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Lo choc della guerra vissuto da Gadda

l Natale del 1917 è uno dei più feroci: per l’«atroce umiliazione», la solitudine, il gelo, la fame orrenda, la debolezza estrema che annienta ogni pensiero, la disperazione e l’abbrutimento che impongono alla mano di raccogliere nell’immondizia le «scorie della verdura» con cui integrare il «mezzo mestolo» di sbobba distribuito con il quinto di pagnotta nera, «impastata di segale e patate». Le note del Giornale registrano i crudi fatti e l’onda dei ricordi che sommerge il prigioniero, portando con sé immagini della famiglia, dei cari lontani, dell’antica abbondanza, ma anche della recente sconfitta: «Pensai oggi ai miei cari libri: lasciai in mano dei tedeschi le tre Laudi del D’Annunzio, le prose del Carducci (il testo mio durante il liceo, regalatomi da mia madre), i 2 Todhunter, i 2 Murani. – Così pure mi colsi a ridire versi Danteschi dell’Inferno, C. 33.° – ».

Sono le 22 del 25 dicembre 1917. Il Dante di Gadda è più di un «caro libro»: è una forma di conoscenza della realtà, il filtro attraverso il quale la tortura morale e fisica può diventare pronunciabile e venire risillabata nella parola poetica. Non a caso in un appunto dell’11 dicembre 1917 l’avverbio «dantescamente» è impiegato per rappresentare la violenza con cui riaffiora nella memoria il momento più lacerante: «Cerco di pensare il meno possibile al passato, ma esso torna implacabile, come un flutto, dantescamente. – (L’ordine di ritirata fu trasmesso dal Comando della 6.a Batt. (4.° Campagna) dal Maggiore Modotti (Gino), proveniente dal Comando Brigata Genova. Giunto a Cola alle ore 3 ant.ne del 25 ott.)».

Dante è una selva di immagini. Il 18 dicembre 1917 i prigionieri vengono trasferiti dal campo di raccolta alla fortezza di Rastatt, che diventa la dimora della prima prigionia: «Un camerone interno, coi soliti giacigli sovrapposti, freddo, umido, coi vetri rotti, (e la notte gela) pieno di paglia trita lasciata dagli ufficiali di passaggio», dove la luce «filtra da feritoie e da finestre interne a inferriata» e a cui si accede da «una scaletta circolare, come nelle vecchie torri, coi gradini scavati e consunti dall’uso». A Gadda pare «la prigione del Conte Ugolino, la classica prigione delle storie». Un’idea ancestrale ha preso forma, e viene sperimentata in corpore vili. Il Dante che riaffiora alla memoria è allora quello del «fiero pasto», capace di rappresentare l’irrappresentabile: «Il cibo è il solito, la fame orrenda. – Solite scene e litigi nella distribuzione, voci, proteste, confusione, ecc. – Io oggi ero di servizio: cioè dovevo e devo andar a prendere il vassello del cibo (recipiente simile a quello in cui si abbeverano i porci), coi soldati italiani addetti al nostro servizio. Nel gelo della mattina bisognò percorrere più volte (per il cibo, il carbone, ecc.) lo spazio che ci separa dalla cucina, cioè tutta la lunghezza della fortezza, cioè oltre 500 m. Il freddo preso è indicibile, per avere poco caffè; e a mezzogiorno un po’ di farina e di cavolacci cotti».

Ma Dante è per Gadda anche colui che è riuscito a tradurre la realtà in immagini dalla verità lampante, che si impongono con un’evidenza «spaventosa».

Il 21 dicembre 1917 è un’altra giornata rigidissima, di «vento freddo, cielo grigio, uniforme». I prigionieri, che il giorno prima avevano ricevuto solo «un mestolo di acqua con qualche pezzetto di rape lesse», decidono per protesta di non presentarsi al solito appello delle 10: «L’organismo tutto è denutrito, i muscoli vuoti, senza forza. Il polso è sceso a quarantacinque pulsazioni al minuto, nelle ore di maggior fame». Gadda compra per cinque marchi venti biscottini: «Li trangugiai un po’ a un’ora un po’ a un’altra senza neppure sentirli. – Divorai inoltre due panini che mi diede Cola; la mia fame è insaziabile, serpentesca, cannibalesca. Raccolgo da terra la buccia, la briciola; trangugio la resca di merluzzo. – Nell’abbrutimento però la mia patria e la mia famiglia sono però vive nel mio cuore. Il passato, la mia infanzia, tutte le più piccole e fuggitive immagini mi rivivono nell’anima con una intensità spaventosa, dantescamente». 

A partire dal 14 novembre 1918, con un gesto in apparenza banale ma in realtà fortemente simbolico, attuato proprio il giorno del suo venticinquesimo compleanno, Gadda inizia a scrivere per farsi leggere (anzitutto da Betti) e decide di separare fisicamente il piano della Storia da quello dell’Espressione, che vengono a occupare tre quaderni diversi: DP4 (14 novembre-16 dicembre), dedicato alla Vita notata. Storia; DP5 (14 novembre-26 dicembre), che accoglie il Pensiero notato. Espressione; e DP6, datato 16 dicembre e di nuovo consacrato alla Vita notata. Storia. Le due diverse anime che avevano innervato sino a quel momento le pagine del Giornale avranno, d’ora in poi, due diverse voci: quella testimoniale, del combattente che annota «vicende esteriori e materiali, ambiente, cause esterne, gli altri e l’esterno», e quella riflessiva, che scandaglia «percezioni, intuizioni, invenzioni, concetti, giudizi che non hanno una immediata conseguenza ne’ miei atti, che sono un lavoro, un’esteriorizzazione, un fardello…».

Significativamente, nello slancio verso un futuro che immagina letterario non meno che ingegneresco, Gadda pone questo nuovo inizio sotto il segno di Dante: «Domani dovrebbe essere, (e al solito non sarà,) l’inizio di una vita nova; perché| Perché compio 25 anni; bella ragione. Comprendo l’assurdità di tali inizii a data fissa, ma non so guarirmi dalla manìa». E Dante torna infine come proiezione figurata (le potenzialità drammaticamente non realizzate, nell’atto d’accusa di Beatrice) in un altro momento cruciale, il ritorno a casa, che coincide con la scoperta della morte del fratello Enrico, taciutagli dai familiari dal 23 aprile 1918, e la rivelazione della «tragica orribile vita»: «Così non si vive, non si può vivere. Non c’è nemmeno, a sostenermi, il ricordo di qualche gioia o fierezza passata, perché gioie non vi furono nella mia vita e le fierezze furono solo per meriti potenziali, non attuali, salvo qualche buona cosa in guerra, del resto misconosciuta e ignorata da tutti i patriottoni dell’ultima ora. – Per le prime posso pensare di me come Dante, ma senza speranza: questi fu tal nella sua vita nova, virtualmente, ch’ogni abito destro fatto averebbe in lui mirabil pruova. Ma tanto più maligno e più silvestro si fa il terren col mal seme e non côlto, quant’egli ha più del buon vigor terrestro. Per qualche buona azione in guerra, e infinita passione, e logorìo di trepidazione per il paese, e sacrificî fisici e morali non pochi, non so, ma mi par d’essere morto e sepolto e dimenticato e pensare come pensano i morti nella montagna: Addio, mia bella, addio!/ Se la Vittoria sarà nostra un dì, / diranno gl’imboscati: / “Abbiamo vinto a forza di morir.” / Gl’imboscati la sigaretta / E noi alpini la baionetta…. / E davvero adesso gl’imboscati fanno da eroi reduci, e gli eroi sono / morti: e io sono così atrocemente solo, perché il mio fratello più forte e / bravo ed intelligente di me, il solo che poteva assistermi un po’ nella vita, non è più con me.-».

 

Il libro
Dall’entusiasmo interventista per una guerra «necessaria e santa» alla disillusione davanti ad uno scontro durissimo. Il sottotenente Carlo Emilio Gadda, nel “Giornale di guerra e prigionia”, compie questo passaggio e annota la delusione e l’indignazione per ciò che vede intorno a sé. Riportando della meschinità della «vita pantanosa» di caserma, dell’incompetenza dei grandi generali, dell’indegnità morale dei vigliacchi, degli imboscati e dei profittatori. Ma anche di un montante e sofferto conflitto con sé stesso. Apparso per la prima volta nel 1955, il “Giornale” è stato da poco riproposto da Adelphi in una nuova edizione accresciuta a cura di Paola Italia – che firma questo contributo pubblicato su Left – arricchita da sei taccuini finora sconosciuti. Paola Italia sarà presente insieme con Giorgio Pinotti, alle presentazioni del libro il 9 febbraio (ore 18) a Milano a Casa Manzoni e il 24 febbraio a Firenze in occasione della seconda edizione di Testo, stazione Leopolda.

* In alto, Carlo Emilio Gadda assieme a due commilitoni durante la Grande guerra (Archivio Liberati)

La macchina da prosa di Joyce

Tra i tanti numeri cari a Joyce, il 101 è forse quello più significativo. A maggior ragione quest’anno. Il 2 febbraio 2023 corre infatti il centunesimo anniversario della pubblicazione di Ulysses (oltre al centoquarantunesimo compleanno dell’autore). Eppure, nel 1923, quando il «maledetto romanzaccione» (definizione italiana data da Joyce stesso) compiva soltanto un anno, il suo creatore stava già pensando ad altro. La sua mente era occupata da un progetto ancor più grandioso: prendeva piede l’idea di scrivere una sorta di storia del mondo, o anche dell’universo, attraverso il linguaggio del sogno.

Il progetto ebbe tanti nomi, tra cui uno che pochi citano: “Proteo”. Lo citano in pochi perché è lo stesso nome che Joyce diede a un episodio dell’Ulisse, il terzo, tra tutti il più introspettivo. Sappiamo infatti che, quando Joyce a Parigi vide spesso Svevo (la cui Coscienza di Zeno compie, tra l’altro, anch’essa cent’anni di questi tempi), gli illustrò la sua nuova fatica chiamandola proprio così: “Proteo”. Sarebbe stata nota ai più, per molti anni, come Work in progress, prima di divenire, nel 1939, il Finnegans wake.

Chi era Proteo? Una divinità marina minore dalle capacità profetiche, in grado di cambiare spesso forma e di sfuggire così, quasi sempre, alla cattura. Per Joyce “Proteo” era la “prima materia”. Non la materia prima, ma quella primordiale, originale, originaria. Il linguaggio. Quel linguaggio che, proprio in maniera proteiforme, sfugge alla cattura perché è in grado di cambiare aspetto di continuo. È quel che avviene sia nel “Proteo” dell’Ulisse sia in quel “Proteo” definitivo e infinito che è il Finnegans wake. È quest’ultimo un libro in cui “ognuno è qualcun altro”, come è stato detto, e in cui persino il Bardo inglese, il Cigno dell’Avon, Shakespeare, diviene “Shapesphere”, ossia un modellatore di sfere e globi (shape + sphere), ma anche, all’orecchio, uno scuotitore di paura (shakes + fear). Torniamo però al numero centouno. Perché è così importante? Proprio nel Proteo>Work-in-progress>Finnegans wake abbiamo dieci parole-tuono, vale a dire lemmi che riproducono del tuono il fragore ancestrale. Nove di loro contano 100 lettere, l’ultima 101. In totale: dieci tuoni riprodotti in mille e una lettera. Ammiccamento alle Mille e una notte, le “notti d’Arabia”, che è poi il testo ponte, o forse la testa di ponte, tra Ulisse e Finnegans wake.

