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Agli Uffizi solo col portafoglio a organetto

Nel fiume quasi ininterrotto delle esternazioni che i nuovi vertici politici del Collegio Romano hanno prodotto dal momento del loro insediamento e pur nella contraddittorietà e confusione di molte dichiarazioni, un elemento comune è subito emerso con grande chiarezza: il nostro patrimonio culturale ha un valore economico che occorre sfruttare. E poiché l’Italia è una «superpotenza culturale mondiale» (Sangiuliano dixit), questa rendita economica dovrà finalmente essere commisurata a tale importanza culturale.
Da questo punto di vista, ciò che i nuovi inquilini del Ministero proclamano a gran voce, non è poi così distante dalla visione affermatasi nell’era Franceschini: magari espressi con maggiore rozzezza rispetto all’abilità da politico navigatissimo del precedente ministro, ma obiettivi di fondo e anche armamentario retorico si collocano in linea di perfetta continuità con quella stagione politica nella quale, con significativa accelerazione negli ultimi anni, il nostro patrimonio culturale è sostanzialmente stato utilizzato come palcoscenico privilegiato per le liturgie del potere, nell’abbandono sostanziale di ogni politica di governo del paesaggio, vale a dire del territorio nazionale.
E infatti, nessuna revisione dell’impianto delle così dette riforme Franceschini è minimamente all’orizzonte, e anzi tutto sembra procedere piuttosto verso la radicalizzazione di taluni orientamenti.

A partire dai musei. Di fronte a uno dei più clamorosi fallimenti dell’era Franceschini, quel Sistema museale nazionale che avrebbe dovuto finalmente superare la cesura fra musei statali e musei pubblici di enti locali e musei privati e soprattutto cercare di allineare gli standard delle nostre istituzioni museali a livelli europei, l’unico requisito cui aspira adeguarsi il nuovo corso è quello del costo dei biglietti. Via libera quindi agli aumenti (in taluni casi fino al raddoppio) perché «se una cosa ha un valore storico, artistico, culturale, deve anche essere pagata, come del resto i turisti pagano gli hotel» (il ministro Sangiuliano, 10 gennaio 2023): così da marzo prossimo, visitare i soli Uffizi costerà 25 euro, senza Pitti e, naturalmente senza il corridoio vasariano, già in predicato per diventare uno dei luoghi più costosi del nostro patrimonio culturale.
Difficile trovare un’espressione più chiara della visione tardo-neoliberista di questa destra governativa: assodata la riduzione a merce del patrimonio culturale e il suo uso turistico come fine unico, l’obiettivo è quello di rincorrere il privato (gli albergatori) sul piano della capacità di sfruttamento della risorsa.

In questa direzione, l’attenzione politica e mediatica, come già negli ultimi anni, si concentra sulle grandi istituzioni e in particolare sulle solite galline dalle uova d’oro – dal Colosseo, agli Uffizi, a Pompei – le più economicamente e iconicamente significative, cui si cerca di aggiungere ora il Pantheon, reso appetibile, per lo sfruttamento turistico, dai milionari accessi di visitatori, che saranno presto costretti a pagare un biglietto di ingresso. La giustificazione di un allineamento con altri Paesi europei è apparsa peraltro subito risibile: il biglietto per il Louvre (il più grande museo occidentale) costa oggi 17 euro, mentre British Museum e National Gallery sono a entrata libera, ma soprattutto queste istituzioni offrono tutte, da anni, un livello di servizi al visitatore – online e on site – in termini di informazione, accoglienza, iniziative formative, eventi e via elencando, di livello incomparabilmente maggiore.

La decisione della direzione del Louvre, resa pubblica recentemente, di limitare gli accessi a un numero di visitatori che possa consentire una esperienza migliore del patrimonio esposto e facilitare il lavoro degli operatori del museo, testimonia, anche per una istituzione ormai vocata prioritariamente all’utenza turistica, un atteggiamento ben più rispettoso nei confronti di chi visita il museo parigino, e di uno spirito di servizio che sa superare anche le ragioni puramente monetarie. In Italia, al contrario, è proprio il Ministero ad abbracciare, coûte que coûte, un trend “sviluppista” il cui indicatore principale è solo quello quantitativo, mentre gli unici, deboli (e talora ignorati) limiti numerici all’accesso di alcuni dei più affollati luoghi della cultura sono quelli – invalicabili – legati alle norme di sicurezza e incolumità.
In una decisione di questo tipo, l’atteggiamento – gravissimo – di indifferenza politica nei confronti di una situazione del Paese economicamente difficilissima, a un passo dalla recessione, con il livello delle disuguaglianze che aumenta a dismisura è l’altra faccia della medaglia rispetto a una concezione del patrimonio culturale cui non si sa trovare alcun altro scopo se non quello di divertissement esclusivo per turisti. Di questa visione a dir poco ristretta sulla funzione del nostro patrimonio culturale e dei musei in particolare, sono parte integrante le modalità autocratiche, in stile che potremmo definire Ancien régime, che connotano la loro gestione. Al di là di ciò che riguarda gli aspetti tecnici legati ad esempio alla conservazione degli oggetti o alla manutenzione degli allestimenti, infatti, quanto pertiene alla visione espressa attraverso il racconto degli oggetti esposti, mai neutrale, ma frutto di scelte più o meno esplicite, dovrebbe essere il risultato di un confronto ampio e articolato.

Il museo pubblico non è una collezione di oggetti, ma uno strumento culturale al servizio di una comunità più o meno ampia di visitatori e sarebbe quindi opportuno che soprattutto le scelte che vanno a modificare assetti, finalità, concezioni allestitive fossero illustrate nel dettaglio, non solo con un pubblico di addetti ai lavori e non solo “a cose fatte”.
È evidente che proposte e decisioni finali non possano che rimanere nelle mani di chi dirige e opera all’interno dell’istituzione, ma come momento iniziale e finale di un processo di condivisione che renda l’istituzione finalmente più aperta all’esterno e attivi quelle forme di partecipazione tanto spesso declamate in convegni e conferenze stampa, quanto negate nella pratica dei fatti o, ancor peggio, ridotte ad operazioni cosmetiche, dai sondaggi social ai questionari una tantum. Eppure anche Icom, l’organizzazione internazionale punto di riferimento per il mondo degli operatori museali, nella recente nuova definizione di museo (cfr. Left n. 30/2022), pur se drasticamente edulcorata, proprio per la pressione dei comitati nazionali più “tradizionalisti” fra cui quello italiano, ha sottolineato l’importanza della partecipazione della comunità alla vita del museo.

Al contrario, la norma, per i nostri musei, è che ogni decisione su allestimenti, esposizioni, iniziative culturali, in pratica la vita del museo stesso, venga decisa da un ristrettissimo numero di persone che spesso non includono neppure i Comitati scientifici, se non come semplice informazione.
Questo modus operandi, oltre che espressione di una visione museologica profondamente attardata, diventa tanto più grave quando rischia di stravolgere un assetto istituzionalmente e culturalmente importante come è quello della museografia archeologica della Capitale.

L’autrice: Archeologa classica, Maria Pia Guermandi è responsabile dell’Osservatorio beni e istituti culturali della Regione Emilia-Romagna e di numerosi progetti europei. Con Tomaso Montanari dirige la collana Antipatrimonio di Castelvecchi

 

Fatti non fummo a viver come bruti, ministro Sangiuliano

al principio del nuovo anno, il discorso pubblico sul patrimonio culturale italiano si è ingolfato attorno a due argomenti in apparenza inconciliabili, ma in realtà strettamente correlati e a loro modo assai paradigmatici di una visione del mondo e dunque di un’azione politica. Quando il ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, ha posto Dante Alighieri tra i padri fondatori della destra, si è acceso un dibattito che nemmeno l’anniversario dantesco del 2021 era riuscito a innescare, ma la cui qualità è stata inversamente proporzionale alla sua sguaiata vivacità. In parallelo, da qualche giorno si erano già sprecate esternazioni da vari pulpiti sul prezzo dei biglietti nei musei statali, suscitate soprattutto dal vistoso aumento dell’ingresso alle Gallerie degli Uffizi in alta stagione (25 euro dal primo marzo).

Da un lato, un’attenzione costante alla monetizzazione dell’offerta culturale; dall’altra, un’altrettanta spiccata tendenza a marcare il territorio in termini revisionisti, ma nell’assenza di una prospettiva storica almeno decente. I primi mesi del “modello Sangiuliano”, almeno a giudicare da interventi e dichiarazioni (per le azioni politicamente più rilevanti c’è bisogno di più tempo), stanno tutti fra questi due poli.
Aumentare il prezzo dei musei è nella maggior parte dei casi giustificato da costi di gestione aumentati in proporzioni da vertigine nell’ultimo anno. Senza una robusta iniezione di risorse pubbliche, i musei autonomi devono provvedere in proprio. E quelli che non hanno autonomia di gestione sono condannati a una mera sopravvivenza. Per restare alla Toscana, lo strepitoso potenziale dei musei statali di Arezzo, Lucca e Pisa non riesce a esprimersi come dovrebbe e potrebbe, anche per l’esiguità del personale, che non può essere certo rimpolpato con la bigliettazione. Un problema che tocca da vicino gli stessi Uffizi, e che dovrebbe essere ben tenuto presente ogni volta che si riaccendono polemiche sterili su giorni e orari di apertura.

