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Il massacro di Addis Abeba e la ferocia del colonialismo italiano

Il 19 febbraio (Yekatit 12 nel calendario etiope) l’Etiopia commemora l’86° anniversario del massacro di Addis Abeba in ricordo dei 20mila civili innocenti uccisi dal regime fascista nel 1937 a seguito di alcune bombe lanciate da ragazzi eritrei verso le autorità colonialiste italiane, ferendo il generale Rodolfo Graziani, figura che diventa emblematica nel rimosso di questa fase storica in Italia, nella politica così come nella cultura mainstream. Perché a Graziani, governatore della Libia, della Somalia e viceré di Etiopia, è stato dedicato un monumento ad Affile, suo comune di nascita in provincia di Roma, benché fosse considerato un criminale di guerra dall’Onu.

La parabola del colonialismo italiano continua infatti a tacere o a banalizzare la portata di quelli che furono efferati crimini contro l’umanità, mai riconosciuti come tali e artefici sotto il nuovo nome di neocolonialismo delle conseguenze che ancora oggi si abbattono sui nativi delle terre d’oltremare.

Non c’è, di fatto, nella società contemporanea del nostro Paese l’esigenza di costruire una coscienza critica che sviluppi un nuovo senso comune, storico e civile, sulle mire e sulle conseguenze dell’espansionismo che, prima nell’età liberale e poi con il fascismo, avviarono l’Italia alla conquista dell’Eritrea, Somalia, Libia ed Etiopia. Solo con la fine del secondo conflitto mondiale, il Trattato di Parigi del 1947 sancirà la perdita per l’Italia di tutte le sue colonie, ad eccezione della Somalia che le fu assegnata sotto forma di amministrazione fiduciaria delle Nazioni Unite fino al 1960, anno della sua indipendenza.

Più di ottant’anni di colonialismo italiano non sono dunque riusciti a scalfire, nell’immaginario collettivo, il topos dell’ “italiano buono” portatore di civiltà e lavoro; una vulgata nostalgica e retorica, mai seguita da un dibattito pubblico nazionale, costruita attraverso gravi mistificazioni ed operazioni censorie che ne hanno ostacolato e condizionato la ricerca storica.

Solo di recente, lo scorso 6 ottobre, il Consiglio comunale di Roma Capitale ha approvato la mozione 156 che istituisce il 19 febbraio “Giornata in memoria delle vittime del colonialismo italiano” che, come si diceva, è il giorno di inizio della strage di Addis Abeba nel 1937.
Facciamo il punto della situazione con Kwanza Musi Dos Santos, attivista per i diritti umani che da anni porta avanti campagne di mobilitazione e istanze a livello sociale e istituzionale per le comunità marginalizzate e co-fondatrice dell’associazione Questa è Roma composta da giovani italiani di origine straniera, nata con l’obiettivo di emarginare ogni forma di discriminazione attraverso l’arte e la cultura.

Se da una parte sono trascorsi molti anni dal colonialismo italiano, dall’altra ci sono fatti storici che non sono avvenuti sotto i nostri occhi. Anche per questo motivo vengono percepiti forse come se non ci fossero mai appartenuti. Ha invece un senso, secondo lei, parlarne ancora oggi? E perché?
Non credo che, siccome il colonialismo italiano è avvenuto “lontano dai nostri occhi”, questa possa essere una motivazione plausibile perché allora, in generale, non avrebbe senso celebrare la storia o conoscere la storia degli antichi romani che è accaduta ancor prima. Mentre per esempio, per quanto riguarda il colonialismo ci sono ancora persone vive, che hanno fatto parte attiva di questa terribile pagina della storia italiana. Ci sono ancora dei nonni in vita, che erano colonialisti all’epoca e quindi non penso sia una questione temporale. Penso piuttosto che tale rimozione sia stata fortemente voluta. Questo si vede anche da come, per esempio, venga data la giusta attenzione all’olocausto, che è avvenuto in concomitanza, negli stessi anni, e vengano invece completamente tralasciati i crimini del colonialismo italiano … Non si dà, non si è volutamente data visibilità ai fatti del colonialismo italiano proprio perché c’è una volontà di rimozione storica che è anche legata a quanto accade ai giorni d’oggi. Gli eritrei, ad esempio, (e non soltanto loro purtroppo) rischiano la vita in mare e spesso la perdono, ma c’è la volontà del governo italiano di far sembrare come se queste persone non “meritino” diritto di asilo, ancor di più se il motivo per il quale scappano dalle loro terre c’entra anche con tutto quello che noi abbiamo fatto a casa loro.

Se dovesse raccontare qualcosa ai giovani stranieri che arrivano in Italia affrontando i “viaggi della speranza”, quale nesso proverebbe a fare con il colonialismo?
Ecco, in parte ho risposto nella prima domanda… È questo il nesso con il colonialismo: continuare a comportarci come se tutto ci è dovuto e tutto ciò che invece “gli altri” desiderano se lo devono meritare, rischiando la vita e sacrificando tutto quello che hanno, mentre noi continuiamo ad avere tutto il diritto di andare in giro a colonizzare! E questa arroganza, questa strafottenza la si vede e la si riscontra ancora quando, ad esempio, andiamo a fare viaggi di piacere in questi Paesi, perché purtroppo andiamo lì portandoci dietro questo pensiero colonizzatore, di superiorità nei confronti dell’altro, del “diverso”.

Nei programmi scolastici non è ancora ufficialmente inserita la storia del colonialismo italiano. Quando se ne parla e si fa ricerca storiografica è perlopiù merito dello straordinario lavoro del corpo insegnante che si muove per iniziativa personale. Cosa ne pensa?
Questo, a mio parere, rientra nel cosiddetto “razzismo istituzionale”. La scuola è una istituzione e in quanto tale nella scuola si continua a riprodurre questo sistema di oppressione strutturale delle persone “non bianche” e delle persone afrodiscendenti, in questo caso. Si continua ad offrire quell’immaginario secondo il quale i “neri italiani” non esistono, gli africani sono tutti dei poveracci e noi, se e quando interagiamo con gli africani, lo facciamo per il loro bene perché noi siamo “italiani brava gente” e loro ci devono ringraziare per quanto facciamo e per quanto abbiamo fatto. E dunque questa retorica deve continuare anche a livello dell’istituzione scolastica. Io dico grazie invece a quei pochi insegnanti che riescono ad uscire da questo binario, proponendo più contenuti. Ma è gravissimo che si riesca a dire qualcosa di altro solo attraverso l’iniziativa personale di alcuni.

Cosa pensa della recente approvazione da parte del Consiglio comunale di Roma Capitale dell’istituzione della “Giornata in memoria delle vittime del colonialismo italiano”. Ci si è arrivati molto tardi, non trova?
È stata assolutamente tardiva l’approvazione da parte del Consiglio comunale di Roma ma è pur vero che la città di Firenze, già qualche mese prima, e la città di Roma sono state le prime città italiane ad approvare questa Mozione sul tema del colonialismo italiano, anche in modo decisamente esplicito. Quindi lo reputo un segnale decisamente positivo anche se ci siamo arrivati molto tardi.

Secondo lei, cosa si sta muovendo a livello nazionale?
A livello nazionale già da tempo ci sono realtà collettive che realizzano passeggiate o interventi artistici, focalizzando il lavoro sui vari monumenti o targhe che ancora oggi nelle città celebrano i colonialisti e il colonialismo italiano. A livello di società civile c’è ad esempio la “Federazione delle Resistenze” mentre a livello istituzionale stiamo lavorando insieme all’Anpi per una proposta di legge a livello parlamentare. Proposta che a breve dovrebbe essere presentata.