È proprio su questo momento di passaggio, su questa metamorfosi e transustanziazione, che si incentra uno dei libri italiani più importanti, forse il più importante, mai scritto sull’autore irlandese: L’uomo con la macchina da prosa, di Gabriele Frasca (Luca Sossella editore). Opera epifanica, continuum di rivelazioni, e continuo ri-velare, il libro di Frasca è senza dubbio tra i migliori portali di accesso ai misteri di cui Joyce ha disseminato le sue opere, soprattutto quelle maggiori. Misteri che hanno a che fare con il difficilissimo equilibrismo tra arte e vita, quasi l’una fosse la distillazione, o il distillato, dell’altra.

Joyce è uno dei pochissimi autori che prendono assai sul serio questa relazione biunivoca. Perché l’arte non deve dire la vita, deve esserlo. La poesia deve consistere di quel che siamo. Joyce lo sapeva bene, e apprendere a conoscerne l’arte significa anche, in qualche maniera, accedere ai labirinti esistenziali dell’uomo. Non un’arte ancillare, dunque, non un abbellimento, ma una struttura profonda, da rinvenire, riscoprire, recuperare, e far risorgere.

Frasca ci conduce con grande acume proprio attraverso questo rito di passaggio tra arte e vita, e poi tra opera del giorno (Ulisse) e opera della notte (Finnegans wake), e lo fa usando molteplici filtri. Oltre alle teorie massmediologiche di McLuhan e alle prospettive analitiche, il più evidente è il filtro costituito dal parallelo con Dziga Vertov e la sua macchina da presa: un’estensione dell’occhio che è in grado di rivelare assai di più, di cogliere più dettagli, di tramutarsi in un prolungamento, un raffinamento delle capacità percettive dell’essere umano. E Joyce, che con il senso visivo e i relativi organi si trovò sempre ai ferri corti (subì più di dieci operazioni agli occhi negli anni Venti – quasi tutte solo parzialmente riuscite), sostituì alla macchina da presa, come dice Frasca, una macchina da prosa: anch’essa in grado di cogliere di più, di farci vedere più cose, di essere al contempo microscopio e telescopio.

Sembrerà un gioco di parole, questo della macchina da presa/prosa, ma come tutti i veri giochi di parole è un gioco serissimo. Ricorda la traduzione dello Whoroscope di Beckett che, sempre nella traduzione di Frasca, divenne genialmente Oroscopata. E così, una macchina da prosa che consente una visione ravvicinatissima e anche una d’insieme, è al contempo una rivoluzione letteraria e scientifica. Ricorda il tentativo dei fisici contemporanei di riconciliare la relatività einsteiniana e la meccanica quantistica attraverso le ricerche sulla “gravità quantistica”.

E non a caso, concetti di quantistica sono tra gli scheletri occulti del libro di Frasca: «Le leggi linguistiche che presiedono al Finnegans wake si accordano come poche al concetto di probabilità quantistica con cui Max Born, giusto negli anni di stesura dell’opera, interpretò la meccanica ondulatoria proposta da Schrödinger con la sua famosa equazione». Sì, perché il Finnegans, ma anche in certa misura Ulysses, invitano a una lettura di questo tipo, sfuggente, interattiva, interazionale. In Joyce la parola diviene cosa, si incarna nella materia: l’atomo diviene etimo, e «la cosa un tempo detta “in sé”», spiega il critico e poeta, è «divenuta alla prova della meccanica quantistica un mondo alternativo, probabilistico, sovrappositivo».

La nuova testualità joyciana in ciò si pone come una rivoluzione mancata, perché pochi dopo di lui hanno osato tanto. Qualche poeta qua e là, qualche drammaturgo, quasi nessun romanziere. Quel Joyce per cui Einstein diveniva, nel Wake, “winestain” (una “macchia di vino”), e che era stato in grado di fondere i due personaggi di un libro che amava (Senilità di Svevo) Emilio ed Amalia, creando un “Emailia” in grado persino di profetizzare l’avvento della posta elettronica, è stato per certi versi una voce nel deserto. Eppure, grazie a quelle che chiamerei “onde interpretazionali” – al pari di quelle gravitazionali intuite da Einstein e verificate solo tanti decenni dopo – viene pian piano percepito e inizia a lasciare il segno, grazie anche a contributi come quello di Frasca, in grado di abbattere steccati manichei tra le discipline.

Tutti i critici joyciani almeno una volta nella vita avranno citato la fortunatissima espressione con cui si apre la monumentale biografia di Joyce scritta da Richard Ellmann, e allora lo faccio anche io: «Dobbiamo ancora imparare a divenire contemporanei di James Jocye». Quello che pochi, invece, citano, è il seguito di quella frase, ancor più importante, a mio avviso: to understand our interpreter, «a comprendere il nostro interprete». In breve, dobbiamo ancora imparare a capire chi ci ha interpretato. Questo scriveva tanti decenni fa il grande biografo, ed è ancor più vero oggi.

Come è vero che stiamo lentamente imparando a capire i modi in cui la lezione della relatività non deve solo rimanere confinata alla fisica del cosmo, ma può esser tradotta nelle nostre vite di tutti i giorni, nel nostro rapportarci al mondo e agli altri. Così la sensibilità artistica di Joyce, che quantisticamente ci invita a salti continui e imprevisti tra le orbite attorno a cui gravitiamo, sta lentamente, anche al di fuori del circuito degli specialisti, iniziando a mandare i suoi messaggi. Messaggi capaci di perforare gli spazi oscuri che ci circondano e, come disse il Bardo Shakespeare nel suo Cimbelino, di parlarci “in silenzio”.


* L’autore: Enrico Terrinoni è ordinario di Letteratura inglese all’Università per stranieri di Perugia  e traduttore, tra gli altri testi, di “Ulisse”, “Finnegans wake” e altre opere di Joyce. Nel 2021 ha curato e tradotto per Bompiani una edizione dell’”Ulisse” in edizione bilingue. Nel 2022 per Feltrinelli ha pubblicato “Su tutti i vivi e i morti. Joyce a Roma”

La solitudine dei profughi ragazzini

Sono adolescenti, soli, alle prese talvolta con problemi psicologici e fisici, spesso con un passato di violenze subite, dopo aver vissuto anni di povertà e guerre. Si ritrovano in una realtà sconosciuta, estranea per cultura e regole sociali e rischiano di finire in reti criminali. Eppure hanno avuto il coraggio di fuggire dai loro Paesi e arrivare in Italia. Hanno, in modo più o meno consapevole, l’idea di un futuro, hanno immaginato una vita migliore, un cambiamento. I minori stranieri non accompagnati, definiti dal linguaggio ministeriale con la sigla Msna, rappresentano un mondo di umanità segnato da paura e speranza attorno al quale si muove un altro mondo, quello che dovrebbe dare loro risposte e aiuto. Un mondo, quest’ultimo, rappresentato dalle istituzioni – lo Stato, i Comuni – e da una rete di organizzazioni, associazioni e volontari che dal basso cercano di trovare delle soluzioni. Un mondo che arranca tra difficoltà burocratiche, mancanza di risorse e un clima politico troppo spesso ostile nei confronti degli immigrati.

Partiamo dai numeri. Nel 2022, secondo il report del ministero del Lavoro e delle politiche sociali aggiornato al 30 novembre, i minori stranieri presenti in Italia erano 20.023, con un aumento del 79,5% rispetto allo stesso periodo del 2021. Una crescita vertiginosa, a cui hanno contribuito anche gli ingressi dei minori ucraini dopo l’invasione della Russia – 5.073, il 25,5% – ma che risente anche del progressivo aumento degli arrivi dopo l’allentamento della pandemia. I Paesi da cui proviene la maggior parte di loro sono Egitto, Tunisia, Albania, ma anche Pakistan e Afghanistan, quest’ultimo soprattutto dopo l’arrivo al potere dei talebani nell’agosto del 2021.

L’Italia, con la legge 47/2017 (legge Zampa) tra le più avanzate in Europa, va detto, riconosce al minore straniero uno status per il quale non può essere respinto alla frontiera e stabilisce meccanismi e tutele di protezione per favorirne l’inclusione, in primis il diritto all’istruzione e alla salute. Un sistema di accoglienza che però adesso vacilla.

I sindaci sono in prima linea e sono decisamente in affanno. Lo spiega bene Matteo Biffoni, sindaco di Prato e delegato Anci per l’immigrazione dal 2015 che a dicembre ha incontrato il ministro dell’Interno Piantedosi con richieste dettagliate. «Noi facciamo la nostra parte, facciamo supplenza allo Stato, ma ora i numeri dei minori stranieri non accompagnati sono assolutamente fuori portata, l’accoglienza non è più sostenibile, oggettivamente siamo sotto scacco». Biffoni fa degli esempi: il Comune di Cremona che manda i minori in strutture del Friuli perché non ce la fa a gestire tutti gli arrivi, Bergamo che addirittura ha inviato una lettera di diffida al Ministero «perché ha quasi cinque milioni di spese improprie che sta sostenendo e che nessuno restituisce».

Nel documento dell’Anci «c’è scritta l’emergenza delle emergenze: la necessità di un hub di primissima accoglienza gestito dallo Stato, specifico per i minori, dove si possono risolvere problemi urgenti». Come quello accaduto di recente a Prato. «Due ragazzini egiziani – racconta il sindaco – alle 5 di mattina hanno suonato alla porta del comando della polizia municipale. A quell’ora bisogna mettere in moto un meccanismo per la loro tutela, hanno bisogno di un supporto psicologico, di uno screening sanitario, di una mediazione culturale, linguistica. Che faccio? Li porto in albergo?». Ecco allora la richiesta di un ampliamento della rete Sai (Sistema accoglienza e integrazione) e di una struttura di primissima accoglienza, «con operatori formati, dove i minori stanno una ventina di giorni per tutti i passaggi necessari, dopo di che vengono mandati a destinazione con un progetto che è in grado di rispondere alle loro necessità». E Piantedosi? «Ha preso degli impegni, diamogli il tempo tecnico, siamo in una situazione di vigile attesa», dice il sindaco. Nel documento Anci si sottolineava anche la scadenza a dicembre 2022 di 4mila posti della rete Sai: fino a marzo ci sono, afferma Biffoni, perché connessi all’emergenza per i profughi ucraini, che è stata prorogata. E dopo?

Per i minori stranieri non accompagnati c’è una figura chiave introdotta dalla legge Zampa: il tutore volontario. Cioè cittadini, come si legge nel sito dell’Autorità garante per l’infanzia e adolescenza (Agia), «disponibili a esercitare la rappresentanza legale di un minorenne straniero arrivato in Italia senza adulti di riferimento». Il tutore garantisce l’accesso al diritto all’istruzione, alla salute, vigila sulle condizioni di accoglienza, segue i percorsi per l’integrazione. Compiti che richiedono impegno e una formazione specifica che i Garanti di ogni regione assicurano con corsi tenuti da psicologi, avvocati, giuristi.

