Home Blog Pagina 241

Ad Afrin oltre al terremoto l’assedio

«Il nostro campo profughi è assediato: truppe turche e milizie pro-Ankara a nord e a est, gruppi armati vicini all’Iran a ovest, forze armate siriane a sud. Gli aiuti per sostenerci dopo il terremoto dovrebbero passare per decine di check-point e chi li volesse inviare dovrebbe pagare tasse molto care. Chiediamo alla comunità internazionale di fare lo sforzo di venire qui di persona e di aiutarci direttamente perché siamo isolati».

L’appello affidato all’agenzia Dire dal giornalista e attivista Jan Hasan arriva dal campo profughi per sfollati di Shahba, situato nel governatorato di Aleppo, nel nord della Siria, a meno di una cinquantina di chilometri dall’omologo capoluogo. La regione è fra quelle colpite dal terremoto che ha provocato vittime e distruzioni nella Turchia meridionale e appunto nel nord della Siria. Diverse scosse a partire dall’alba di lunedì, fino a 7.9 gradi di magnitudo sulla scala Richter e con epicentro nella provincia turca di Kahramanmaras, le più forti, e poi anche di Gaziantep e altre. Oltre 5mila le vittime nei due Paesi, stando a fonti ufficiali. Hasan vive a Shahba insieme con circa 1.500 persone sfollate, dove coordina una piccola ong, ed è in contatto diretto con la sua città natale, Jeindireis.

La località è un sobborgo di Afrin, città a maggioranza curda fra le più colpite dal sisma situata una quindicina di chilometri a nord-ovest, sempre nel governatorato di Aleppo. «Sono fuggito da Jeindireis dopo l’operazione militare turca del 2018 e mi sono stabilito con la mia famiglia qui», riferisce parlando di Shahba. «Il campo profughi è costituito da tende e da case basse e questo ha fatto sì che i danni delle scosse siano stati pochi, solo alcune persone sono rimaste ferite. Abbiamo paura però e dormiamo in auto, mentre il clima è freddo e piovoso». L’attivista continua: «La mia città natale è stata invece fra le più colpite dal terremoto: da quello che sappiamo 84 edifici sono rimasti completamente distrutti. Parliamo di una città di poco più di 25mila abitanti che rischia verosimilmente di avere circa 1000 vittime». Gli effetti delle scosse hanno colpito Hasan anche personalmente. «Sono almeno 15 i miei parenti che hanno perso la vita, da quello che so al momento», sospira il giornalista. Il terremoto ha colpito un Paese già debilitato da una guerra civile che dura dal 2011 e che nel corso degli anni ha determinato una divisione del territorio per zone di influenza di milizie, eserciti e potenze regionali.

Shahba, dalla ricostruzione di Hasan, sembra essere emblematica della parcellizzazione che caratterizza il Paese: «Il campo è sostenuto dal Consiglio di Afrin e dalle autorità autonome della Siria del nord e del nord-est, anche con matrice curda. Questi organismi forniscono gratis elettricità, tre ore al giorno, e acqua potabile» spiega l’attivista. «L’area del governatorato di Aleppo dove ci troviamo noi è ufficialmente sotto il controllo delle milizie delle opposizioni siriane, sostenute direttamente dalla Turchia». Il cronista prosegue: «Il villaggio che ospita il campo si trova in una posizione particolare, de facto assediata su tutti i fronti: i turchi, le milizie pro-Iran, e poi le forze armate al servizio del governo del presidente Bashar al-Assad, che hanno messo su numerosi check-point e che impongono il pagamento di pesanti tasse a chiunque provi a portare qualcosa gli abitanti del campo». Da questa situazione deriva un sostanziale isolamento, che l’organizzazione gestita da Hasan, sostenuta dall’ong tedesca Sos Afrin della pastora Oliver Keske, è riuscita ad alleviare. «Siamo riusciti a consegnare dei cestini con del cibo agli abitanti, ma il blocco che ci è stato imposto è scioccante».

Da qui l’appello alla comunità internazionale: «Venite qui e sosteneteci direttamente: non passate per il governo siriano, come fanno agenzie delle Nazioni Unite: quegli aiuti finiscono in larga parte nel nulla». Le parole di Hasan giungono in un contesto di conflitto che neanche il terremoto, fra i più devastanti dell’ultimo secolo a detta di esperti concordanti, è riuscito a fermare. «Ieri – riferisce l’attivista – le truppe turche hanno sparato colpi di artiglieria verso i campi coltivati nei pressi del villaggio, solo per incutere terrore. Ormai ci siamo abituati a questo: Ankara colpisce ogni giorno».

Buon mercoledì.

Nella foto: frame di un video di China Daily sul terremoto ad Aleppo

 

 

E se dietro il presunto “piano Mattei” ci fosse un vero “piano Descalzi”?

Il dubbio lo propongono quelli di Energia per l’Italia (un gruppo di docenti e ricercatori che si occupa di energia) che senza mezze parole scrive: «Dopo Gentiloni, Conte, Di Maio e Draghi, è toccato questa volta a Giorgia Meloni seguire le orme della diplomazia Eni in Algeria. Risponde a realtà, infatti, che in certe aree a pesare di più siano i buoni uffici dei funzionari di San Donato Milanese piuttosto che l’operato della Farnesina e che il cosiddetto nuovo “Piano Mattei” sia ispirato più dalla visione strategica di Eni e del suo amministratore delegato che del presidente del Consiglio».

Secondo il comitato «la missione di Giorgia Meloni in Algeria è avvenuta a cose già fatte: il Cane a sei zampe “è presente in Algeria dal 1981 ed è oggi la principale compagnia energetica internazionale operante nel Paese”; qui nel corso del 2021 Eni ha prodotto petrolio e condensati per 20 milioni di barili, 1,7 miliardi di mc di gas naturale e 31 milioni di mc di barili equivalenti di idrocarburi. Anche grazie agli accordi siglati con la compagnia di Stato algerina Sonatrach, nel 2023 la produzione di olio di Eni in Algeria raggiungerà la quota record di 43,8 milioni di barili l’anno. Non male per una compagnia che ha fissato al 2050 il raggiungimento dell’obiettivo di zero emissioni!».

Spiegano: «Nel corso dell’ultimo anno Eni ha impresso una forte accelerazione allo sviluppo delle sue attività sul suolo algerino: ha avviato un nuovo campo nel Berkin Basin per la produzione di olio e la produzione di due campi a gas del nuovo contratto Berkin Sud, in entrambi i casi in collaborazione con Sonatrach; acquisito le attività di British Petroleum dei più importanti campi produttivi a gas operati da compagnie internazionali in Algeria; annunciato una nuova scoperta onshore nel bacino di Berkin Nord; firmato nuovi contratti per i blocchi 404 e 208; siglato numerosi accordi con Sonatrach». A Eni segue a ruota la “gemella” Snam: questo vale sia per i due memorandum strategici firmati da Meloni e dal presidente algerino Abdelmadjid Tebboune, sia per le ricadute che le intese produrranno sul territorio italiano in termini di realizzazione di nuove infrastrutture per il trasporto del gas. La prima partnership tra Eni e Snam sui gasdotti tra Algeria e Italia risale al 2021 ed è stata suggellata dalla cessione da Eni a Snam del 49.9% «delle partecipazioni detenute (direttamente e indirettamente) da Eni nelle società che gestiscono i due gruppi di gasdotti internazionali che collegano l’Algeria all’Italia (Ttpc e Tmpc). Eni ci informa che l’operazione si è perfezionata il 10 gennaio scorso. Non alle dichiarazioni rese da Giorgia Meloni in conferenza stampa, quindi, bensì ai contenuti delle interviste rilasciate dall’Ad di Eni, Claudio Descalzi, dobbiamo guardare per comprendere la portata delle nuove intese Italia-Algeria e come si è involuta la politica energetica dell’Italia. Cosa prevede il Piano battezzato dal Governo come “Nuovo Piano Mattei” e che sarebbe invece più corretto denominare “Piano Descalzi”, che intende fare dell’Italia l’hub energetico del Mediterraneo?».

