l Natale del 1917 è uno dei più feroci: per l’«atroce umiliazione», la solitudine, il gelo, la fame orrenda, la debolezza estrema che annienta ogni pensiero, la disperazione e l’abbrutimento che impongono alla mano di raccogliere nell’immondizia le «scorie della verdura» con cui integrare il «mezzo mestolo» di sbobba distribuito con il quinto di pagnotta nera, «impastata di segale e patate». Le note del Giornale registrano i crudi fatti e l’onda dei ricordi che sommerge il prigioniero, portando con sé immagini della famiglia, dei cari lontani, dell’antica abbondanza, ma anche della recente sconfitta: «Pensai oggi ai miei cari libri: lasciai in mano dei tedeschi le tre Laudi del D’Annunzio, le prose del Carducci (il testo mio durante il liceo, regalatomi da mia madre), i 2 Todhunter, i 2 Murani. – Così pure mi colsi a ridire versi Danteschi dell’Inferno, C. 33.° – ».
Sono le 22 del 25 dicembre 1917. Il Dante di Gadda è più di un «caro libro»: è una forma di conoscenza della realtà, il filtro attraverso il quale la tortura morale e fisica può diventare pronunciabile e venire risillabata nella parola poetica. Non a caso in un appunto dell’11 dicembre 1917 l’avverbio «dantescamente» è impiegato per rappresentare la violenza con cui riaffiora nella memoria il momento più lacerante: «Cerco di pensare il meno possibile al passato, ma esso torna implacabile, come un flutto, dantescamente. – (L’ordine di ritirata fu trasmesso dal Comando della 6.a Batt. (4.° Campagna) dal Maggiore Modotti (Gino), proveniente dal Comando Brigata Genova. Giunto a Cola alle ore 3 ant.ne del 25 ott.)».
Dante è una selva di immagini. Il 18 dicembre 1917 i prigionieri vengono trasferiti dal campo di raccolta alla fortezza di Rastatt, che diventa la dimora della prima prigionia: «Un camerone interno, coi soliti giacigli sovrapposti, freddo, umido, coi vetri rotti, (e la notte gela) pieno di paglia trita lasciata dagli ufficiali di passaggio», dove la luce «filtra da feritoie e da finestre interne a inferriata» e a cui si accede da «una scaletta circolare, come nelle vecchie torri, coi gradini scavati e consunti dall’uso». A Gadda pare «la prigione del Conte Ugolino, la classica prigione delle storie». Un’idea ancestrale ha preso forma, e viene sperimentata in corpore vili. Il Dante che riaffiora alla memoria è allora quello del «fiero pasto», capace di rappresentare l’irrappresentabile: «Il cibo è il solito, la fame orrenda. – Solite scene e litigi nella distribuzione, voci, proteste, confusione, ecc. – Io oggi ero di servizio: cioè dovevo e devo andar a prendere il vassello del cibo (recipiente simile a quello in cui si abbeverano i porci), coi soldati italiani addetti al nostro servizio. Nel gelo della mattina bisognò percorrere più volte (per il cibo, il carbone, ecc.) lo spazio che ci separa dalla cucina, cioè tutta la lunghezza della fortezza, cioè oltre 500 m. Il freddo preso è indicibile, per avere poco caffè; e a mezzogiorno un po’ di farina e di cavolacci cotti».
Ma Dante è per Gadda anche colui che è riuscito a tradurre la realtà in immagini dalla verità lampante, che si impongono con un’evidenza «spaventosa».
