Già qui siamo oltre il paradosso eppure una fetta della politica italiana (Calenda e Renzi, e chi se no?) crede davvero che Letizia Moratti sia uno splendente fiore del riformismo e del progressismo.

A questo punto ovviamente la campagna elettorale diventa difficile. Che credibilità può avere una berlusconiana di ferro che vorrebbe agghindarsi come nuova iscritta a Lotta continua? Così passano le settimane e Moratti viene attaccata dal candidato leghista Fontana («non la riconosco più», disse una volta con un velo di malinconia sul volto) e dal candidato del centrosinistra Pierfrancesco Majorino (a cui basta srotolare il curriculum dell’ex sindaca).

Siamo a ieri. Letizia Moratti deve avere avuto una lunga riunione con i suoi comunicatori perché ha estratto un coniglio dal cilindro. «Da dentro alla Regione ho potuto vedere tante inefficienze»: dice Letizia Moratti a Tgcom24 assicurando di sapere come risolverle. «Quando mi domandano perché non me ne sono occupata, semplicemente – è la sua risposta – perché le criticità che ho trovato in sanità erano talmente tante che tutte le mie giornate erano spese per quello. Non potevo dedicarmi ad altro. Le criticità che ho visto ora però so come sanarle». Avete capito bene. Dice Letizia Moratti di essere stata un’agente sotto copertura in missione per il riformismo che si è intrufolata nella destra per carpirne gli errori e quindi candidarsi come risolutrice.

E tutto questo riesce a pronunciarlo senza un minimo di vergogna. Il suo nome è Bond, Letizia Bond.

Buon martedì.

Lotta allo spreco alimentare, come non gettare nel cassonetto 15 miliardi di euro

Il 2 febbraio a Roma si svolgerà la decima Giornata nazionale di prevenzione dello spreco alimentare, che vedrà la direzione scientifica dell’agroeconomista Andrea Segrè, il patrocinio del ministero dell’Ambiente (e della Transizione Ecologica), dei ministeri della Salute e del Lavoro, di Anci, e di Rai per la sostenibilità, con la media partnership di Rai Radio2. In questa occasione verrà presentato il nuovo report dell’Osservatorio Waste Watcher International relativo al “Caso Italia” 2023, indagine promossa dalla campagna Spreco zero in collaborazione con l’Università di Bologna e Ipsos, dedicata allo spreco alimentare e alle abitudini di fruizione del cibo degli italiani. Come spiegato dal professor Segrè (fondatore della campagna Spreco zero e Direttore scientifico Waste Watcher International) «l’analisi dei dati è essenziale per sensibilizzare sullo sviluppo sostenibile e la prevenzione degli sprechi. Monitorare gli stili di vita e di alimentazione permette di agire concretamente sui comportamenti di consumo e la prevenzione degli sprechi. Ad oggi lo spreco alimentare in Italia supera i 9,2 miliardi di euro se consideriamo solo il cibo gettato nelle case: una stima che sale a 15 miliardi se includiamo il costo dell’energia utilizzata per la produzione. Eppure, sempre in Italia, oltre 2,6 milioni di persone faticano a nutrirsi regolarmente a causa dell’aumento dei prezzi e dei rincari delle bollette e 5,6 milioni di individui (il 9,4% della popolazione) versano in condizione di povertà. Per questo diventa essenziale mettere al centro dell’azione politica la food policy come strategia sociale, economica e di sviluppo sostenibile».

Proprio il 2 febbraio, in concomitanza con la giornata di prevenzione, uscirà al cinema Non morirò di fame, film diretto da Umberto Spinazzola con protagonista Michele Di Mauro; tra gli interpreti anche il celebre volto del cinema polacco Jerzy Stuhr. Si tratta di una co-produzione italo-canadese, firmata La Sarraz Pictures, Rai Cinema e Megafun Productions.
L’opera di Umberto Spinazzola attraverso la piaga dello spreco alimentare intende esplorare il concetto di “recupero”, non solo in relazione al cibo, ma anche nell’ambito degli affetti e dei rapporti umani. Non morirò di fame racconta la storia di uno chef stellato che perde tutto, anche la famiglia, ma cerca di ricostruire la propria vita ricominciando da zero, grazie alla forza che solo un figlio sa dare.

Oltre a raccontare con profondità tematiche come l’elaborazione del lutto e le complessità del rapporto padre-figlia, il film di Spinazzola esplora con sensibilità il fenomeno dello spreco di cibo e le dinamiche insite nel settore della distribuzione alimentare, un business di enormi proporzioni: una catena secondo cui si produce per buttare e si butta per produrre. Questa pratica è dovuta per lo più a ragioni economiche o estetiche. Spesso, infatti, viene gettato via cibo perfettamente sano perché prossimo alla scadenza o esteticamente imperfetto. Una condotta che crea enormi danni da un punto di vista ambientale ed economico. Basti pensare che solo in Europa vengono sprecati 179 chili di cibo pro capite l’anno; ogni anno dunque 18 milioni di tonnellate. Dati che diventano ancora più agghiaccianti, se pensiamo che con gli alimenti scartati si potrebbero nutrire fino a 3 miliardi di persone (dati Crea, 2020).

Non morirò di fame riesce a raccontare questa spaventosa realtà, di cui purtroppo si conosce ancora molto poco, attraverso la storia di Pier (interpretato da Michele di Mauro), un ex chef stellato, ormai caduto in disgrazia ed emarginato, che riscoprirà il suo amore per la cucina, elaborando ricette con ingredienti recuperati dallo spreco.
Ad accompagnarlo in questo affascinante viaggio, sarà l’anziano clochard Granata (interpretato da Jerzy Stuhr, attore polacco noto per le collaborazioni con registi del calibro di Andrzej Wajda, Krysztof Zanussi e Krysztof Kieślowski). Proprio grazie a lui, Pier riuscirà a recuperare il difficile rapporto con la figlia Anna, un’adolescente piena di ambizioni che sogna di diventare una musicista (a vestirne i panni l’esordiente Chiara Merulla).
Il talento del protagonista Pier si rivelerà̀ necessario per poter tornare a vivere i propri affetti, ridisegnando un nuovo paesaggio attraverso il cibo, grazie all’aiuto del saggio Granata, nel ruolo di un anticonvenzionale Virgilio. Anche la lente del cinema, grazie all’impegno di Spinazzola, può divenire veicolo per informare e sensibilizzare su un fenomeno di enorme portata eppure da molti ignorato come lo spreco alimentare.