Cecilia vive a Roma e, dice, ha svolto il corso di formazione promosso dal Garante Agia del Lazio, e di iscriversi all’elenco dei tutori presso il Tribunale per i minorenni come «ribellione al clima instaurato dai decreti Salvini e per mettere a disposizione il senso di umanità che tutti abbiamo». Le è stato assegnato un quasi diciassettenne, partito dal suo Paese quando di anni ne aveva 16. «Ci ha messo dodici mesi per arrivare in Italia. I suoi genitori, pur poverissimi, sono riusciti a pagargli il viaggio fino a Istanbul, poi ha proseguito in macchina e a piedi, tra i boschi di Grecia e Albania, con l’incubo dei trafficanti e delle guardie di frontiera. Quando è sbarcato a Brindisi era in condizioni fisiche malandate. In un anno è rifiorito», dice. Un tempo scandito da esami medici, colloqui con i responsabili della casa famiglia e con i professori della scuola di alfabetizzazione per il diploma di terza media, ma anche visite al museo, cene al kebab. «Vuole andare sulla neve, non l’ha mai vista», racconta Cecilia. Il rapporto con il ragazzo è andato avanti, sempre all’insegna del confronto, anche e soprattutto a livello culturale, con una dialettica continua. Tre mesi prima del compimento dei 18 anni, la tutrice e i responsabili della casa famiglia hanno ottenuto per il ragazzo il proseguimento della protezione per “attesa occupazione”. Cecilia comunque continua ad essere per lui una persona di riferimento.

I tutori volontari, purtroppo, «sono pochi, anzi pochissimi rispetto al numero dei minori stranieri», afferma Carla Garlatti, Garante per l’infanzia e adolescenza. Nel 2021 erano 3.457 e poiché è consentito loro di seguire fino a tre minori, il numero complessivo degli abbinamenti è stato di 5.737. Come si vede, nemmeno la metà dei giovanissimi stranieri che a dicembre 2021 erano 12.284. «Dal nostro monitoraggio la stragrande maggioranza dei tutori ha un titolo di studio universitario ed è occupata. Pensavo che questa nuova figura avrebbe avuto successo tra i pensionati e invece si tratta di persone che già lavorano e l’ultima rilevazione ha visto la presenza di tutori tra i 18 e i 24 anni, e questo penso che sia un bel segnale». Tuttavia, se in prevalenza i tutori sono presenti nelle circoscrizioni dei Tribunali per i minorenni di Roma, Venezia, Milano, Torino e Palermo e se stanno nascendo adesso spontaneamente associazioni di tutori, la situazione è a macchia di leopardo. E ci sono stati ritardi notevoli per i decreti attuativi della legge Zampa: nel 2019 il Parlamento aveva stanziato un milione di euro l’anno per i rimborsi a sostegno dell’attività dei tutori ma solo a settembre 2022 questi fondi sono stati sbloccati con un decreto firmato ad agosto dai ministri Lamorgese e Franco.

«Una cosa che i tutori lamentano – continua Garlatti – è di non avere supporti adeguati per fronteggiare le problematiche con i servizi sociali o con coloro che gestiscono le strutture di accoglienza. Come Autorità garante con il progetto Fami (Fondo asilo migrazione e integrazione) avevamo istituito presso il Tribunale per i minorenni uno sportello con avvocati e altri esperti che potessero dare effettivamente un sostegno concreto ai tutori volontari. Spero di poterlo riattivare non appena verranno distribuiti i fondi». E l’accoglienza in famiglia? L’affido familiare riguarda la stragrande maggioranza dei minori ucraini, circa l’84,6%; un dato che si spiega per la presenza in Italia di una comunità ucraina disposta ad ospitare i giovanissimi profughi che hanno comunque intenzione di tornare a casa. «Per gli altri, eravamo al 3%, siamo all’1%», dice Garlatti sottolineando la disparità. «Quando c’è stato l’arrivo dei minori ucraini si è verificato un movimento generale di accoglienza, cosa che purtroppo non ho mai visto nei confronti dei minori provenienti dal Pakistan o dal Bangladesh. La guerra in Ucraina è terribile ma ci sono 59 guerre nel mondo e tanti di questi ragazzi scappano da situazioni di conflitti».

Eppure l’accoglienza in famiglia potrebbe essere un modo giusto per favorire la conoscenza reciproca, per dare concretezza a quella parola “cittadinanza” tanto sbandierata ma allo stesso tempo mai affrontata in maniera organica dalla politica, che troppo spesso sull’immigrazione e le falsità sull’“invasione” ha costruito la sua propaganda. Di accoglienza in famiglia si parla anche nel documento dell’Anci presentato al ministro Piantedosi. E a Padova, lo scorso novembre, è stato siglato il memorandum delle “Città accoglienti”, venti capoluoghi piccoli e grandi – Roma, Milano, Bologna, Napoli, Aosta riunite nel progetto, finanziato da fondi europei, “Embracin” di cui Padova è capofila. All’iniziativa era presente anche Matteo Biffoni che ha firmato il protocollo d’intesa per l’Anci: i Comuni lanciano una proposta al ministero perché l’accoglienza in famiglia venga considerata come una politica strutturale dell’accoglienza e, come tale, «ulteriormente valorizzata anche nel sistema Sai».

C’è bisogno di campagne di sensibilizzazione nei territori perché, dice Garlatti, «questi sono ragazzi che hanno tanto bisogno». Racconta: «Nei centri Sai dove mi sono recata chiedevo loro quale sentimento avessero provato quando sono arrivati in Italia. “La paura”, è stata la risposta più frequente. Per alcuni, paura di essere rimandati in Libia, per altri un senso di paura in generale e poi tanta paura per il futuro, di non riuscire a farcela, non riuscire a mandare soldi a casa, non riuscire a inserirsi. E poi c’è la solitudine, perché fanno fatica a legare con altri coetanei e la nostalgia di casa e il desiderio di imparare un lavoro…». Il lavoro, appunto, e una prospettiva di vita in Italia.

La legge 47/2017 aveva previsto la possibilità di supportare un neo maggiorenne anche fino all’età di 21 anni e il 13 dicembre finalmente è stato pubblicato in Gazzetta ufficiale il decreto n.191 che ha portato delle modifiche sui permessi di soggiorno e sulla protezione dei minori stranieri non accompagnati adeguandole alla legge Zampa, proprio per favorire l’inserimento sociale e lavorativo. Molti tutori volontari continuano, come Cecilia, ad affiancare i ragazzi, anche oltre il periodo di tutela della legge 47. Ma spesso hanno bisogno di acquisire nuove competenze. E in questa direzione è partita una sperimentazione dal basso. Quella dei tutori sociali, figure nuove, non normate, la cui formazione rientra nell’iniziativa Never Alone promossa da un progetto europeo di fondazioni.

Laura Cucinelli, presidente di CivicoZero, la onlus che dal 2009 lavora a Roma con Save the children a sostegno dei minori stranieri non accompagnati e che gestisce un centro diurno, spiega: «I tutori sociali o tutori per l’integrazione sono piccole sperimentazioni che vanno avanti a livello territoriale. Il progetto Never Alone ha provato a dare più una visione nazionale di coerenza e di continuità partendo da una sperimentazione su tre regioni, la Sicilia, il Friuli Venezia Giulia e la Toscana. Noi come Lazio abbiamo iniziato a luglio scorso insieme alla Lombardia e alla Puglia». Non solo. C’è un altro progetto, Near (Network for empowerment, autonomy and resilience) finanziato da Con i bambini, che è partito nel gennaio 2022. «Il progetto Near continua Cucinelli – è focalizzato sulla costruzione di percorsi di autonomia. Con quello ci immaginiamo nell’arco di tre anni di supportare i ragazzi su tre territori, Lazio, Emilia Romagna e Puglia ad inserirsi nel mondo del lavoro, a costruire un percorso che sia duraturo, perché questo è il problema». «Per me sistema di accoglienza – conclude la presidente di CivicoZero – è tutto questo, non l’assistenzialismo»

Il pm Francesco Menditto: Riscrivere la riforma Cartabia per salvare le donne

La riforma della giustizia firmata dalla ex ministra Cartabia, entrata in vigore con l’inizio dell’anno, potrebbe avere importanti conseguenze negative nell’ambito dei reati tipici della violenza di genere. Pensata con il proposito di alleggerire una macchina della giustizia ingolfata, potrebbe però esporre a maggiori rischi le vittime di questo tipo di crimini e depotenziare gli strumenti nelle mani delle autorità per accertarli e intervenire. Si tratta di un tema delicato, che riguarda, insieme alle donne, i bambini, gli uomini, i rapporti umani. Ne parliamo con Francesco Menditto, procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Tivoli (Roma Est), già membro del Csm. Menditto è autore insieme a Paola Di Nicola Travaglini del libro Codice rosso. Il contrasto alla violenza di genere: dalle fonti sovranazionali agli strumenti applicativi (Giuffrè, 2020), e di monografie sulla mafia. Ha attuato, primo in Italia, delle pratiche profondamente innovative volte a colmare la distanza tra le cause civili di separazione di nuclei familiari segnati da storie di violenza domestica e i relativi procedimenti penali che, non solo per via delle lentezze del sistema penale, quasi mai vengono tenuti in considerazione in ambito civile, con gravi conseguenze soprattutto per i figli minori coinvolti.

Dottor Menditto, i media riportano accese critiche alla riforma da parte di ampi settori della magistratura che chiedono modifiche sostanziali, con la relativa eco di polemiche politiche dagli accenti a volte “forcaioli”. La riforma è accusata di deflazionare il sistema giudiziario al prezzo dell’impunità per gli autori di reati anche gravi, perfino reati di mafia. Quali criticità intravede per quanto riguarda l’ambito della violenza di genere?
Per andare per capitoli, direi che il primo problema è quello della perseguibilità a querela, fra altri reati, delle lesioni da 21 a 40 giorni di prognosi, che prima erano perseguibili d’ufficio: è come cancellare dal catalogo dei reati di mafia uno dei principali reati “spia”, quei reati che, se perseguibili d’ufficio, permettono al magistrato che riceve il fascicolo di approfondire per scoprire se ci sono reati sottostanti anche in mancanza di querela della persona offesa. Lei sa che in questo settore la denuncia da parte della vittima è molto complicata, una donna su dieci denuncia, ma se il pubblico ministero attraverso la polizia giudiziaria riceve la notizia di reato può, sentendo la persona offesa, i vicini di casa, i parenti, individuare il reato di maltrattamenti. Voi medici in Pronto soccorso spesso di fronte a una donna con una lesione che ha una prognosi di 20 giorni circa, ne certificate 21 nel referto-denuncia, se avete più che un sospetto che si tratti di violenza domestica. Ora ci sfuggirà la gran parte delle lesioni, insieme ad altri reati “spia” meno ricorrenti come la violazione di domicilio, il sequestro di persona, le minacce gravi, la violenza privata, prima perseguibili d’ufficio e adesso a querela, secondo la riforma Cartabia. Il governo vuole cambiare la riforma sui reati di mafia divenuti a querela, occorre farlo anche per la violenza di genere.