Il 21 dicembre 1917 è un’altra giornata rigidissima, di «vento freddo, cielo grigio, uniforme». I prigionieri, che il giorno prima avevano ricevuto solo «un mestolo di acqua con qualche pezzetto di rape lesse», decidono per protesta di non presentarsi al solito appello delle 10: «L’organismo tutto è denutrito, i muscoli vuoti, senza forza. Il polso è sceso a quarantacinque pulsazioni al minuto, nelle ore di maggior fame». Gadda compra per cinque marchi venti biscottini: «Li trangugiai un po’ a un’ora un po’ a un’altra senza neppure sentirli. – Divorai inoltre due panini che mi diede Cola; la mia fame è insaziabile, serpentesca, cannibalesca. Raccolgo da terra la buccia, la briciola; trangugio la resca di merluzzo. – Nell’abbrutimento però la mia patria e la mia famiglia sono però vive nel mio cuore. Il passato, la mia infanzia, tutte le più piccole e fuggitive immagini mi rivivono nell’anima con una intensità spaventosa, dantescamente». …
A partire dal 14 novembre 1918, con un gesto in apparenza banale ma in realtà fortemente simbolico, attuato proprio il giorno del suo venticinquesimo compleanno, Gadda inizia a scrivere per farsi leggere (anzitutto da Betti) e decide di separare fisicamente il piano della Storia da quello dell’Espressione, che vengono a occupare tre quaderni diversi: DP4 (14 novembre-16 dicembre), dedicato alla Vita notata. Storia; DP5 (14 novembre-26 dicembre), che accoglie il Pensiero notato. Espressione; e DP6, datato 16 dicembre e di nuovo consacrato alla Vita notata. Storia. Le due diverse anime che avevano innervato sino a quel momento le pagine del Giornale avranno, d’ora in poi, due diverse voci: quella testimoniale, del combattente che annota «vicende esteriori e materiali, ambiente, cause esterne, gli altri e l’esterno», e quella riflessiva, che scandaglia «percezioni, intuizioni, invenzioni, concetti, giudizi che non hanno una immediata conseguenza ne’ miei atti, che sono un lavoro, un’esteriorizzazione, un fardello…».
Significativamente, nello slancio verso un futuro che immagina letterario non meno che ingegneresco, Gadda pone questo nuovo inizio sotto il segno di Dante: «Domani dovrebbe essere, (e al solito non sarà,) l’inizio di una vita nova; perché| Perché compio 25 anni; bella ragione. Comprendo l’assurdità di tali inizii a data fissa, ma non so guarirmi dalla manìa». E Dante torna infine come proiezione figurata (le potenzialità drammaticamente non realizzate, nell’atto d’accusa di Beatrice) in un altro momento cruciale, il ritorno a casa, che coincide con la scoperta della morte del fratello Enrico, taciutagli dai familiari dal 23 aprile 1918, e la rivelazione della «tragica orribile vita»: «Così non si vive, non si può vivere. Non c’è nemmeno, a sostenermi, il ricordo di qualche gioia o fierezza passata, perché gioie non vi furono nella mia vita e le fierezze furono solo per meriti potenziali, non attuali, salvo qualche buona cosa in guerra, del resto misconosciuta e ignorata da tutti i patriottoni dell’ultima ora. – Per le prime posso pensare di me come Dante, ma senza speranza: questi fu tal nella sua vita nova, virtualmente, ch’ogni abito destro fatto averebbe in lui mirabil pruova. Ma tanto più maligno e più silvestro si fa il terren col mal seme e non côlto, quant’egli ha più del buon vigor terrestro. Per qualche buona azione in guerra, e infinita passione, e logorìo di trepidazione per il paese, e sacrificî fisici e morali non pochi, non so, ma mi par d’essere morto e sepolto e dimenticato e pensare come pensano i morti nella montagna: Addio, mia bella, addio!/ Se la Vittoria sarà nostra un dì, / diranno gl’imboscati: / “Abbiamo vinto a forza di morir.” / Gl’imboscati la sigaretta / E noi alpini la baionetta…. / E davvero adesso gl’imboscati fanno da eroi reduci, e gli eroi sono / morti: e io sono così atrocemente solo, perché il mio fratello più forte e / bravo ed intelligente di me, il solo che poteva assistermi un po’ nella vita, non è più con me.-».
Il libro
Dall’entusiasmo interventista per una guerra «necessaria e santa» alla disillusione davanti ad uno scontro durissimo. Il sottotenente Carlo Emilio Gadda, nel “Giornale di guerra e prigionia”, compie questo passaggio e annota la delusione e l’indignazione per ciò che vede intorno a sé. Riportando della meschinità della «vita pantanosa» di caserma, dell’incompetenza dei grandi generali, dell’indegnità morale dei vigliacchi, degli imboscati e dei profittatori. Ma anche di un montante e sofferto conflitto con sé stesso. Apparso per la prima volta nel 1955, il “Giornale” è stato da poco riproposto da Adelphi in una nuova edizione accresciuta a cura di Paola Italia – che firma questo contributo pubblicato su Left – arricchita da sei taccuini finora sconosciuti. Paola Italia sarà presente insieme con Giorgio Pinotti, alle presentazioni del libro il 9 febbraio (ore 18) a Milano a Casa Manzoni e il 24 febbraio a Firenze in occasione della seconda edizione di Testo, stazione Leopolda.
* In alto, Carlo Emilio Gadda assieme a due commilitoni durante la Grande guerra (Archivio Liberati)