Il professor Andrea Segrè, massimo esperto del problema in Italia e direttore scientifico della Giornata nazionale di prevenzione dello spreco alimentare, si è offerto di dedicarci Mangia come sai – Decalogo minimo dal forcone alla forchetta per non sprecare, mangiare bene, non essere consumati dal cibo per combattere o almeno limitare gli sprechi:
«1 Tutto, per noi fruitori, inizia da come facciamo la spesa, anche la prevenzione degli sprechi: fai una lista degli alimenti che ti servono realmente. Usa il portafoglio come se votassi, scegli consapevolmente.
2 Liberati dalle sirene del marketing: un prodotto regalato sullo scaffale, se non ti serve, finirà nella pattumiera di casa. Ricordati invece che un costo c’è: per chi lo ha prodotto e per chi deve poi smaltirlo. Quindi anche per te.
3 Una volta in negozio prenditi il tempo di leggere le etichette, e quando puoi, insisti che siano sempre più trasparenti: da dove viene e chi lo ha prodotto? Di cosa è fatto? Quando scade?
4 Prediligi gli alimenti locali e di stagione: in linea di massima, se i tempi di trasporto e la filiera logistica sono più brevi, i prodotti sono più freschi e quindi dureranno di più.
5 Frigorifero, freezer, dispensa: sono le tre «case» del cibo, e in quanto tali devono essere mantenute ordinate e pulite affinché svolgano a dovere la loro funzione. Ogni prodotto ha un suo posto e una sua giusta temperatura. La conservazione degli alimenti è il sale della vita.
6 Largo alla fantasia in cucina: le ricette per riutilizzare avanzi e scarti sono infinite, non occorre essere professionisti. L’obiettivo è far dimagrire il bidone della spazzatura.
7 Condividi il cibo in eccesso: quando ciò che hai preparato è troppo abbondante, basta suonare il campanello del vicino di casa o telefonare agli amici. È un gesto di condivisione che fa bene all’economia e alle relazioni.
8 Al ristorante, quando non riesci a finire quello che hai nel piatto, chiedi il “cartoccio familiare” (detto anche “doggy bag”): le pietanze, il giorno dopo, spesso sono anche più buone.
9 Insegna ai tuoi figli il valore del cibo, e pretendi che si faccia anche a scuola. Ricordati che il cibo buttato inquina due volte: quando viene prodotto e quando viene distrutto.
10 Pensa (e agisci) sostenibile e circolare: gli alimenti che trovi nel tuo piatto vengono dalla natura.
È un ciclo: rispettalo a 360 gradi. Durerà di più anche per i figli dei tuoi figli e i loro nipoti. Mangia come sai: la nostra educazione alimentare ci aiuterà a vivere in un mondo migliore».

Nella foto: una immagine del film di Umberto Spinazzola Non morirò di fame, con Michele Di Mauro e Jerzy Stuhr

#ItalyChurchToo: Così l’Opus dei giustifica l’abuso di potere e “protegge” coloro che lo esercitano

Un’operazione di facciata che aggrava il sistema degli abusi di potere e psicologici all’interno dell’Opus dei. Così il coordinamento #ItalyChurchToo (di cui Left fa parte) definisce la “Settimana di Studio sull’accompagnamento spirituale nei movimenti e nuove comunità” organizzata dalla Pontificia Università della Santa Croce dal 30 gennaio al 3 febbraio. “Aiutare la crescita umana e soprannaturale” è il sottotitolo e l’evento è promosso e governato dalla Prelatura della Santa Croce (Pusc) e Opus dei, a cui è affidato l’indirizzo e la pianificazione delle attività formative accademiche.

#ItalyChurchToo (#Ict) spiega in una nota i motivi della sua denuncia. Ricordando i primis che sono numerosi i casi di abuso di potere, abuso di coscienza e abuso spirituale emersi all’interno della Prelatura, a carico di chierici e di laici celibi con incarichi di formazione e di governo (numerari e aggregati). Dalle testimonianze dei sopravvissuti – si legge nella nota – emerge che sono la stessa struttura organizzativa e il contenuto della formazione, unite a una prassi consolidata, il veicolo di una cultura abusante, che si concreta in princìpi e condotte che violano la dignità della persona (si consiglia a tal proposito la lettura del libro di Emanuela Provera Dentro l’opus dei. Come funziona la milizia di Dio, Chiarelettere). 

#Ict ricorda inoltre che molti dei casi di abuso sono stati già denunciati alle autorità ecclesiastiche e/o alle autorità civili, e i procedimenti relativi si sono conclusi con una condanna o sono ancora in corso di causa (cfr. denuncia della prelatura dell’Opus Dei da parte di 43 numerarie ausiliari davanti al Vaticano e alla Congregazione per la dottrina della fede, settembre 2021), mentre molti altri sono stati oggetto di una denuncia “interna”, dinanzi alle autorità interne della prelatura, quali i vicari regionali o delle circoscrizioni territoriali, se non direttamente dinanzi al prelato o al suo vicario ausiliare.

Le vittime di questi abusi – denuncia Ict – sono rimasti sostanzialmente privi di ascolto o, dopo essere stati sentiti solo formalmente, non hanno ottenuto alcuna risposta, abbandonati e rifiutati dall’istituzione al punto da essere indotti a lasciarla, spesso perdendo la fede, l’orientamento vitale e in molti casi giungendo alla malattia mentale e al suicidio; inoltre le stesse autorità a cui le vittime si sono rivolte hanno esercitato in questo modo un ulteriore abuso di potere e di coscienza, forzando un’interpretazione dei fatti accaduti sempre volta a scagionare i colpevoli degli atti abusanti e, in fin dei conti, l’istituzione stessa. Non si può ritenere che si tratti di casi singoli e isolati o sporadici, ma di un abuso sistematico e sistemico, chiosa #Ict.

L’Opus dei – prosegue la nota di denuncia – si è da sempre riferita al rapporto tra chierico e laico, o tra laico in posizione di autorità e laico comune, non con il termine “accompagnamento” ma “direzione spirituale”, ritenendo quest’ultima un suo carisma peculiare. In questa è evidente il carattere asimmetrico della relazione e l’autorità in capo a chi la dirige, con conseguente soggezione del destinatario  – che non può nemmeno scegliere il proprio “direttore spirituale”, ma solo subire la scelta imposta dal governo come espressione della volontà di Dio – in un ambito in cui la libertà della persona dovrebbe essere sacra. Anche all’interno dei movimenti e delle comunità che parlano di “accompagnamento”, si sono verificati ugualmente gravi abusi perché l’espressione citata è stata nella pratica completamente svuotata di significato.