Ci siamo spesso ritrovati a scrivere che la società civile è molto più avanti delle istituzioni ma è pur vero che il nostro Paese persevera, continuando a sottrarsi ai suoi obblighi di Paese civile. I pregiudizi che ancora oggi caratterizzano la nostra visione dell’ “altro” sono senza dubbio l’eredità più significativa della storia contemporanea del nostro Paese, ed in particolare dell’infelice storia del colonialismo.

La rassegna

Per contribuire ad avviare un processo di riflessione collettiva e studio sui crimini del colonialismo italiano, la Rete Yekatit organizza dal 13 al 19 febbraio 2023 a Roma una settimana di riflessioni, passeggiate, concerti, dibattiti e altre iniziative volte a sostenere e promuovere l’applicazione della mozione 156 approvata dal Consiglio Comunale di Roma Capitale il 6 ottobre 2022 per la ri-significazione dell’odonomastica coloniale presente nella città di Roma e l’istituzione del 19 febbraio come “Giornata di riflessione sui crimini e sulle eredità del colonialismo italiano”.

Tantissimi i protagonisti, fra i quali l’africanista Triulzi e lo storico Focardi e l’archeologa Maria Pia Guermandi. Tantissimi gli spazi coinvolti a cominciare dalla Biblioteca antirazzista di Roma, la Fondazione Lelio Basso, La Biblioteca Mandela, al Museo delle civiltà- Museo Pigorini e molti altri

 

Ecco il programma completo della rassegna a Roma

 

(Ha collaborato Mariangela Di Marco)

Nella foto: particolare del monumento eretto nel 1955 ad Addis Abeba in memoria delle vittime della strage del 19 febbraio 1937

Condannati per discriminazione: il razzismo è nelle sentenze

Era già accaduto nel 2019. «Rilasciare il certificato di idoneità alloggiativa ad un costo troppo oneroso, anche se in astratto non è richiesto ai soli stranieri, è discriminatorio perché solo per essi finisce per incidere su diritti fondamentali della persona come quelli alla unità familiare. Il certificato serve infatti per le pratiche di ricongiungimento familiare. Renderlo cosi difficilmente ottenibile vuole quindi dire operare una illecita discriminazione indiretta in danno degli stranieri»: lo scrisse la Corte di Appello di Brescia condannando i comuni di Rovato e Pontoglio (Brescia).

La vicenda nasce nel 2015 quando i Comuni di Rovato e Pontoglio – con l’evidente finalità di scoraggiare la presenza di stranieri nei due Comuni – avevano applicato un aumento vertiginoso del diritto di segreteria per ottenere il certificato di idoneità alloggiativa: addirittura + 624% per il Comune di Rovato e + 212% per il Comune di Pontoglio. Il comune di Pontoglio era già stato condannato per dei cartelli chee invitavano ad andarsene quanti non condividevano la “cultura occidentale”: in quel caso il Comune aveva rimosso i cartelli e non aveva proposto appello.

Qualche giorno fa si è espressa anche la Corte dei Conti che ha condannato i membri della giunta di Rovato al danno erariale. Secondo la Procura Regionale, gli oneri finanziari sostenuti dal Comune di Rovato in conseguenza della soccombenza giurisdizionale nei due gradi di giudizio avrebbero determinato un evidente pregiudizio erariale, direttamente imputabile alla responsabilità gravemente colposa degli amministratori comunali che adottarono con voto favorevole e la Deliberazione della Giunta Comunale n.108/2015 (con cui si incrementarono gli importi dovuti dai cittadini a titolo di diritti di segreteria per ottenere le certificazioni dell’idoneità degli alloggi) e le successive Deliberazioni n.166/2015 e n.168/2016 con le quali l’ente territoriale dispose di resistere in giudizio avverso il ricorso di primo grado e, successivamente alla soccombenza in tale sede, decise di proporre appello contro l’ordinanza del Tribunale di Brescia. Il danno erariale, sempre secondo la procura, andrebbe collegato ad un’inescusabile negligenza degli amministratori che avrebbero approvato all’unanimità le menzionate deliberazioni in assenza di una apprezzabile ragione giustificativa rilevante a livello pubblicistico e per finalità discriminatorie nei confronti dei cittadini stranieri.

Asgi esprime grande soddisfazione per questa pronuncia che evidenzia come le discriminazioni non sono solo atti illegittimi e “moralmente ingiusti” ma comportano anche un grave danno economico all’intera collettività. E questo non è un monologo al Festival di Sanremo.

Buon lunedì.

Zitti! Parlano i bambini

È un film non sui bambini, ma con i bambini. Questo rende speciale Il cerchio di Sophie Chiarello che esce nelle sale il 13 febbraio distribuito da Indigo film, dopo l’anteprima al Festival del cinema di Roma.
Al centro del racconto ci sono Nina, Leonardo, Tito e tutti gli alunni della sezione B negli anni 2015-2020 protagonisti della loro vita scolastica. Rispondono alle (apparentemente) semplici domande della regista, che è l’unica adulta che parla e che, fortunatamente, non dà mai risposte.
Tantissimi i temi: dalle paure all’esistenza di Babbo Natale, dalla separazione dei genitori alla distrazione degli adulti. Non mancano i litigi tra di loro e le critiche ai più grandi: “Perché gli adulti sono diventati seri, hanno perso la loro giocosità di bambini”. Risposte disarmanti, che ci costringono a riflettere più che a parlare. Se le istituzioni sono lontane dall’universo scuola, dall’universo bambini, anche le famiglie dovrebbero entrare più in ascolto. Tutto questo fa la forza e la ricchezza dell’opera della regista italo-francese. Diplomata alla scuola d’arte di Parigi, Chiarello inizia la propria carriera come aiuto regista di Salvatores, Winspeare, Rossi Stuart, Labate, Piccioni, dal 2011 si dedica al documentario vincendo con l’opera Domani me ne vado il premio speciale della giuria al Festival del cinema italiano di Annecy 2012. Il Cerchio, vincitore del Premio Corso Salani 2023 al Trieste Film Festival, è stato selezionato tra i 10 documentari per i prossimi David di Donatello. Chiarello, figlia di italiani, cresce in Francia di cui ha un ricordo splendido, ma è in Italia che ha ritrovato casa specialmente nella scuola in cui ambienta il film, il plesso Di Donato dell’Istituto comprensivo Daniele Manin, in quel di piazza Vittorio. È lì che iscrive i suoi figli, poi quando il ciclo dei cinque anni finisce, e dopo aver conosciuto la maestra Francesca Tortora, ha un’idea, quella di entrare lei stessa a scuola con una macchina da presa. Non segue la classe nella didattica, ma nel “cerchio”: una prassi ben nota, conosciuta dai pedagoghi che rappresenta lo spazio fisico e mentale nel quale i venti bambini protagonisti si sono seduti in tondo per parlare, ascoltarsi e confrontarsi. Un momento dedicato alle emozioni. Cinque anni interi, pandemia e lockdown compresi, per un risultato che sorprenderà tutti e non lascerà indifferenti.