Ma i numeri sembrano un punto centrale della visione di Sangiuliano fin dai suoi primi interventi. Il ministro ha liquidato l’aumento adducendone l’irrilevanza per le spese di un’agiata famiglia di turisti americani (come se fossero gli unici frequentatori dei nostri musei), ma è da tempo che stabilisce paragoni tra il prezzo dei nostri musei e quelli stranieri, invocando per noi maggiori introiti. La comparazione non riguarda soltanto la vile pecunia, visto che più di una volta il ministro ha auspicato un ampliamento dell’offerta che consista nell’allargare gli orari di apertura e nel moltiplicare le opere esposte: al punto da configurare l’ipotesi, peraltro non nuova, di espandere i grandi musei attraverso loro succursali che potrebbero trovar luogo non solo nella stessa città o regione, ma addirittura in un altro Stato. Replicando dunque l’operazione compiuta dal Louvre prima a Lens, poi ad Abu Dhabi. E ancora una volta sono proprio gli Uffizi a essere al centro di questa visione, che par tuttavia prescindere sia dal rapporto con i contesti, sia da una riflessione sulla natura di un museo moderno.

Chi lavora in un museo, e pure chi ne ha una certa contezza, sa bene che il valore di una collezione risulta e risalta non dalla quantità di oggetti esposti, ma dalla capacità di far parlare quegli oggetti – anche pochissimi – e di intrecciare storie, narrazioni e processi che disegnino il cammino di una civiltà. I depositi dei musei sono i serbatoi della conoscenza, ma sono anche l’alimento delle storie che si vogliono e/o si devono raccontare. Non solo l’alimento necessario di uno o più potenziali musei. Oltretutto le opere in deposito hanno un senso in relazione a quelle altre che in Italia stanno non solo nelle sale aperte dello stesso museo, ma fuori dalle sue mura. Trasferirle a mille o cinquemila chilometri di distanza significa proporle come oggetti assoluti, ma svincolati da quel contesto che attribuisce loro un senso peculiare. Curioso che mentre diamo ampio risalto alle rivendicazioni di quei Paesi ex coloniali che chiedono la restituzione delle opere predate dai dominatori di un tempo, in Italia si pensi seriamente di mandare il nostro patrimonio in giro per il mondo senza una vera progettualità culturale.

Sangiuliano sembra avere in mente una sola categoria di visitatore di museo: il turista, possibilmente straniero e danaroso. Sicché il museo è una leva economica, non di conoscenza o cittadinanza. Ma soprattutto sembra avere in mente il museo come attrattore patrimoniale forte e pressoché unico. Come se tutto il lavoro del Mic dovesse convergere, anche attraverso la promozione di mostre, su questo solo obiettivo. Ma i nostri musei nulla sarebbero senza un contesto capillare e diffuso – in questo sì, davvero unico al mondo oltre la contabilità dei siti riconosciuti dall’Unesco o altre percentuali spesso date a vanvera – da cui proviene il contenuto dei musei, e sul quale i musei si rispecchiano. La peculiarità del patrimonio italiano consiste proprio in questo impasto, storicamente stratificato, tra natura e artificio, di cui i musei sono frutti non certo unici. Davanti alla straordinaria scoperta, avvenuta lo scorso novembre, del deposito votivo di San Casciano ai Bagni, si è subito scatenato un inferno comunicativo che da un lato disquisiva sulla bellezza delle opere lanciandosi in temerari paragoni con i Bronzi di Riace, dall’altro prometteva, per voce del ministro, un nuovo museo destinato ad accogliere i pezzi. Dove quel che di davvero eccezionale è in gioco è il contesto, ossia il rapporto tra gli oggetti e il luogo. Veniva invece affermata un’idea di archeologia affatto distorta: non studio dei luoghi nella complessità delle loro sedimentazioni storiche, ma abilità di scoprire tesori sepolti.

Intendiamoci: la valorizzazione dei musei in una chiave a un tempo aziendalistica e turistico-commerciale è fenomeno che agisce da parecchi anni, e ha avuto il suo motore principale nella doppia tornata di Dario Franceschini. Ma l’impressione è che a fronte di alcune iniziative tese perlomeno ad appannare, se non proprio a smantellare, l’immagine franceschiniana del dicastero (come la chiusura dell’assurda piattaforma ITsArt, palcoscenico virtuale per la diffusione digitale di contenuti culturali e artistici sull’Italia), la percezione del patrimonio, e dunque l’azione politica, discendano da una medesima matrice antropologica, ma con due significativi (e preoccupanti) elementi di novità: un ulteriore distacco dai contesti e dai territori, e una più forte rivendicazione identitaria affatto svincolata da una prospettiva storico-critica.

Lo conferma proprio la sortita sull’Alighieri. Forse Sangiuliano non voleva sintetizzare la parafrasi di un libro come Dante Alighieri e Benito Mussolini di Domenico Venturini (che vedeva il Poeta come profeta del Duce) né fare un endorsement per tutt’altro libro come Dante reazionario (Editori Riuniti, 1992) di Edoardo Sanguineti, ma semplicemente usare la tecnica della sparata per suscitare reazioni e reagire a sua volta contro la presunta egemonia culturale della sinistra, annacquando le distinzioni e sostenendo che in fondo tutta la cultura italiana è fondamentalmente di destra, ovvero che la sua anima destroide è stata storicamente negata, per cui è giunta l’ora di ristabilirla. Ma forse ha perso un’occasione: avrebbe potuto lanciare l’idea del Duecento come del secolo in cui si costruisce davvero un’idea di modernità, tra cattedrali, Francesco, Giotto e appunto Dante, depotenziando lo stereotipo del Rinascimento che invece sembra ossessionarlo. Ovviamente Sangiuliano sa bene (tanto che l’ha scritto pure in un intervento sul Corriere della Sera) che le categorie di destra e sinistra sono ignote al medioevo, ma in questa come in altre esternazioni ha sfruttato lo stratagemma retorico dell’attualizzazione distopica al fine non solo di suscitare approvazioni in un’ottica da derby (o di qua o di là) che ormai sembra aver fagocitato la complessità che dovrebbe essere propria del discorso politico e pubblico, ma soprattutto di dare una forte legittimazione identitaria all’azione di governo.

Non si tratta solo di bastonare le Ong, “difendere i confini” o invitare Zelensky al Festival di Sanremo (altra sguaiataggine figlia di una deriva spettacolistica in cui l’immagine istantanea vince su ogni complessità): tra i primi buoni propositi del ministro spiccava la volontà di promuovere due grandi mostre dedicate a periodi e movimenti della storia dell’arte secondo lui ingiustamente trascurati, il Futurismo e il Rinascimento. Posto che un ministro non dovrebbe dire che mostre si devono fare, ma adoperarsi perché direttori e curatori sviluppino i loro progetti di ricerca, è chiaro che di mostre su temi rinascimentali se ne vedono per ogni dove, e lo stesso futurismo non è certo negletto. Ma la boutade non va sottovalutata: non tanto perché Sangiuliano volesse forse evocare le mostre promosse dal fascismo (come quella, appunto, sul Rinascimento italiano negli Usa di cui parla il bel libro edito da Carocci Raffaello on the road, di Lorenzo Carletti e Cristiano Giometti), quanto piuttosto per una forte connotazione nazionalista dell’approccio al patrimonio, che emerge anche nello stucchevole dibattito sulla carta d’identità dei direttori di museo (al netto del merito, si capisce) e si declina nell’inattualità di mostre che si vogliono onnicomprensive e definitive.

Ma ancora una volta si tratta di nazionalismo avulso da una coscienza storico-geografica: i musei monopolizzano la discussione, che invece elude il recupero dei centri storici terremotati o alluvionati come ogni questione di tutela territoriale (a parte il brevissimo tempo dell’emergenza). Gli stessi uffici periferici del Mic sono esausti e svuotati (e tali resteranno malgrado i concorsi per funzionari in atto), tanto che si sta di nuovo levando alta la voce di quelle Regioni che invocano la competenza di patrimonio e paesaggio: a Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna (che voleva solo l’ambiente) si sta aggiungendo ora pure la Toscana.