È questo il caso del Movimento dei focolari, dove l’accompagnamento disegnato da Chiara Lubich prevede la violazione della coscienza e della libertà della persona attraverso il controllo dell’autorità spirituale laica nel “colloquio privato” (v. articolo su Left “Focolarini, la fabbrica del plagio”. A tal proposito, uno degli argomenti in discussione all’evento riguarda la “distinzione di ruoli fra autorità e accompagnamento spirituale”. È risaputo, per chi ha esperienza della prassi della prelatura e delle comunità simili, che la distinzione non esiste nella vita concreta dei membri di queste organizzazioni. Un chierico  (o il laico incaricato) ha contemporaneamente un ruolo di governo nell’ambito di una circoscrizione e un ruolo di direttore spirituale verso i fedeli della stessa circoscrizione. Ciò che accade normalmente è che ogni membro è tenuto a condividere la sua intimità con il direttore spirituale e che le informazioni che dà sono usate dal governo per esercitare il controllo sui fedeli. 

Ict osserva che alla “Settimana di studio” sono stati invitati, in qualità di esperti dell’“accompagnamento spirituale”, rappresentanti di movimenti recentemente oggetto di commissariamento da parte del Vaticano a motivo della confusione tra foro interno e foro esterno, e che sono tuttora sotto osservazione. È evidente che, per risolvere i casi di abuso e violenza nella Chiesa cattolica, è necessario un organismo terzo. Invece il quadro attuale presenta iniziative sugli abusi organizzate dagli stessi responsabili degli abusi. Se ne prende atto con rinnovato scandalo. Tutto quanto rappresentato si svolge alla presenza e con il plauso del Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita, nella persona del card. Kevin Joseph Farrell. Ciò significa inequivocabilmente che il Dicastero giustifica l’abuso di potere e coloro che l’hanno esercitato.

Alla luce di questi fatti, il coordinamento #ItalyChurchToo intende evidenziare e sottoporre all’attenzione dell’opinione pubblica che la settimana di studio in questione è semplicemente finalizzata a una mera operazione di facciata a beneficio dell’immagine esterna della prelatura e delle realtà a essa assimilabili, con la complicità delle autorità ecclesiastiche che vi partecipano, già sollecitate senza successo dalle vittime a intervenire per la giustizia, e quindi ben consapevoli degli abusi perpetrati all’interno. 

#ItalyChurchToo si fa portavoce dell’indignazione e dell’ulteriore dolore provocato alle vittime da operazioni di questo genere, che non fanno che reiterare gravissimi abusi di coscienza.

PRIME ADESIONI:

Laboratorio Re-in-surrezione (rete di persone appartenenti a Donne per la Chiesa – Oss. Interreligioso sulle violenze contro le donne – OIVD)
Organizzazione Ex Focolari – OREF
Rete L’Abuso
Comitato PROMETEO – Tutela dagli abusi nella Chiesa
Marida Nicolaci,  Palermo
Giulia Lo Porto, Palermo
Lucia Gimenez, Argentina
Nelida Ruiz Diaz, Argentina
Claudia Encina, Argentina
Ascensión Bonet, España
Elísa Carmona, Argentina
Elida  Torancio, Argentina
Susana Viero, Argentina
Anne Marie Allen, Irlanda
Elvira Garayoa, Argentina
María Laura Carnelli, Argentina
Amada beatriz delgado. Argentina
Evangelina Rosana Vaccon, Argentina
Mònica I. Espinosa Rojas, Bolivia
Agustina López de los Mozos Muñoz, España
María Asunción Mayor Civit,
Maria Magdalena Garcia-Mansilla, Argentina
Isabel Dondo, Argentina
Josefina Sorbello, Paraguay
Juliana Olivera, Argentina
Carlos Robledo, Paraguay
Juliana Sosa, Paraguay
Blanca Martinez, Paraguay
Silvina Cecerone, Argentina
Maria Elisa Cardozo, Argentina
Paola Cardozo, Argentina
Maria Elena Herrera, Argentina
Estela Gonzalez, Argentina
Graciela Iribarren, Argentina
Sandra Carmona, Argentina
Maria Jose Carmona, Argentina
Lucia Donardo, Argentina
Alicia Barillas, El Salvador
Graciela Roldan, Argentina
Zunilda Cuellar, Paraguay
Mariza Araujo, Paraguay
Laura Bonzi, Paraguay
Gabriela Petrone, Argentina
Susana Martínez, Argentina
Susana Irene Lencina, Argentina
Gianfranco Mazzanti, Canada
Maria Dominga Godoy, Canada
Manuel González, España
Raquel Consigli, Argentina
Gladys Norma Martínez, Argentina
Jose Grassi, Argentina
Reina Zulema Acosta, Argentina
Susana Martínez
Laura Mariza Araujo, Paraguay
Jara Benítez, Paraguay
Monica Espinoza, Bolivia
Beatriz Espinoza, Bolivia
Claudia del Carmen Carrero
Esteban Larrea, Ecuador
Eileen Jhonson, Scotland
Carmen Charo Pérez de San Román, España
Angel Valdez, Guatemala
Sergio Dubrosky, Argentina
Sebastián Sal Capuano, Argentina
Marisa Cardozo, Argentina
Salomeja Fernández Montojo, Lituania
Gisela  Lutterbach, Alemania
Estela Mary  Martinez, Argentina
Carmen Fernandez Pereira, Paraguay
Antonio Moya Somolinos, España
Sandra Matide Ibáñez, Paraguay
Elena Longo, Italia

In Gran Bretagna vietate le immagini “positive” dei migranti

Per Melting Pot Fabrizio Urettini racconta ciò che sta avvenendo in Gran Bretagna e di cui qui in Italia nessuno si degna di dare notizia. Con un emendamento al disegno di legge in approvazione nel Regno Unito (l’Online Safety Act, nato per la tutela dei minori online) si vuole allargare il divieto di diffusione di contenuti pedo-pornografici, di terrorismo e anche alle immagini che in qualche modo mettono sotto una “luce positiva” le persone migranti.

Scrive Urettini: «Il nuovo Safety Bill inglese segna, a nostro avviso, un salto di qualità in quell’intreccio fra logica criminalizzante ed efficientismo amministrativo nel perseguire quello che sembra essere diventato l’obiettivo principale delle politiche migratorie di molti paesi occidentali, ossia l’esclusione delle persone in movimento qualificate come indesiderabili. Un processo di criminalizzazione che non solo investe le misure politiche e normative in tema di immigrazione, ma che ora rischia di diventare anche processo mediatico verso l’affermazione di un nuovo diritto penale della sicurezza che, deviato da una connotazione di stampo proibizionistico e preventivo, divora tutti i principi dello Stato di diritto».