Lei parla di mafia dottor Menditto…
Sì, io faccio spesso quest’assimilazione, perché la tipologia dei reati di violenza di genere ha molti aspetti comuni con i reati di mafia, di cui mi sono occupato a lungo. In entrambi i casi si tratta di fenomeni, criminale l’uno, criminale-culturale l’altro, non di reati isolati, quindi si richiede una preparazione, perché se non conosci la mafia non la puoi combattere, e una specializzazione: abbiamo cominciato a contrastare veramente la mafia col famoso pool antimafia di Palermo di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e dal ’91 con l’istituzione delle Procure nazionali e delle Direzioni distrettuali antimafia, e formazione e specializzazione sono necessarie anche nel campo della violenza di genere.

Ci sono, in effetti, marcate affinità tra i due fenomeni, violenza di genere e mafia…
Già, ad esempio la capacità di intimidazione dell’autore di reato, la soggezione che questa produce nella vittima, e l’omertà. Omertà e soggezione sono caratteristiche del 416 bis, il reato di mafia, e sono comuni alla violenza di genere, per la quale manca però una norma che la individui come fattispecie di reato: il reato di violenza domestica, richiesto dalla convenzione di Istanbul, è stato introdotto in molti Paesi, ma non in Italia, dove si è adattato il reato di maltrattamenti che era nato per altro, così tecnicamente manca uno strumento efficace per i magistrati. C’è un altro elemento, che riguarda l’autore di reato, altamente recidivo anche dopo le carcerazioni sia nella mafia che nella violenza di genere, dove la recidiva raggiunge l’85 per cento. Esattamente come per il reato di mafia, l’autore dovrebbe essere seguito anche dopo la scarcerazione per prevenire la recidiva e tutelare la vittima.

Questo tema ci porta al capitolo della giustizia riparativa, introdotta dalla riforma Cartabia, come sistema non alternativo, ma parallelo a quello penale punitivo.
Esatto. La giustizia riparativa è stata introdotta senza distinzione per tutte le tipologie di reato, mentre nel settore della violenza di genere, di nuovo in modo simile all’ambito della mafia, pone seri problemi: basti pensare che il soggetto “vulnerabile” che viene invitato dal giudice ad aderire al programma riparativo, non potendo esprimersi liberamente potrebbe facilmente dare un consenso non libero. Bisogna prevedere percorsi specifici di giustizia riparativa per questi fenomeni. Del resto la Direttiva vittime dell’Unione europea, da cui nasce la giustizia riparativa, su questo punto è molto chiara.

Peraltro anche l’adesione dell’autore di reato rischia di essere in un certo senso non libera, meglio non sincera, visto che il programma prevede diversi benefici: allora bisogna che il percorso riparativo venga seguito da professionisti specializzati, che sappiano trasformare in vera motivazione al cambiamento questa adesione con secondi fini. Invece non è affatto chiaro per ora come si attueranno questi programmi, che tipo di professionalità e di formazione sia richiesta. La riforma parla genericamente di “mediatori”: ma la mediazione nell’ambito della violenza di genere non è esclusa dalla Convenzione di Istanbul?
Semplificando, io direi che la normativa sulla giustizia riparativa va modificata tenendo presente il dettato della Convenzione di Istanbul sul divieto di mediazione e sulla particolare tutela delle donne vittime di questo reato prevista anche dalla Direttiva vittime del 2022, quindi se si riesce a costruire una giustizia riparativa conforme a questi principi e attenta alle caratteristiche di questo particolare autore di reato sarete voi operatori a tentare, ma bisogna intervenire per creare percorsi che abbiano presupposti e modalità specifiche. L’equiparazione a tutti gli altri reati va assolutamente evitata, bisogna lavorare in questo settore altrimenti rischiamo un grave vulnus in questa materia. Abbiamo tempo fino al 30 giugno 2023, quando questa parte della riforma entrerà in vigore.

Ci sono altri capitoli da prendere in esame?
Sì. Il concordato in appello, una forma di patteggiamento prima esclusa in secondo grado per i reati di violenza sessuale. Vanno assolutamente reinserite le limitazioni previste prima della riforma. Poi c’è una questione che riguarda l’attuazione concreta, non la normativa, in questo caso il legislatore avrebbe difficilmente potuto distinguere tra diversi reati: sono preoccupato per l’ampliamento della formula delle archiviazioni. In sostanza oggi il Pm dovrà richiedere l’archiviazione quando non c’è ragionevole probabilità di condanna; senza accesso al dibattimento lungo il quale spesso si raccolgono ulteriori prove, e in una materia come questa in cui abbiamo un fenomeno in cui c’è il ciclo della violenza, con le ritrattazioni e il ridimensionamento, lo spessore probatorio si assottiglia e si rischia l’archiviazione dell’80% dei procedimenti. Noi operatori del diritto dovremo essere molto attenti, è un problema di preparazione e specializzazione, ma va detto subito perché pubblici ministeri e giudici abbiano presente la questione, visto che già oggi viene archiviato il 50% dei procedimenti.                               

 

* L’autrice: Barbara Pelletti, psichiatra e psicoterapeuta, è presidente dell’associazione “Cassandra”, impegnata nella difesa delle vittime di violenza e stalking

In foto, il procuratore Francesco Menditto, immagine tratta da Hinterlandweb.it, licenza Creative commons

Maria Grazia Calandrone: Una figlia, due madri e una rinascita

«Esistono addirittura poeti viventi», io ne ho conosciuta una, Maria Grazia Calandrone.  Durante l’intervista, ho superato la soggezione pensando che abbiamo entrambe confidenza, per vie diverse, con la «materia oscura dei mondi invisibili». Per introdurla però le ho rubato le parole, parole che lei ha dedicato ad altri poeti: Bianca Maria Frabotta (“All’amica scomparsa”, Il Corriere della Sera, 10 giugno 2022), e Alda Merini (Una creatura fatta per la gioia, Solferino 2021). Non è difficile parlare dei poeti, sono esseri umani, tanto umani che vivono di tutto quello che è per l’appunto specificamente umano, essendo la poesia un perfetto connubio di arte e linguaggio. È difficile scrivere di loro, perché improvvisamente al loro cospetto il nostro linguaggio diventa povero, e sale il timore di offendere la loro identità.

La storia di Maria Grazia è una storia pubblica dai primissimi tempi della sua vita, ben prima che diventasse una delle maggiori poetesse italiane contemporanee: finì sui giornali la bambina di otto mesi abbandonata dalla madre, poco prima di suicidarsi, dietro ai propilei dell’ingresso di Villa Borghese in piazzale Flaminio. Ma oggi, con la scrittura di Splendi come vita (Ponte alle Grazie, 2021) e Dove non mi hai portata (Einaudi, 2022), ha pienamente rivelato il suo carattere di vicenda politica, perché nel racconto – poetico, sia chiaro – che ne fa Calandrone, emergono le ragioni più profonde della storia e le responsabilità personali e collettive.

Ecco perché la prima cosa che le chiedo, quando ci incontriamo in un piovoso pomeriggio, è se si riconosce nelle parole di Annie Ernaux, che ha dichiarato nel suo discorso di accettazione del Nobel di aver deciso di scrivere a vent’anni «per vendicare la sua razza», la stirpe di contadini senza terra umiliati e offesi dalla quale viene. «Certo che mi riconosco nelle parole di Ernaux, si percepisce chiaramente se un autore sta scrivendo per sfogare i propri sentimenti o per parlare a nome di una “razza” come dice Ernaux, di un Noi, e quando è più ambizioso, quindi ambizioso quanto lo è un poeta, a nome di tutta l’umanità». Insisto, mostrandole i versi che ha scritto in esergo alla sua raccolta di poesie Giardino della gioia (Mondadori, 2019): «Siccome nasce come poesia d’amore, questa poesia è politica». «È esattamente il discorso che stiamo facendo – risponde -. Ma lei hai letto anche Splendi come vita?».

Sì, appena uscito, edito da Ponte alle Grazie era candidato al premio Strega che secondo me meritava tutto. L’ho letto per un’amica che stava adottando una bambina, e per i tanti “figli adottivi” (ecco la razza!) che ho incontrato negli anni facendo il mio lavoro di psicoterapeuta, e ho trovato le conferme che cercavo.

Ma in questo nuovo libro, Dove non mi hai portata (Einaudi) compare in tutta la sua chiarezza liberatoria una verità universale: «Così pensando, abbiamo rovesciato il tavolo dell’abbandono, trasformando la feroce rinuncia in gesto d’amore. Questo valga per i molti compagni dell’Ippai di Milano, dell’Ipai di Roma (brefotrofi per i quali Maria Grazia è transitata, ndr) e per tutti i neonati lasciati soli. Questo passaggio è chiaro, è emotivamente comprensibile». E poi: «Il suicidio è un eccesso di abbandono, è il superfluo, il ricamo di sangue sul male». Anche questo tavolo poi viene rovesciato, e affiora e prende corpo una idea, per così dire, di “suicidio etico”.

«Quello di Lucia (la madre biologica della poetessa, ndr) è stato un ultimo unico possibile gesto di autodeterminazione: non mi volete far vivere in nessun modo, così no! Un gesto di dignità. Tutto “l’evento”, per tornare a Ernaux, è stato studiato nei minimi particolari da Lucia e Giuseppe (il padre, ndr). Lucia indossava il costume sotto al suo vestito più bello, voleva mantenere una sua compostezza quando sarebbe stata ritrovata morta, e questo scagiona Giuseppe dal sospetto di omicidio che alcuni giornali agitarono, non essendo stato identificato il suo cadavere. E non è casuale la decisione di lasciarmi in un posto preciso, non lontano dal punto del Tevere in cui immagino Lucia si sia lasciata scivolare, si sia quasi sciolta in acqua, ma insolito: perché non davanti a un brefotrofio o sul sagrato di una Chiesa? La ragione di questa stranezza l’ha capita in un attimo mia figlia Anna, di 13 anni: “Perché volevano fare scalpore, è chiaro”, mi ha detto con semplicità quel pomeriggio in cui da via del Corso le proposi di andare proprio lì, dove ero stata lasciata. Anna è stata fondamentale, è venuta con me anche a Palata, il paese di Lucia. Arturo, il mio figlio più grande in quel momento era in vacanza con la fidanzata, e poi forse questa è una cosa da donne. Se non ci fosse stata Anna con me, non so se avrei trovato la forza di fare tutto questo grande viaggio. Lei si è portata la sua musica, le piace viaggiare in macchina: siamo andate a Termoli a una bellissima presentazione di Splendi come vita, abbiamo fatto bagni in diversi mari, e poi a Palata si è appassionata a questa storia. Di una passione fredda, come la mia, che nasce dalla rabbia, contro la società non contro mia madre, ma diventa lucida e precisa analisi dei fatti».

La freddezza veramente svanisce nella scrittura, ed è un’immagine bellissima questa di te e Anna che ve ne andate in giro a cercare… Dunque volevano fare scalpore, e hanno scritto una lettera all’Unità, in cui telegraficamente raccontano tutta la storia (non tutta la verità). O meglio, Giuseppe scrive di suo pugno quello che Lucia vuole dire in prima persona. Che non aveva scelta: «Trovandomi in condizioni disperate…».