I beni culturali fanno gola, ma tutti costoro forse non hanno capito che tutelare e conoscere significa investire, e nulla garantisce che le Regioni sapranno occuparsi del patrimonio meglio dello Stato, se non ci metteranno davvero molti più mezzi e molte più persone. Ma per fare cosa? Non sarà che l’obiettivo è proprio quello di lasciare il territorio indifeso, abbattendo un argine alla speculazione – argine che era normativo ma soprattutto culturale? Quelle persone devono farsi interpreti delle ragioni della storia e del patrimonio.
Gennaro Sangiuliano non è un esternatore compulsivo. È il vertice politico di una piramide di dirigenti, funzionari e tecnici, tutti interpreti di una missione che vive nella storia e per la storia, al servizio della comunità e non del turismo straniero. Per questo devono assumersi responsabilità e posizioni degne di una tradizione di studi che ha reso unico al mondo un modo di conservare e amare il patrimonio che forse già non esiste più. Troppo spesso la nostra classe dirigente intellettuale si fa sentire solo per reagire stancamente a battute stantie. Ma dovrebbe essere il traino per l’intero Paese, cominciando proprio dalla qualità del lavoro culturale, che richiede competenze non banali e soprattutto un’etica civile.
Per questo vorrei idealmente contrapporre al “modello Sangiuliano” il “modello Bartoletti”.

Scomparso il 12 gennaio all’età di 61 anni, Massimo Bartoletti non era solo un esemplare funzionario della soprintendenza di Genova; era un grande storico dell’arte che aveva messo sensibilità e intelligenza a disposizione di un patrimonio sorprendente disseminato nelle valli tra Liguria e Piemonte, illuminando zone d’ombra, esplorando periferie vitali come certe capitali e costruendo letteralmente una conoscenza nuova intorno a un’idea di contesto e di tessuto. A figure come lui si deve in larga misura la sopravvivenza del nostro passato figurativo e monumentale. La storia che si racconta ora nella mostra alle Scuderie del Quirinale (Arte liberata 1937-1947, di cui scrive Lucinia Speciale in questo numero di Left, ndr) non esisterebbe senza il coraggio di tanti Bartoletti che si votarono alla difesa dell’arte tra il 1940 e il 1945. E non c’è museo che tenga, senza una coscienza dei tessuti e dei territori.

Franco Boggero, collega e amico di Massimo Bartoletti, ha teorizzato due categorie fondamentali di storici dell’arte (nell’arguto Il demone della stupidità e altre questioni, Sagep editori 2021), i pigmei e i bantu. «Cacciatori, raccoglitori i primi, propensi a un continuo movimento; agricoltori, e quindi stanziali, i secondi. Mentre il pigmeo incarnava per me il tecnico di zona e la sua presenza mobile sul territorio, nel bantu vedevo adombrato il conservatore di museo, con la “coltivazione” di un sito ben demarcato». Il secondo ha una bella visibilità, ma è il primo quello che corre e trova le cose che mandano avanti la ricerca.

In questa metafora, Massimo era uno splendido (e altissimo!) pigmeo, modello di chi si avvicina al patrimonio non per metterlo a reddito, ma per capire gli uomini che lo hanno creato e vi si sono abbeverati. Un traguardo civile che presuppone che si sappia di cosa si parla. Meno Sangiuliano e più Bartoletti, in sintesi estrema, è il programma politico da sviluppare per garantire un futuro al nostro patrimonio.

Il ritorno del Minculpop

Pasquale Rotondi, lo storico dell’arte e funzionario che nelle Marche (praticamente da solo) salvò 10mila opere d’arte italiane dal saccheggio e della distruzione dei nazifascisti si starà rivoltando nella tomba. Altrettanto Giulio Carlo Argan e la bellissima Palma Bucarelli che, a sua volta, rischiò la vita per portare con la sua Fiat Topolino in Castel Sant’Angelo le opere conservate nella Galleria d’arte moderna di Roma, di cui fu a lungo direttrice. E con loro Fernanda Wittgens che mise in salvo le opere all’Accademia di Brera e, soprattutto, aiutò cittadini ebrei a scappare e, proprio per questo, fu incarcerata. Tutti loro sapevano bene che il patrimonio d’arte ha un fondamentale valore immateriale, un valore civico e culturale indispensabile per il futuro delle nuove generazioni, e tanto più importante in quel tempo di guerra per opporsi alla violenza, all’oppressione del nazifascismo e all’annullamento dell’umano nella Shoah. Incurante di tutto questo nella prefazione al catalogo Electa della mostra Arte liberata che alle Scuderie del Quirinale racconta le loro eroiche imprese, il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano ha l’ardire di omettere quale fosse la matrice di quel criminale attacco all’arte italiana: ovvero il nazifascismo. Scandalosamente, il ministro parla in modo generico di «arte liberata, salvata o recuperata dalle torbide minacce della Seconda guerra mondiale».

«Non conosco la matrice», disse Giorgia Meloni dopo l’assalto squadrista alla sede della Cgil avvenuto nell’ottobre 2021. La stessa Meloni, da presidente del Consiglio, ha osannato l’ex repubblichino Almirante. Siamo sicuri che il suo governo sia espressione di una destra presentabile? Quale è la cultura politica della seconda carica dello Stato che disdegna il 25 aprile e inneggia a Pino Rauti?

Quale è la cultura politica del presidente della Camera Lorenzo Fontana, che partecipò al congresso ultraconservatore della famiglia a cui era presente Komov, ambasciatore del Congresso mondiale delle famiglie all’Onu e portavoce della Commissione sulla famiglia del Patriarcato di Moscinvitato e sodale di Aleksandr Dugin ideologo di Putin?

Quale è la cultura politica del ministro della Famiglia e della natalità Eugenia Roccella che afferma: «L’aborto è un diritto delle donne, purtroppo». La matrice di costoro a me pare molto chiara. Cattolica integralista e nostalgica del Ventennio, improntata al revisionismo storico.

Le donne italiane si rassegnino, servono solo per dare figli alla patria. Dopo la proposta antiscientifica di Gasparri (Forza Italia) di riconoscere identità giuridica all’embrione, arriva quella del senatore Roberto Menia (Fratelli d’Italia), che rincara la dose pretendendo di riconoscere la capacità giuridica di feti ed embrioni, fin dal concepimento. Su tutto questo l’opposizione non alza barricate in Parlamento, non invita a scendere in piazza per protestare. Intanto la destra va all’attacco dei diritti delle donne, dei migranti, degli studenti. A un anno dalla morte di Lorenzo Parelli l’alternanza scuola lavoro viene riproposta in maniera ancor più scriteriata e sbilanciata verso l’interesse delle aziende. La scuola purtroppo è la prima vittima di questo governo, insieme alla sanità.

Nella scuola del merito propugnata dal ministro Valditara, il darwinismo sociale docet: chi ce la fa, bene, gli altri si arrangino. In barba ai numeri altissimi di dispersione scolastica soprattutto nel Sud d’Italia. Il progetto di autonomia differenziata di Calderoli provvederà a dare il colpo finale. Intanto Francesco Giubilei (Fratelli d’Italia), consigliere culturale del ministro della Cultura, Sangiuliano, propone che gli alunni facciano «il Saluto alla bandiera prima delle lezioni». A quando il ripristino del Minculpop, il ministero della cultura popolare che Mussolini istituì nel 1937? Per controllare la cultura e sottrarla all’«egemonia della sinistra» per svuotarla di senso e imporre un immaginario destrorso Meloni propina il fumettone di Tolkien e rispolvera metafore sanguinolente come quella della rivincita dell’“underdog”, espressione nata nei violenti combattimenti di cani organizzati nei giri di scommesse nell’Inghilterra dell’Ottocento. Più colto, il ministro della Cultura si applica nel revisionismo storico come abbiamo visto, tira per la giacchetta il malcapitato Leopardi e iscrive d’imperio Dante a Fratelli d’Italia, benché, come è noto, fosse un uomo del Trecento. L’operazione revisionista su Dante, si sa, era già cominciata con Mussolini. E ora si carica di nuove fandonie negando che egli auspicasse che il pane della conoscenza fosse condiviso con tutti, negando l’impasto poliglotta del volgare della Commedia che comprendeva anche termini arabi e molto altro, come scrivono su questo numero autorevoli specialisti di Dante e storici dell’arte medievale.