Sophie, quando è nata in lei l’idea di questo progetto? Da quali pensieri e necessità?
Io notavo che nei luoghi degli adulti, non solo quelli fisici, ma anche sui social, da parte delle istituzioni o sui giornali, su temi come l’immigrazione e non solo, parlano solo gli adulti. Sono convinti di sapere come, cosa e perché, soprattutto da che parte stare, ma, nel frattempo, con l’esperienza dei miei figli un po’ più grandi dei bambini del film, io notavo che lontano dai discorsi degli adulti cresceva, e sta crescendo, un’Italia che è già lì. Come quando si dibatte sui bambini concepiti in provetta o su quelli degli omosessuali; si dibatte per capire quali sono le leggi da trovare per questi ragazzini, ma nel frattempo i bambini sono diventati uomini e la politica è ancora lì che dibatte e loro diventano individui. La società cambia sempre dal basso e ci porta delle soluzioni che non vogliamo vedere. Io avevo al mio fianco una classe di bambini che discute, che si interroga, il cui unico desiderio è di essere tutti uguali. C’è la voglia di sentirsi tutti uguali e in questo desiderio di uguaglianza, le differenze esistono ma diventano specificità che loro imparano a guardare e a riconoscere come normalità che sia il colore della pelle, una religione. Avevo la sensazione che lì dentro ci fosse un’Italia che cresce malgrado tutto quello che c’è intorno. Grazie anche al lavoro di maestre illuminate, ma anche di genitori che desiderano questo tipo di luogo per i loro figli. È il racconto di un momento magico, ma dopo i ragazzi si chiedono: la società è in grado di accogliere tutto quello che siamo diventati in cinque anni? È all’altezza delle nostre richieste?

Il plesso Di Donato è conosciuto a Roma come una scuola eccellente che proprio sulla multietnicità basa la sua forza. È lo specchio di una società ideale, nel cuore di Roma. A che cosa si deve questa lungimiranza, secondo lei?
Per come la conosco, e me la raccontano, è nata grazie a un preside eccezionale e con maestre che hanno voglia di fare e con un’utenza che ti obbliga a farti delle domande. Io vengo dalla Francia sono figlia di emigrati e sono cresciuta lì, la mia lingua è il francese, ma io non ho la cittadinanza francese, il mio inno nazionale è la Marsigliese, e quando lo sento mi commuovo, però i miei genitori sono italiani. Io me li ricordo i dibattiti in Francia sulla nazionalità, sull’integrazione: quello che accade dal basso, per forza, ci deve interessare, ci deve fare interrogare a meno che non ci mettiamo i paraocchi. Noi dei migranti ne parliamo come se ancora stessero sulle navi, come se nessuno fosse sbarcato, nessuno avesse fatto figli. Io da 20 anni, da quando sono a Roma, ne sento parlare nello stesso modo e invece sul territorio poi succedono delle cose e allora ti devi chiedere: come glielo insegno l’italiano, come li faccio sentire parte di una comunità? Quindi, è successo che in questa scuola alcune persone si sono fatte delle domande e non è che abbiano per forza trovato tutte le risposte però hanno sperimentato qualcosa. Non è un’utopia, ma le soluzioni vanno cercate: è questo il lavoro che trovo interessante e quando la scuola fa anche questo lavoro è fondamentale. La scuola elementare è la scuola dove si formano gli individui, non si impara a leggere e a scrivere e basta e questa cosa è troppo poco vista. Ero arrivata a Roma da poco e la condizione di maternità era di solitudine e la Di Donato è stata la piazza del mio paese e quando mio figlio ha finito la quinta elementare, sono entrata io in quella scuola.

Quando ha proposto la tua idea alle famiglie della classe qual è stata la reazione?
All’inizio l’ho proposto alla maestra che conoscevo, era stata la maestra di mio figlio, io avevo fatto la rappresentante di classe, e poi avevo fatto un documentario precedente che avevamo presentato a scuola nelle settimane dell’intercultura e quello era il mio passaporto e lei mi ha dato fiducia. Poi l’ha proposto alle famiglie, all’inizio della prima elementare. Io sono partita dicendo ai genitori di viverlo come laboratorio, io non sapevo cosa sarebbe diventato. Sgombrata la mente da ogni idea di aspettativa allora siamo andati liberi. I genitori li ho incontrati un paio di volte, ma abbiamo fatto un accordo e cioè che non volevo conoscerli per non arrivare dai bambini con idee preconcette o con un pregiudizio, volevo essere solo una conoscenza dei bambini e non degli adulti. E poi è andato tutto liscio.

I temi che sono usciti fuori chi li decideva: lei, la maestra oppure?
Succedeva che io arrivavo con un’idea e i bambini mi portavano nella loro. L’unica volta è quando abbiamo parlato di Riace perché io ero stata lì per due settimane così al ritorno mi hanno chiesto perché ero stata lì e così è partita tutta la discussione. Altrimenti veniva fuori da un litigio tra loro e il motivo del litigio veniva sviscerato. Oppure abbiamo parlato delle paure quando uno di loro sul pc aveva visto il teaser di un film di paura e da lì tutti ne volevano parlare e abbiamo scoperto che loro davanti al pc erano soli. Poi il discorso si è allargato alla paura della guerra quando c’era la minaccia della Corea del Nord. Tutto entrava dentro la scuola ed era interessante il come, attraverso quali parole e come poi dalle parole che sentivano dagli adulti e ripetevano, poi ne usassero di proprie.

Di tutti i loro discorsi, le loro frasi, qual è quella che l’ha più sorpresa?
Sono tante, però ho capito che noi non ci rendiamo davvero conto di quanto loro ci guardano. Mi ha sorpreso quando raccontavano che i genitori sono distratti o impegnati o stanno troppo sul cellulare. Allora ho pensato che fino alla quinta elementare i bambini, solitamente, non hanno il cellulare e quindi il loro sguardo è rivolto in su, poi il loro sguardo cambia, ma il nostro è già cambiato. Noi siamo un esempio per loro e diamo un esempio che è in contraddizione con quello che diciamo.

Tornando alla scuola, che cosa manca a quella italiana?
È una domanda difficile e non so se sono legittimata a rispondere. Credo che dovremmo tutti pensare che la scuola è un potenziale enorme, molto più di quello che immaginiamo. La scuola, anzi la formazione, non è nei progetti politici, è bistrattata. Invece, è il luogo che ti cambia la vita.

Ce la può fare da sola?
Sarebbe bello se ce la facesse da sola, ma in queste condizioni fa fatica. La collaborazione scuola famiglia è interessante, ma è pericolosa perché gli argini si rompono velocemente e quindi per questo la scuola deve essere più forte, avere un progetto. Lo vedevo, mentre giravo, che questa struttura enorme ogni tanto si rompeva: una finestra, una porta, il muro che si scrosta. Quindi, la scuola è un luogo che fa fatica a restare solido eppure là dentro c’è il futuro.

Black history month, un mese di eventi per conoscere e celebrare la storia dei neri

Quasi un secolo fa, negli Usa, Carter G. Woodson (1875-1950), oggi noto come il padre della Black History, proclamò la Negro history week: una settimana da celebrare in tutto il Paese con lo scopo di incoraggiare gli statunitensi a studiare la storia dei neri. La settimana cadeva a febbraio, mese di nascita del presidente Abraham Lincoln (1809-1865) e del politico e attivista abolizionista Frederick Douglass (1818- 1895), e si proponeva di estendere a tutti Usa il Douglass’day proposto verso fine Ottocento come giornata di festa per gli studenti delle colored schools dell’area di Washington dalla giornalista e attivista Mary Church Terrell (1863-1954), una delle prime donne afroamericane a laurearsi. Durante quella settimana Woodson distribuiva agli studenti delle colored schools, anche nelle zone rurali, giornali e riviste contenenti discorsi e foto di persone afroamericane che finalmente prendevano la parola, e divulgava ai giovani che incontrava la sua idea che se una razza non ha una storia diventa “trascurabile” agli occhi del mondo, e possibilmente soggetta al rischio di essere sterminata. Era la seconda metà degli anni Venti; cinquant’anni dopo circa, la Negro history week verrà ulteriormente ampliata dagli studenti ed educatori dell’Università del Kent a Black history month, in seguito ufficialmente riconosciuto dal governo statunitense nel 1976.