Come precisato nel comunicato stampa ufficiale di Sonatrach, «il primo memorandum di intenti strategici mira a identificare le migliori opzioni per aumentare le esportazioni di energia dell’Algeria verso l’Europa, al fine di garantire la sicurezza energetica supportando al contempo una transizione energetica sostenibile. Si baserà sulla valutazione dei seguenti quattro assi: l’estensione della capacità di trasporto gas esistente, la posa di un nuovo gasdotto per il trasporto di gas naturale e in alternativa idrogeno e ammoniaca blu e verde, la posa di un cavo elettrico sottomarino e l’estensione dell’attuale capacità di liquefazione del gas naturale. Il secondo protocollo di intenti strategici identificherà le opportunità per ridurre le emissioni di gas serra in Algeria e le migliori tecnologie per attuare tale riduzione».

Secondo “Energia per l’Italia”, riletto dalla sponda italiana del Mediterraneo, il primo memorandum si tradurrà in un «ulteriore aumento delle importazioni di gas dall’Algeria dagli attuali 25 miliardi di metri cubi ai 28 del prossimo anno, fino a raggiungere quota 35 miliardi, nella prospettiva di azzerare le importazioni di gas russo dal 2024/2025. Il Piano Descalzi in verità mira a fare dell’Italia l’hub energetico dell’Europa, un ponte tra l’Africa e L’Europa. La partnership italo-algerina è solo uno dei tasselli di cui si compone il mosaico di Eni». Scrivono: «Il comunicato diramato il 23 gennaio da Eni e Sonatrach ha il sapore della beffa, in tutto e per tutto drammaticamente coerente con la campagna di greenwashing e mistificazione che Eni sta finanziando da anni nel nostro Paese: “L’Amministratore Delegato di Eni, Claudio Descalzi, e l’Amministratore Delegato di Sonatrach, Toufik Hakkar, hanno firmato oggi ad Algeri accordi strategici che delineano i futuri progetti congiunti in materia di approvvigionamento energetico, transizione energetica e decarbonizzazione. … Attraverso questi accordi, Eni e Sonatrach identificheranno opportunità per la riduzione delle emissioni di gas serra e di gas metano, definiranno iniziative di efficienza energetica, sviluppo di rinnovabili, produzione di idrogeno verde e progetti di cattura e stoccaggio di anidride carbonica, a supporto della sicurezza energetica e allo stesso tempo per una transizione energetica sostenibile”. In estrema sintesi, parrebbe che Eni e il Governo italiano abbiano individuato un partner privilegiato per lo sviluppo di rinnovabili, l’efficientamento energetico e la produzione di idrogeno verde in un Paese che è decimo produttore al mondo di gas naturale, detentore dell’1,2% delle riserve provate di gas a livello mondiale e di importanti riserve di metano non convenzionale. Quando si dice “il profilo del partner ideale».

«In realtà, vista la marginalità degli investimenti in rinnovabili ed efficienza energetica, Eni è ancora oggi sinonimo di gas e petrolio e tale sarà ancora per molto. Nihil novi sub sole, dunque, se non fosse per il riferimento di Descalzi a certi “colli di bottiglia” che con molta probabilità anticipano una riedizione dello “Sblocca Italia” di renziana memoria e la realizzazione di nuove grandi opere dannose e inutili, che renderanno l’Italia ancor più dipendente dalle importazioni di gas e sempre più esposta agli effetti devastanti della crisi climatica. L’Ad di Eni ha già evocato un piano Gnl ed un piano Gasdotti per il Sud, e non v’è dubbio che il Governo di Giorgia Meloni li farà propri riscrivendo in peggio sia il Piano nazionale integrato energia clima sia il Piano nazionale di ripresa e resilienza, assecondando le richieste di Eni e di Snam. La lista della spesa è nota: raddoppio della linea adriatica; raddoppio del Tap; raddoppio/potenziamento del Trasnmed; autorizzazione del gasdotto Galsi; rilancio del gasdotto Eastmed; 5 nuovi gasdotti per il Sud; nuovi rigassificatori, tra cui uno a Gioia Tauro (Enel) ed uno a Porto Empedocle (Sorgenia e Iren), con le partite dell’idrogeno blu e della cattura/stoccaggio di CO2 tutte ancora da giocare a favore dei “killer del clima”, Eni in testa».

Perché si rallenta? Il comitato avanza un’ipotesi: «Le ragioni di un prevedibile rallentamento sono evidenti: le opere fossili dreneranno risorse pubbliche e private sottraendole ai progetti riguardanti rinnovabili ed efficientamento. Non solo. Atteso che, citando Sergio Ferraris, il ritorno sugli investimenti in infrastrutture fossili si compie tra gli 8 ed i 15 anni e che ne occorrono altri 10 per superare “l’inerzia industriale dovuta agli investimenti accessori relativi all’utilizzo del gas naturale negli usi finali”, ove attuato il Piano Descalzi renderebbe l’Italia dipendente dalle fonti fossili fino al 2048. In ultimo e non per ultimo, l’eventualità che, superata l’emergenza gas, l’eccesso di offerta di rispetto a una domanda in contrazione possa far precipitare il prezzo del chilowattora elettrico prodotto da gas al di sotto di quello “rinnovabile”. Tirando le somme, a chi giova, dunque, il Piano Descalzi?».

Buon martedì.

Cospito va salvato, è un dovere dello Stato

La giustizia italiana e la condizione carceraria sono state spesso condannate dalle Corti di Giustizia europee. Per questioni molto rilevanti che non meritano di finire nella gabbia asfissiante di un ipocrita, rancoroso, politicista braccio di ferro tra un anarchico detenuto e il governo postfascista (sicuritarista e panpenalista). Cospito è da oltre 115 giorni in sciopero della fame; non sappiamo fino a quando il suo fisico reggerà. Protesta contro la propria condizione carceraria. Ma proietta la sua protesta contro gli istituti dell’articolo 41bis e, più in generale, contro l’ergastolo ostativo, per tutte e tutti i detenuti. Si tratta di questioni da tempo dibattute,  a livello giuridico (che, spesso, Left ha trattato). Nel frattempo bisogna evitare che Cospito muoia.

Oltretutto sarebbe uno smacco internazionale per la giustizia italiana. Saremmo equiparati alla Turchia, all’Iran. Cospito non pretende la libertà ma un trattamento carcerario umano. È stato in carcere per nove anni e sa che vi resterà per lo meno per venti anni ancora. Non sta esercitando nessun ricatto o violenza nei confronti dello Stato. Questa è una frottola dei postfascisti. Cospito non minaccia, mette in gioco la propria vita.

Manifestazione di protesta per le condizioni di detenzione di Alfredo Cospito. Corteo da Piazza Vittorio a Largo Preneste. Roma, 4 febbraio 2023 (foto di Renato Ferrantini)

A me pare che il tema che Cospito pone attenga alla civiltà giuridica, come, in maniera straordinaria, storicamente pose Antigone. Cospito deve morire o vivere, pur se in carcere? Se fosse lasciato morire in carcere, ampio e forte sarebbero il disorientamento ed il trauma sociale. Uno spaesamento nei confronti della giustizia stessa. Le manifestazioni, a volte violente, a volte disperate della galassia anarchica non sono certo attribuibili a Cospito. Sono accuse indimostrate, sciocchezze che il presidente del Consiglio non dovrebbe pensare né pronunciare. Il fatto vero è che il sistema politico italiano ha la “sindrome” verso gli anarchici; è una coazione a ripetere: sto pensando a Valpreda, a Pinelli.

Cospito pone, quindi, temi seri che tutti i giuristi europei dibattono seriamente, giungendo a conclusioni quasi sempre contrarie alle rozze opinioni dei postfascisti italiani. Non parlo qui degli aspetti sistemici del 41bis e del carcere ostativo, che Left ha sempre costantemente argomentato. Ricordo solo che, al di là della contestazione degli istituti, va fatto un bilancio aggiornato della loro applicazione. Oggi vi sono (è un dato poco conosciuto) 749 detenuti sottoposti al 41 bis e ben 1280 detenuti condannati all’ergastolo ostativo. È stata, poi, di fatto abolita la discrezionalità del giudice nella fase esecutiva. Sta passando, ancor più ora con questo governo, la fallace concezione che il “carcere duro” tutto risolva. Torniamo dietro di un secolo. A parte l’inefficacia di questa concezione, questo securitarismo e questo panpenalismo negano i fondamenti costituzionali su giurisdizione e carcere. È opportuno citare letteralmente l’articolo 27 della Costituzione: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte».