Non pago della revisione della letteratura in chiave reazionaria, sul versante della gestione del patrimonio artistico il ministro si lancia sulla via ultra liberista tracciata da Berlusconi e Renzi, trattando i musei come «macchine per far soldi» (cit. Renzi) e dunque alza a 25 euro il prezzo del biglietto l’ingresso agli Uffizi. «Tanto i ricchi americani se lo possono permettere», dice. E chissenefrega delle famiglie italiane che non se lo potranno permettere e chissenefrega della Costituzione che parla di tutela dei beni culturali ma anche di diritto dei cittadini alla conoscenza e affida alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli per il pieno sviluppo della persona umana…

* In foto, il ministro Sangiuliano con la premier Meloni, al Senato

Vent’anni dopo quell’oceano pacifico

La più grande manifestazione del mondo si tenne in tutto il pianeta il 15 febbraio 2003. Non era mai successo prima nella storia dell’umanità che 110 milioni di persone decidessero, seguendo il fuso orario, di scendere in piazza per fermare una guerra che a tutti appariva inaccettabile, criminale e destinata a rendere il mondo più ingiusto ed insicuro. Non era mai successo prima che una collettività di quelle dimensioni si opponesse in massa alla decisione che Usa e i suoi alleati si apprestavano a prendere contro l’Iraq, già affamato da un embargo decennale e circondato da basi e navi militari. La cosiddetta “guerra al terrorismo” aveva già prodotto decine di migliaia di morti in Afghanistan, messo a ferro e fuoco ed occupato dagli Usa come vendetta per l’abbattimento, l’11 settembre 2001, da parte di Al Qaeda delle Twin towers. L’opinione pubblica, a cominciare dal movimento pacifista Usa che coniò lo slogan “Not in my name”, era contraria a questo imbarbarimento della politica e all’uccisione di ogni parvenza di diritto internazionale. Contro quella opinione pubblica, come capita anche nelle guerre attuali, si mosse una macchina propagandistica senza precedenti, con la costruzione di prove false, come le famose «provette all’antrace» sventolate dal segretario Usa Colin Powell al Consiglio di sicurezza dell’Onu, che dovevano dimostrare l’esistenza delle armi di sterminio di massa di Saddam Hussein. Il vicepresidente Usa Dick Cheney, arrivò a sostenere che Hussein stesse costruendo la bomba atomica grazie ai giacimenti d’uranio rinvenuti in Niger e che il presidente iracheno fosse il vero capo del terrorismo islamico. Una macchina spinta e finanziata dall’appetito insaziabile del complesso bellico industriale tanto da riuscire a portare, nel ventennio 2001-2021, al raddoppio della spesa militare globale. Eppure, in tutto il pianeta, nonostante quella macchina delle menzogne, l’opinione pubblica si schierava contro quella guerra con spirito critico e convinzione.

Il 15 febbraio 2003 quel dissenso si materializzò nelle piazze e nelle vie di 793 città dei cinque continenti, riempiendole di colori, parole d’ordine ed appelli che chiedevano di cambiare strada, di mettere la guerra fuori dalla storia. Da Sidney che cominciò per prima, il No alla guerra venne gridato in città grandi e piccole arrivando addirittura a McMurdo station, una base Usa nell’Antartico. Furono decine le manifestazioni negli States, la più grande a New York provò a circondare la sede dell’Onu aprendo il corteo con alla testa i familiari delle vittime dell’11 settembre. A Parigi invece in testa c’erano i veterani della prima guerra del Golfo. Ad Hyde park a Londra una folla oceanica alternava lo slogan “Bush assassino” con “Blair assassino”, con la presenza tra manifestanti di parti importanti del Partito laburista. A Roma, se dal palco di piazza San Giovanni si poteva a spanne percepire la grandezza epocale della manifestazione indetta da più di 900 sigle del comitato Fermiamo la guerra, le immagini aeree riprese dall’elicottero della Rai – che dopo aver detto no alla diretta fu costretta a trasmettere – toglievano ogni dubbio: si trattava della manifestazione più grande di sempre. Un dato: alle ore 16 l’Atac (l’azienda pubblica dei trasporti di Roma, ndr) in una nota informava che si erano raggiunte le 900mila obliterazioni sui mezzi pubblici superando e non di poco il record registrato nel 2000 durante il Giubileo della gioventù. Decine di treni speciali, più di un migliaio di autobus, la gente era venuta a Roma con ogni mezzo privato e pubblico, tanto che già alle 13, un’ora prima della partenza ufficiale, da piazza Esedra a piazza San Giovanni era tutta un’enorme chiazza di persone e di bandiere arcobaleno.

Lo striscione di apertura che riportava la parola d’ordine “No alla guerra senza se e senza ma” – slogan scelto in polemica con l’ambiguità di alcune forze politiche che erano disponibili ad accettare l’aggressione all’Iraq se questa fosse stata decisa dall’Onu – vista l’impossibilità di muoversi seguendo il percorso ufficiale, venne portato dagli organizzatori sul palco di piazza San Giovanni utilizzando vie secondarie. Intanto un enorme maxischermo, in una piazza già alla partenza del corteo strapiena, dava le immagini delle manifestazioni in corso in tutto il pianeta. Anche a Baghdad si tenne una manifestazione organizzata da Un ponte per e dalla associazione statunitense Voices in the wilderness, che passò di fronte agli uffici dell’Onu per chiedere che gli ispettori dell’Unmovic (la Commissione ispettiva creata nel 1999 per monitorare le capacità belliche dell’Iraq, ndr) non si prestassero a coprire la volontà di guerra degli Usa.

«Un oceano pacifico» titolava il giorno dopo Liberazione mentre il New York times parlò di quei 110 milioni di manifestanti come «la seconda potenza mondiale».Tutto ciò fu possibile grazie al metodo includente e alla paziente tessitura di un gruppo di attivisti ed attiviste del movimento altermondialista che compresero quanto fosse necessario uscire ciascuno dal proprio guscio nazionale per rispondere alla sfida globale di un altro mondo possibile. La gestazione fu a Firenze al primo Social forum europeo nel novembre 2002, dove a conclusione dei lavori venne avanzata l’idea di una manifestazione mondiale contro la guerra. La proposta venne rilanciata a livello globale dal secondo Social forum mondiale del gennaio 2003 a Porto Alegre in Brasile. Nel mezzo e subito dopo, centinaia d’incontri in presenza o al telefono, per allargare la rete dei partecipanti e coinvolgere il numero maggiore di Paesi. In questa corsa contro il tempo spesso le sale d’aspetto degli aeroporti diventavano il luogo ideale di queste riunioni. Era un periodo in cui viaggiare per fare politica era una esigenza, tanta era la curiosità del mondo. Sapevamo che da soli chiusi nei ristretti confini dei singoli Paesi nessuna conquista di civiltà sarebbe stata possibile.

Poi la guerra scoppiò lo stesso e fu uno schiaffo all’umanità di cui il corteo globale del 15 febbraio era stata una straordinaria testimonianza. Le bandiere della pace che a milioni posero sui balconi delle case e delle istituzioni con il tempo si sporcarono di smog o vennero tolte. Il governo Berlusconi si aggregò ai “volenterosi”, la coalizione di guerra guidata da Bush, insieme alla Spagna di Aznar e al Regno Unito del “new labour” Blair. Francia e Germania invece si dissociarono e non parteciparono. Tutta la Penisola venne trasformata in una portaerei per “riportare l’Iraq all’età della pietra”. L’Italia, nonostante l’opinione pubblica fosse contraria, partecipò all’occupazione dell’Iraq e diversi militari italiani persero la vita (non solo a Nassiriya). La guerra di aggressione e la politica del divide et impera dell’amministrazione occupante produsse i bombardamenti al fosforo bianco su Falluja, le torture nel carcere di Abu Ghraib, centinaia di esecuzioni sommarie, diverse migliaia di morti tra le truppe occupanti e, secondo la rivista Lancet, nei soli primi tre anni di guerra 650mila persone uccise (civili e combattenti) ed oltre 5 milioni di sfollati e rifugiati. Per non parlare dell’esercito di vedove, orfani, mutilati e di coloro che ancora oggi saltano sulle mine antipersona o si ammalano per l’effetto dell’uranio impoverito. Da quella guerra nacque l’Isis e prima ancora il terrorismo colpì Madrid, Londra, Parigi ed altre città europee. Aveva ragione il popolo del 15 febbraio: la guerra avrebbe portato la barbarie in tutto il pianeta.

Anche l’invasione dell’Ucraina è figlia di questo brodo di coltura che invece che nella diplomazia decise d’investire in spedizioni e patti militari. Figlia del 15 febbraio è invece, anche a dispetto della guerra e delle distruzioni, l’emergere in Iraq di una società civile capace di scendere in piazza per mesi lottando contro la divisione settaria del Paese, lo sfruttamento delle multinazionali del petrolio, la corruzione e la violenza di genere. Dopo questi 20 anni di “guerra mondiale a pezzi” il movimento europeo è ancora certamente attivo, ma sicuramente più debole e diviso. La memoria della “metodologia buona” come la definisce Raffaella Bolini, una delle tessitrici della rete di allora, dovrebbe essere fonte d’ispirazione per le forze della pace oggi. Del 15 febbraio resta quell’insegnamento fondamentale: «Il metodo inclusivo, il tessere relazioni oltre i confini, che permette ai sogni di diventare realtà».