Torino è la terza città in Italia, dopo Firenze e Bologna, rispettivamente alla settima e alla quarta edizione del Black history month, dove febbraio è il mese dedicato alla valorizzazione e celebrazione della storia dei neri. Dell’eredità di Woodson, qui, si è fatta carico una donna, il suo nome è Suad Omar: somala ma in Italia da trentaquattro anni, mediatrice culturale, attivista, formatrice, poetessa e scrittrice, e un entusiasmo dirompente tra gli intercalari esotici del suo italiano. L’associazione che ha fondato nel 2007 insieme ad altre sei donne di origine africana (Adass, Associazione donne Africa subsahariana e seconda generazione) ha coordinato i lavori per la seconda edizione del Black history month Torino (1-26 febbraio), patrocinata da Città di Torino in collaborazione con numerose altre associazioni del territorio. La rassegna si snoda nell’arco di quattro settimane mediante convegni, incontri con autrici e autori, mostre, proiezioni di film, attività per le scuole, cene etniche, concerti, performance artistiche, e attraversa spazi diversissimi della città, dallo spazio museo di palazzo Madama alla Casa di quartiere di San Salvario, mettendo in rete comunità, persone e luoghi. Quest’anno le tre tematiche attorno a cui ruotano gli eventi in programma sono radici, identità ed empowerment, e si inseriscono in grassetto tra i fili colorati delle lunghe trecce della donna disegnata sulla locandina.

La locandina del Black History Month di Torino

«Vogliamo raccontare un’altra Africa attraverso gli occhi delle donne, da un lato, e delle seconde generazioni, dall’altro. Dalla cura del corpo a quella dei capelli, dalla scrittura alla poesia. L’obiettivo è quello di far conoscere, sperimentare, scoprire e riscoprire includendo ed educando», mi spiega al telefono Suad, e le sue parole sembrano continuare in quelle di Cecilia Pennacini, professoressa ordinaria di Antropologia culturale e direttrice del Museo di Antropologia ed Etnografia dell’Università di Torino, coinvolto nell’organizzazione di alcune mostre ed eventi della rassegna: «Anche l’Italia ha bisogno di conoscere la storia dell’Africa – che è una storia antica, di civiltà importanti, e che conosciamo poco. Altrimenti si rischia di semplificare o addirittura di dar luogo a fenomeni pericolosi come xenofobia e razzismo» (Per approfondire si può leggere l’articolo di Pennacini Innovazione dal Mediterraneo in giù apparso sul numero di Left Africa, il futuro è qui).

Suad mi spiega che ad organizzare la rassegna ci hanno pensato ragazze e ragazzi di seconda generazione, quei giovani le cui identità sono «in bilico tra diverse appartenenze, che spesso sentono il bisogno di riconnettere», come osserva l’antropologa Pennacini. «Hanno dai 14-15 anni in su –  dice la portavoce di Adass – e sono loro le persone chiamate in causa: perché conoscano le proprie radici, scoprano le proprie identità e acquisiscano l’empowerment che gli permette di raccontare che esistono. Attraverso l’arte africana, frutto della diaspora e del melting pot culturale».

In occasione della rassegna, il 3 febbraio è stata inaugurata a palazzo Madama la mostra Congo- Italia. Ripensare il passato. L’operazione messa in atto in questo caso dall’Università di Torino, spiega la professoressa Pennacini, è stata quella di lavorare con gli oggetti africani già collezionati nei musei della città, in un lavoro di rete tra istituzioni ed enti del territorio: «Per ragioni storiche le nostre collezioni museali sono ricche di oggetti che vengono dall’Africa, dal passato: oggetti che, oltre all’interesse estetico, hanno anche un interesse storico, e ci consentono un pretesto per raccontare la storia delle civiltà africane e del colonialismo», dice l’antropologa menzionando Yekatit 12, la giornata in cui in Etiopia si celebra il ricordo delle circa 30mila vittime della strage di Addis Abeba, un insieme di episodi di indiscriminata e brutale rappresaglia compiuti tra il 19 e il 21 febbraio 1937 nella capitale dell’Etiopia da parte di civili italiani, militari del Regio esercito e squadre fasciste contro civili etiopi; una strage per cui l’Italia non chiese mai scusa (per approfondire v. Left del 12 febbraio 2021).

Cecilia Pennacini ci parla del difficile rapporto dell’Italia con il proprio passato coloniale: «Delle colonie italiane in Africa c’è poca memoria: di questo pezzo della nostra storia, che è una storia che condividiamo con l’Africa, si parla poco anche a scuola. A me sembra molto interessante il fatto che gli afro-italiani e gli afrodiscendenti che vivono in Italia, che cominciano a essere piuttosto numerosi, sia di prima che di seconda generazione, hanno preso in mano questa iniziativa per cominciare a parlare di Africa dal loro punto di vista. Mi sembra interessante perché i giovani di origine africana che vivono in Italia hanno poche occasioni di studiare e informarsi sulla storia dell’Africa e anche sulla storia dell’Italia in Africa, che è una storia drammatica. Il Black history month – conclude – è anche un’occasione per l’Italia di ripensare il passato coloniale, questo passato che si ripercuote a tanti livelli sul presente. Farlo attraverso le donne e i giovani che ruotano intorno ad Adass, che hanno una memoria familiare del colonialismo e della migrazione, e magari analizzando le loro testimonianze dal punto di vista degli storici dell’Africa e antropologi, è un modo per far riemergere questi temi poco ricordati». Il Black history month, dunque, come strumento attraverso cui riappropriarsi della narrazione della storia che le diaspore scrivono in Italia, rileggere e riscoprire le radici coloniali e gli esiti che queste hanno prodotto sull’identità dei corpi neri, tuttora troppo spesso razzializzati.

Meloni in disparte

È accaduto questo: Zelensky, Macron e Scholz si sono incontrati in un vertice di cui Giorgia Meloni non era stata nemmeno avvista. Non solo non è stata invitata alla cena – uno può dire vabbè, mangio a casa – ma non è stata nemmeno presa in considerazione per l’incontro.

«Francamente mi è sembrato inopportuno, perché credo che la nostra forza in questa vicenda sia l’unità e la compattezza», ha detto Giorgia Meloni arrivando a Bruxelles. Ammettiamolo, fa molto ridere che l’ex regina del sovranismo ora catechizzi i Paesi che fino a ieri odiava (Germania e Francia in primis) sull’unità europea. Quell’Europa che lei prometteva di disarticolare. Macron l’ha stesa: «Non ho commenti da fare», si è limitato a dire. «Ho voluto ricevere il presidente Zelensky con il cancelliere Scholz, nel contesto del nostro ruolo. La Germania e la Francia hanno un ruolo particolare da otto anni su questa questione perché abbiamo anche condotto insieme questo processo». E, ha aggiunto: «Penso che stia anche a Zelensky scegliere il formato che vuole» per i colloqui diplomatici.

Ma c’è anche un altro aspetto interessante: Giorgia Meloni ora chiede in Europa meno “egoismo” poiché le sue posizioni (soprattutto sull’immigrazione) sono in netta minoranza. Avete capito bene: colei che si è fatta eleggere raccontando l’egoismo come un diritto in nome del patriottismo ora va a frignare per mancanza di collettività. Sembrerebbe una barzelletta se non fosse la giravolta dell’ennesima presidente del Consiglio che ama per il potere per il potere, fregandosene delle promesse fatte ai propri elettori.

Qui veniamo al punto. Questa destra – una delle peggiori destre di sempre – dimostra di essere interessata al mantenimento delle sue posizioni di rendita. Non è una novità, l’hanno fatto finora più o meno tutti. Solo che Giorgia Meloni non ha nemmeno aspettato di essere sull’orlo di una crisi di governo (o di partito). Ha deciso di indossare subito gli abiti della conservatrice di sé stessa pretendendo che tutti dimenticassero le parole pronunciate un minuto prima di diventare presidente.