«Sì, mia madre devota della madonna di santa Giusta, sceglie di scrivere a un giornale comunista, e con ciò prepara la mia vita futura, che poi è andata esattamente così. Forse era delusa dalla religione, chissà, forse pensava che la sinistra avrebbe potuto capire la loro condizione di operai senza lavoro, e la sua di donna braccata perché adultera e madre di una figlia illegittima, in fuga da un matrimonio combinato e più che mai infelice, con un marito che la considerava solo una serva, non la sfiorava neanche, la ignorava».

Io penso a Lucia come a una vittima di femminicidio. «Sì, l’ho detto al TG3 Linea notte (Rai 3, 7 dicembre 2022 ndr): un femminicidio morale. È stata spinta al suicidio». È lei stessa a denunciarlo, una ragazza cresciuta in uno sperduto paese del Molise che non aveva neanche studiato, negli anni Sessanta… viene fuori quasi l’immagine di un’eroina.

«Io ho raccontato i fatti, e i fatti esistono. I fatti emotivi non li posso conoscere con certezza, ma se un po’ le somiglio e immagino me stessa in quella situazione, in un matrimonio non voluto, in una vita che non voglio, potrei impazzire: meglio la morte, non scherzo. Il giudizio degli articoli dell’epoca fu terribile: “Maria Grazia non sa che la mamma si è uccisa per lei”: trovo che sia gravissimo scrivere cose di questo genere. Il nodo è tutto lì, nelle motivazioni».

Tutto il libro, già dalla splendida sintesi poetica del titolo Dove non mi hai portata, dice che quel giudizio è falso. In Splendi come vita ancora dai giornali la madre “elettiva” (ecco come la poesia fa sparire la razza!) sa di una ragazza che si è tolta la vita per aver scoperto a diciott’anni di essere stata adottata (un altro suicidio, «che corto circuito nella mente di Madre!»), e decide, «d’amore ansioso», per la rivelazione: «Io non sono la tua Mamma vera». Mamma Consolazione sente questo come una mancanza,  con un pensiero autolesivo, (istigato da una cultura che annulla violentemente l’identità della donna riducendola ad animale da riproduzione, aggiungo io) che segna l’inizio del Disamore, che a sua volta cresce negli anni diventando vera persecuzione: terribili accuse, insulti osceni, clausura nel collegio di suore, denunce e  processi, notti vagabonde perché la porta di casa era sbarrata…

Dopo 25 anni, nei sotterranei dell’ospedale San Giovanni di Roma, lo «sperpero grande di Madre» prenderà il nome meno poetico, ma liberatorio, di una malattia mentale. «È stato un bene per me avere saputo presto, se cresci sapendo di essere stata adottata diventa naturale. Capisco la ragazza che crolla scoprendo che i genitori che ha amato erano dei bugiardi, ognuno deve poter conoscere la propria storia. Quanto a mia madre, era una donna colta, insegnante di lettere, mi ha dato tanto, mi ha permesso di studiare. Per anni ho vissuto la colpa per la sua rovina, e solo grazie a quella diagnosi psichiatrica ho capito che accusare me era per lei un modo di non andare in pezzi. Ma se non ci fosse stata mia nonna a difendermi: “Nènte fìci ‘a carùsa” (la creatura non ha fatto niente)…».

Intanto suo padre, il deputato comunista Giacomo Calandrone, era morto improvvisamente quando lei aveva solo dieci anni, e qualche anno dopo, preadolescente, Maria Grazia viene spedita a raddrizzarsi nel collegio di suore dove comincia a scrivere poesie…

«Mio padre non c’era mai, il rapporto con lui sarebbe cresciuto più tardi, nella prima infanzia i padri intervengono poco. Mi aveva già fatto scoprire il cinema, il vero cinema, e chissà quanto altro avrebbe potuto darmi. La poesia nasce dall’assenza, non c’è niente da fare, è così. Perché i poeti scrivono dal fondo delle galere? È un modo per dire Io ci sono. Quando vado nelle carceri, lo scrivo in Splendi come vita, spesso noto che questi “cattivi ragazzi” hanno scoperto la poesia come forma di comunicazione memorabile. C’era uno, Federico Mollo si chiama, che aveva scritto un manuale di educazione in versi per il figlio, perché il figlio non facesse la sua vita. Anch’io vorrei che i miei figli facessero la loro vita, non la mia, anche se non sono una spacciatrice o altro, ma si sa i figli non ti ascoltano, e lui aveva trovato che la poesia fosse molto più efficace che la prosa, ed è così. Nella scuola viene insegnata malissimo, viene dissezionata, uccisa». Fortunati i ragazzi che incontrano Maria Grazia Calandrone nelle scuole! È stata la poesia a curarla? Come ha fatto a resistere, a non ammalarsi, a diventare quella che è, a fare tutto quello che fa, venendo da questa storia?

«Non so se la poesia può curare, forse dalla malattia degli altri …», ride. «So di certo che non ha niente a che fare con la pazzia: ne ho scritto in un editoriale per il settimanale Sette su Anne Sexton, alla quale ho anche dedicato una puntata di Suona l’una (andata in onda su Rai Radio 3 il 17 agosto 2022), e nella biografia di Alda Merini nel volume Mondadori Versi di libertà».

Dall’incipit del pezzo su Sette del 28 maggio 2021: «…Non è necessario essere pazze per poter essere poetesse…Per essere poetesse è indispensabile battere l’acciaio dello strumento verbale fino a farne una lama chirurgica, un filo a piombo calato nelle profondità del reale, è indispensabile obbedire con metodo all’ossessione controllata della parola, alla sua potenza sovversiva, alla sua libertà irredimibile». Io lo so come ha fatto a non ammalarsi. È il primo anno di vita, cosiddetto inconscio perché nessuno (né figli né figliastri) ne sa niente, che è andato bene. «È un miracolo», dice Maria Grazia. Ma scrivendo, concretamente illumina il mistero: Lucia l’ha lasciata dopo averla amata abbastanza da renderla fiduciosa in se stessa e negli altri, nel libro c’è anche la testimonianza di un neuropsichiatra infantile che lo certifica. E chi non è stato amato abbastanza, e ne è uscito leso, ferito nella sua umanità che è fantasia e vitalità, come ci siamo dette alla presentazione alla Galleria d’arte moderna e contemporanea potrà ricreare il primo anno di vita curandosi, qualunque sia la sua “razza”.

«Ogni cosa che ho visto di te, te la restituisco amata», dice la poesia di Calandrone in esergo a Dove non mi hai portata. Ed è così, anche del dolore, perché ne fa un’esperienza da cui altri possono trarre la loro forza: di volta in volta la “razza” dei figli e dei genitori adottivi, e con loro i bambini, le donne, gli uomini offesi dal pregiudizio biologico, i poeti dimenticati, e tutti quelli che non sanno che si può resistere all’assenza. I suoi libri traboccano d’amore e di intelligenza umana.

 

* L’autrice: Barbara Pelletti, psichiatra e psicoterapeuta, è presidente dell’associazione “Cassandra”, impegnata nella difesa delle vittime di violenza e stalking

Colpevoli di adozione

Adottare un bambino in Italia è diventato un percorso a ostacoli che il più delle volte si conclude con la rinuncia dei possibili genitori. È il grido di allarme delle numerose associazioni impegnate nella tutela dei diritti di chi vuole adottare ma è anche un dato di fatto certificato dai numeri. Le domande di disponibilità all’adozione nazionale sono in calo pressoché continuo dal 2006 (dati ministero di Giustizia). Erano 16.500 17 anni fa, sono state circa la metà quelle registrate nel 2022: 8.687. Sono diversi i fattori che hanno inciso su questo calo, tra cui soprattutto la crisi economica e la possibilità di ricorrere alla fecondazione assistita. Ma negli ultimi 3 anni ha avuto un peso determinante anche l’emergenza sanitaria. Non vanno sottovalutate inoltre le lungaggini burocratiche e una legge che tende a privilegiare una visione religiosa o classica della famiglia. Già perché la legge 184/83 esclude dalla possibilità di adottare i single o le coppie di fatto consentendolo solo a coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni, o da un numero inferiore di anni se hanno convissuto in modo stabile e continuativo prima del matrimonio per almeno tre anni (deve essere accertato dal Tribunale per i minori). Superati tutti questi ostacoli entra in gioco il fattore tempo. Per esempio chi è riuscito ad adottare nel 2021 un bimbo di origini straniere ha dovuto aspettare mediamente 51 mesi circa dalla domanda all’ingresso in Italia del figlio.

Nel 2020, i mesi erano 46,7. E poi ci sono da considerare i costi, davvero proibitivi, che possono raggiungere anche i 30mila-40mila euro, l’instabilità dei rapporti diplomatici con alcuni Paesi e il rischio sempre più elevato di rimanere vittima di truffatori. Una crisi etica ma anche strutturale delle adozioni che ha colpito non solo l’Italia ma quasi tutti i Paesi considerati “ricchi”.

In Spagna, dal 2006, le adozioni sono diminuite del 90%, negli Stati Uniti dell’80%, in Francia e Germania del 70%. Eppure, a livello mondiale, a causa di guerre, pandemia e carestie il numero di orfani sta crescendo a ritmi impressionanti. L’Unicef stima che sono oltre 140 milioni i bambini orfani di almeno un genitore (61 milioni in Asia, 52 milioni in Africa), di cui oltre 15 milioni senza entrambi i genitori.

Per rendere ancora meglio l’idea delle problematiche connesse a un’adozione, nazionale o internazionale, abbiamo incontrato Maurizio e Maria (nomi di fantasia). Residenti nel Lazio oltre dieci anni fa hanno deciso di adottare Alessia (nome di fantasia), una bambina italiana di otto anni tolta alla famiglia biologica dopo che i genitori si sono resi responsabili di gravi abusi nei confronti di uno dei suoi fratelli. «Le famiglie adottive sono totalmente abbandonate a sé stesse e non preparate né psicologicamente né materialmente ad affrontare situazioni molto complesse che non si possono risolvere solo con l’affetto» osservano i due.

«Quando un bimbo viene sottratto ad una famiglia problematica o violenta dovrebbe essere prassi distanziare il minore da questa in tutti i modi possibili. Nel nostro caso non è avvenuto» spiegano Maurizio e Maria. «La suora che gestiva la casa-famiglia dove ha risieduto nostra figlia prima dell’adozione permetteva ai genitori biologici di visitarla, incurante dei motivi per cui era lì, probabilmente perché in lei prevaleva l’idea della sacralità della famiglia “naturale”. Questo ha determinato molta confusione che è esplosa con l’arrivo dell’adolescenza». Prima ci sono stati ripetuti episodi di autolesionismo e poi, tre anni fa, la ragazza è scappata di casa. «Sono ormai tre anni che non la vediamo e non sappiamo più nulla di lei». Addirittura la frequentazione dei genitori “naturali” è proseguita anche dopo l’adozione e nonostante le interpellanze di Maria e Maurizio il Tribunale dei minori non è intervenuto. Nemmeno dopo una relazione dell’assistente sociale. «Questi ragazzi – commenta Maria – vivono il trauma dell’abbandono che si porteranno per sempre dietro ma non gli viene mai permessa una reale separazione dalla famiglia o dalle persone che non hanno voluto accudirli. Gli viene così tolta anche la loro ultima possibilità».