Manifestazione di protesta per le condizioni di detenzione di Alfredo Cospito. Corteo da Piazza Vittorio a Largo Preneste. Roma, 4 febbraio 2023 (foto di Renato Ferrantini)

In apertura foto di Renato Ferrantini. Roma, 4 febbraio 2023

Renato Ferrantini vive e lavora a Roma come ingegnere. È appassionato di geopolitica e fotoreportage. Si dedica al tema delle migrazioni dal 2015, come volontario dell’Associazione Baobab Experience, su cui ha realizzato la mostra “Piazzale Maslax: una richiesta d’aiuto, di speranza” (2019). Reportage fotografici hanno accompagnato i suoi viaggi ad Algeri (2018), lungo la rotta balcanica della Bosnia e nel Kurdistan iracheno con le associazioni One life Onlus e Verso il Kurdistan (entrambi nel 2019). Durante il lockdown per il Covid-19 ha prodotto il progetto fotografico “Quarantena nel mio quartiere” (2020), documentando lo storico complesso romano del Tufello. A marzo 2022 ha realizzato per DINAMOPress un racconto per immagini dai confini ucraini di Romania e Moldavia. Parallelamente segue gli eventi di attualità sociale con particolare attenzione alle mobilitazioni studentesche, alle campagne per i diritti civili e alle lotte contro le discriminazioni etniche e razziali

 

Oggi l’Italia regala un’altra motovedetta alla cosiddetta Guardia costiera libica

Si terrà oggi a Adria, in provincia di Rovigo, presso il Cantiere navale Vittoria, la cerimonia di consegna alle Autorità libiche di una motovedetta “classe 300 “di nuova fabbricazione, nell’ambito del progetto europeo Sibmmill (Support to integrated border and migration management in Libya). Lo riferisce una nota informativa congiunta dei ministeri degli Esteri e dell’Interno. Lo scorso 28 gennaio, in occasione della visita in Libia del presidente del Consiglio Giorgia Meloni a Tripoli, i ministri Tajani e Mangoush hanno firmato un memorandum d’intesa che disciplina la consegna di cinque imbarcazioni alla Guardia costiera libica. Si tratta in particolare di due motovedette classe “Corrubia” (simili a quelle già in dotazione della Guardia costiera libica) e tre motovedette “classe 300” di nuova fabbricazione. Le motovedette classe 300 sono specializzate per le attività di salvataggio a mare (Search and Rescue, Sar); si tratta di una tipologia di imbarcazione già in uso alla Guardia costiera italiana.

La fornitura si inquadra nell’ambito del progetto europeo Sibmmil finanziato dal fondo della Commissione “Trust Fund Africa” di cui l’Italia è il principale soggetto attuatore attraverso il ministero dell’Interno. Il progetto, avviato nel luglio 2017, mira a rafforzare la capacità delle autorità libiche competenti nei settori della gestione delle frontiere e della migrazione, compresi il controllo e la sorveglianza delle frontiere, la lotta al contrabbando e alla tratta di esseri umani, la ricerca e il salvataggio in mare e nel deserto.

Gli obiettivi finti del progetto sono: rafforzare la capacità operativa delle autorità libiche competenti nella sorveglianza marittima, affrontando gli attraversamenti irregolari delle frontiere, compreso il rafforzamento delle operazioni Sar e dei relativi compiti di guardia costiera; allestire strutture di base per consentire alle guardie libiche di organizzare al meglio le operazioni Sar, di sorveglianza e controllo delle frontiere; assistere le autorità libiche interessate nella definizione e dichiarazione di una regione Sar libica con adeguate procedure operative standard Sar, compreso il completamento degli studi per sale operative a pieno titolo; sviluppare la capacità operativa delle autorità libiche competenti nella sorveglianza e nel controllo delle frontiere terrestri nel deserto, concentrandosi sulle sezioni dei confini meridionali maggiormente interessate dagli attraversamenti illegali.

Concretamente, senza troppi giri di parole, le nuove motovedette serviranno agli sgherri libici travestiti da Guardia costiera per accalappiare i disperati (che spesso pagano scafisti in combutta proprio con la cosiddetta Guardia costiera libica) per riportarli nelle prigioni libiche che l’Onu e le più importanti organizzazioni umanitarie hanno già bollato come illegali e infernali.

Complimenti. Buon lunedì.

Nella foto: una motovedetta della Guardia costiera “classe 300”

Raffaele Costantino: “L’urlo di Dakar”, voci di un’umanità in trasformazione

L’urlo di Dakar è un podcast prodotto da Hypercast sulla Laamb, la lotta tradizionale wolof, ponte tra contemporaneità e passato nel Senegal di oggi. Sport seguito da milioni di fan esattamente come il calcio con cui si contende la palma di “primo interesse nazionale”. Diviso in 6 puntate e parte di un progetto di più ampio respiro, il podcast diventa anche un pretesto per raccontare una delle più grandi metropoli del West Africa e indagarne riti, costumi, legami col passato, nuove tendenze musicali e slanci verso il futuro. Scritto da Raffaele Costantino, Marcello Giannangeli e Megan Iacobini De Fazio e prodotto in collaborazione con l’Istituto italiano di cultura a Dakar, il podcast è ascoltabile qui.
Abbiamo chiesto ad uno degli autori, Raffaele Costantino, come è nata questa idea, e di raccontarci alcune curiosità sul suo soggiorno a Dakar e sull’impatto di un occidentale con la cultura senegalese.

Raffaele Costantino, sei conosciuto come divulgatore di musica, sia attraverso la tua trasmissione Musical box, ormai da più di dieci anni nel palinsesto del fine settimana di Rai Rdio2 , sia attraverso la tua etichetta Hyperjazz , ma anche come producer/musicista meglio conosciuto come Khalab. Come è nata l’idea di questo podcast all’incrocio tra sport, cultura e musica?
Quando l’Istituto italiano di cultura a Dakar mi ha invitato per una residenza ho iniziato a studiare la cultura del Senegal per trovare un’ispirazione, un tema su cui incentrare il mio lavoro, ma non volevo concentrarmi esclusivamente sulla musica. Così dopo un po’ di ragionamenti e confronti con Megan Iacobini De Fazio che mi ha accompagnato nell’avventura, ci siamo appassionati sempre più alla lotta libera senegalese. Una disciplina che ha una forte componente tradizionale, che non prescinde (come ogni pratica sociale in Africa) dall’aspetto musicale e che ha influenzato moltissimo la cultura locale, anche nella sua fase di emancipazione dalle tradizioni.

Spesso torna l’idea che la Laamb, la lotta tradizionale di Dakar, sia una sorta di ponte tra passato e futuro. Antico e contemporaneo sono i termini che usi. Quanto è centrale nella cultura africana l’idea del tempo e come è vissuto diversamente rispetto alla cultura europea?
Sì, come dicevo, la lotta è un bellissimo esempio di tradizioni che si evolvono. Di popoli che quando serve sanno liberarsi della zavorra e che grazie a questo spirito riescono a coinvolgere diverse generazioni. La passione che la gente riversa su questo sport è figlia di diverse dinamiche, ma di sicuro il fattore tempo è importante. L’idea che tramite questo sport si rimanga in contatto con la propria cultura e si possa altresì intravedere una via di fuga verso il futuro. Immagina quanti giovani ragazzi senegalesi sognano di fare i lottatori da grandi, per la fama, per i soldi, per una questione di rivalsa sociale in generale. Sarebbe un percorso compreso da tutti, anche dai loro nonni, sarebbe un passaggio di testimone tra generazioni che resiste al tempo e che grazie al tempo migliora, non invecchia.

Mi sembra che dietro ogni lavoro di Khalab, esattamente come è stato per Mberra, un album uscito per Real World e realizzato insieme ai musicisti profughi del campo omonimo in Mauritania, c’è una ricerca di “suoni” letteralmente inauditi, soprattutto per le condizioni in cui vengono creati, in grado di convivere in forme e strutture nuove e collettive, piuttosto che semplicemente dare voce a esigenze artistiche ed espressive individuali. Hai usato questo approccio anche nell’ep Dk Laamb che uscirà in connessione con il podcast?
Alla fine, non so se uscirà mai un ep, credo che il podcast sia abbastanza esaustivo anche dal punto di vista del suono. Mi arrabbio sempre con me stesso quando per pigrizia intellettuale continuo a pensare a forme precostituite, senza sforzarmi di andare avanti, di guardare oltre. Mentre montavamo il podcast (dove non dovevano essere presenti i brani che poi abbiamo inserito) mi sono reso conto che poteva essere una bella sfida provare ad integrare il disco nel podcast. Mi è sembrato un esperimento interessante far sentire i brani nel podcast ed avere il podcast come strumento per raccontare la genesi della musica stessa. Sinceramente credo che questo per me sarà un possibile territorio di sintesi tra le mie diverse identità artistiche. Detto questo, rispetto al suono, io concepisco la mia attività artistica come una ricerca della sintesi perfetta. Considero la sintesi l’unico strumento fondamentale per l’innovazione, anche in ambito artistico. Ecco il perché di tanta ricerca sul campo, di tanto sperimentare sulle tecniche di registrazioni e sulla ricerca di nuove fonti sonore. In questo caso per esempio le fonti sono state i corpi umani molto grossi (ride) e le vibrazioni da essi prodotte.