L’autore: Alfio Nicotra è co-presidente nazionale di Un ponte per, Associazione per la solidarietà internazionale

 

Ucraina, un’ecatombe evitabile

Stiamo scivolando verso il primo anno. Non il primo anno di guerra, quella c’è dal marzo del 2014. Sono i primi dodici mesi dall’invasione russa dell’Ucraina. Un tempo infinito, che ha lasciato sul campo un numero impressionante di morti – fra civili e militari si superano i 100mila, probabilmente -, un Paese distrutto e un Pianeta sull’orlo del disastro.
È, insomma, tempo di primi bilanci. Quali sono, per il mondo, le conseguenze di questa fase della guerra? Scoprirlo è un viaggio interessante e drammatico. Una delle conseguenze immediate è che l’emergenza climatica, che avevamo deciso come comunità internazionale di mettere in cima alla lista delle nostre priorità, resterà tale. Per colpa di questa guerra, non raggiungeremo l’obiettivo prefissato di contenere di un grado e mezzo l’aumento della temperatura media.

Troppe le ragioni. La guerra in quanto tale sta immettendo nell’atmosfera tonnellate di CO2: pensate un solo aereo da combattimento consuma 16mila litri di carburante in un’ora. Poi, il terrore di restare privi di energia per la chiusura delle forniture russe ha portato tutti i Paesi europei a riattivare ogni possibile, vecchia centrale elettrica, riscoprendo non solo il petrolio, ma anche il carbone. Morale: questa guerra è anche una guerra al nostro futuro. E la stiamo perdendo.

Altro capitolo da aprire è quello delle armi: l’Ucraina sta diventando il Paese più armato del mondo. Sono più di 30 miliardi di dollari in armi quelli dati a Kiev nei primi sei mesi di guerra. Chi le ha date? Le industrie di quali Paesi hanno lavorato di più? In testa ci sono gli Stati Uniti. Hanno fornito armi sofisticate, che si sono rivelate essenziali nella difesa del territorio. A Kiev è arrivato davvero di tutto. Tra gli altri, sono arrivati i lanciarazzi multipli Himars, vero incubo per i russi: viaggiano veloci e a bassa quota. La contraerea russa non riesce a fermarli. Sono stati forniti anche i missili antinave Harpoon, che hanno contrastato la flotta russa nel Mar Nero: riescono a colpire obiettivi a 300 chilometri di distanza. Se si guarda ancora ai dati relativi ai primi sei mesi di conflitto, la Gran Bretagna, con i 4,2 miliardi di dollari, era il secondo Paese per forniture militari all’Ucraina, seguita dal Canada, da subito schierato a fianco di Kiev in questa guerra. Concretamente, ha inviato obici M777, munizioni, droni, fucili e ha fornito immagini satellitari ad alta risoluzione, lanciarazzi, bombe a mano e due velivoli tattici.

L’impegno del resto d’Europa è stato consistente, ma in assoluto più modesto. Basti vedere la lista degli armamenti forniti ancora nei primi cinque-sei mesi di guerra, in attesa che arrivino dati più consolidati relativi al primo anno di guerra. Parigi, ad esempio, ha fornito a Kiev obici semoventi Cesar, missili anticarro Milan e missili antiaerei Mistral. L’Italia ha fornito lanciarazzi, mezzi per il trasporto truppe, carri armati e camionette anti mine: da ricordare che il nostro Paese non rende pubblico l’elenco dei materiali inviati.
La Germania ha mandato un sistema di difesa aerea, un sistema radar di localizzazione, obici e carri armati. La Spagna ha spedito 200 tonnellate di equipaggiamento militare, il Belgio ha mandato 5mila fucili automatici e armi anticarro. L’Olanda ha inviato 200 missili Stinger e obici. La Grecia ha, invece, inviato 400 fucili Kalashnikov, lanciarazzi e munizioni. Poi, grazie ad un accordo con la Germania, Atene ha inviato vecchi carri armati dell’era sovietica, ottenendone in cambio più moderni da Berlino. Alla lista vanno aggiunti i Paesi scandinavi, quelli dell’Est Europa, la Turchia. Insomma, il mondo si è mosso e ha dato armi. Quello che ci si chiede è: finita la guerra, che fine faranno tutte queste armi? Dove andranno, chi le userà e per cosa? Alcuni osservatori sostengono che il rischio di fare dell’Ucraina una «media potenza militare regionale» è concreto e questo renderebbe complesso e difficile ogni tentativo di costruire una pace duratura.

Questo apre un terzo capitolo: come si sta riposizionando il mondo? Questa fase della guerra ha mostrato grandi spostamenti strategici. L’Ucraina appare come un tavolo da gioco, attorno al quale potenze medie e grandi cercano di riposizionarsi. La Russia, ad esempio, ha utilizzato la guerra per ribadire di essere tornata «potenza continentale». Una manovra iniziata da lontano: Putin aveva riempito i vuoti lasciati dagli Usa nel Vicino Oriente, alleandosi con l’Iran e intervenendo militarmente in Siria, ufficialmente per combattere l’Isis, lo Stato Islamico. Ha trovato un ruolo nei Balcani, appoggiando la Serbia e disturbando l’Unione europea.
Gli Stati Uniti tentano disperatamente di mantenere il ruolo “di padroni”.
È la postura che a partire dal 1991 – anno della caduta dell’Unione Sovietica – ha portato a grandi tensioni internazionali e a una regressione rapida dei livelli di cooperazione internazionale fra Stati. Le guerre in Afghanistan e Iraq sono state militarmente e politicamente un fiasco costoso. Potenza navale, non di terra, gli Usa hanno spostato il proprio asse strategico nel Sud Pacifico, con la nuova alleanza con Australia e Inghilterra (Aukus), ma Washington appare all’angolo.

La Cina è la vera nuova protagonista della scena. Pechino si è schierata con Mosca: l’accordo firmato da Putin e Xi Jinping nei primi giorni di febbraio 2022 lega i due Paesi dal punto di vista strategico-militare ed economico.
Un’alleanza importante, perché guarda lontano. Guarda, ad esempio, a quella rotta artica che si sta aprendo a Nord per via dei cambiamenti climatici, con il ghiaccio che si scioglie e rende navigabile quel tratto di mare. I trasporti delle merci cinesi verso l’Europa, il grande mercato, passerà di lì, consentendo un risparmio del 40% sui costi. E sarà la Russia, inevitabilmente, a controllare quelle acque.

L’Unione europea rimane il gigante economico reso nano politico dalla scena internazionale. Poteva fare di più per evitare questa guerra? Sì, poteva. Ma la logica degli affari, l’unica che l’Unione europea conosca in questa fase storica, l’ha portata a giocare ambiguamente su tutti i tavoli e con tutti per troppo tempo.
Infine la Turchia, con il presidente Erdoğan. Ankara si è buttata sulla guerra sfruttando il non ruolo dell’Europa e la propria voglia di tornare al tavolo dei grandi. Attivissimo nel Mediterraneo e nei Balcani, intenzionato a ricostruire in qualche modo l’idea di “Turchia imperiale” morta nel 1918, Erdoğan ha con Putin rapporti storicamente ondivaghi, ma i due hanno mostrato di intendersi. Così, pur essendo Paese della Nato (per quanto ancora?), la Turchia ha iniziato a tessere una trama che l’ha portata a essere mediatrice fra Zelensky e Putin.

Dodici mesi dopo l’invasione voluta da Putin, il quadro che come comunità internazionale abbiamo davanti è questo. Dentro in Ucraina, quello che c’è davvero sono i troppi civili morti, gli sfollati e profughi, le città distrutte. Si poteva evitare? Sì, potevamo fare in modo che non accadesse. Questa fase della guerra è figlia del disinteresse del mondo, incapace di intervenire – o non interessato – con gli strumenti della diplomazia e del diritto per trovare una soluzione. Le conseguenze di questa guerra le pagheremo nel tempo. E sarà un conto davvero salato.

Zelensky a Sanremo? Sì a note di pace, no alla propaganda di guerra

L’irruzione del presidente ucraino Zelensky al festival di Sanremo si inserisce nella propaganda di guerra. Non appare avere nessun altro significato se non questo. Serve a persuadere l’opinione pubblica che entrare in guerra un poco alla volta tutti è necessario per salvare l’Europa. La Russia come la Germania di Hitler. Paragone francamente inascoltabile. Putin ha senza dubbio la responsabilità di aver iniziato una guerra inaccettabile, ingiusta ed illegale. Ma non vi è nessuna ragione al mondo di consolidare il processo verso la terza guerra mondiale che sarà l’ultima perché ci riserverà con molta probabilità l’olocausto nucleare. Nessuno più nega, nemmeno i signori della guerra, della propaganda e della menzogna anche di Stato, che siamo in guerra con la Russia per il tramite dell’Ucraina. La guerra per procura, ma non con la carta da bollo e gli avvocati, ma con le armi pesanti ed i soldati.