Si tratta, di fondo, della stessa stupida teoria che circola dalle nostre parti secondo cui il mondo sarebbe abitato da gente immobile che non si deve vedere mentre tenta di raggiungere salvezza. Ha lo stesso retrogusto amaro della battaglia per liberare il Mar Mediterraneo dalla presenza delle Ong che non solo si permettono di “salvare” ma anche quotidianamente di testimoniare l’attività criminale dell’Unione europea e della cosiddetta Guardia costiera libica. Sono le stesse immagini che in molti vorrebbero sotterrare insieme alle vittime della rotta balcanica.

Urettini, che di professione è art director, lancia un appello: «Coscienti che la deriva securitaria del nuovo Safety Bill, e parola non poteva essere così inappropriata, comporta un pericoloso precedente giuridico da parte di una democrazia matura come quella inglese il cui sistema giuridico viene citato a modello da diversi paesi europei ed extraeuropei, abbiamo deciso di lanciare una “call for artist” chiedendo ad amici e colleghi designer, artisti e fotografi di sede nel Regno Unito e che, come noi, si riconoscono in questa nuova dimensione culturale e spaziale di inviarci un’opera per stimolare un dibattito e chiedere coralmente che l’emendamento venga ritirato».

Ne aggiungiamo un altro: coscienti della deriva securitaria della politica italiana avvisiamo i partiti sedicenti solidali che presto questa insidia legislativa si presenterà anche da noi.

Buon lunedì.

Nella foto: frame dal trailer del docufilm di Vanessa Redgrave Sea Sorrow (2017) sui rifugiati che arrivano in Europa e sugli attivisti britannici per i diritti umani

“Life Is (Not) A Game”: la street art di Laika è un manifesto politico

Life Is (Not) A Game, docufilm diretto dall’esordiente Antonio Valerio Spera, presentato in occasione della Festa del cinema di Roma 2022 e in sala dal 2 febbraio, racconta la street artist romana Laika, che con i suoi poster provocatori è riuscita ad attirare l’attenzione su di sé, sia a livello nazionale che internazionale.
Di Laika non conosciamo il volto e il nome anagrafico, ma sappiamo che il suo pseudonimo rende omaggio al primo essere vivente giunto nello spazio, la cagnolina Laika, nata nel 1954. Una firma che grida a gran voce l’intenzione di non volersi porre dei limiti e voler volare oltre. La maschera bianca che indossa la street artist le garantisce l’anonimato, anche per questo è stata definita la “Banksy italiana”: a completare il look, una parrucca a caschetto fluo e una tuta da attacchina. Il risultato è un costume da supereroina contemporanea che oltre a celare l’identità di Laika le permette di operare ai limiti della legalità e di esprimersi in totale libertà, senza temere censure.

L’anonimato le permette di dirottare tutta l’attenzione mediatica sulla propria poetica, più che sulla sua firma e di confrontarsi con temi divisivi, senza paura di provocare il pubblico o di prendere una posizione. A una prima lettura Laika si presenta come un’artista ironica e pop, ma le sue opere in realtà assumono i tratti di veri e propri manifesti politici.
Nel documentario diretto da Spera e scritto con la sceneggiatrice Daniela Ceselli la telecamera riprende l’anticonvenzionale “attacchina” romana nei suoi blitz notturni durante i mesi del lockdown: l’arte di Laika ha saputo far riflettere sulle tematiche che la tragedia del virus ha messo in risalto o che ha fatto passare in secondo piano, come razzismo, uguaglianza di genere e migrazione. Attraverso immagini di repertorio e interviste, Life Is (Not) A Game osserva e restituisce gli avvenimenti che hanno segnato gli ultimi anni attraverso gli occhi dell’artista e il suo pensiero politico: dalle conseguenze della pandemia fino alla guerra in Ucraina.
I poster sovversivi di Laika pongono l’attenzione sui temi più caldi della politica nazionale ed internazionale: diritti civili, diversità di genere, autodeterminazione dei popoli, opposizione alla guerra, e politiche antimigratorie. Sarcasmo e provocazione sono le cifre stilistiche dell’artista, che, nel febbraio 2020, poche settimane prima della diffusione della pandemia, ha iniziato ad attirare l’attenzione della stampa e a occupare le prime pagine di giornali a diffusione internazionale.

Tra le opere che l’hanno consacrata senza dubbio #Jenesuispasunvirus e L’abbraccio. La prima raffigura come soggetto principale Fen Xia Sonia, nota ristoratrice cinese della capitale: il poster viene affisso proprio nel quartiere Esquilino, dove si trova il suo locale, e racconta la prima fase dell’epidemia di Coronavirus, quando l’emergenza era ancora confinata quasi esclusivamente alla Cina, e in Italia stavano prendendo piede comportamenti discriminatori nei confronti di uomini e donne orientali, impropriamente accusati della propagazione del virus.
Balzato agli onori della cronaca anche L’abbraccio, un’opera di denuncia che la street artist ha dedicato alla detenzione di Patrick Zaki, studente egiziano dell’Università di Bologna trattenuto come prigioniero in Egitto. Nel poster, affisso nei pressi dell’Ambasciata egiziana di Roma, viene rappresentato Giulio Regeni, che stringe in un abbraccio Zaki, dicendogli che “stavolta andrà tutto bene”.

Un poster di Laika in Bosnia

Nel febbraio 2021 Laika ha inoltre intrapreso un viaggio in Bosnia percorrendo la rotta dei Balcani, dove i migranti, in condizioni disumane, tentano di superare il confine ed entrare in Unione europea. Attraverso una serie di poster, l’artista ha voluto denunciare le violenze della polizia croata nei confronti dei richiedenti asilo in cammino. Il titolo del film coincide proprio con quello di queste opere: Life Is Not A Game. L’incontro tra l’artista e i migranti al confine con la Croazia, diviene infatti centrale nel film di Spera, ricollegandosi anche alla tragicità dell’attuale conflitto russo-ucraino.

Il documentario, realizzato in coproduzione fra la Morel Film e Salon Indien Films, si propone come un’opera popolare, semplice e immediata, e racconta l’atto creativo di Laika attraverso un percorso che si muove tra gioco, ironia e coscienza politica, rabbia e denuncia. Cadenzato dai video-appunti amatoriali realizzati dalla stessa Laika, che, nel tempo, ha documentato le varie fasi del suo iter creativo Life Is (Not) A Game, insomma, non vuole essere un convenzionale documentario, o un biopic, ma il racconto degli ultimi due anni della nostra vita mostrato attraverso gli occhi della street artist romana, che con leggerezza e intelligenza continua a portare avanti la sua lotta politica.