Ti senti un po’ discepolo di etnomusicologi come Diego Carpitella e Alan Lomax quando vai con il tuo microfono a fare “registrazioni sul campo”? Ti affascinano queste figure e come ti senti legato a loro?
No, non scherziamo (ride). Loro erano persone serie, io sono prima di tutto un dj. Loro erano degli studiosi che studiavano per pura voglia di sapere, io ho un approccio meno accademico. Studio per applicare il risultato della ricerca ad un fine di tipo creativo, addirittura di intrattenimento. Certo gli interessi sono comuni ma i fini molto diversi. Chiaramente sono due figure che stimo immensamente.

La cultura hip-hop, di cui si parla ampiamente nel podcast, è chiaramente di matrice americana e ha ispirato e dato forma a tutti i suoi epigoni, anche in West Africa. Potresti raccontarmi quali caratteristiche rendono invece “diversa e originale” quella cultura in Senegal e quali sono i temi più ricorrenti nei testi?
La declinazione autoctona del genere in Senegal prende il nome di Galsen o Hip Hop Galsen. Un genere che si è sviluppato a Dakar già dai primi anni Ottanta. Ovviamente anche qui è legato moltissimo alle altre discipline dell’hip hop, come la danza (breakdance) i graffiti, e l’uso dei giradischi. Le informazioni all’epoca viaggiavano tramite vhs che in qualche modo arrivavano dagli Stati Uniti e dalla Francia. Alcune chiavi di volta in termini di distribuzione delle informazioni furono per esempio il concerto di MC Solar (celebre rapper francese ) a Dakar e la proiezione di un film dedicato alla cultura hip hop, Beat Street, che venne proiettato in molti cinema locali e fece aumentare la febbre a Dakar prima ed in seguito in tutta la zona, Ghana compreso. Uno dei gruppi più influenti del movimento è stato quello dei positive black soul, che univano il rap agli strumenti tradizionali come la Kora ed alla lingua nativa, il wolof. Nel podcast c’è una intera puntata dedicata al loro griot, Noumoucounda, con cui ho avuto il piacere di registrare dei brani bellissimi nel suo studio di Dakar, Karantaba Records. Nei testi, ovviamente, si parla di voglia di emancipazione e di politiche sociali e i politici lo ascoltano come termometro degli umori dei giovani, quindi ricopre un ruolo molto importante. Ma allo stesso tempo evidenzia spesso il senso di disillusione che i giovani di tutto il mondo provano come sentimento comune. Ma in generale, proprio il fatto di cantare nella propria lingua, assume l’importanza di una forte scelta politica e di consapevolezza nei giovani senegalesi.

Fa impressione il fatto che in media la popolazione senegalese abbia 18 anni, mentre quella europea 46. Come ti rapporti a questa realtà per cui stiamo segnando il passo come cultura del Vecchio continente rispetto alle culture “giovani” dei Paesi di quello che una volta veniva chiamato terzo mondo?
È il motivo per cui seguo da anni quelle scene creative. Il mio disco Black Noise 2084 uscito nel 2019 parlava proprio di questo, della mia visione di un mondo che nel futuro prossimo sarà interamente influenzato dalla cultura afrocentrica. Tutta la letteratura afrofuturistica parla di questo. Le scene creative africane, insieme ad una maggiore consapevolezza dei popoli, ad un sempre crescente livello di istruzione ed a una gestione evoluta delle enormi risorse del continente, faranno dell’Africa in generale, il luogo a cui guardare. Per quanto riguarda l’Italia, siamo chiaramente un paese invecchiato, stanco, che fatica a staccarsi dall’ancora delle tradizioni e delle convenzioni sociali, che ha paura di contaminarsi. Ma non è solo un nostro tema, tutta l’Europa soffre di invecchiamento precoce.

Pagare (molto) per vedere. La cultura scippata

I musei? Luoghi per soli ricchi. Il patrimonio artistico? Mero strumento economico e non di conoscenza o cittadinanza. Secondo il governo Meloni la cultura serve a questo. Voi che ne pensate?

Ne parliamo nella storia di copertina del nuovo numero di Left in uscita il 3 febbraio. Il governo Meloni, nei suoi primi cento giorni, ha già sferrato un duro attacco alla cultura. Il patrimonio d’arte, nell’intenzione del , viene considerato una miniera da sfruttare per fare cassa, i padri della letteratura come Dante ridotti a macchiette di destra, replicando nostalgie del , e i lavoratori dei Beni culturali, nonostante competenze altamente qualificate, lasciati nel limbo del precariato.

Questo nuovo numero di Left mostra in copertina la Venere di Botticelli pixelata: la si può vedere in tutta la sua meravigliosa bellezza solo a caro prezzo. Parte da qui la nostra inchiesta, dalla decisione da parte del ministro della Cultura di alzare il costo dell’ingresso alle Gallerie degli Uffizi a 25 euro dall’1 marzo. « », . E le famiglie italiane che fanno fatica a giungere alla fine del mese? E il diritto alla conoscenza sancito dalla Costituzione?

Con il contributo di storici dell’arte, archeologi, docenti universitari smascheriamo l’inquietante e inaccettabile progetto politico della destra. , professore di Storia dell’arte all’università di Firenze, scrive: questo progetto riduce «il museo ad attrattore patrimoniale forte e pressoché unico. Come se tutto il lavoro del ministero della Cultura dovesse convergere, anche attraverso la promozione di mostre, su questo solo obiettivo». L’archeologa sottolinea «una perdurante incapacità di considerare, e “usare” di conseguenza, il nostro patrimonio e, in particolare, i nostri musei come un potente mezzo di educazione collettiva».

Chi invece, era ben consapevole del valore del patrimonio per la conoscenza di tutti i cittadini, fu quel gruppo di storici e storiche dell’arte e di funzionari che salvarono migliaia di capolavori dalle razzie nazifasciste, come ricostruisce la docente di Storia dell’arte nel suo articolo sulla mostra “Arte liberata” in corso a Roma. «Un fondamentale valore immateriale, un valore civico e culturale indispensabile per il futuro delle nuove generazioni», scrive la direttrice di Left Simona Maggiorelli nel suo editoriale in cui evidenzia anche la “dimenticanza” del ministro Sangiuliano il quale, nella sua presentazione della mostra, glissa sulle responsabilità dei regimi di Hitler e Mussolini nell’attacco all’arte italiana. E al ministro e alla sua esternazione sull’autore della Divina commedia definito “fondatore del pensiero di destra” rispondono due studiosi di delle università di Princeton e di Berkeley, , approfondendo il concetto di lingua e di identità italiana nel poeta trecentesco.

L’archeologa si concentra sulla caotica e sconcertante gestione dei beni culturali in Sicilia, che da vent’anni produce l’emarginazione del personale più specializzato in materia. Infine le voci e le storie dei lavoratori dei beni culturali, gran parte dei quali, con contratti a tempo determinato o partite Iva non riesce a guadagnare più di 10mila euro all’anno, secondo quanto risulta da un ampio sondaggio promosso dall’associazione ? che da anni porta avanti una battaglia coraggiosa per il riconoscimento dei diritti e dell’identità professionale di migliaia di “invisibili”.

Nelle altre pagine di questo ricchissimo numero Left Francesco Troccoli elabora un bilancio di — insieme al presidente della Fondazione Gimbe, . Il Covid, che è ancora un pericolo per le persone anziane e vulnerabili, dovrebbe averci insegnato che la spesa sanitaria non è un costo – dice Cartabellotta – ma un investimento con importanti ricadute sulla crescita economica.