Ad aggravare la vicenda dell’adozione di Alessia è stata anche la ricomparsa della sorella biologica che nel frattempo aveva sposato un uomo appartenente ad un clan della malavita organizzata. Costui ha convinto l’adolescente ad accusare la famiglia adottiva di violenze e a scappare di casa. «Noi eravamo ovviamente preoccupatissimi», racconta Maurizio. «Ma alla nostra richiesta di aiuto ci è stato risposto che l’importante era che fosse viva. A parte lo sconcerto e il dolore – ancora mi chiedo come ne siamo usciti vivi – questo atteggiamento delle istituzioni secondo noi certifica il fallimento del sistema delle adozioni».

Maria e Maurizio sono stati totalmente assolti dalle gravi accuse di abusi, ma il trauma della vicenda è ancora chiaro nei loro occhi mentre ricordano il susseguirsi dei fatti: «Noi siamo stati indagati, maltrattati e abbandonati; alla famiglia naturale nessuno ha mai chiesto conto di nulla». Un ultimo pensiero è per chi sta cercando di adottare: «Anche noi avevamo provato con l’adozione internazionale. Stavamo per partire per la Colombia quando improvvisamente è arrivata la possibilità di adottare Alessia. Se oggi una giovane coppia ci chiedesse consigli, sinceramente non ce la sentiremmo di spingerla ad adottare. L’unica cosa che ci rincuora è aver fatto tutto quello che era nelle nostre possibilità».

Nino Cartabellotta: I nemici della sanità pubblica

La campagna vaccinale in Italia ha subìto una battuta d’arresto proprio nel momento in cui il costo dei vaccini, a causa della scadenza degli accordi con lo Stato, è destinato a salire. Intanto in Cina il virus circola ad alta velocità, con picchi di decine di migliaia di morti ogni giorno. Anche nel nostro Paese i dati di mortalità restano elevati. A distanza di tre anni dall’esplosione della pandemia da Sars-CoV-2, qual è il bilancio della gestione in Italia? Davvero il Covid-19 è diventato “pericoloso” quanto una qualsiasi influenza? E cosa dobbiamo aspettarci per il prossimo futuro? Lo abbiamo chiesto al presidente della Fondazione Gimbe, Nino Cartabellotta.

Dottor Cartabellotta, dopo tre anni qual è il bilancio della gestione della pandemia in Italia?
Luci e ombre, inevitabilmente dettate da variabili politiche e sociali che non sempre hanno permesso alle migliori evidenze scientifiche, peraltro emerse in maniera graduale e frammentata, di essere adeguatamente trasferite all’intera catena decisionale. E ovviamente anche da un Servizio sanitario nazionale profondamente indebolito da un decennio di grave definanziamento e di mancata programmazione sul personale sanitario.

È corretto oggi ridurre il Covid al rango di “un’influenza”? Cosa dobbiamo aspettarci, anche alla luce della fine del prezzo calmierato dei vaccini, che rischia quasi di decuplicare?
Sarà ridotto al rango di un’influenza quando dai dati Istat non emergerà più un eccesso di mortalità e quando il ricovero dei pazienti Covid non rappresenterà più un elemento di sovraccarico ospedaliero. Le previsioni sugli scenari futuri sono sempre molto difficili da fare, ma se non emerge una variante più diffusiva e/o più immunoevasiva e/o più grave non dovremmo avere particolari problemi. Nel frattempo però bisognerebbe innalzare il “muro di protezione” per gli over 60 e i fragili accelerando la somministrazione della quarta dose, che al momento ha un tasso di copertura nazionale del 30% circa con enormi variabilità regionali.

A suo avviso, perché in Cina c’è stata una ripresa così repentina?
In Cina la campagna vaccinale è stata poco incisiva: si è vaccinato poco, in particolare anziani e fragili, utilizzando un vaccino poco efficace sulla malattia grave. Inoltre, la strategia “zero Covid”, in presenza di una variante estremamente contagiosa come Omicron, si è dimostrata inutile e costosa. E in un contesto di limitata immunizzazione della popolazione, sia naturale che da vaccinazione, quando ai primi di dicembre sono state allentate le restrizioni, è stato inevitabile assistere ad una netta ripresa della circolazione virale e registrare un rilevante impatto su ospedalizzazioni e decessi.

Che impatto potrà avere sul mondo e sull’Italia?
Al momento non ci sono evidenze riguardo la possibilità che l’elevata circolazione del virus in Cina possa generare varianti in grado di determinare una nuova ondata in altri Paesi. Non è da trascurare il fatto che la Commissione europea ha ribadito che mancano dati affidabili sulla situazione in rapida evoluzione del Covid-19 in Cina, e l’Oms ha sottolineato che l’impatto della nuova ondata è ampiamente sottostimato per una comunicazione dei dati parziale e poco trasparente.

Cosa ha provato nel sentire un sottosegretario alla Salute mettere in dubbio che i vaccini abbiano evitato migliaia di morti?
Non abbiamo mai prestato particolare attenzioni alle opinioni, che generano solo un evanescente rumore mediatico. Quello che conta sono i dati e le evidenze scientifiche. Possiamo discutere della limitata efficacia dei vaccini nel prevenire il contagio, ma non certo della loro straordinaria efficacia nel ridurre la malattia grave e la mortalità, soprattutto in anziani e fragili, per i quali le evidenze scientifiche sono inequivocabili. Nel 2021 sono stati evitati quasi 60mila decessi in Italia, oltre 500mila in Europa e 19,8 milioni in tutto il mondo: evidenze che non richiedono alcuna controprova.

Durante la pandemia sembrava che avessimo capito quanto sia necessario un sistema sanitario pubblico forte e territoriale. Il presidente Mattarella, nel discorso di fine anno, ha ricordato il «presidio insostituibile di unità del Paese rappresentato dal Servizio sanitario nazionale». Pensando anche alla recente manovra, cosa ne è oggi di tutto questo?
La pandemia ha progressivamente aumentato la consapevolezza sociale che un sistema sanitario pubblico, equo e universalistico rappresenta un pilastro della nostra democrazia. Tuttavia, se inizialmente tutte le forze politiche convergevano sulla necessità di rilanciare il Ssn che sembrava finalmente tornato al centro dell’agenda politica, con la fine dell’emergenza la sanità è “rientrata nei ranghi”. Nel Def 2022 (governo Draghi) il rapporto spesa sanitaria/Pil crolla al 6,1% nel 2025, nella Nota di aggiornamento del Def (governo Meloni) scende al 6% e l’ultima legge di bilancio non ha previsto alcun rifinanziamento strutturale del Ssn, né alcun piano straordinario per rilanciare le politiche del personale sanitario.

Le differenze di mortalità da Covid fra Sud e Nord Italia possono essere anche dipese da differenze tra sistemi sanitari regionali?
I tassi grezzi di mortalità più elevati si registrano nelle Regioni del Nord, dove la pandemia si è abbattuta nella prima ondata, come uno tsunami. In quella fase tutto il Centro-Sud è stato fortunatamente “protetto” dal lockdown. D’altro canto, tutti i dati relativi alle performance sanitarie regionali documentano rilevanti diseguaglianze e iniquità tra le 21 Regioni e Province autonome, sia in termini di offerta di servizi e prestazioni sanitarie, sia di appropriatezza dei processi, sia, soprattutto, di esiti di salute.

Il progetto dell’Autonomia differenziata non rischia di peggiorare ulteriormente una situazione già troppo eterogenea?
È evidente che, in uno scenario di maggiori autonomie regionali, la Sanità rappresenta una cartina al tornasole, considerato che il diritto costituzionale alla tutela della salute – affidato sulla carta alla leale collaborazione tra Stato e Regioni – è nei fatti condizionato da 21 sistemi sanitari che generano gravi diseguaglianze. Una attuazione tout court delle maggiori autonomie richieste è inevitabilmente destinata ad amplificare le diseguaglianze di un Ssn, oggi universalistico ed equo solo sulla carta: in altre parole, senza un contestuale potenziamento delle capacità di indirizzo e verifica dello Stato sulle Regioni, il regionalismo differenziato rischia di legittimare normativamente il divario tra Nord e Sud, violando il principio costituzionale di uguaglianza dei cittadini nel diritto alla tutela della salute.

Qual è secondo lei l’aspetto su cui è essenziale concentrarsi di più, oggi?
Riconoscere che la spesa sanitaria non è un costo, ma un investimento perché influenza direttamente e indirettamente la crescita economica del Paese. Ma ancora prima la politica deve chiarire definitivamente ai cittadini se intende, o meno, mantenere un servizio sanitario interamente pubblico, equo ed universalistico. In alternativa, occorre avviare riforme strutturali che vadano in una direzione diversa: se ci verrà chiesto di rinunciare alla sanità pubblica, meglio una parziale privatizzazione del sistema adeguatamente governata dallo Stato piuttosto che una privatizzazione strisciante con una sanità a doppio binario, privata per chi se la può permettere e pubblica per i più poveri.

 

* In foto, il presidente Nino Cartabellotta alla conferenza nazionale della Fondazione Gimbe

Sicilia, l’isola del patrimonio bistrattato

«Per quanto riguarda il nostro patrimonio culturale da sempre riconosco all’Italia una coerenza: saper tagliare i fondi e dichiarare situazioni di emergenza per la cultura. Emergenze che richiedono immancabili sacrifici per soprintendenze, musei, opere d’arte e monumenti. Emergenze che impediscono una seria programmazione e così i finanziamenti vanno e vengono e i progetti si interrompono a metà, a voler essere ottimisti». Sono le parole amare del soprintendente Paolo Orsi (1859-1935), dopo una vita spesa a conoscere, tutelare e restaurare il patrimonio archeologico, e non solo, di Sicilia e Calabria. La sarcastica constatazione del “patriota” trentino nei confronti dello Stato postunitario, che pure aveva istituito il sistema nazionale di tutela fondato sulle Soprintendenze settoriali e su una legge che vincolava «le cose di interesse culturale», anche se di proprietà privata, alla luce del periodo secolare intercorso, suona profetica nell’indicare la pervicace trascuratezza dei governanti italiani verso l’eredità culturale del Belpaese.