L’intervento di Zelensky alla principale kermesse nazional popolare italiana serve per rafforzare la narrazione della guerra giusta in difesa del popolo ucraino aggredito e per preparare sempre di più al nostro progressivo ingresso in guerra. La scelta maldestra di far parlare il presidente ucraino serve anche a provare a spostare l’opinione pubblica italiana che è ancora in maggioranza contro l’invio delle armi. A questo punto, dal momento che siamo un Paese a sovranità limitata a distanza di 80 anni dalla seconda guerra mondiale, perché non possiamo nemmeno decidere sul presente e il futuro della nostra vita, allora sarebbe stato più onesto far parlare Zelensky ed il presidente degli Stati Uniti al suo fianco. Più vero, più onesto intellettualmente. Sarebbe stato bello invece se il servizio pubblico della Rai, al quale contribuisce con il proprio portafoglio il popolo italiano, avesse fatto cantare e parlare, magari insieme, un’artista ucraina ed una russa. La musica e la cultura per la pace e non invece utilizzare il festival per la propaganda di guerra.

Ormai è sempre più chiaro che in questa fase nessuno dei governanti coinvolti nella guerra parla di pace e cerca la pace: né Putin e né Zelensky, ma nemmeno Biden e i governanti occidentali, con la Nato che assume sempre di più un ruolo di alleanza offensiva e non difensiva. L’opzione diplomatica non viene più presa in considerazione, nessuna seria iniziativa viene avanzata. Questa guerra non si è voluta evitare, serviva ai potenti della terra in questo momento della storia. Con in mezzo il sacrificio immenso dell’innocente popolo ucraino e con la mattanza di migliaia di giovani soldati. Eppure è chiaro che questa guerra non può finire con un vincitore, tenuto conto che si stanno confrontando Russia da una parte e Nato dall’altra e quindi il conflitto potrà terminare o con la sconfitta di tutti o solo con la diplomazia.

I popoli europei sono purtroppo piuttosto assenti sotto l’aspetto delle mobilitazioni di massa, assuefatti all’idea di non poter cambiare il corso degli eventi. E anche la pandemia è come se avesse ulteriormente influito sulla volontà dei popoli di fare i popoli che possono cambiare la storia ed essere più decisivi dei governanti. Perché ormai solo i popoli possono provare a modificare la cecità politica dei governanti europei. L’Europa, quando e se ne usciremo, sarà molto più debole ancora e ci vorrà un periodo lunghissimo per risollevarsi. Si avrà una nuova cortina di ferro con la Russia e l’Europa debole sarà un vantaggio soprattutto economico per gli Stati Uniti e la Cina. Svanisce almeno per i prossimi decenni la lungimirante visione politica dell’Europa unita nelle sue diversità, dal Portogallo alla Russia. Un continente forte in grado di affrontare le sfide geopolitiche, soprattutto da un punto di vista economico, sociale, ambientale e delle auspicabili politiche sulla globalizzazione dal volto umano.

L’orizzonte della pace si allontana sempre di più e il rischio di un conflitto mondiale aumenta giorno dopo giorno, soprattutto dopo l’invio di armi più potenti e devastanti all’Ucraina. Armi che già stanno colpendo il territorio russo e quindi preparando la reazione ancora più dura di Mosca fino all’uso dell’arma atomica come legittima difesa rispetto al pericolo della loro sicurezza nazionale. Più armi, più morti. È matematico. Con i missili, i carri armati ed altre armi micidiali l’Ucraina è in grado di colpire sempre di più il territorio russo. Lo scenario del conflitto si allarga quotidianamente. L’obiettivo di Zelensky, sempre più prestanome politico e militare degli americani, è quello di iniziare a colpire i russi nel proprio territorio. Ottenuti i carri armati della Nato, immediatamente il presidente ucraino ha chiesto missili a lungo raggio ed aerei per poter attaccare il nemico anche nel territorio russo perché sa di godere della protezione della Nato. La Russia, se verrà messa in discussione la sua sicurezza nazionale potrà utilizzare quindi l’arma nucleare. Una spirale potenzialmente letale per l’umanità. Ed è terrificante assistere a dibattiti mediatici nei quali si considera un’opzione possibile e accettabile la bomba atomica, come se dopo, tutto potesse ricominciare, come se la storia non ci avesse insegnato nulla. Con l’utilizzo della bomba atomica nulla sarà più come prima. Potremmo vedere con i nostri occhi l’inizio della fine del mondo. Dobbiamo fare quindi di tutto perché questo incubo non diventi terribile realtà.

L’autore: Luigi de Magistris, ex magistrato ed ex sindaco di Napoli, è il leader della coalizione Unione popolare

In apertura: Volodymyr Zelensky (foto The Presidential Office of Ukraine) e Amadeus

Il Consiglio d’Europa lo scrive chiaro e tondo: il decreto Piantedosi è carta straccia

Sono solo 9 pagine ma pesano come un intero tomo sulla faccia del ministro Piantedosi e sui suoi fantasiosi modi di ostacolare il salvataggio delle vite umane. Il Consiglio d’Europa pubblica un parere del suo comitato di esperti sul diritto delle Ong e non usa mezzi termini: «Il decreto legge n. 1/2023 solleva difficoltà sia procedurali che sostanziali rispetto alla libertà di associazione e alla tutela dello spazio della società civile».

All’interno del decreto che il ministro dell’Inferno Piantedosi e tutto il suo governo sventolano con tanta fierezza vengono riscontrati «requisiti onerosi, arbitrari e talvolta illeciti (nel senso che possono violare i requisiti del diritto del mare, esporre le persone vulnerabili a un rischio maggiore e comportare violazioni della privacy degli individui) per le Ong che svolgono attività di ricerca e soccorso» e che «danno origine a problemi di rispetto dei diritti di cui agli articoli 8 e 11 della Cedu a causa della mancanza di legalità, legittimità e proporzionalità».

Come qualcuno si ostina a scrivere da tempo nel documento si legge che il «decreto legge n. 1/2023 ha l’effetto di vietare alle navi di effettuare più di una missione di salvataggio prima del rientro in porto. Questo, unito alla recente pratica del governo italiano di assegnare porti lontani dalla posizione delle navi, che è di per sé una violazione dell’Unclos (la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare), significa che il tempo in mare delle navi che svolgono attività di ricerca e soccorso vitali è ridotto al minimo». Lo sapeva chiunque se ne intenda di diritto. Tranne, evidentemente, Piantedosi.

E ancora: «Se le autorità ordinassero alle Ong di ricerca e soccorso di recarsi immediatamente in un porto, indipendentemente dal fatto che vi siano altre persone in pericolo in mare nelle immediate vicinanze, ciò sarebbe in contrasto con l’obbligo del capitano di prestare assistenza immediata alle persone in pericolo, come sancito dall’art. 98 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare e il Protocollo di Palermo contro il traffico di migranti».

L’obiettivo di quel decreto è ben chiaro, anche agli esperti: «Questi nuovi requisiti – si legge –  non solo ostacolano il lavoro delle Ong di ricerca e soccorso, ma aumentano anche i rischi associati allo svolgimento di tale lavoro sia per quanto riguarda le multe, la detenzione e la confisca delle navi, che possono esacerbare uno spazio già difficile della società civile per Ong che lavorano con rifugiati e altri migranti. Le misure sono in conflitto con le Linee guida del Consiglio di esperti sul lavoro delle Ong, in particolare con la specificazione che le leggi, le politiche e le pratiche dovrebbero non proibire o impedire alle Ong di aiutare rifugiati e altri migranti in difficoltà sia in mare che a terra».

È tutto qui, nero su bianco. Non è l’editoriale di qualche ostinato buonista e non è nemmeno il parere interessato di qualche “comunista”. Piantedosi e i suoi sgherri non sono solo esponenti di una politica feroce, sono anche incapaci di scrivere le leggi.

Buon giovedì.

Nella foto: La nave della Ong Practiva Open Arms al porto di Pozzallo, 26 marzo 2018 (Gregor Rom)

Autonomia differenziata, l’attacco alla Costituzione che piace alla destra e al Pd

Temo che vi sia una generale sottovalutazione nei confronti delle decisioni del governo Meloni sulla cosiddetta “autonomia differenziata”. Ci troviamo, infatti, di fronte ad una vera e propria eversione costituzionale. Si rischia l’introduzione di quello che Giovanni Moro ha definito lo “ius domicilii”. Cioè il diritto di chi vive nelle regioni più ricche del Nord di avere per legge maggiori diritti di chi abita nel Centro/Sud. Questa è la filosofia, la subcultura del disegno di legge del ministro Calderoli.

La “secessione dei ricchi“, come l’ha efficacemente definita l’economista Viesti, muterebbe radicalmente il volto del Paese e muterebbero le modalità di attuazione delle fondamentali politiche pubbliche dello Stato sociale universale. Il governo, come ampi settori del Partito democratico (Pd), ritengono che un ipocrita riferimento ai “livelli essenziali di prestazione”(peraltro non “uniformi” in tutto il Paese) possa rendere accettabile l’eversione costituzionale. Ma mentono sapendo di mentire.

Il testo Calderoli propone di approvare i Lep entro un anno. Altrimenti di procedere ugualmente, garantendo alle Regioni la “spesa storica”, cioè l’istituzionalizzazione delle differenze (“chi ha avuto meno servizi fino ad ora meno avrà”). Contravvenendo, quindi, perfino ai principii generali sul finanziamento di Regioni ed Enti locali (legge 42 del 2009), che prescrivono che, in base all’art. 117 della Costituzione, vadano definiti “i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”.