Sempre nella sezione Società indaghiamo sul . L’inchiesta di Lorenzo Fargnoli ricostruisce l’impressionante serie di paletti burocratici e ideologici che rallentano o addirittura impediscono il buon esito di un’adozione. Ma anche chi riesce ad adottare si trova spesso a fare i conti con l’idea patriarcale e religiosa della famiglia che pervade l’attuale legge sulle adozioni. La psichiatra e psicoterapeuta Barbara Pelletti dialoga con la poetessa e scrittrice Maria Grazia Calandrone, “figlia di due madri”.
Donatella Coccoli si occupa invece delle immense difficoltà che si incontrano nell’ di migliaia di minori stranieri non accompagnati. In tema di giustizia interviene il procuratore Francesco Menditto che fa il punto sui punti critici della a proposito della violenza domestica.

In Cultura ci occupiamo infine di letteratura, arte e teatro: da con Enrico Terrinoni a con Paola Italia, mentre Antonino Saggio e Simona Maggiorelli affrontano la pittura di alla luce di nuove scoperte sulla sua geniale arte. Chiude il numero una bellissima intervista di Chiara Lucarelli ad .

Le rubriche di questo mese sono a cura di: Luigi de Magistris, Filippo La Porta, Manlio Lilli e Giusi De Santis. Illustrazioni di Fabio Magnasciutti, Chiara Melchionna, Marilena Nardi e Vittorio Giacopini.
Buona lettura!

Link al sommario di questo numero

Buon compleanno, memorandum Italia-Libia

ActionAid ha messo un po’ d’ordine. Ieri si è rinnovato per altri tre anni il Memorandum di Intesa tra l’Italia e il Governo di accordo nazionale libico firmato nel 2017 dall’allora Presidente del Consiglio italiano Paolo Gentiloni, e Fayez Mustafa Serraj, Presidente del Consiglio Presidenziale.

L’intesa – mai passata dalla ratifica del Parlamento e concepita come estensione del primo Trattato di Amicizia tra i due Paesi siglato nel 2008 dal Governo Berlusconi – ha come obiettivo il rafforzamento della cooperazione tra i due Paesi al fine di aumentare la capacità del Paese nordafricano di fermare i flussi migratori verso l’Unione Europea. Un accordo di appena quattro pagine – si legge nel comunicato The Big wall di ActionAid – dove l’Italia si impegna a fornire mezzi, strumentazione, supporto tecnico e formazione alle autorità libiche preposte al controllo delle frontiere marittime e terrestri per aumentare la loro capacità di presidiare, intercettare e respingere i migranti in viaggio, in particolare verso le coste italiane.  

Nel quadro di questa rinnovata intesa, l’Italia, con il sostegno economico e politico dell’Ue, ha in questi anni destinato poco più di 124 milioni di euro per la fornitura di mezzi navali e terrestri, di motori, di strumentazione satellitare, di corsi di formazione, oltre che per la rimessa in efficienza di imbarcazioni e la fornitura di moduli abitativi per la creazione di un sistema integrato di controllo delle frontiere marittime e terrestri in Libia. Si tratta di una stima al ribasso realizzata dall’osservatorio sulla spesa esterna in migrazione dell’Italia, The Big Wall, di ActionAid. Una spesa difficile da monitorare, sia per la complessità nelle modalità di gestione, sia per i continui silenzi e dinieghi che le Pubbliche Amministrazioni coinvolte, in particolare Ministero dell’Interno e Ministero degli affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, antepongono alle continue richieste di accesso alla documentazione di dettaglio relativa ai progetti. Sullo sfondo un Parlamento che non ha mai svolto quella necessaria funzione di controllo sulla spesa che, secondo ActionAid, andrebbe estesa anche al merito delle attività finanziate, in particolare con riferimento alle conseguenze sui diritti umani delle persone migranti.  

Oltre ai costi monetari quel memorandum ha un costo umano e politico di cui gran parte della politica sembra non farsi carico. Non è meramente una questione di politiche di immigrazione, qui si tratta di un accordo con pezzi criminali ritenuto salubre per la nostra sicurezza e la nostra democrazia. Mentre la politica ieri discuteva su presunte vicinanze “mafiose” per la visita in carcere di alcuni parlamentari a pochi è venuto in mente di una vicinanza criminale, per niente presunta, a acclarati mafiosi travestiti di volta in volta da diplomatici o da ufficiali della cosiddetta Guardia costiera libica.

Perfino il compleanno di un accordo così sanguinoso è passato sotto silenzio come se fosse un male necessario. Anzi, abbiamo fatto di più: qualche giorno fa abbiamo regalato alla Libia cinque nuove motovedette fiammanti per attrezzare i criminali nell’azione di recupero di chi vorrebbe sfuggire dalla violenza delle prigioni libiche.

Buon venerdì.

Alessandro Bergonzoni: Siamo tutti opere d’arte

In una fredda giornata abbiamo avuto il piacere di incontrare Alessandro Bergonzoni, di passaggio a Roma per portare in Auditorium le ultime repliche del suo spettacolo Trascendi e sali, e la performance artistica Tutela dei beni: corpi del (c)reato ad arte (il valore di un’opera, in persona). Con lui abbiamo discorso a lungo sui temi del linguaggio, dell’arte e dell’impegno civile.

A dicembre hai portato in Auditorium, nella cornice inusuale del Museo Aristaios, una tua performance molto potente sul dramma di Stefano Cucchi. Puoi parlarci di come è nata?
Si tratta di un’altra mia incursione, ma non sulla parola, poiché qui c’è solo la mia voce fuori campo. È un’istallazione, in cui proietto la dissolvenza e “assolvenza” di un’immagine: dalle parole assolvere e dissolvere, perdonare e far andare in nulla. Parallelo al teatro è sempre andato avanti in questi anni il mio lavoro artistico di installazioni: lavoro col ferro, col vetro, con la materia. Così sono arrivato alla forma performance in un periodo in cui c’era un acuirsi dei drammi del carcere. Questo lavoro tratta di beni, opere d’arte, sotto la soprintendenza delle Belle arti, e di beni, opera uomo, sotto la soprintendenza del ministero di Giustizia: quindi tutela, conservazione e preservazione di questi beni, che vanno difesi, sia opera uomo che opera d’arte. La performance la porto in musei sotto l’egida dello Stato, come l’Aristaios all’Auditorium parco della musica, o come ho fatto agli Uffizi o a Brera e in altri musei. Non in galleria, perché la galleria non è sotto la sovrintendenza dello Stato. Il mio scopo è rapportarmi al tema artistico, non tanto politico o sociale, della detenzione: dell’arte e della bellezza di opere d’arte uomo e del filo che le collega. A completare il tutto c’è poi l’impatto di questa performance, di cui non posso svelare l’immagine, racchiusa in 20 minuti: è un po’ la punta dell’iceberg del mio lavoro artistico in questi anni.

Un impegno civile dell’arte?
Sì, mai strettamente politico però. Mi è stato chiesto di partecipare, di iscrivermi a movimenti politici. La scelta è di essere ancora, insieme a Riccardo Rodolfi, due battitori liberi, di non avere una squadra per la quale si lavora. L’impegno civile e sociale degli ultimi anni mi ha portato a – parola che non sopporto – battaglie che preferisco chiamare “condivisioni”. Condivisioni molto forti, partecipazioni sul tema della malattia. Per esempio, sono testimonial della Casa dei risvegli da vent’anni. Mi occupo di sensibilizzazione sul tema del coma, degli stati vegetativi, della coscienza; fino anche ad arrivare a parlare della pazzia, della follia, del rapporto con il proprio corpo, fino alla disabilità, e agli annegati, proprio perché “bisogna esporsi”. Siamo tutti un’opera, un’opera operante, che deve operare, con un’esposizione che non sia soltanto mettere un quadro in una galleria o fare una performance, ma esporsi nelle scuole, nelle piazze, nelle radio, e sui giornali.

Di recente collabori molto con i giornali.
Ho iniziato una fortissima partecipazione giornalistica negli ultimi dieci, quindici anni, con due rubriche, una sul Venerdì, da cui è nato il libro che si chiama Aprimi cielo, e poi la rubrica su Robinson tutti i sabati da più di tre anni. Ha avuto un impatto anche sul mio modo di scrivere. Per quella di Repubblica sono sei parole, tre parole, una parola, e questo mi ha portato a diventare quasi un haiku del senso, a sunteggiare, a stringere, levare, come per una scultura. Per me che di solito amo la mole, amo la massa, amo l’eccesso, è il colmo; e poi il lavoro della scrittura mi ha portato fino agli incontri, con due persone che mi hanno parlato e confrontato al Finnegans wake di Joyce, ad esempio, ma prima che io lo leggessi, dicendo che con lui avevo affinità. Enrico Terrinoni e Fabio Pedone, importanti e noti traduttori, mi hanno coinvolto in più eventi per parlarne.