Nella foto d’apertura: Laika in Bosnia, febbraio 2021

Quel silenzio assordante nella casa di Anna Frank

Ad Amsterdam il numero 263 di Prinsengracht (Prinsen, principe, gracht, canale d’acqua in città, strade e case da entrambi i lati) è l’indirizzo dell’alloggio segreto dove Anna Frank ha abitato con la madre Edith e il padre Otto, la sorella Margot, la famiglia van Pels, Hermann, Auguste, il figlio Peter e Fritz Pfeffer dal 6 luglio 1942 al 4 agosto 1944 quando vennero tutti arrestati ed inviati in differenti campi di concentramento. Tutti morirono tranne Otto che riuscì a tornare alla fine della guerra.

Otto recupererà il diario di Anna da Miep Gies, una delle persone che li avevano aiutati a sopravvivere nascosti. Alla fine della seconda guerra mondiale la casa intera doveva essere demolita, ma fortunatamente nel frattempo era stato pubblicato il Diario (che come noto ebbe diverse versioni) prima in olandese nel 1947 e poi in Francia e in Italia da Einaudi nel 1953. Venne creata una fondazione alla metà degli anni Cinquanta che acquistò la casa e il 3 maggio 1960, dopo gli opportuni restauri, la casa diventò un museo aperto al pubblico.

Allora ero un ragazzo e sono capitato spesso ad Amsterdam nel 1960 perché mio padre Luciano stava cercando i luoghi dove girare il film La ragazza in vetrina che sarà completato nel 1961. Alla sceneggiatura partecipa anche Pier Paolo Pasolini. Non sapevo dell’apertura della casa museo di Anna Frank e probabilmente non avevo ancora letto il Diario.

Il giorno della memoria è stato istituito dall’Assemblea generale delle Nazioni unite il primo novembre 2005 fissandolo il 27 gennaio di ogni anno, ricordando la data dell’entrata delle truppe sovietiche nel campo di sterminio di Auschwitz dove erano stati portate le otto persone arrestate nel rifugio segreto ad Amsterdam. Dopo qualche tempo Anna e la sorella Margot vennero deportate a Bergen-Belsen dove morirono a causa del tifo prima Margot e poi Anna nel febbraio 1945. Otto, liberato dai Russi da Auschwitz, al ritorno in Olanda viene a sapere della morte di tutti gli altri.

A noi ragazzi negli anni Cinquanta non si parlava, nemmeno a scuola, quasi per nulla della seconda guerra mondiale, degli stermini, delle atrocità, dei morti, della guerra civile. Delle colpe. Si doveva dimenticare, si voleva che si dimenticasse. E ognuno di noi si è dovuto creare una conoscenza più o meno approfondita di che cosa era successo con i libri, i film, il teatro, e con le conoscenze di altre persone.

Una breve premessa per entrare, di nuovo, nella casa di Anna Frank. Nelle stanze “normali” dove si svolgeva il lavoro anche del padre Otto. Una cosa che colpisce subito e che resta impressa sin dal primo momento è il silenzio. Nessuno parla, si sentono solo i rumori dei passi sui pavimenti di legno. Quei pavimenti che non bisognava calpestare durante la giornata, così come non bisognava parlare ad alta voce, andare in bagno, nulla che producesse rumore perché nessuno potesse capire dal piano di sotto che lassù c’era nascosto qualcuno. Si arriva all’armadio, al famoso armadio pieno di libri, piccolo, leggero che copriva l’entrata dell’alloggio nascosto. E la scala ripida, di legno, che non bisognava salire per non essere scoperti. Le stanze che sono rimaste con le stesse decorazioni, con alcuni oggetti di allora. Qualche cosa è rimasto.

Tutti sono in silenzio perché sanno che lì dentro c’era una umanità che stava cercando di salvare la propria vita, in cui delle altre persone rischiavano la vita per aiutare quelli che erano nascosti. Tutti in quelle piccole stanze, ognuno con il suo piccolo spazio. Sapendo noi al contrario di coloro che lì abitavano che cosa sarebbe successo dopo, la separazione, la morte, tutto documentato ovviamente dai solerti funzionari tedeschi che dovevano annotare tutto, lasciare tracce di tutto, in un delirio di efficienza anche se oramai tutti avevano capito che la guerra era persa, che tutte quelle morti ulteriori nei campi di concentramento erano ancora se possibile più insensate, più inumane. Era per i tedeschi una pratica burocratica da portare avanti, si ubbidiva agli ordini, e le persone erano dei numeri di cui tenere il diario inumano. E si trovano i nomi dei Frank nelle liste. Tra l’altro era vietato agli ebrei di andare a scuola, all’università, solo due ore per fare la spesa, vietato andare in auto, in tram, in treno, solo sulla bicicletta propria. D’altra parte “non erano esseri umani”.

La cosa che più mi ha colpito è la frase messa verso la fine della visita, di quelle piccole stanze piene ancora dei loro abitanti, di quando Anna Frank ha sentito alla radio inglese che gli alleati sono sbarcati in Normandia. Su un grande pannello le parole di Anna Frank: «Martedì 6 giugno 1944: Carissima Kitty, This is D-day, disse alle 2 la radio inglese…l’invasione è cominciata…la cosa più bella è che io ho la sensazione che stiano arrivando degli amici…il pensiero degli amici e della salvezza ci riempie nuovamente l’animo di fiducia». L’arresto da parte della Gestapo avvenne il 4 agosto 1944.

A una ventina di minuti a piedi dalla casa di Anna Frank un bellissimo palazzo nobiliare di una ricca e potente famiglia olandese i Van Loon, sul canale Keizersgracht 672, che è divenuto museo Van Loon, con giardino dall’altra parte del palazzo, e un altro edificio per le carrozze. Molti i dipinti, in particolare di de Witt. Un ruolo importante della famiglia nella storia olandese, Willem fu uno dei fondatori della compagnia Olandese delle Indie nel 1602. Molti membri della famiglia, divenuti nobili nell’Ottocento, sono stati sindaci della città. Tra gli stemmi di famiglia uno colpisce perché ci sono molte teste di uomini neri. Tra le attività della famiglia, c’era anche la tratta degli schiavi delle colonie che gli olandesi avevano in Oriente. La schiavitù olandese è durata per circa due secoli. Abolita alla metà dell’Ottocento anche se alcune navi olandesi continuavano a praticarla anche dopo.