Si tratta di un principio fondamentale della legalità costituzionale: i cittadini devono godere, ovunque essi vivano, di un livello garantito ed uniforme di diritti di cittadinanza. Qui è forte il richiamo ad un “fondo perequativo” per i territori “con minore capacità fiscale per abitante”.

Ma l’imbroglio di Calderoli è grottesco. dove sono gli ottanta miliardi previsti per il fondo perequativo? Non vi sono; e allora l’autonomia differenziata diventa automaticamente una discriminazione tra i cittadini di differenti Regioni. L’Italia sarebbe ridotta ad una sommatoria di venti staterelli tra loro fortemente disomogenei. La Meloni appare in grande difficoltà, di fronte all’aggressione leghista, sia perché teme la rivolta , che è in atto, del suo elettorato meridionale; sia perché è memore della sua proposta di legge di riforma costituzionale (diciassettesima legislatura, n. 1953) nella quale proponeva addirittura l’abolizione dell’art. 116 della Costituzione per sopprimere “ogni forma di specialità regionale” . Prendiamola sul serio! In definitiva la Costituzione è chiara: “diritti diseguali” è un ossimoro insopportabile . L’autonomia differenziata è la istituzionalizzazione delle diseguaglianze e, di conseguenza, contraddice l’intero impianto costituzionale fondato sull’eguaglianza sostanziale. L’art. 3 della Costituzione si muove nello spazio della giustizia sociale. Mentre l’autonomia differenziata esalta l’orizzonte competitivo e l’egoismo territoriale; è incubatrice di razzismo. Tra l’altro, è bene saperlo, autonomia differenziata e presidenzialismo autoritario sono complementari. La Meloni è stata chiara:” autonomia differenziata e presidenzialismo devono camminare e concludersi insieme”.

La volontà di verticalizzazione del potere è ulteriormente dimostrata dalla evanescenza ed inerzia del Parlamento. Nella proposta Calderoli il Parlamento non tocca palla in una decisione che riguarda la forma/ Stato. Ci auguriamo che i gruppi parlamentari di opposizione innalzino le barricate, usando tutti gli stratagemmi dei regolamenti parlamentari, in rappresentanza della campagna di massa e delle tante assemblee ed iniziative che si stanno ovunque svolgendo (e a cui sempre Left è presente, come quella di No Ad del 29 gennaio  Anche su Radio Radicale).

Un’ultima, rilevante osservazione: noi siamo pienamente partigiani dell’articolo 5 della  Costituzione: l’autonomia è articolazione della Repubblica “una e indivisibile”. Non siamo conservatori, né centralisti. Ma la nostra autonomia è “democrazia di prossimità”, ruolo centrale dei Comuni, autoorganizzazione. All’egoismo territoriale contrapponiamo il rapporto tra i territori italiani e quelli euromediterranei, come poteri democratici ed alternativi. Anche il popolo del Nord, infatti, sarebbe vittima dell’autonomia differenziata , che è un provvedimento classista, fondato sulla privatizzazione totale dei pubblici servizi, subalterno alla ricostruzione mitteleuropea delle catene del valore capitaliste.

Libano nel caos, le prime vittime sono i bambini

Cammini per le strade di Sidone (Saida in arabo) e all’odore di mare e della pesca si accosta quello dei rifiuti rovistati. Freschi, umidi e “sbudellati” come le carcasse di animali che giacciono sottosopra sui banchi del mercato della carne. È un mondo, questo di Sidone, nel Sud del Libano, tutto rivoltato. Dove i bambini non vanno a scuola perché sono costretti a chiedere l’elemosina per strada, e dove le scuole si svuotano anche degli insegnanti che uno dopo l’altro emigrano chissà dove. Nelle strade, le macchine senza carburante sono parcheggiate in eterno e al traffico di auto si sostituiscono gruppi di studenti che camminano e che non hanno di che studiare, e genitori rinsecchiti dalla fame che non hanno di che lavorare, e sì, anche gruppi di turisti inebetiti che fotografano e fotografano pur non avendo di che fotografare.

Così capita di sedersi ad un falafel bar, ignorando il peso dell’inflazione che schiaccia chi ti circonda. Cambiare dollari scintillanti al mercato nero significa scoprire che il tasso di cambio non ufficiale è di uno a sessantamila lire libanesi. Uno a sessantamila. Appena venti giorni fa era a uno a 42mila, e per la pelle che indossi, per la lingua che parli, ti credono una milionaria. E capita anche che si avvicini una bambina che chiede your leftovers, i tuoi avanzi. Questa è l’immagine che rappresenta la situazione che adesso sta vivendo la popolazione, l’agonia di interi villaggi del Libano: bambini affamati attorno ai cassonetti, che si contendono avanzi di cibo con i topi.

Una situazione che il 3 gennaio Save the children ha denunciato: in Libano, se non verranno prese misure urgenti, il numero dei bambini che soffrono la fame aumenterà del 14% all’inizio di quest’anno. Secondo l’organizzazione internazionale che lavora nel Paese del Medio Oriente dal 1953, quattro bambini rifugiati libanesi e siriani su 10 stanno affrontando un’insicurezza alimentare acuta elevata.

Tutto questo fa affiorare drammaticamente il passato. È il ripetersi della Maja’at Lubnan, la Grande carestia del Monte Libano. La storia collettiva, l’evento trascorso che per orrore dell’oblio si insinua nella vita presente. Nella vita pressante degli ultimi. Durante la Prima guerra mondiale, la burocrazia ottomana e un’invasione di locuste causarono sulle alture libanesi una carestia di proporzioni spaventose, che in soli due anni uccise – letteralmente di fame – non meno di 200mila persone. Cinquantamila in più di quelle vittime che avrebbero causato tutte le guerre subite tra il 1975 e il 1989 – compresa l’invasione israeliana del 1982. In tutta la Siria, che allora includeva il «distretto del Libano», il numero di morti stimati raggiunse i 350mila, su una popolazione che allora contava meno di quattro milioni. Era il 1917 e gli Alleati imposero un embargo sul Levante per lasciare le truppe turche nemiche in Palestina e nella Siria che allora includeva il distretto del Libano a corto di rifornimenti. Ma i turchi requisirono il cibo di cui avevano bisogno, lasciando la popolazione civile a deperire, ad agonizzare, a spegnersi lentamente nella fame.

Oggi un albero memoriale realizzato dall’artista Yazan Halwani, non lontano da dove sei decenni più tardi si sarebbe auto-tracciata la frontiera della guerra civile, nella capitale, sorge in memoria delle vittime della Grande carestia. Sulle foglie di rame i versi di Khalil Gibran, Tawfik Yousef Awwad, Anbara Salam Al-Khalidi e molti altri. Ecco alcuni versi di Gibran: «La mia gente è morta di fame / in una terra ricca di latte e miele / è morta perché si sono levati i mostri dell’inferno / e hanno distrutto tutto ciò che i suoi campi producevano». L’invasione di locuste. «È morta perché le vipere e / la prole delle vipere hanno sputato veleno / nel luogo in cui i Sacri Cedri / e le rose e il gelsomino emanano il loro profumo». Gli eserciti stranieri occupanti e famelici ingordi smaniosi.

Anche quella di inizio Novecento era un’epoca di enormi migrazioni. Decine di migliaia di persone, come l’autore di questi versi si erano autoesiliati in America per sfuggire alle avversità degli anni immediatamente precedenti lo scoppio della Grande Guerra. Molti dei nomi non europei tra i passeggeri di terza classe che annegarono sul Titanic erano, infatti, libanesi. Eppure le migrazioni non avvenivano solo dal Libano: ma anche verso il Libano, come quella degli armeni scampati al genocidio turco, che ancora oggi abitano il quartiere di Burj Hammoud, a Nord Est di Beirut, raggruppati secondo le città e i villaggi d’origine. Un armeno la cui famiglia proviene da Erzurum o Kars vive vicino ad altri armeni i cui genitori nonni o bisnonni provenivano dalle stesse città; proprio come i palestinesi di Haifa o di ‘Akka, nei campi profughi vivono accanto a quelli le cui case, in Palestina, si trovavano negli stessi quartieri, a volte persino nelle stesse strade. Ci furono gli armeni e ci furono i palestinesi e ci furono le Guerre del Golfo e arrivarono gli iracheni, e poi un giorno, nel mezzo di una crisi economica che iniziava a farsi irreversibile, ci fu il milione e mezzo di siriani che oggi rappresentano un quarto della popolazione libanese, e che al 99% vivono in condizioni di povertà estrema, e che molto probabilmente al mattino si vestono di carità.