Beh, tu sei in un certo senso un Joyce italiano.
Ringrazio loro, e te che lo ricordi, lusingato e responsabile. Le sue opere me le sono andate a vedere, mi sono letto, tra virgolette, Finnegans wake, a Dublino l’abbiamo “incontrato” e festeggiato e ci sono delle cose che ci uniscono. Se poi, a morte avvenuta, il mio lavoro possa essere tradotto, come è stato tradotto Finnegans wake da chi altamente ci è riuscito, io questo non lo so, lo spero. Mi piace pensare che forse si possano tradurre anche cose mie (è il mio limite e la mia frustrazione attuale col teatro). La mia parola l’ho portata di recente all’Istituto di cultura italiana a Parigi, a Salamanca, all’università, ad Amburgo, per poter, lì sì, parlare del mio lavoro in italiano con gli studenti di italiano. La grande novità è questa: poter lavorare il più possibile con i madrelingua stranieri che studiano la mia lingua, come ad esempio ad Oxford con gli studenti che studiavano italiano e che hanno fatto incontri con me per parlare di vita, scrittura, surrealtà, arte.

Cosa pensi che l’arte dovrebbe fare in questo momento storico e cosa non dovrebbe fare?
Sono ancora uno studente da un punto di vista di conoscenza artistica. Lo sa la mia compagna, figlia del pittore Pirro Cuniberti, che ha anche un po’ illuminato le mie lacune nel leggere l’arte, anche se l’istinto e l’impatto, diciamo così, percettivo possono permettermi di lavorare, e ricercare, come mi hanno detto alcuni galleristi. Vedo che ora però il mercato è diventato molto “finanziario”, è un mercato vero e proprio, è vendita, è scambio, è prodotto. E mi accorgo che c’è la finanza anche dietro l’arte: un tema che mi perplette. Indubbiamente per me l’arte ha innanzitutto sempre un rapporto con la parte spirituale, visionaria, con la parte immaginifica, con la parte ad oltranza, ossessiva, che sicuramente fa vedere quello che c’è dietro l’opera: tutto quello che non vedi, dell’opera, quello che ti fa mistero, non la sola rappresentazione materiale. Questo mi interessa: andare a cercare nelle biennali, andare a vedere nelle mostre, nei musei, cercare l’arte contemporanea, l’arte moderna, e cercare di lavorare anche con la scrittura, con il segno, col tratto, per cavare fuori qualcosa. Di solito nel teatro, nella scrittura, carico, riempio, ma nell’arte mi piacerebbe invece arrivare all’essenza, pulire, rendere un oggetto o una particolare installazione talmente secca e asciutta da cercare di far intravedere un assoluto quasi fino alla cellula stessa.

L’arte come mistero, dunque?
Spesso cerchiamo il significato di un’opera d’arte. Io mi lascerei molto più andare, mi affiderei anche al buio, al mistero, all’arcano, al sacro. Anche questo è un tema che mi coinvolge molto: in certi luoghi, come le carceri, gli ex manicomi – e io i manicomi li ho frequentati per andare a trovare amici o persone che mi avevano coinvolto nelle loro vite – fare opere, presenziare, fare gesti, “fare voce”, fare suoni già parte di un’opera artistica. Dentro le quattro mura di una cella di due metri per tre, dentro un luogo che vedeva una volta i letti di contenzione, tutto quello che prima della legge Basaglia era stato tortura, devastazione, vessazione, violenza: lì dentro si devono continuare a portare arti ed arte. Ora sto, per esempio, preparando un’installazione legata alla guerra ma non solo: il tavolo delle trattative. Un grandissimo tavolo, sostenuto non dalle sue gambe, ma da arti artificiali, le gambe delle persone che hanno perso gli arti perché nessuno si è seduto al tavolo delle trattative. Quando dicono che la guerra c’è sempre stata, è vero, ma non per questo io non chiedo la pace. Vorrei interrompere questo ciclo, pretendo queste interruzioni. (L’idea è piaciuta molto anche a Emergency). Sono tantissime le immagini che abbiamo visto grazie a Gino Strada di tutte queste persone mutilate e successivamente salvate attraverso appunto arte ed arti. Che siano, questi, un simbolo che sostiene un’operazione che non si è fatta e che si deve fare.

Stai pensando ad altre opere di questo tipo?
L’altra opera è un podio infinito. In una piazza. Il podio infinito è un podio che comincia dal quarto posto e non finisce: perché non c’è un primo, un secondo e un terzo. Non vince nessuno, ma molto spesso perdono tutti, quando non vincono tutti. Ribalta completamente il tema dell’agonismo, del suprematista, del prevaricare. Un’altra installazione può essere un’altalena, un’altalena da muro, contro il muro. Tu la puoi spingere ma il bambino va a sbattere con la schiena. Così anche uno scivolo che va a finire contro le macerie, un gioco che c’è, ma il bambino non si può più divertire perché qualcosa lo impedisce; lo blocca una guerra, lo blocca una bomba, un palazzo distrutto, lo blocca la povertà. Come mi piacerebbe fare per il tema del riscaldamento climatico, una lapide con scritto: “Terra: terrà?”. Un’opera? Ma anche uno slogan. Scrittura che fissa. Questa versatilità mi ha portato ad un’altra frase per i migranti che passarono quel delirante numero di giorni in mare, nella Diciotti, in quelle condizioni. Scrissi: “la miglior difesa è l’attracco”. In quella frase che cosa c’era? Salvezza e invocazione? Forse tutto, senza eccezioni.

In apertura: Alessandro Bergonzoni, foto di Chiara Lucarelli

Sì, Vincent, la vita è forma e colore

Olio su semplice cartone. Colori esplosivi irraggiano intorno al volto di Vincent van Gogh (1853-1890). Colori di sole, anche se il giovane volto del pittore è intensamente drammatico. Il cuore pulsante della mostra Van Gogh aperta fino al 26 marzo in Palazzo Bonaparte a Roma è il celebre autoritratto che l’artista olandese dipinse a Parigi, tra l’aprile e il giugno 1887.
Questo bruciante autoritratto campeggia insieme ad una quarantina di opere del maestro olandese, tutte provenienti dal Kröller Müller Museum di Otterlo, originalissimo museo immerso nella foresta dei Paesi Bassi.
Se non avete ancora avuto l’occasione di visitare questa emozionante esposizione romana, febbraio è il mese giusto per farlo. Senza più la calca delle feste e prima che arrivino i nuovi flussi turistici di primavera c’è modo di poter distillare con calma il piacere di vedere dal vivo una serie di straordinarie opere di van Gogh, poco viste, proprio perché conservate fuori dai più battuti circuiti espositivi.

La collezione Kröller Müller – che oltre ad opere di Van Gogh comprende opere di Picasso, Renoir, Gauguin e molti altri – nacque per impulso di Helene Kröller-Müller (1869- 1939), figlia e moglie di industriali che non si accontentò di fare l’ancella del focolare, di starsene chiusa nel proprio agiato privato, ma usò il patrimonio di famiglia per creare un museo che raccontasse quell’arte che per lei rappresentava l’umanità più profonda, le vette più alte della creatività. Con il marito Anton Kröller acquistò 11.500 opere d’arte, fra le quali 91 dipinti di Van Gogh e moltissimi disegni. E quando i soldi di famiglia finirono convinse le istituzioni pubbliche a investire nella creazione del Museo Kröller Müller di cui divenne direttrice. Il primum movens, dunque, fu la sua passione per la pittura di Van Gogh di cui fu tra le prime estimatrici, ben prima che il talento del pittore fosse universalmente riconosciuto.

Prova ne è la mostra romana che inanella una serie di perle, appartenenti a periodi differenti della sua breve e folgorante parabola: dai primi ritratti di contadini in stile socialisteggiante alla Millet, allo spessore di quadri, fatti di solo colore, come Il seminatore (1888) fino al drammatico Burrone (1889) che allude alla catastrofe imminente, che avvenne nella mente di Van Gogh nei giorni del tragico epilogo della sua vita.