Solo alcuni importanti personaggi politici italiani hanno smentito questo pesante giudizio, a partire dal comunista Concetto Marchesi e dal democristiano Aldo Moro, che, con un comune sentire, scrissero il bellissimo articolo 9 della nostra Costituzione, fondando la nascente Repubblica sulla promozione della cultura e la tutela del «paesaggio e del patrimonio storico artistico della Nazione». Sulle orme dei Costituenti, nella difficile Sicilia degli anni Settanta, politici e intellettuali coraggiosi misero in campo una “politica dalle carte in regola” che promosse un dibattito culturale a tutto campo incontrando, anche qui, convergenze politiche e sociali trasversali, che diedero vita ai governi di “solidarietà autonomistica”. Come disse il presidente Piersanti Mattarella, nel discorso programmatico pronunciato nell’assemblea regionale siciliana il 3 aprile 1978, «l’attenzione del governo per la cultura non è contenuta nell’ambito ristretto di uno o più settori, ma costituisce elemento qualificante e riferimento di fondo per tutta l’azione regionale». Nacque così la stagione delle riforme che perseguirono l’utopia di uno sviluppo democratico delle istituzioni regionali, nelle quali si potesse costruire un “ponte tra cultura e politica”, perché la competenza dei tecnici rendesse possibile il buongoverno per sconfiggere il clientelismo e l’affarismo politico imperanti. Come ho cercato di spiegare con Paolo Russo nel libro Utopia e impostura (ed. Scienze e Lettere, 2019), dopo i decreti del presidente della Repubblica che, nel 1975, diedero attuazione alla “potestà legislativa” in materia di tutela dei beni culturali e del paesaggio, sancita dall’articolo 14 dello Statuto autonomistico del 1946, l’assemblea siciliana, tramite un ampio dibattito aperto ai tecnici e funzionari dei beni culturali, formulò la legge-quadro del settore n. 80/1977. Le norme per la tutela, la valorizzazione e l’uso sociale dei beni culturali ed ambientali nel territorio della Regione siciliana, ancora vigenti, avevano la grande ambizione di creare un circuito virtuoso tra ricerca scientifica, tutela contestuale del patrimonio e promozione culturale delle comunità locali nei diversi territori isolani. L’arduo percorso riformista degli anni Settanta venne interrotto, il 6 gennaio 1980, dal barbaro assassinio del presidente della Regione Piersanti Mattarella. Le inchieste giudiziarie hanno rivelato come proprio le riforme legislative promosse dall’illuminato politico, quali, tra le altre, la nuova normativa urbanistica e quella, ancora non emanata, di riorganizzazione meritocratica della burocrazia regionale, furono il motivo del suo omicidio, definito quale “delitto politico” dal grande storico dell’età moderna Giuseppe Giarrizzo.

Da qui comincia l’impostura: il processo ininterrotto di annullamento delle riforme già emanate o messe in cantiere dai precedenti governi, tramite, spesso, semplici atti amministrativi contra legem. Abbiamo cercato di seguire, durante il quarantennio che ci precede, il sistematico svuotamento delle leggi di riforma dell’amministrazione regionale dei beni culturali, attraverso, prima di tutto, l’aggiramento delle norme che prevedevano concorsi pubblici con requisiti specialistici per i ruoli tecnici, quali archeologi, storici dell’arte, architetti, bibliotecari, naturalisti ecc., che avrebbero dovuto avere la responsabilità delle relative, fondamentali, cinque sezioni tecnico-scientifiche delle Soprintendenze. Purtroppo già la legge sui ruoli tecnici emanata nel 1980 aveva previsto la nomina politica di soprintendenti, direttori di musei e delle sezioni tecniche. Poi vennero le stabilizzazioni regionali, senza concorso, di tecnici reclutati per smaltire le pratiche della sanatoria edilizia del 1985, che riempirono anche le strutture dei beni culturali. E, infine, nel 2000 la legge “di riordino” della burocrazia regionale che, in realtà, ha prodotto una promozione in massa, senza concorso e in esubero, di tutti i dipendenti laureati nel ruolo unico della dirigenza e di tutti i diplomati nei ruoli direttivi, riservati nello Stato agli specialisti. È stato così che al momento dell’assunzione dei vincitori dei concorsi per “dirigente tecnico archeologo e storico dell’arte” banditi nello stesso anno 2000, per coprire le posizioni direttive dell’organico dei ruoli tecnici dei beni culturali, la Regione ha stabilito che questi professionisti, reclutati per merito, tramite requisiti postlaurea, dovessero essere inquadrati come generici funzionari, mentre i diplomati, transitati nel 2001 da “istruttori” a “funzionari direttivi”, erano giunti per anzianità all’apice del comparto.

Così il personale regionale più specializzato in materia di beni culturali, quello che per formazione dovrebbe essere preposto alla cura del patrimonio culturale, è da vent’anni tenuto senza incarichi di responsabilità e senza mansioni adeguate, subordinato, addirittura, ai semplici diplomati. Tutto questo ha prodotto l’attuale situazione che è stata definita dalla ex assessora Maria Rita Sgarlata «la débacle dei beni culturali in Sicilia» prodotta dall’inadeguatezza della classe dirigente degli istituti regionali di tutela. Sempre secondo la compianta archeologa, il caos organizzativo e la mancanza di competenze specialistiche al vertice delle strutture spiegano il fallimento in Sicilia dei diversi programmi operativi finanziati con fondi europei dal 2000 in poi.

Inoltre, nel suo bel libro L’eradicazione degli artropodi. La politica dei beni culturali in Sicilia (Edipuglia, 2016), si trovano le cifre della drastica riduzione del bilancio regionale dedicato al dipartimento dei beni culturali e dell’identità siciliana: dai 528 milioni e passa di euro del bilancio 2009 ai poco meno di 18 milioni di euro del 2015, due anni dopo il suo brevissimo assessorato. La denuncia di Maria Rita Sgarlata non è rimasta isolata.

Il procuratore generale presso la Sezione giurisdizionale d’Appello della Corte dei conti della Regione siciliana, nella seduta di parifica del rendiconto generale della Regione relativo all’esercizio finanziario 2016, nel proporre, per la prima volta nella storia, la bocciatura del bilancio della Regione autonoma, ha avviato la propria requisitoria esaminando proprio la pessima gestione dei beni culturali: «Si è riscontrata una gestione dei siti e dei parchi archeologici al limite del collasso, frutto di una pluriennale assenza di reale progettualità e consapevolezza dal dato economico, oltre che culturale, insito in una tale vastità di beni ed aree artistiche ed archeologiche… stante la perdurante assenza di precostituite piante organiche sulla base di una seria valutazione delle effettive esigenze e dei carichi di lavoro». Eppure, la Sicilia è «una terra ancora divisa tra rinnovamento e conservazione, che ha però una fortissima carica civile, un potenziale umano ricchissimo, efficaci strumenti giuridico-politici per il proprio riscatto». Così si rivolse Piersanti Mattarella al presidente Pertini in visita all’Assemblea regionale siciliana, il 6 novembre 1979.

A distanza di 43 anni, possiamo condividere questa speranza. Infatti, non solo “un potenziale umano ricchissimo”, dotato di adeguati requisiti professionali, è presente all’interno e all’esterno degli istituti regionali di tutela, ma anche gli “strumenti giuridici” per il riordino dei ruoli regionali, dirigenziali e direttivi, dei beni culturali, sulla base delle competenze specialistiche, sono ancora vigenti, sebbene contraddetti dagli atti amministrativi successivi. Occorre solo applicare, finalmente, le leggi esistenti e attribuire a ciascun funzionario i compiti istituzionali previsti dalle leggi. Come prescrive la Costituzione all’articolo 97: «I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione. Nell’ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari».

Si deve restituire all’amministrazione regionale dei beni culturali un ordinamento pluridisciplinare e mettere ciascuno al proprio posto di competenza, per assicurare l’adempimento degli obblighi costituzionali di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale conservato in Sicilia.

Solo così si potranno soddisfare le grandi aspettative culturali che le comunità locali, gli studiosi e i turisti di tutto il mondo ripongono nell’immenso tesoro di memorie storiche del Mediterraneo conservato nella nostra isola.


* L’autrice: Francesca Valbruzzi, archeologa e funzionaria, è autrice con Paolo Russo di “Utopia e impostura. Tutela e uso sociale dei beni culturali in Sicilia al tempo” dell’Autonomia (Ed. Scienze e Lettere, 2019)

In foto, il tempio greco di Selinunte, in Sicilia

Gli sfruttati della cultura “made in Italy”

«La prima associazione onlus per cui ho lavorato nell’ambito gestione beni culturali e eventi, mi ha pagato per anni con ritenuta d’acconto e rimborsi fittizi per spese mai sostenute. Dopo cinque anni durante i quali non esistevano festivi, straordinari, salari e orari fissi, mi hanno costretta ad aprire la partita Iva. “O così oppure non ti possiamo più pagare”, mi hanno detto». La storia di Silvia (nome d’invenzione per proteggerne la vera identità) è purtroppo simile a quella di molti giovani e meno giovani che, dopo la laurea e perfino dottorati, sono costretti a subire sfruttamento e ricatti per portare a casa stipendi irrisori che non consentono di sopravvivere. Basti dire che il 57% dei 2.526 lavoratori che hanno risposto al questionario dell’associazione Mi riconosci? dichiara di non riuscire a vivere autonomamente.

Ma torniamo alla storia di Silvia che, dopo aver subito pressioni dal commercialista della onlus per cui lavorava, decide di aprire la partita Iva, «premettendo che una volta diventata libera professionista a tutti gli effetti, avrei accettato anche altri lavori compatibili con il primo che restava comunque la priorità». Passaggio indispensabile per riuscire a mettere da parte qualcosa per pagare spese e tasse a fine anno. «Ovviamente appena ho cominciato a non essere più disponibile h24 perché avevo trovato un lavoro stagionale, compatibilissimo con orari e organizzazione del primo, sono stata messa alle strette e ogni errore o problema insorto nei sei mesi successivi in tutto l’ufficio è stato attribuito alla mia assenza. Terminato il progetto per cui stavo lavorando – prosegue Silvia – pur non avendo mai mancato una scadenza né mollato la presa per un attimo mi è stato detto che per il seguente progetto sarei stata declassata dato che ero distratta da altro». Ma Silvia non si è persa d’animo. E ha fatto una controproposta. «Alla mia richiesta di un contratto in esclusiva e conseguente aumento salariale che mi consentisse di non aver bisogno di andare altrove a cercare di arrotondare, mi è stato risposto picche. Volevano la botte piena e la moglie ubriaca». Alla fine Silvia ha deciso di andarsene con molto dispiacere perché in quella associazione aveva investito cinque anni della sua vita. L’anno dopo è stata sostituita da tre stagisti. Abbiamo raccontato tutta la sua vicenda in dettaglio perché emblematica e simile a quella di tantissimi altri lavoratori dei beni culturali. Nel trentennale della legge Ronchey che ha aperto la strada alle esternalizzazioni e a privatizzazioni, il quadro è disastroso. «Il 68,7% del campione esaminato ha un impiego dipendente: il 30,21% in musei, il 16,2% in biblioteche, il 21,88% presso la Pubblica amministrazione». Ma solo pochissimi hanno contratti a tempo indeterminato, la gran parte sono a tempo determinato, oppure  stage, tirocini, co.co.co., stagionali, apprendistato, interinale, a chiamata, a progetto, in nero, si apprende leggendo la ricerca di Mi riconosci?