A dieci minuti a piedi del palazzo dei Van Loon vi è il più famoso museo di Amsterdam, il Rijksmuseum, dove nel 2021 si è tenuta una grande mostra Slavery sul tema della schiavitù Olandese, vennero deportati circa 2 milioni di persone. Il museo contiene molte opere di Rembrandt e di Vermeer (a cui il Rijksmuseum dedica una importante retrospettiva dal 10 febbraio 2023).

Valika Smeulders, curatrice della mostra Slavery, ha osservato che è stato fondamentale portare alla luce la storia orale a causa della mancanza di documentazioni scritte di persone schiavizzate. «Bisognava trovare dei testimoni che ricordassero. Una donna parla di sua nonna che le diceva che era uguale a tutti gli altri, uguale ai figli del padrone di casa, testimonianze di persone molto consapevoli della loro umanità pur vivendo in un mondo che voleva togliere loro del tutto quella umanità».

Una delle protagoniste al centro del racconto espositivo era Oopjen Coppit, moglie di un industriale dello zucchero Marten Soolmans che si arricchì grazie alle piantagioni in Brasile utilizzando gli schiavi. Ai due separatamente fece nel 1634 il ritratto Rembrandt van Rijn, a grandezza naturale. Il ritratto di lui è stato acquistato dallo Stato Olandese per il Rijksmuseum e quello di lei dallo Stato Francese per il Musée du Louvre. Pagati 160 milioni di euro. Non possono essere mostrati separati e si trovano alternativamente nei due musei. Sono attualmente esposti al Rijksmuseum. Non si parla di tutta questa parte della storia Olandese nelle scuole Olandesi, aggiunge la curatrice della mostra sulla schiavitù. Alla mostra vi erano alcuni collari che si pensava (o si voleva pensare) fossero per cani ma invece erano per gli schiavi. Il 19 dicembre 2022 (!) anche per le reazioni suscitate dalla mostra l’Olanda ha presentato le scuse ufficiali per il commercio degli schiavi. «Il passato non può essere cancellato, per secoli il nostro paese ha permesso, incoraggiato e tratto profitti dallo schiavismo», ha detto il primo ministro Rutte. In un cerchio di due chilometri al centro di Amsterdam ci si può confrontare con una parte importante della storia umana, cercando con difficoltà l’umanità, il senso dell’umano che si trova solo tra le vittime delle violenze e delle atrocità di una storia che sembra apparire del tutto inumana.

 

Matematico e autore di numerosi libri, Michele Emmer ha da poco pubblicato il libro Persone:dal Caucaso al cinema italiano 1915-1948 (Gangemi) e con Marco Abate, Imagine math, dreaming in Venice (Springer)

Resistere all’annullamento dell’identità umana. In un film la storia di Shlomo sopravvissuto alla Shoah

Entrando al museo storico della Shoah a Yad Vashem (Gerusalemme), la prima sezione che ci si para davanti è dedicata alla vita del mondo ebraico prima della seconda guerra mondiale, inoltre sempre a Yad Vashem possiamo trovare la valle delle comunità dedicata appunto a tutte le comunità ebraiche che furono colpite dalla Shoah. Oggi molto spesso quando si sente parlare di Shoah non sentiamo mai parlare della vita e della cultura ebraica prima di essa. Nel film Il respiro di Shlomo invece emerge la vita di Shlomo Venezia, prima dell’Olocausto, nella comunità ebraica di Salonicco, in Grecia, dove risiedevano sua madre i suoi fratelli e le sue sorelle. Il film di Ruggero Gabbai è stato trasmesso in anteprima al Teatro dell’opera di Roma ed è qui che abbiamo incontrato il regista. Ecco cosa ci ha raccontato.

Ruggero Gabbai quanto è importante raccontare la sua vita prima della Shoah, ed in generale raccontare la vita prima dell’Olocausto, che spesso viene tralasciata, non solo nel racconto al grande pubblico ma anche nelle scuole?

Comincerei col dire che questo film in particolare ci fa conoscere le camere a gas e lo sterminio di massa nella  testimonianza importantissima di Shlomo Venezia. Lo sterminio nazista comportò l’annientamento di interi gruppi familiari, uccisi barbaramente. Perlopiù nessuno può più ricordarli dicendo di aver perso i membri della sua famiglia nelle camere a gas, perché interi nuclei familiari sono morti tutti appena sono arrivati ad Auschwitz-Birkenau. Per questo è tanto più importante la testimonianza di sopravvissuti come la senatrice a vita Liliana Segre e Pietro Terraccina quando raccontano cosa videro e come lasciarono la mano dei propri genitori. Nedo Fiano nel film Memoria ricorda tutta la sua famiglia facendo otto nomi sulla rampa di Birkenau. E qui vengo alla sua domanda, alla luce di tutto questo per me era importante far capire in questo film, Il respiro di Shlomo, che queste persone avevano una vita, degli affetti, delle passioni, degli amori ed erano inseriti all’interno di un contesto sociale/culturale, ma quella cultura fu spazzata via dalla furia nazifascista. Furono spezzate vite umane ma anche un’intera cultura, un modo di essere e di pensare, ed in questo modo capiamo quanto l’umanità abbia perso perché queste persone non ebbero l’opportunità di dare il loro contributo per migliorare il mondo. In particolare la comunità ebraica di Salonicco era una di quelle più importanti e numerose del Mediterraneo, composta da tanti pensatori e lavoratori che costruirono il porto della città. A Salonicco non vi era niente che non avesse avuto a che fare con la comunità ebraica. Questa comunità è stata annientata al 95%, anche se non mi piace parlare tanto di numeri perché come abbiamo visto dietro ogni singola persona vi era una storia, una vita, una famiglia e dei sogni.

La testimonianza di Shlomo Venezia, come Sonderkommando, è particolarmente importante per capire l’Olocausto, come lei  ha accennato, perché ci porta dietro le quinte della Shoah. Può spiegarci meglio?

Shlomo è un testimone fondamentale per capire la macchina della morte, poiché lui è entrato dentro le camere a gas, ha visto quelli che entravano prima di lui poi ha dovuto ripulirle dai cadaveri per poi bruciarli. Il suo compito specifico era quello di tagliare i capelli ai cadaveri, però nel film dice che spesso si davano il cambio con altri gruppi del Sonderkommando e quindi spesso era lui a ripulire le camere a gas dai cadaveri per poi bruciarli nei forni crematori. Una testimonianza come la sua, visto che sono sopravvissuti pochissimi Sonderkommando alla furia nazista perché erano depositari del segreto dell’eccidio più efferato della storia del XX secolo forse della storia dell’umanità, è fondamentale soprattutto nei confronti dei negazionisti e di chi banalizza la Shoah. Lui racconta solo quello a cui ha assistito e visto ed ha visto l’indicibile. Oltre ad intervistarlo ho avuto il privilegio di conoscerlo come amico e come essere umano.