Ma procediamo passo passo. Intercalate da capolavori di Lucas Cranach e di altri maestri della collazione Kröller-Müller, sfilano in Palazzo Bonaparte opere giovanili di Van Gogh che ritraggono lavoratori e lavoratrici delle campagne. Cercava una spontaneità lontana da moduli accademici. I suoi soggetti preferiti «erano donne impegnate in cucina o in lavori di cucito, ora intente a trasportare pesanti sacchi, ora sul punto di cullare un bambino, e insieme uomini colti nella fatica del lavoro nei campi e nei boschi», scrive Maria Teresa Benedetti che, insieme a Francesca Villanti, cura il catalogo Skira che accompagna la mostra. Van Gogh cerca soprattutto l’essenzialità. Dapprima tramite il disegno, poi attraverso il colore, cercando di dare rappresentazione al senso emotivo di ciò che vede.
Via via sempre più “forte” è il risultato del ritratto di un anziano che, chino in avanti, si tiene la testa. In mostra a Roma ce ne sono due versioni, che ben raccontano il passaggio da una pittura naturalistica tradizionale a una folgorante pittura di visione che illumina e dà forma al vissuto interiore.

Tutto ciò che sente vero e originale attrae Van Gogh. Con questo approccio si dedica a “vedute” di campagna. Cerca una spontaneità lontana da moduli della pittura consacrata dalle istituzioni del tempo. Le sue donne hanno musi affilati come quelli delle gatte che le circondano. Non c’è nulla di idilliaco in queste rappresentazioni, ma asprezza delle condizioni di vita e condivisione, intensa umanità.
A poco a poco la sua attenzione si sposta alla città. Ma il suo atteggiamento non cambia, resta attratto da ciò che, ai più, poteva apparire periferico. Nel 1882 torna all’Aja dove dipinge una serie di scorci urbani su input dello zio Cornelis Marinus van Gogh, commerciante d’arte in Amsterdam. È in questo periodo che matura la sua pittura al nero: «Versa latte sui disegni a matita, ottenendo un effetto opaco e profondo nel nero, e utilizza il gessetto litografico e l’inchiostro da stampa per riuscire a ottenere le sfumature di nero volute», riporta Benedetti.

La vera svolta però avviene dopo il suo arrivo a Parigi nel 1886. La tavolozza si apre ai colori luminosi degli impressionisti, sperimentando la potenza dei contrasti simultanei che accendono i viola con gli arancio, i gialli con i blu.
L’altra svolta decisiva avviene quando decide di trasferirsi ad Arles in cerca dei colori del Sud, inseguendo il sogno di dar vita a una comune, a un collettivo di artisti, in cui poter lavorare insieme, fianco a fianco, ognuno seguendo la propria ricerca, ma in un’atmosfera che protegga la dimensione irrazionale di ognuno. In mostra il periodo di Arles è raccontato attraverso quadri come Nella natura morta, cesto di limoni e bottiglia dipinta nel maggio 1888. «Ogni spazialità disegnata è eliminata, le forme si collocano in un morbido assemblarsi e fluire senza rigore, con grande dolcezza. Si avverte il senso di una nuova libertà. Fin dall’arrivo, il pittore sfrutta le suggestioni di quella terra, cerca di rinnovarsi e riversare nei suoi dipinti un clima vitale di giovinezza», annota Maria Teresa Benedetti nel catalogo Skira. Sono gli ultimi sprazzi di luce, gli ultimi sprazzi di vita.

Il mistero del calesse di Van Gogh

Un bel documentario Van Gogh tra il grano e il cielo, è stato  dedicato qualche anno fa a Helene Kröller-Müller (1869 – 1939) filantropa e collezionista tedesca che intuì per prima la forza dell’arte di Vincent van Gogh. Scelse, assistita dal suo professore d’arte, uno a uno i quasi trecento pezzi della sua splendida collezione (donata all’Olanda, è oggi custodita in un museo immerso nella foresta presso Otterlo). Tra i quadri della collezione Kröller-Müller vi è Strada con cipresso sotto un cielo stellato, un “tableau”, come lo definiva van Gogh, cioè una opera rappresentativa della sua arte dipinta su una grande tela da “30”. Si è soffermato a lungo su questo quadro Marco Goldin responsabile scientifico del documentario e dell’omonima mostra (a Vicenza nel 2017), una tra le molte che ha dedicato a Van Gogh. Autore anche di un recente volume sul pittore olandese (Gli ultimi giorni di Van Gogh. Il diario ritrovato, Solferino, 2022) , Goldin però non ha neanche sfiorato quei dettagli di Strada con cipresso sotto un cielo stellato di cui parleremo in questo articolo, né li hanno mai notati altri studiosi. Si vedrà invece che sono proprio questi particolari che gettano una luce nuova non solo sul dipinto, ma anche sulle vicende tormentate della vita del famosissimo pittore.

Un racconto ambiguo
Dopo la morte di Vincent van Gogh avvenuta nella notte del 29 luglio 1890 furono trovate nella soffitta della locanda dove alloggiava a Auvers-sur-Oise alle porte di Parigi poche cose e tra queste due lettere mai inviate. Una – indirizzata al fratello Theo – costituiva l’ultima pagina di una straordinaria opera letteraria composta di 668 lettere dal 1873 al 1890; l’altra, datata 17 giugno 1890, era invece diretta a Paul Gauguin, grande pittore con cui Van Gogh aveva vissuto e lavorato a Arles un anno e mezzo prima e con il quale, anche dopo l’episodio dell’amputazione dell’orecchio – di cui Gauguin fu più che testimone – Van Gogh aveva continuato ad avere rispettosi rapporti epistolari.

La lettera è piena di dolore e di allusioni, e forse per questo non fu inviata. Inizia con la descrizione della sesta versione (una è alla nostra Galleria nazionale di arte moderna a Roma) del ritratto di Marie Ginoux, L’Arlesiana. Il quadro e la stessa parossistica ripetizione delle copie nasconde un abisso psicologico. Il ritratto infatti ricorda una seduta di lavoro nella Casa gialla di Van Gogh a Arles quando Gauguin riuscì a fa venire la bella signora nello studiolo al pian terreno della casetta. Van Gogh dipinse furiosamente un ritratto – oggi al Museo d’Orsay a Parigi – a cui Lionello Venturi dedicò indimenticabili pagine. Nel periodo del suo isolamento in casa di cura a Saint-Remy Van Gogh dipinse, come si diceva sei versioni de L’Arlesiana tutte basate non sul proprio quadro ma bensì sul disegno che Gauguin aveva realizzato nella sessione di lavoro congiunta. Insomma ce ne sarebbe da discutere. Ma lasciamo questa questione e concentriamoci sul dipinto, Strada con cipresso sotto un cielo stellato. Il quadro fa parte di un gruppo di una decina di quadri creati da van Gogh “a memoria” o come li preferiva chiamare con Gauguin, “astratti”. Una tecnica assolutamente abituale in Gauguin – si ricorderà il suo capolavoro il Sermone – ma del tutto secondaria in Van Gogh. L’aspetto di introspezione ingenerata da un dipinto basato sui ricordi innesterà sempre in lui veri e propri tormenti. In Strada con cipresso sotto un cielo stellato forte è la volontà di riassumere i vari aspetti della sua esperienza in Provenza: la campagna, il cipresso, i viandanti; si tratta di una sorta di addio al Sud quando ormai stava per partire per Auvers-sur-Oise dove morirà appena due mesi dopo.

Molto particolare nel quadro è la rappresentazione prospettica, in contrasto tra l’andamento della strada vista dall’alto e i personaggi raffigurati frontalmente. Anche inusuale è l’impostazione bipartita del dipinto (una vera rarità nei quadri di Van Gogh). Il gigantesco cipresso divide a metà il dipinto e questa presenza, tutt’altro che convincente dal punto di vista della composizione, è plausibile dal punto di vista dell’immedesimazione simbolica del pittore con l’albero. La qualità più alta del dipinto è in un cromatismo potentissimo. Il turbinìo di colore sulla grande stella di sinistra che parte dal giallo per trasformarsi in uno stupendo verde cinabro chiaro per diventare bianco-rosa in altri frammenti di colore è un pezzo di pittura meraviglioso. Il cipresso vibra di colori, e geniali sono le pennellate azzurre che rimandano al cielo come se l’albero ne assorbisse l’atmosfera. Il bordo tra il campo e la strada è bello, così ondulato, come scosso dal vento di Mistral che colpisce la Provenza. Quando tirava impetuoso, Van Gogh dipingeva dal vero legando ai massi il cavalletto.