I tantissimi archeologi e storici dell’arte che sono andati in pensione negli ultimi anni non sono stati sostituiti da nuovi assunti, con un danno grandissimo in termini di depauperamento di risorse e di mancata trasmissione di competenze. Le istituzioni pubbliche hanno massicciamente fatto ricorso a service e subappalti che offrono pessime condizioni di lavoro. La nuova indagine realizzata dal gruppo di giovani lavoratori dei beni culturali auto organizzati e riuniti sotto la sigla Mi riconosci? porta alla luce del sole la situazione lavorativa drammatica in cui versano oggi nel Belpaese tanti archeologi, storici dell’arte, archivisti, restauratori, guide turistiche. Dopo la pessima riforma Franceschini e gli inaccettabili tentativi di applicare il modello Expo nel pubblico, il governo Meloni – che tanta retorica fa sul made in Italy e il brand Italia – nulla ha fatto fin qui per migliorare la condizione dei lavoratori di questo settore, stretti fra l’incudine di assunzioni bloccate nelle soprintendenze e la necessità di aprire partite Iva per una paga da fame senza diritti e senza tutele. Anzi l’ha peggiorata reintroducendo i voucher per gli stagionali, ampliando discriminazione e sfruttamento. Che è abissale. Come evidenziano i risultati del questionario “Cultura, contratti e condizioni di lavoro” realizzato da Mi riconosci?. Sul suddetto campione di 2.526 persone solo il 6% ha il contratto di categoria (Federculture). E questo a fronte di un livello alto di competenze e titoli di studio specifici. Oltre la metà degli interpellati ha almeno la laurea triennale (15,1%) o la specialistica (39,9%), un ulteriore 10% ha fatto anche la scuola di specializzazione. Un altro dato da notare è che il 76,1% delle persone coinvolte nell’inchiesta è donna ed «è strettissimo il nesso fra femminilizzazione del lavoro e precarizzazione», come fa notare la dottoranda in storia dell’arte Rosanna Carrieri che, con altri colleghi di Mi riconosci?, ha realizzato e presentato la ricerca alla Camera dei deputati il 17 gennaio scorso. Fanalino di coda in questo ambito lavorativo sono proprio le donne con una alta formazione costrette alla precarietà, a paghe vergognose e non di rado colpite da mobbing.

Ma torniamo a guardare al quadro d’insieme riguardo ai compensi. I numeri parlano da soli: il 68,93% guadagna meno di 8 euro netti all’ora (il 7% non arriva a 4 euro). Il 50,37% non raggiunge i 10mila euro all’anno. Spostando l’asticella fino a 15mila euro/anno si arriva al 72,28%.

Particolarmente buia è, come accennavamo, la situazione degli autonomi nonostante il 40% abbia rapporti con ministeri, università, pubblica amministrazione, fondazioni o società partecipate, associazioni. Il 23% lavora per coop o imprese private. Solo il 26,7% non ha un committente principale, il che la dice lunga su quanto siano veramente lavoratori autonomi. Fra loro il 61% è a partita Iva e il 29% utilizza la ritenuta d’acconto. Il 75,47% non stabilisce la propria tariffa e il monte ore. Il 40,2% degli autonomi guadagna meno di 8 euro netti all’ora. Il 60,43% ha più di due collaborazioni. Il 55,88% guadagna meno di 10mila euro all’anno.

Sia autonomi che dipendenti denunciano condizioni di lavoro pessime: Il 39,97% dichiara di aver subito mobbing,  di aver dovuto rispondere a domande sulla vita privata e di aver dovuto subire atteggiamenti intimidatori da parte del datore di lavoro.

 

* In foto, la bandiera dell’associazione Mi riconosci? ad una manifestazione tenutasi a Venezia contro il “ticket d’accesso” alla città introdotto dal Comune. Immagine tratta dal profilo Facebook di Mi riconosci?

Quegli eroi antifascisti dell’arte liberata

Discobolo Lancellotti Marmo Pario metà del II secolo d.C. H 155 cm Roma, Esquilino presso Villa Palombara Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo, Piano Primo, Sala VI inv. 126371

«La Resistenza dell’arte». Con queste parole si apre il piccolo ma denso vademecum firmato da Paolo Conti, distribuito ai visitatori insieme al biglietto d’ingresso dell’esposizione Arte Liberata. Capolavori salvati dalla guerra. 1937/1947, a cura di Luigi Gallo e Raffaella Morselli, aperta alle Scuderie del Quirinale sino alla primavera prossima (fino al 10 aprile, ndr). Una mostra che ha come leit-motiv un’idea d’insieme del patrimonio italiano doveva inevitabilmente radunare una sequenza di opere di riferimento, che in effetti non mancano. Il percorso si apre con il Discobolo Lancellotti sullo sfondo di una foto dell’opera accanto a Hitler e si conclude con la Danae di Tiziano, accompagnata da una sua grande riproduzione all’interno dello studio di Rodolfo Siviero, agente segreto e storico dell’arte.

Dall’uno all’altra si snoda il lungo racconto dei dieci anni che l’esposizione si propone di illustrare: la storia dei provvedimenti studiati per salvaguardare dai pericoli della guerra le opere più importanti – e inevitabilmente più esposte – del patrimonio italiano, e quella delle donne e degli uomini che si sarebbero spesi nel difficile e rischioso impegno di assicurarne la sopravvivenza nell’Italia occupata, sottraendole alla distruzione e alle razzie.

Forma questo racconto una galleria di straordinari “capolavori”, provenienti dalle più importanti collezioni dell’intero territorio italiano, isole comprese. Allora la Sicilia non aveva un’amministrazione autonoma. Ha dunque un particolare significato vedere in mostra l’iscrizione della Vittoria proveniente dal Tempio G. di Selinunte e il Trittico Malvagna di Mabuse, che è stato trasportato da Palazzo Abatellis all’interno della teca – anche questa un’opera d’arte – progettata da Carlo Scarpa per il riallestimento postbellico di quella che oggi è la Galleria regionale siciliana.   

La presenza della tavola palermitana, e di altri pezzi che difficilmente lasciano le loro sedi di conservazione, rivela la particolare disponibilità delle molte istituzioni culturali coinvolte. Diversamente sarebbe stato forse difficile vedere, insieme alla Madonna di Senigallia di Piero della Francesca, un insolito numero di opere di grande formato, come la tela della Crocifissione con la Maddalena di Luca Signorelli, proveniente dagli Uffizi, e molti altri oggetti delicatissimi: gli arazzi fiamminghi con le Storie di Alessandro della Pinacoteca civica “Bruno Molajoli” di Fabriano, alcune preziose terrecotte del Museo Egizio, le ceramiche del Museo civico di Pesaro, libri e documenti.

Alle vicende del patrimonio manoscritto è dedicata una sala che associa il fortunoso salvataggio della biblioteca di Montecassino – l’unica parte dell’abbazia scampata alla guerra – e il trafugamento e la dispersione pressoché completa dei libri della comunità ebraica di Roma, evocata da due preziosi volumi duecenteschi di origine spagnola, prestati dall’Archivio storico della comunità ebraica.

D’interesse certamente minore sotto il profilo antiquario, ma piena di significato, è la storia del recente recupero di alcune cinquecentine della Biblioteca universitaria di Napoli, finite negli Usa e rientrate appena qualche anno fa.

Il nucleo forse più consistente della selezione di opere esposte appartiene alla Galleria nazionale delle Marche, non solo perché uno dei due curatori ne è l’attuale direttore, ma anche perché a questa Regione riportano molti degli eventi e una delle personalità che la mostra non poteva non celebrare, lo storico dell’arte e funzionario Pasquale Rotondi.

Coetaneo di Giulio Carlo Argan, al quale lo ha legato una lunghissima amicizia, Rotondi era già in amministrazione quando, nel settembre del 1939, si vide affidare per il tramite di quest’ultimo il compito di costituire a Urbino «un grande ricovero di opere d’arte colà raggruppate da ogni parte del territorio nazionale». Sarà lo stesso Rotondi, ormai soprintendente delle Marche, a predisporre la sistemazione e i trasferimenti della parte più preziosa delle collezioni museali italiane provenienti da Venezia, Milano e Roma, che da palazzo Ducale furono in parte spostate nella Rocca di Sassocorvaro, a suo giudizio più sicura, e infine in Vaticano. Detto per inciso, non sorprende che dallo straordinario esempio che gli era stato offerto nell’infanzia sia scaturita la vocazione di Andrea Emiliani, uno dei più grandi soprintendenti italiani.

Appunti e note personali tratte dal Diario dello stesso Rotondi – oggi finalmente pubblicato in forma integrale – scandiscono, lungo il percorso della mostra, le vicende delle casse nelle quali furono stivati i capolavori da salvare. La grande “operazione salvataggio” che coinvolse tutta la Penisola fu tuttavia un’opera corale, alla quale contribuì una straordinaria leva di funzionari, diversi dei quali – allora giovanissimi – erano destinati a una carriera di grande rilievo nell’amministrazione e negli studi, tra questi Francesco Arcangeli, Giulio Carlo Argan, Emilio Lavagnino, Bruno Molajoli. Spiccano il ruolo e la determinazione delle donne: Jole Bovio Marconi, Palma Bucarelli, Noemi Gabrielli, Fernanda Wittgens.       

A ispirarne scelte decisive, spesso maturate in autonomia o in contrasto con le indicazioni di un vertice delegittimato dagli eventi e avvertito come un pericolo per il patrimonio che era loro affidato, fu, accanto a una formazione di grande spessore scientifico, una tensione etica che andrebbe forse recuperata in tempi nei quali la cifra prevalente per la gestione del patrimonio culturale sembra essere piuttosto la “valorizzazione”, intesa nel senso più tristemente mercantile, come occasione per fare cassa.

Questi funzionari si sentivano custodi di una memoria storica nella quale la nozione di patrimonio era unitaria, senza distinzione tra pubblico e privato. Tra le opere alle quali fu assicurata una protezione figurano il Tesoro della Basilica di S. Marco e alcuni pezzi conservati in collezioni private, come il busto in bronzo di Clemente VIII di Taddeo Landini, tuttora parte degli arredi della Villa Aldobrandini di Frascati.

Le immagini e i moltissimi documenti, frutto di ricerche archivistiche accurate e originali, sono l’aspetto più suggestivo di un allestimento spoglio ma particolarmente riuscito, a partire dalle luci e dalla scelta dei filmati. Al bianco e nero dei materiali fotografici fanno da contrappunto le quinte in legno chiaro e i pannelli rossi di una grafica spartana ma molto raffinata.   

Piacevole alla lettura come un romanzo, e ricco di spunti per ulteriori indagini, il catalogo (edito da Electa, ndr), nel quale si riconosce l’impronta di Raffaella Morselli, coordinatrice, anni fa, di una preziosa raccolta di studi sullo stesso argomento. Sarebbe davvero auspicabile che di questo racconto su un decennio cruciale per la storia della tutela del patrimonio italiano rimanesse una traccia visiva in un documentario. Per comprendere quale valore abbia, nella storia del nostro Paese, il suo patrimonio artistico, vederla attraverso un filmato sarebbe infatti un’esperienza molto più efficace di qualunque parola scritta. La data d’inaugurazione di Arte Liberata ha quasi coinciso con il settantacinquesimo anniversario della nostra Carta Costituzionale, approvata dall’Assemblea costituente il 22 dicembre del 1947. L’art. 9, che prescrive la tutela del «patrimonio storico e artistico della Nazione», è giustamente evocato nella presentazione del catalogo, firmata da Gennaro Sangiuliano: un piccolo capolavoro retorico, che richiama Leopardi e Canova, ma sfuma sulla terribile congiuntura storica dalla quale scaturì l’assunzione di responsabilità dei nostri monuments men, il nazifascismo. 


* L’autrice: Lucinia Speciale è docente di Storia dell’arte medievale all’Università del Salento 

In foto, il Discobolo Lancellotti, risalente alla metà del II secolo d.C., custodito al Museo nazionale romano