Il suo peso politico si misura dal contesto. In Italia ha una schiera di compagni di governo che furiosamente commentano il Festival di Sanremo e in Europa si ritrova a fare l’imbucata.

Buon venerdì.

Alessandro Volpi: Il capitalismo ha divorato il mercato, ma la sinistra ancora non l’ha capito

Speculazione, crisi climatica ed energetica hanno determinato quella che è stata chiamata da molti una tempesta perfetta. In quale contesto socio-politico internazionale sta avvenendo tutto questo? Abbiamo chiesto al professor Alessandro Volpi, docente di Storia contemporanea all’Università di Pisa di aiutarci a capire meglio la congiuntura in cui ci troviamo. «Dall’estate del 2021 l’economia mondiale è entrata in una nuova fase. Dopo oltre vent’anni di deflazione, in cui i prezzi non salivano e i tassi di interesse erano molto bassi, da quella data è ricomparsa una forte inflazione che ha raggiunto rapidamente la doppia cifra. Si tratta – spiega il professore – di un’inflazione trascinata dal veloce aumento del prezzo dell’energia ed in particolare dal gas, che presenta due caratteristiche profondamente diversa rispetto al passato».

Perché l’inflazione con cui stiamo facendo i conti sarebbe un fenomeno per certi aspetti inedito?
In primis per l’entità del rialzo che è stato pari a dieci volte nel giro di pochi mesi: nelle due crisi petrolifere del 1973 e del 1979, il prezzo del barile di petrolio era raddoppiato o triplicato. Dal marzo-aprile del 2021 al marzo-aprile del 2022 il prezzo di un megawattora di gas è salito da 30 a oltre 300 euro; una fiammata di dimensioni sconosciute in precedenza. La seconda caratteristica, ancora più rilevante, è rappresentata dal fatto che un simile balzo non si lega alle dinamiche del mercato reale. In altre parole, durante il periodo in questione la domanda e l’offerta di gas sono state sostanzialmente in equilibrio.

Quanto ha inciso la guerra di invasione russa all’Ucraina?
La guerra in Ucraina e la ripresa della domanda post pandemica hanno determinato un’oscillazione in termini di produzione e di consumo nell’ordine del 10% mentre i prezzi, come ricordato, sono cresciuti di ben dieci volte. Dunque, siamo di nuovo di fronte ad una situazione inedita. La domanda centrale, allora, diventa quella di capire come sia stato possibile tutto ciò. E la risposta è semplice: il rialzo dei prezzi dipende quasi interamente dalla speculazione finanziaria. In altre parole, i prezzi del gas sono stabiliti in piattaforme – nel caso europeo – l’hub di Amsterdam, dove operano non solo i produttori di gas ma, soprattutto, banche d’affari e fondi hedge che “scommettono” sull’andamento dei prezzi del gas e traducono in maniera immediata le possibili aspettative del futuro. Se l’andamento della guerra in Ucraina fa presagire un calo di produzione, gli operatori finanziari scommettono sul rialzo dei prezzi e quelle scommesse determinano, subito, un aumento del prezzo a cui il gas viene venduto con un effetto pressoché immediato sulle bollette dei consumatori. Lo strumento attraverso cui avvengono tali scommesse sono i titoli derivati che erano nati come assicurazioni contro il rischio di oscillazioni di prezzo per coloro i quali operavano nel mercato reale e ormai da una ventina di anni possono essere creati e venduti, invece, anche da soggetti che non hanno nulla a che vedere con la produzione dei beni “assicurati”, diventando a tutti gli effetti delle scommesse. Queste scommesse sono all’origine della gigantesca crisi che ci sta investendo e che facciamo fatica ad affrontare.

Qual è stata la strategia italiana ed europea per affrontare inflazione e speculazione in un quadro di finanziarizzazione dell’intera economia?
Direi che l’unica strategia è stata quella dell’emergenza, incentrata peraltro su un unico aspetto costituito dall’esigenza di procedere a sostituire il gas russo con altre fonti di approvvigionamento. Una simile strategia ha trascurato diversi altri aspetti fondamentali. Il primo è proprio quello dei prezzi: il prezzo praticato da altri fornitori non è stato, a lungo, più basso di quello che veniva praticato dalla Russia; anzi nel caso del gas liquido naturale trasportato via nave i costi, e i prezzi, sono decisamente più alti e ancora più speculativi. Da qualche settimana il prezzo del gas sta scendendo ad Amsterdam, rimanendo tuttavia ad un livello che è più che doppio di quello reale, ma ciò dipende proprio dalla necessità di un assestamento temporaneo rispetto ai picchi raggiunti. Non è affatto detto che i prezzi continuino a scendere in queste condizioni fortemente sensibili alla speculazione. In tal senso l’Unione europea non sembra voler affrontare realmente la questione del “mercato dell’energia” eliminando appunto le distorsioni speculative a cominciare dai derivati, sui quali esiste un datato e oscuro Regolamento del 2012. Senza questa regolazione e senza un vero contrasto alla speculazione anche il tetto a 180 euro posti di recente rischia di essere inefficace nel medio periodo. Manca poi del tutto la volontà europea di procedere al cosiddetto “disaccoppiamento” del prezzo delle varie forme di produzione dell’energia da quello del gas. Oggi, per effetto di una norma europea che prevede che il prezzo dell’energia sia parametrato su quello della fonte che costa di più, il gas traina tutti i prezzi, anche di quelli delle fonti, come nel caso delle rinnovabili, che hanno costi più bassi. Il disaccoppiamento avrebbe il duplice beneficio di abbassare i prezzi dell’energia e di incentivare l’utilizzo delle rinnovabili, contribuendo peraltro a disinnescare le speculazioni che ormai stanno riguardando anche i certificati e le obbligazioni “verdi”. Su tutto ciò l’Europa è sostanzialmente ferma.

Quali le possibili soluzioni per evitare il disastro e ridurre le disuguaglianze?
La prima, indispensabile, consiste nel riportare la finanza al ruolo che dovrebbe svolgere rispetto all’economia reale. Gli strumenti finanziari dovrebbero essere adoperati per rendere il mercato più efficace, avvicinandolo al valore reale dei beni e dei servizi. Il prezzo dei beni e dei servizi deve avere la capacità di rispettare la dignità del lavoro e la sostenibilità delle produzioni, garantendo la giustizia della distribuzione dei redditi. Oggi la finanza è totalmente scollegata dall’economia reale e si è trasformata in una colossale sala da gioco dove i redditi e la ricchezza si polarizzano nelle mani di grandi operatori, in grado poi di entrare nella proprietà delle stesse imprese dell’economia reale, generando un vero e proprio monopolio. I fondi che hanno scommesso sul gas, sui cereali e su una serie di commodities, determinandone i prezzi, sono infatti gli stessi che compaiono nell’azionariato delle grandi compagnie energetiche – magari in qualità di soci del partner pubblico – in quello delle grandi società che commercializzano beni agricoli e materie prime e in quello delle grandi banche dei vari Paesi da cui dipende il credito produttivo e quello retail. In questo senso, davvero, la speculazione concentra il potere economico, e non solo, in una ristretta cerchia di destinatari da cui dipendono le sorti del pianeta.

In questo contesto occorre una nuova visione e una cultura politica da parte della sinistra?
Certo, la sinistra dovrebbe avere la forza di tornare a misurarsi con temi complessi come quello degli effetti della finanziarizzione, dovrebbe provare a rendere “popolare” la questione della genesi delle disuguaglianze determinate da una pratica di mercato che ormai non ha più nulla a che vedere con la creazione reale del valore. Dovrebbe provare a mettere in luce che mercato e capitalismo sono due termini tra loro molto distinti perché il capitalismo ormai è diventato una forma di sfruttamento pressoché dominata dal potere finanziario e dalla finanziarizzazione dell’economia che si sono divorati ogni traccia dello stesso mercato così come definito da diverse correnti pensiero sociale e come, almeno in parte, ha funzionato per vari decenni. Nel capitalismo finanziarizzato non c’è spazio per lo Stato sociale, per la lotta alle disuguaglianze e neppure per la ricerca di una distribuzione dei redditi resa possibile appunto da un mercato equo. Io penso si dovrebbe partire da qui.