Ecco come descriveva il quadro a Gauguin: «Ho ancora laggiù un cipresso con la stella, un ultimo tentativo, – un cielo notturno con una luna senza splendore, una falce sottile che emerge dall’ombra opaca proiettata dalla terra, – una stella con uno splendore esagerato, se vuole, uno splendore dolce di rosa e verde in un cielo oltremare sul quale corrono le nuvole. In basso una strada bordata di alte canne gialle, dietro le quali delle Alpi basse azzurre, una vecchia locanda con le finestre illuminate arancione e un altissimo cipresso dritto e cupo. Sulla strada una carrozza gialla tirata da un cavallo bianco e due ritardatari che camminano. Molto romantico se vuole, ma credo anche molto provenzale. Credo che inciderò ad acquaforte quello studio e altri paesaggi e soggetti, ricordi di Provenza, e allora me ne farò una festa di regalargliene uno, tutto un riassunto un po’ pensato e studiato».  (Lettera a Gauguin del 17 giugno 1890).

Van Gogh vuole sottolineare prima con il ritratto “comune” dell’arlesiana e poi con la scena dei viandanti l’esperienza con Gauguin nei mesi passati insieme in Provenza. Ma nel dipinto non v’è traccia alcuna di questo percorso intellettuale, al contrario i due personaggi sono diventati senza ombra di dubbio due contadini. Van Gogh narra a Gauguin una storia che non corrisponde affatto alla realtà del dipinto. Serve a catturarne la benevolenza o dietro questa omissione si nasconde ben altro?

Coppie / coppia
Tutto il quadro è pervaso dal tema della coppia. In alto si nota la coppia stella-luna ai due lati dell’enorme cipresso e sul lato sinistro ancora una coppia stella grande – stella piccola. Se si confronta con attenzione lo schizzo che Van Gogh disegna nella lettera e il dipinto si rimarrà sorpresi però da un’altra differenza, questa volta fondamentale.

Nello schizzo a Gauguin il calesse è guidato da un solo uomo, mentre nel dipinto dentro il calesse vi è una coppia. Se si ingrandisce il dettaglio si nota una giovane con cappellino e camicetta e un uomo che ha barba rossa ed è vestito di azzurro. È l’effigie di Vincent che vestiva spesso una sorta di giacchetta jeans da marinaio. Inoltre nella lettera Vincent è esplicito sulla natura dell’edificio in alto a destra. Non si tratta di una casa di campagna, o di un ricordo della sua Olanda, ma «di una vecchia locanda». Questi due dettagli, come si capirà, nascondono il segreto del quadro e del mondo stesso del pittore molto più della spesso fantasiosa descrizione degli astri nel cielo su cui si è soffermata la critica.

Le visite
Nel periodo di internamento alla clinica psichiatrica di Saint-Rémy, Van Gogh si recò a Arles – la città in cui aveva vissuto per più di quattordici mesi l’anno prima – almeno quattro volte. Il 29 gennaio 1890 il dottore che lo aveva in cura scrisse al fratello Theo che ogni volta prima di un viaggio il pittore era presente a sé stesso, ma che ogni volta che tornava in clinica aveva una crisi di più o meno lunga durata. È molto interessante quindi sapere che Van Gogh non solo usciva dalla casa di cura per dipingere ma che andava di tanto in tanto a Arles. Evidentemente lo psichiatra soppesava con attenzione i “dare-avere” che questi ritorni a Arles comportavano. Una gita a Arles lunga e importante fu compiuta dal 18 gennaio sino al 19 o al 20 gennaio del 1890.

Su questa gita sempre il dott. Théophile Peyron, scrive: «Sono stato obbligato a mandare due uomini a raccoglierlo, e non è noto dove egli trascorse la notte tra sabato e domenica». Il dottore in due righe ci fornisce tre dettagli tanto decisivi che incontrovertibili. Innanzitutto che chi lo accompagnava o lo lasciò solo in una sorta di patto tra gentiluomini, o se lo fece sfuggire. Il secondo è che del pittore si persero letteralmente le tracce nella notte tra il sabato 18 gennaio e la domenica 19 di gennaio. Il terzo è che in Van Gogh sopravvenne una crisi talmente forte che, dopo essere stato avvertito, lo psichiatra dovette mandare due uomini per riaccompagnarlo all’asilo. Che ha a che vedere tutto questo con l’arte vi chiederete? Ne ha in realtà, perché senza queste nuove conoscenze non si comprende il dipinto né i suoi messaggi nascosti.

Riportato in piena crisi alla casa di cura, Van Gogh ne riemerse solo parzialmente per ricadere nella seconda parte di febbraio nella crisi più terribile e lunga che durò sino alla fine di aprile; nei primi dieci giorni di maggio dipinse appunto il quadro di cui ci stiamo occupando. Ora, finalmente, attraverso il collegamento degli elementi raccolti – il calesse, la locanda, la coppia, l’affermazione del dottore, la crisi – si può formulare una ipotesi sulla scena rappresentata nel dipinto.

Tutto un riassunto molto romantico
Presumibilmente, ecco cosa accadde. Sabato 18 gennaio 1890 la coppia lascia Arles e arriva in calesse alla locanda di campagna per un ultimo abbraccio. Ecco spiegato perché «non è noto dove egli trascorse la notte». Al tramonto passeggiano tra i campi accanto alla locanda. Van Gogh vive tutto molto intensamente e forse la sera del 18, forse l’indomani, domenica, ha una crisi. Delle sue condizioni è avvertita la clinica e degli inservienti lo vanno a “raccogliere” (uno con ogni probabilità fu Francois Poulet, ritratto in un bellissimo dipinto anch’esso alla Gnam di Roma). Strada con cipresso sotto un cielo stellato è quindi veramente “tutto un riassunto” della sua vita in Provenza, «molto romantico, se vuole». I misteri e i messaggi come spesso fanno i pittori sono nascosti nei dettagli. Ma vi è un altro quadro “misterioso” dello stesso periodo, Coppia che passeggia sotto la luna. Si tratta di un paesaggio montuoso con la luna crescente acquistato da P. M. Bardi per il Museo di San Paolo in Brasile. Nella coppia che passeggia di nuovo l’uomo, al di là di ogni ragionevole dubbio, è Van Gogh (barba e capelli rossi, vestito azzurro). La donna è vestita di giallo e ha un braccio sollevato come se pregasse o parlasse di qualcosa di alto e importante. Oltre alla contemporanea esecuzione dei dipinti, altri dettagli in comune sono rivelatori.

Innanzitutto la presenza della falce della luna nel cielo in alto a destra, poi il profilo delle Alpi e il loro colore blu di Prussia con sfumature viola e infine il colore della terra quasi bianca. Ora si colleghino idealmente i due quadri in modo che le linee delle montagne si sovrappongano e si avrà anche visivamente l’idea di due momenti di una vicenda che ritorna “alla memoria”, forse solo agognata, ma più probabilmente realmente accaduta: quella locanda, quel calesse, quella passeggiata, quella donna, Coppia che passeggia sotto la luna forma con il primo un dittico, come una foto scattata in un tempo appena un poco diverso o come nelle formelle dei dipinti medievali con le diverse fasi delle vita dei santi. Ma chi è la ragazza con il cappellino con lui nel calesse e a passeggio nei campi? A lungo nel mio libro (I segreti di Vincent van Gogh, Vita nostra edizioni ndr) spero di aver convinto i lettori che si tratti proprio di Rachel, la giovane cui van Gogh portò l’orecchio mozzato la notte dell’alterco con Gauguin. Ma se si tratti effettivamente di Rachel o sia una figura a metà vera e a metà sognata, ha interesse relativo. Non è quella del sogno e del desiderio l’unica verità dell’arte, anzi l’unica realtà che valga la pena di essere vissuta?

Il libro
“I segreti di Vincent van Gogh. Rachel, Paul e Theo” (Vita nostra edizioni) è il nuovo libro di Antonino Saggio, professore ordinario di Composizione architettonica alla Sapienza Università di Roma. Nel testo, ricchissimo di approfondimenti sulla pittura dell’artista  olandese, si ripercorre l’ultimo periodo dell’esistenza di Van Gogh caratterizzato «dalla centralità della figura di Rachel, la giovane di Arles cui Vincent portò l’orecchio amputato le notte del violentissimo alterco con Gauguin».   

* In alto: Vincent van Gogh, Strada con cipresso sotto un cielo stellato, Saint-Remy, 12-
15 maggio 1890 c., Kröller-Müller Museum, Otterlo, Paesi Bassi