E infine, alla situazione economica disastrosa, all’inflazione schizzante, all’incremento del prezzo della benzina, in Libano adesso si aggiunge il vuoto politico causato dalle dimissioni dell’ex Presidente della repubblica Michel Aoun, avvenute lo scorso 30 ottobre, sulla scia dell’instabilità che il Paese sta attraversando da più di tre anni. Nell’ottobre del 2019, la gioventù libanese era scesa in piazza a protestare contro un sistema politico corrotto e stagnante in un confessionalismo non più rappresentativo: e se non bastarono le repressioni delle forze dell’ordine a inibire il dissenso, lo shock – la paralisi – l’avrebbe causata l’esplosione del 4 agosto 2020 al porto di Beirut, in cui morirono 250 persone e più di seimila rimasero ferite. In difesa della giustizia per le vittime di quell’esplosione, il 26 gennaio centinaia di manifestanti si sono riuniti alle porte del palazzo di giustizia, appresa la decisione della Corte di affossare le indagini e rilasciare i 17 responsabili indagati. Qualcuno tra gli imputati ormai scarcerati ha già lasciato il Paese, in questo Libano capovolto in cui se fai parte dell’élite puoi comprarti la libertà, e se non hai niente ti lasciano deperire insieme ai topi sul bordo delle strade.

L’autrice: Valeria Rando è una ricercatrice italiana in Libano

Nella foto: bambini siriani rifugiati (Khaled Akacha, particolare)

 

 

 

 

I morti di lavoro? Sempre peggio

Sempre peggio. Nel 2022 si registra, rispetto al 2021, un deciso aumento delle denunce all’Inail di infortuni sul lavoro (dovuto in parte al più elevato numero di denunce di infortunio da Covid-19 e in parte alla crescita degli infortuni “tradizionali”, sia in occasione di lavoro che in itinere), un calo di quelle mortali (per il notevole minor peso delle morti da contagio, a cui si contrappone però il contestuale incremento dei decessi in itinere), e una crescita delle malattie professionali. 

In particolare le denunce presentate all’Istituto entro lo scorso mese di dicembre sono state 697.773, in aumento del 25,7% rispetto alle 555.236 del 2021 (+25,9% rispetto alle 554.340 del periodo gennaio-dicembre 2020 e +8,7% rispetto alle 641.638 del periodo gennaio-dicembre 2019). I dati rilevati al 31 dicembre di ciascun anno evidenziano a livello nazionale un incremento nel 2022 rispetto al 2021 sia dei casi avvenuti in occasione di lavoro, passati dai 474.847 del 2021 ai 607.806 del 2022 (+28,0%), sia di quelli in itinere, occorsi cioè nel tragitto di andata e ritorno tra l’abitazione e il posto di lavoro, che hanno fatto registrare un aumento dell’11,9%, da 80.389 a 89.967. Nello scorso mese di dicembre il numero degli infortuni sul lavoro denunciati ha segnato un +24,5% nella gestione Industria e servizi (dai 464.401 casi del 2021 ai 578.340 del 2022), un -3,6% in Agricoltura (da 26.962 a 25.999) e un +46,3% nel Conto Stato (da 63.873 a 93.434). Si osservano incrementi generalizzati degli infortuni in occasione di lavoro in quasi tutti i settori, in particolare nella Sanità e assistenza sociale (+113,1%), nel Trasporto e magazzinaggio (+79,3%), nelle Attività dei servizi di alloggio e di ristorazione (+55,2%) e nell’Amministrazione pubblica, che comprende le attività degli organismi preposti alla sanità – Asl – e gli amministratori regionali, provinciali e comunali (+54,8%).

L’analisi territoriale evidenzia un incremento delle denunce di infortunio in tutte le aree del Paese: più consistente nel Sud (+37,3%), seguito da Isole (+33,2%), Nord-Ovest (+30,4%), Centro (+29,4%) e Nord-Est (+13,3%). Tra le regioni con i maggiori aumenti percentuali si segnalano principalmente la Campania (+68,9%), la Liguria (+49,0%) e il Lazio (+45,4%). L’aumento che emerge dal confronto di periodo tra il 2021 e il 2022 è legato sia alla componente femminile, che registra un +42,9% (da 200.557 a 286.522 denunce), sia a quella maschile, che presenta un +16,0% (da 354.679 a 411.251). L’incremento ha interessato sia i lavoratori italiani (+27,0%), sia quelli extracomunitari (+20,8%) e comunitari (+15,8%). Dall’analisi per classi di età emergono incrementi generalizzati in tutte le fasce. Quasi la metà dei casi confluisce nella classe 40-59 anni. Le denunce di infortunio sul lavoro con esito mortale presentate all’Istituto entro lo scorso mese di dicembre sono state 1.090, 131 in meno rispetto alle 1.221 registrate nel 2021 (-10,7%). Questo calo è la sintesi di un decremento delle denunce osservato nel quadrimestre gennaio-aprile (-33,8%) e di un incremento nel periodo maggio-dicembre (+7,1%), nel confronto tra i due anni. Si registrano 180 casi in meno rispetto al periodo gennaio-dicembre 2020 (1.270 decessi) e uno in più rispetto al periodo gennaio-dicembre 2019 (1.089 decessi). A livello nazionale i dati rilevati al 31 dicembre di ciascun anno evidenziano, pur nella provvisorietà dei numeri, un decremento nel 2022 rispetto al 2021 solo dei casi avvenuti in occasione di lavoro, scesi da 973 a 790 per il notevole minor peso delle morti da Covid-19, mentre quelli in itinere sono passati da 248 a 300. Il calo ha riguardato soprattutto l’Industria e servizi (da 1.040 a 936 denunce), seguita da Conto Stato (da 53 a 36) e Agricoltura (da 128 a 118).

Dall’analisi territoriale emerge un decremento di 83 casi mortali al Sud (da 318 a 235), di 31 nel Nord-Est (da 276 a 245), di 12 nel Nord-Ovest (da 313 a 301), di tre nelle isole (da 87 a 84) e di due al centro (da 227 a 225). Le regioni con i maggiori decrementi sono la Campania (-37 casi mortali), la Puglia, il Friuli Venezia Giulia e l’Emilia Romagna (-22 ciascuna), l’Abruzzo (-20) e il Piemonte (-18). Tra le regioni che registrano aumenti si segnalano, invece, la Calabria (+14 casi), la Lombardia (+13) e la Toscana (+9). Il calo rilevato tra il 2021 e il 2022 è legato soprattutto alla componente maschile, i cui casi mortali denunciati sono passati da 1.095 a 970, mentre quella femminile passa da 126 a 120 casi. In diminuzione le denunce dei lavoratori italiani (da 1.036 a 881 decessi), in aumento quelle degli extracomunitari (da 138 a 156) e dei comunitari (da 47 a 53). Dall’analisi per classi di età, da segnalare l’incremento di casi mortali tra i 25-39enni (da 153 a 196 casi) e tra gli under 20 (da 10 a 22) e il calo tra gli over 39 anni (da 1.019 a 839). Al 31 dicembre di quest’anno risultano 19 denunce di incidenti plurimi avvenuti nel 2022, per un totale di 46 decessi, 44 dei quali stradali. Nel 2021 gli incidenti plurimi erano stati 17 per un totale di 40 decessi, 23 dei quali stradali. 

 Le denunce di malattia professionale protocollate dall’Inail nel 2022 sono state 60.774, in aumento di 5.486 casi (+9,9) rispetto al 2021 (15.751 casi in più, per un incremento percentuale del 35,0% rispetto al 2020, e 536 casi in meno, con una riduzione dello 0,9%, rispetto al 2019). I dati rilevati al 31 dicembre di ciascun anno mostrano un aumento nel 2022 rispetto al 2021 nelle gestioni Industria e servizi (+10,0%, da 45.632 a 50.185 casi), Agricoltura (+9,5%, da 9.167 a 10.041) e Conto Stato (+12,1%, da 489 a 548). L’analisi territoriale evidenzia un incremento delle denunce nelle Isole (+18,4%), nel Centro (+10,3%), nel Nord-Ovest (+10,0%), nel Sud (+9,5%) e nel Nord-Est (+5,6%). In ottica di genere si rilevano 4.472 denunce di malattia professionale in più per i lavoratori, da 40.387 a 44.859 (+11,1%), e 1.014 in più per le lavoratrici, da 14.901 a 15.915 (+6,8%). Nel complesso, l’aumento ha interessato sia le denunce dei lavoratori italiani, passate da 51.142 a 56.128 (+9,7%), sia quelle degli extracomunitari, da 2.861 a 3.145 (+9,9%), e dei comunitari, da 1.285 a 1.501 (+16,8%). Le patologie del sistema osteo-muscolare e del tessuto connettivo, quelle del sistema nervoso e dell’orecchio continuano a rappresentare, anche nel 2022, le prime tre malattie professionali denunciate, seguite dai tumori e dalle malattie del sistema respiratorio.

Fino alla prossima commemorazione per i caduti sul lavoro. Cerimonie contrite e promesse. Poi si riparte.

Buon mercoledì.

Foto di Alex Umbelino – Pexels