Questa intervista al professor Alessandro Volpi, docente di Storia contemporanea all’Università di Pisa è stata realizzata a margine dell’incontro “Speculazione, crisi climatica ed energetica: La tempesta perfetta? Analisi e proposte di soluzioni” che si è svolto in occasione del Congresso provinciale dello Spi Cgil di Cuneo, di cui l’autrice, Daniela Bedino, è segretaria

In foto, il Toro di Wall Street, una scultura in bronzo realizzata da Arturo Di Modica e collocata presso il Bowling green park, nel quartiere della borsa di New York. Immagine Adobe Stock di kirkikis

La sanità nel Lazio è stata ridotta a mangiatoia per le strutture private e religiose

La Regione Lazio ha attraversato i tre anni di emergenza legata alla pandemia, venendo considerata virtuosa, se confrontata alla drammatica e colpevole gestione della Regione Lombardia ed, in particolare, per il metodo adottato relativamente alle vaccinazioni. Buona parte del merito è stato ascritto all’assessore alla Sanità oggi candidato alla presidenza stessa delle elezioni, Alessio D’Amato.

Ma siamo certi che la sanità nel Lazio funzioni realmente? Le lunghe liste d’attesa e le prestazioni di cui c’è bisogno, ci permettono di considerare questa, una istituzione che privilegia il servizio ai cittadini? Molte e molti di noi, soprattutto noi donne, ci siamo trovate in realtà a fare i conti con una delle tante istituzioni italiane che hanno preferito, negli anni, anche durante la pandemia, esternalizzare e a trasformare il servizio fondamentale, di cui l’ente è responsabile, quello che rappresenta la maggiore voce di spesa, in un’azienda in cui quello che prevale è una logica di profitto. A farne le spese la sanità pubblica, a ricavarne profitto, le strutture private, i grandi nosocomi, spesso in mano a fondazioni private riconducibili ad istituti religiosi.

Come se anche il principio di laicità, sancito dalla Costituzione, debba essere costretto ad arretrare, a divenire subalterno a quello dell’interesse privato, non casualmente gestito dalla Chiesa. Questo si traduce non solo in vincoli di “subalternità culturale” ad una gestione della salute pubblica e delle prestazioni sanitarie spesso in aperto contrasto con le leggi italiane. Così come la legge 194 e la garanzia nei tempi stabiliti dell’interruzione di gravidanza e non solo, la chiusura di molti consultori denunciata dai movimenti di donne.

È evidente che il mal funzionamento della sanità pubblica è funzionale per quelle istituzioni, private, convenzionate e confessionali, che traggono profitto dall’inadempienza delle strutture pubbliche a cui, invece, si tolgono risorse. Ci sono dati incontrovertibili: nel Lazio la spesa pubblica sanitaria è, in termini pro capite, di circa 2.200 euro. Nel 2021 circa 3,8 miliardi di euro sono stati complessivamente destinati a operatori privati. Un aumento del 22% rispetto al 2012. Oltre 1,5 mld è stato destinato per prestazioni ospedaliere presso strutture private accreditate e nell’ultimo triennio c’è stato un significativo aumento di risorse economiche destinate alla sanità privata convenzionata che appare essere la modalità di gestione delle risorse economiche pubbliche. Un esempio: il 19 ottobre scorso è stato inaugurato dal candidato alla presidenza della Regione Lazio, già assessore alla Sanità, nello spirito dei valori cattolici, il nuovo ospedale Fatebenefratelli Isola Tiberina – Gemelli Isola, destinato ad essere un polo di eccellenza nazionale. Il nosocomio, il più antico della capitale, ha avuto un cambio di gestione. La Casa Generalizia dell’Ordine ospedaliero di San Giovanni di Dio, ha ceduto il passo al “Gemelli Isola”, società creata dalla Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli Irccs. Presentando piano industriale e governance della nuova struttura che vede la fusione tra l’attività assistenziale dell’ospedale dell’Isola Tiberina e le competenze cliniche, didattiche e di ricerca del Gemelli.

In questo contesto con nonchalance è stato serenamente affermato che l’85% delle prestazioni fornite, saranno a carico del Servizio sanitario nazionale, ovvero, dalla Regione di competenza. Un parametro più generale da questo punto di vista è costituito dai Lea (Livelli essenziali di assistenza) definiti con il Dpcm del 12 gennaio 2017. Ora, al di là del fatto che questi non contengono alcun riferimento alle attività di prevenzione, che evidentemente non sono considerati essenziali, nel Lazio è garantito un livello alto ma, contemporaneamente, un forte utilizzo del privato convenzionato. In sintesi, la qualità dei servizi non è garantita dagli investimenti sulla sanità pubblica ma da terzi. A farne le spese sono coloro che soffrono di patologie croniche, poco remunerative per le aziende private, come chi necessita più di prevenzione che di ospedalizzazione o prestazioni specialistiche.

Ma il vulnus più pesante si avverte quando le leggi dello Stato vanno in contrasto con i “valori non negoziabili” (così li definiscono), del personale dirigenziale e sanitario che opera nelle strutture legate al mondo cattolico. Se già, come denunciato nel settembre 2021, il 66% dei ginecologi delle strutture pubbliche (166 su 314) si dichiarava “obiettore di coscienza nell’applicazione della legge 194″, ancora più inquietante quanto appreso con l’indagine “Mai dati”. Alla ricerca, promossa dall’Associazione Luca Coscioni attraverso una richiesta di accesso civico alle regioni e relativa al 2021, metà delle istituzioni preposte, fra cui la Regione Lazio, non ha ancora fornito risposte. L’unico dato che esiste, non disaggregato per Regioni, in materia di interruzione di gravidanza risale al 2020. Come si può quindi accettare che si incrementino le risorse economiche a strutture che, hanno nella loro mission, quella di non rispettare una legge dello Stato già poco rispettata da chi dovrebbe farlo? Non sarebbe più importante ad esempio investire nell’apertura di consultori in quanto luoghi di confronto e di crescita per le donne. Sono 134 – di cui alcuni da tempo chiusi per ristrutturazione – i consultori nella Regione, molti di questi, nonostante la recente decisione di garantire la pillola contraccettiva gratuita a ragazze fra i 15 e i 19 anni, non hanno uno “spazio giovani” aperto. Una lacuna gravissima per una regione densamente popolata come il Lazio. (Per approfondire ulteriormente leggi il numero di Left Che cosa dice la scienza sull’aborto ndr).

Quelli che mi sono permessa di fare sono piccoli esempi di come, in perfetta linea con il “modello Lombardia”, fatto di avanguardia delle prestazioni specialistiche e disattenzione per la salute “ordinaria”, fisica e psicologica, si sia imposto anche da noi una cultura aziendalista in un settore primario della nostra vita come quello della cura, affidandolo a enti il cui impianto ideologico persegue finalità dichiaratamente non compatibili con le nostre leggi e i nostri principi di laicità. Ho parlato, da donna, di questioni che ci riguardano in quanto tali e riguardano in particolare le ragazze.