L’obbiettivo dei nazisti, tra gli altri, era quello di disumanizzare e annullare le vittime, in particolare con i Sonderkommando era quello di renderli inaccettabili a se stessi facendoli quasi sembrare partecipi dei nazisti, anche se ovviamente non era vero. Può raccontarci un episodio di Shlomo che l’ha particolarmente colpita?

Shlomo nel film dice che magari la gente da fuori poteva pensare che fossero partecipi, ma non c’era niente di più falso, perché i nazisti non volevano ripulire le camere a gas e bruciare i corpi quindi usavano la manodopera schiava e chi si rifiutava veniva subito ucciso. Tra i tanti episodi che racconta mi ha colpito molto quello di un bambino. Un episodio molto drammatico, perché alla fine della gasazione quando entrano nelle camere a gas lui e i suoi compagni sentono un gemito provenire da un angolo, questo gemito continua così si avvicinano e trovano un bambino rimasto al seno della madre ancora vivo. Loro sono costretti a portarlo al cospetto dei nazisti che chiaramente spezzarono la vita di questo neonato in maniera crudele come se fosse un pezzo immateriale, come se fosse nulla. Nel film questo è uno dei racconti più toccanti. E il giornalista e scrittore Roberto Olla commentandola racconta come Shlomo ci abbia messo tanti anni prima di raccontare questa storia sia per la sua crudezza sia perché pensava che nessuno gli avrebbe creduto.

Dopo la guerra però, nonostante tutte le violenze che aveva visto e subito, Shlomo sceglie la vita e si fa una famiglia, grazie all’affetto delle persone vicine decide di testimoniare e di trasmettere la sua forza e il testimone a molti altri. Sia i familiari che altre persone sono state intervistate nel film, per raccontare quanto fosse importante la figura di Shlomo. Come avete scelto queste persone?

Chi sopravvive alla Shoah non lascia mai veramente dal punto di vista psicologico il campo di detenzione, però Shlomo incontra Marika una donna eccezionale, ebrea di origine ungherese e sceglie la vita. Per noi era importante nel film far vedere questa continuità, quindi che Mario Venezia, il figlio più grande e presidente di Fondazione museo della Shoah-Roma, testimoniasse in una sorta di dialogo padre-figlio struggente e doloroso, al fine di far vedere che la vita è andata avanti e che i nazisti non sono riusciti a distruggere l’umanità di Shlomo, che poi ha portato la sua  testimonianza  anche nelle scuole. Una scelta di rispetto verso quello che aveva subìto dando un senso a tutto, per spiegarci che questi regimi possono tornare e l’antisemitismo, il negazionismo e il razzismo sono ancora vivi, basta vedere quanto successo in Ruanda e in Kosovo con i genocidi.

Girando questo film, come gli altri che hai realizzato sulla Memoria, possiamo dire che ha fatto “didattica” della Shoah?

 Io non sono un insegnante ma un regista però penso che bisogna fare le cose nel modo giusto costruendo un film con una narrazione che possa coinvolgere ragazzi, adulti, gente colta e meno colta. La cosa importante è mettere sempre al centro l’essere umano.

Quando andrà in onda il film?

Verrà trasmesso su Rai 1 in seconda serata il 27 gennaio, poi sarà sempre disponibile su Raiplay.

Shlomo Venezia

“Scrittore italiano di origine ebraica (Salonicco 1923 – Roma 2012), sopravvissuto alla Shoah. Arrestato con alcuni membri della famiglia e deportato nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau l’11 aprile del 1944, durante la prigionia venne costretto a lavorare nelle unità speciali denominate Sonderkommandos. Tra le mansioni a cui fu assegnato vi erano quelle della rimozione dei cadaveri dalle camere a gas e del loro incenerimento, del taglio dei capelli, dell’estrazione dei denti d’oro, dell’asportazione di abiti e oggetti personali dai corpi delle vittime. Prigioniero per sette mesi a Birkenau, poi per altri cinque a Mauthausen, dopo la liberazione divenne uno dei principali testimoni della tragedia dell’Olocausto, che descrisse con lucidità e profondo senso storico in trasmissioni televisive, in conferenze e nei principali eventi commemorativi dello sterminio ebraico. Grande protagonista dei viaggi della Memoria, trasse dalla sua esperienza il testo Sonderkommando Auschwitz (2007), tradotto in 24 lingue (fonte Treccani).

L’autore: Andrea Vitello è specializzato in didattica della Shoah e graduato a Yad Vashem. Ha scritto il libro, con la prefazione di Moni Ovadia, intitolato Il nazista che salvò gli ebrei. Storie di coraggio e solidarietà in Danimarca, (Le Lettere 2022). Scrive su Pressenza e su Left

 

L’autonomia? È disuguaglianza certificata

Incapaci di ridurre le disuguaglianze hanno avuto un’idea brillantissima: legalizzarle. L’ultimo alla stessa stregua non poteva che essere il ministro all’Istruzione e al merito Giuseppe Valditara: «Il mio obiettivo», dice il ministro, «è quello di elaborare ipotesi, anche sperimentali e tenuto conto delle opportunità offerte dal Pnrr, volte a favorire la sinergia tra il sistema produttivo, la società civile e la scuola, nella consapevolezza che ci vorrà un approccio particolarmente innovativo per attrarre al sistema d’istruzione risorse sempre maggiori, in grado di elevare la dignità del personale scolastico e la qualità della nostra offerta formativa». Tradotto: farsi finanziare dal privato (che sarà ben contento di contribuire alla scuola come fabbrica di faticatori) e tornare alle gabbie salariali.

Le gabbie salariali nascono con un accordo firmato il 6 dicembre 1945 tra industriali e organizzazioni dei lavoratori, per la parametrazione dei salari sulla base del costo della vita nei diversi luoghi. Entrate in vigore nel 1946, all’inizio furono previste solo al nord, e solo in seguito estese a tutto il Paese. In origine, la divisione era in quattro zone, ciascuna con un diverso calcolo dei salari. Nel 1954 il Paese intero viene diviso in 14 zone nelle quali si applicano salari diversi a seconda del costo della vita. Tra la zona in cui il salario era maggiore e quella in cui il salario era minore la distanza poteva essere anche del 29%. Nel 1961 il numero di zone fu dimezzato, si passò da 14 a 7, e la forbice tra i salari passò dal 29% al 20%. Non essendo capaci di immaginare il futuro questi ripescano nel passato. Devono avere dimenticato gli scioperi a partire dal 1969, le mobilitazioni operaie. O forse semplicemente sono troppo ignoranti per conoscerle.