Vorrei anche solo accennare ad ambiti che riguardano la sanità e investono profondamente la nostra cultura come le questioni del “fine vita”, su cui Chiesa e strutture sanitarie da questa gestite, sono agli antipodi di una società laica. Non sono entrata nel merito di quanto sta accadendo nelle Regioni governate direttamente dalla destra più oscurantista ma se già dove vivo, il cosìddetto centro sinistra è venuto meno ai suoi doveri, non oso immaginare cosa potrà accadere in futuro. Nel Lazio, come in gran parte del Paese e delle sue istituzioni, c’è bisogno di una vera e propria rivoluzione che determini cambiamenti tanto culturali quanto di una più attenta ripartizione delle risorse verso le strutture pubbliche. Vorrei vivere in un Paese in cui chi si dichiara “obiettore di coscienza” e in quanto tale non accetta di garantire le prestazioni dovute, eserciti in strutture private a cui lo Stato non debba destinare risorse pubbliche. E, infine, vorrei una Regione in cui non sia la Conferenza episcopale ad avere voce sulla sanità come sulle altre linee di spesa così come sui provvedimenti legislativi che si vogliono adottare. La fede e le chiese tornino ad esercitare nei propri ambiti, le leggi definiscano, laicamente, il ruolo primario del pubblico con la propria funzione universale.

L’autrice: Rosa Rinaldi è candidata dell’Unione popolare alla presidenza della Regione Lazio

Nel Regno Unito si sono “persi” 200 bambini rifugiati

Bande di criminali che rubano bambini negli hotel dove il Regno Unito accoglie i rifugiati minorenni. Sembra una storia dell’orrore e invece è l’orrenda verità che è venuta a galla dopo un’inchiesta di The Observer. Un informatore, che lavora per l’appaltatore del Ministero degli Interni britannico racconta di bambini rapiti dalle strade ai piedi degli alberghi che vengono caricati in auto e fatti scomparire. «I bambini vengono letteralmente prelevati dall’esterno dell’edificio. Sono presi dalla strada dai trafficanti», ha spiegato la fonte.

Alla fine il governo ha dovuto confessare. Un ministro britannico ha ammesso che 200 bambini richiedenti asilo sono scomparsi dopo essere stati collocati in hotel gestiti dal Ministero degli Interni. Lunedì, il ministro dell’Interno Simon Murray ha detto alla Camera dei Lord che i bambini scomparsi includono una ragazza e almeno 13 bambini sotto i 16 anni. Ha aggiunto che la stragrande maggioranza dei bambini scomparsi – 176 su 200 – erano di origine albanese.

Le associazioni umanitarie hanno condannato il governo, mentre l’Adolescent and Children’s Trust (Tact), un ente di beneficenza, ha affermato che il Ministero degli Interni aveva ignorato le sue richieste di collocare i bambini in case protette per garantirne l’incolumità.

È l’ennesima puntata di questa era in cui l’accoglienza è solo una parola da scrivere sulle carte bollate. Così accade che una notizia del genere finisca sotto traccia come se fosse semplice routine della ferocia. Ricorderemo quest’era come quella in cui i disperati provavano a raggiungere la salvezza via mare dopo essere stati frustati e violentati dagli uomini finanziati dall’Occidente, poi hanno dovuto scappare dagli sgherri via mare della cosiddetta Guardia costiera libica finanziata dall’Italia. Ricorderemo quest’epoca come quella in cui i disperati via terra si infrangono contro i muri e le armi (oggi in Europa si parlerà anche di questo) e vengono stremati dal freddo.

La ricorderemo anche perché chi riesce a raggiungere un’ombra di salvezza viene lasciato solo: invisibile, senza niente e pronto per finire nelle mani della criminalità. Bambini inclusi.

Buon giovedì.

Pensioni, i francesi sulle barricate contro la riforma di Macron

Le riforme del sistema pensionistico (ma sarebbe più corretto chiamarle contro-riforme) sembrano essere un’ossessione di tutti i governi francesi dal 1990 in poi. Alcune di esse sono state bloccate (come quella del 1995, quando milioni di francesi scesero in piazza), altre sono purtroppo andate a segno. Macron e il governo Borne non fanno eccezione. Una prima riforma delle pensioni fu proposta a fine del 2019, ma fu bloccata dalla pandemia e da mesi di scioperi di tutti i settori. Ma, si sa, un’ossessione è un’ossessione. Così, al momento della sua rielezione, ha messo la riforma al centro del suo quinquennio. E ora ha deciso di prestare fede alla promessa fatta.

Una promessa che appare più come una minaccia per i lavoratori francesi. Come c’era da attendersi, si tratta ancora una volta di allungare l’età pensionabile (da 62 a 64 anni) in cambio della fissazione di un minimo pensionistico di 1200 euro, una somma che resta al di sotto della soglia della povertà francese e che rende impossibile vivere in qualsiasi grande città. Vista la prevedibile opposizione, Macron ha deciso di prevedere un calendario rapido per la sua approvazione: poche settimane invece di diversi mesi. Il risultato è però stato l’opposto di quello atteso: se pensava così di impedire che la contestazione montasse, l’effetto è stato quello di accelerare e fare crescere rapidamente le mobilitazioni in tutta la Francia.

Per la prima volta dal 2010 gli scioperi sono stati indetti da tutte le sigle sindacali, da quelle appartenenti alla “sinistra sindacale” fino a quelle più moderate e centriste. Accettare oggi un ulteriore aumento dell’età pensionabile significherebbe colpire in particolare i lavoratori manuali e quelli precari. Come mostrano le statistiche dell’Insee (l’Istat francese) un operaio si trova con una patologia invalidante ben prima dei 60, e la sua speranza di vita è di molto inferiore a quella di un quadro o di un dirigente sindacate. Il 20% dei lavoratori poveri muore prima di andare in pensione o vi sopravvive pochi anni. Un ulteriore aumento sarebbe di fatto una condanna al lavoro a vita. D’altra parte, chi (ormai da anni) è chiuso in universo di lavori precari e mal pagati, non riuscirà mai a racimolare i trimestri contributivi necessari per andare in pensione. Il tutto in presenza di casse pensionistiche in attivo e che necessitano di scarsi apporti della fiscalità pubblica.

Questo cozza con due fatti molto importanti. La prima è che il sistema pensionistico in Francia fu istituito dal ministro comunista Croizat, subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, «non come l’anticamera della morte, ma come una nuova tappa della vita»; non come un reddito per i lavoratori che non potevano più partecipare al processo produttivo, ma come un momento in cui si è ancora in buona salute e ci si può dedicare ad altre attività, alla cultura, al tempo libero, a figli e nipoti. La visione di Macron (così come quella degli altri governi precedenti) si scontra quindi con questa visione largamente condivisa. La seconda è che i giovani hanno oggi una relazione con il mondo del lavoro diversa da quella di 20 anni fa. In questi ultimi decenni, anche grazie alle (contro) riforme dell’università e dell’educazione (come l’alternanza scuola lavoro), si è arrivati a oltre un milione di studenti-lavoratori. Uno su tre lavora ed ha quindi una conoscenza diretta del mondo del lavoro e dell’impatto che queste riforme hanno sul futuro e sul presente.

La prima giornata di sciopero ha visto quindi un’altissima partecipazione. Se normalmente le manifestazioni crescono con il procedere del tempo, in questo caso, grazie all’unità sindacale (per tradurla in termini italiani, dalla Cisl ai sindacati di base passando per la Cgil) e all’altissima partecipazione dei sindacati studenteschi e della associazioni giovanili così come dei collettivi universitari, già la prima manifestazione del 19 Gennaio ha visto una partecipazione enorme (400 mila persone a Parigi e 2 milioni in Francia, numeri mai visti per un primo sciopero), cresciuti ulteriormente per lo sciopero di martedì 31 Gennaio (500 mila a Parigi e quasi 3 milioni in Francia). I cortei sono stati così grandi che la manifestazione parigina è stata costretta a dividersi in due percorsi diversi. Certamente queste manifestazioni coagulano anche uno scontento che si è accumulato nei mesi e negli anni passati. Le contrattazioni aziendali dell’ultimo anno non sono riuscite a recuperare che solo parzialmente l’inflazione, a cui si aggiunge la povertà che si è creata durante la pandemia, quando a sparire furono proprio gli impieghi dei giovani studenti (tra ristoranti e alberghi o in sella a qualche bicicletta per la consegna del cibo).