Il segretario Flc Cgil, Francesco Sinopoli, sottolinea che l’idea di introdurre salari differenziati per Regione in base al costo della vita «è totalmente strampalata, ci riporta indietro di 50 anni. Semmai c’è un problema che riguarda tutto il personale della scuola: il ministro dovrebbe far finanziare il contratto collettivo che ora vede zero risorse. Il combinato disposto tra ingresso dei privati e disarticolazione del sistema contrattuale è la distruzione della scuola pubblica, è la cosa peggiore che si può fare. Siamo pronti a mettere in campo ogni mobilitazione se questa sarà confermata come proposta». Anche Ivana Barbacci, segretaria Cisl Scuola ha un posizione netta: «Noi siamo drasticamente contrari all’autonomia differenziata: il contratto nazionale e il sistema di istruzione devono rimanere nazionali ma le Regioni, già oggi a normativa invariata, possono sostenere le scuole in particolari progetti, fornendo incentivi in termini di personale e di progetti a sostegno a dell’offerta formativa. E’ giusto incentivare l’offerta formativa fermo restando la struttura nazionale dei contratti, del reclutamento e dei programmi», dice.

Nella proposta di Valditara però c’è la matrice dell’idea di autonomia di questo governo: un federalismo che certifichi le zone depresse e gli costruisca un ecosistema intorno per non “danneggiare” gli altri. Disunire l’Italia per renderla più facile da governare. Complimenti.

Buon venerdì.

Nella foto: frame del video dell’audizione del ministro Valditara alle commissioni riunite di Camera e Senato, 15 dicembre 2022

Liliana Segre: «Ad Auschwitz non si va in gita»

Signor Presidente, grazie prima di tutto per avermi dato un momento per riposarmi. Saluto anche gli onorevoli colleghi, così gentili.

Io sui viaggi della memoria parlerò due minuti. Intanto sono grata alla senatrice Daisy Pirovano, che è stata al mio fianco durante il primo anno della Commissione, per aver pensato ai viaggi della memoria. I viaggi della memoria sono un punto molto particolare nell’ambito dell’insegnamento scolastico, etico e morale. Io sono tra i pochissimi sopravvissuti alla Shoah a non essere mai ritornata là dove ero stata prigioniera; non me la sono mai sentita, anche invitata ad altissimo livello, passati cinquant’anni, nel 1995. Furono presenti grandi personaggi: i reali d’Olanda, Berlusconi, molti personaggi del tempo andarono ad Auschwitz. Qualcuno di loro mi aveva invitato a guidare il gruppo, ma io non me la sono sentita. Poi ho sentito anche alla radio – quella visita si svolgeva in contemporanea a un servizio radiofonico molto importante – la descrizione delle pellicce che indossavano gli ospiti, come per esempio la regina d’Olanda (un insieme elegantissimo di volpi); era molto impellicciato di visone anche Berlusconi, e tanti altri. Io in quel momento fui contenta di non aver accettato l’invito. (Applausi).

Anche oggi, ai ragazzi che intraprendono il viaggio della memoria in inverno, la preside o chi decide il viaggio non ha il coraggio – ci vuole coraggio, è una scelta educativa – di dire una cosa: nei due anni più freddi del Novecento, l’inverno del 1943 e quello del 1944, i prigionieri, oltre che scheletriti e affamati, erano vestiti con le divise famose a righe di cotone rigenerato, di cui poi si è fatto tanto cinematografo e poca realtà. È vero che erano passati cinquant’anni. È vero che si parlava di reali o di Presidenti della Repubblica o del Consiglio, ma a nessuno è venuto in mente almeno di non indossare la pelliccia e i ragazzi di oggi, quelli che intraprenderanno il viaggio della memoria, dovrebbero saltare la colazione del mattino, avere un po’ di voglia di mangiare, che tanto poi soddisferebbero all’uscita del lager.

A volte quei ragazzi, con i selfie, hanno fatto la gita. Quando sento parlare di “gita”, e l’ho sentito tante volte in questi anni (la “gita” ad Auschwitz), prego, imploro e chiedo veramente per favore alla preside o all’insegnante, che mi dicono “faremo la gita ad Auschwitz”, aspettando che io risponda “grazie che ci andate”, dico di andare a Lucca, a Gallipoli, in montagna, per vedere una cosa meravigliosa, ma non Auschwitz. Ad Auschwitz non si fa la gita. (Applausi). Si va silenziosi, come il 2 novembre qualche famiglia affezionata ai suoi morti va al cimitero. Non fa la gita, ma va in un certo modo che è civile, a volte religioso, a volte per nostalgia nei confronti del morto. Ci va in un certo modo e così si deve andare ad Auschwitz.

Ho visto una volta alla televisione, una decina di anni fa, un gruppo di ragazzi olandesi, belli, biondi e alti, così come è la gioventù del Nord Europa, andare in gita – quelli andavano veramente in gita – ad Auschwitz. Avevano in mano un grande gelato, la musica nelle orecchie e da quel cancello che riporta la scritta «Arbeit macht frei», che sappiamo voler dire un’altra cosa, entravano a ritmo di quello che sentivano nelle orecchie, leccando l’enorme gelato. Cosa potevo fare davanti a quella trasmissione?

Io non ho trovato mai le parole, così come nessun superstite, per descrivere Auschwitz. Non ci sono. Non ci sono nell’alfabeto. Non ci sono nei vocabolari di tutta Europa. Cosa dovevo pensare del fatto che un insegnante, un genitore, un preside, un personaggio qualunque avesse radunato dei ragazzi, che hanno davanti una vita lunga, cittadini di una nazione che aveva visto un grande antinazismo, permettere tutto questo? Ho pensato che quei sei milioni di morti erano morti invano. Non si va a fare la gita: si va in silenzio, avendo magari un vestito non ricoperto di volpi e senza aver fatto la colazione del mattino, per poi andare in tutti i ristoranti e gli alberghi cresciuti intorno ai lager. Non si va in gita, si va come un santuario. Si va anche laicamente, a testa bassa, cercando di ricordare, per non dimenticare la Shoah. Grazie. (L’Assemblea si leva in piedi. Applausi).

Dichiaro, quindi, anche a nome del Gruppo Misto, il voto favorevole sui viaggi, e non le gite, della memoria.

* In alto, un momento della dichiarazione di voto di Liliana Segre al Senato, durante la seduta del 18 gennaio 2023, tratto dal video della diretta dell’Aula