Le prime due mobilitazioni non sembrano aver per il momento frenato il governo. La risposta dei sindacati è stata quindi quella di aumentare la mobilitazione, specie davanti a piazze che diventano sempre più grandi. Da uno sciopero nazionale ogni 2 settimane, si è passati a due mobilitazioni ogni 7 giorni. Questa settimana erano previsti due scioperi, uno si è svolto martedì 7 febbraio e uno ci sarà sabato 11. Ma soprattutto si prevedono scioperi ad oltranza nei settori chiave come i trasporti ma anche nelle raffinerie e nelle centrali elettriche (tra cui quelle nucleari) che saranno probabilmente occupate dai lavoratori in sciopero. Forme inedite di lotta sono già apparse: i lavoratori elettrici della CGT hanno deciso di staccare la luce a quei deputati e senatori che sostengono la riforma, e al contempo di riattaccarla a famiglie a cui è stata tolta perché non riuscivano a pagare le bollette. E’ l’operazione “Robin dei contatori”.

Se l’unità sindacale resterà salda, difficilmente il livello delle mobilitazioni potrà diminuire. A differenza del 2010 (quando alcuni sindacati speravano in una presidenza Hollande per cambiare la riforma), questa volta non c’è nessuna via di uscita politica. L’opposizione, piuttosto timida e formale di Marine Le Pen, lascia pensare che in caso di vittoria possa fare ancora peggio. C’è quindi la possibilità che, come nel 1995 quando si sindacati bloccarono il paese per oltre un mese, anche questa volta la contro-riforma possa essere ritirata.

Foto tratta dal profilo twitter del sindacato francese LaCGT

Il caso di padre Rupnik? «Una brutta storia che puzza di potere, di superbia e di denaro»

«Vi auguro di continuare a fare luce su questo caso in quanto padre Marko Rupnik ha creato tanto sconquasso anche durante la sua permanenza in Italia, a Gorizia, dal 1987 al 1991 al Centro Stella Matutina. Il suo modo di operare con le persone è rispecchiato bene nei diversi articoli italiani pubblicati su di lui, che condivido in pieno, e nelle parole del teologo sloveno Štuhec. Che il comportamento di Rupnik non fosse ortodosso lo intuivamo già allora, ma mai ci saremmo aspettati tale gravità».

Una nuova testimonianza sul caso di padre Marko Ivan Rupnik ci arriva introdotta da queste parole nella casella postale di Spotlight Italia, l’inchiesta permanente di Left sui crimini nella Chiesa cattolica ([email protected]). Rispetto a quanto scritto da Left – che per primo il 2 dicembre 2022 scoperchiò la storia di violenze, manipolazioni e abusi psicologici e fisici di cui il sacerdote sloveno è accusato da numerose suore – e da altri giornali italiani, con in testa il Domani e le preziose inchieste e interviste di Federica Tourn a diverse vittime, si tratta di una novità, giacché la testimonianza che raccogliamo da questa donna che chiede di restare anonima giunge da Gorizia (italiana) e riguarda il periodo in cui Rupnik è già anche nella Comunità Loyola (Com Loy) di Lubiana fondata da suor Ivanka Horsta, e “sfrutta” la sua folgorante popolarità nel Centro Stella Matutina per cercare nuove “vocazioni” per la Com Loy. Comunità che possiamo definire “epicentro” delle denunce e degli allarmi che per 30 anni hanno rincorso il sacerdote gesuita, teologo e artista religioso rimanendo inascoltate dal Vaticano e dalla Compagnia di Gesù fino a quando i media italiani non hanno portato tutto alla luce. 

«Forse le mie non sono informazioni importanti come quelle già pubblicate – si schernisce la nostra fonte – ma rendono l’idea sul modo di operare di Rupnik a Gorizia, per lo meno come l’ho vissuto io». 

Nella seconda metà di dicembre 2022 i vescovi sloveni tramite una dichiarazione pubblica hanno invitato coloro che avessero avuto qualche “esperienza” in proposito, a scrivere la propria testimonianza per far più luce sui fatti e comprendere meglio il modo di fare e la personalità di Rupnik. «Così – ci racconta la donna che per quasi 40 anni ha insegnato in un liceo di Gorizia – il 24 dicembre mi sono decisa a mandare la mia testimonianza ai gesuiti sloveni e al vescovo Andrej Saje di Novo Mesto». E come è andata? «Ho ricevute delle gentili risposte con la richiesta dei gesuiti di poterla leggere alla loro riunione. Mentre il vescovo mi ha chiesto di tradurla in italiano per il team referente dei gesuiti di lingua italiana. Dopo averla inoltrata in italiano il 30 dicembre ho ricevuto un riscontro nei giorni scorsi».

Sono questi giorni decisivi per il futuro di Rupnik. Come ha ricordato Lorenzo Prezzi su Settimananews del 4 febbraio, «fra qualche giorno la Compagnia prenderà una decisione drastica rispetto al caso Marko Rupnik. Una apposita commissione è al lavoro a livello centrale». L’informazione è confermata da un intervento alla televisione slovena dal provinciale p. Miran Žvanut l’1 febbraio: «Presso la curia dei gesuiti è in corso un processo. È stata formata una squadra di persone provenienti da vari ambiti che ora stanno raccogliendo ulteriori informazioni sui presunti abusi. A metà febbraio (queste persone) terranno una conferenza stampa dove presenteranno lo stato attuale del processo su questa questione». È possibile, scrive Prezzi, «che riguardi sia la sua persona, sia l’opera da lui avviata, il Centro Aletti».

Tra le testimonianze al vaglio c’è anche quella della nostra fonte (un documento inedito e dai contenuti molto significativi che pubblichiamo alla fine di questo articolo). 

«Penso che il mio racconto sia importante per confermare certi aspetti della personalità di Rupnik (dedizione totale, polarizzazione della società: con me o contro di me, setta, omertà…), molto meglio delineati dal teologo morale Ivan Štuhec su reporter che ho letto alcuni giorni dopo aver inoltrato la mia testimonianza e che cita tra l’altro anche la “Gorizia italiana”. Il vescovo nella sua risposta mi ha scritto che diverse persone si erano rivolte a lui in quei giorni descrivendo le proprie sofferenze personali a riguardo e che i vescovi avevano deciso di scrivere la Dichiarazione dopo avere sentito delle sofferenze provocate da questo gesuita  alle persone (“e queste non sono poche”)». 

«Personalmente – prosegue la professoressa – non posso appurare se da Gorizia fosse partita qualche altra testimonianza e da chi. Le persone e gli studenti a cui ho chiesto e consigliato di scrivere non lo hanno fatto per vari motivi. O l’esperienza con Rupnik non li ha toccati così profondamente (lo hanno mollato subito visto che parlava troppo complicato o era troppo esigente), o come studenti l’hanno sorbito e poi superato come accade per certi professori e non ne vale la pena tornarci su, o come famiglie prescelte sono confuse, incredule, tacciono in quanto si vergognano di esserci cadute, o come giovani tacciono in quanto manipolati e ingannati, giovani che ci credevano veramente e sentono la vergogna di Rupnik ricadere anche su di loro, o le persone non voglio più averci a che fare … le capisco».

Perché ha deciso di esporsi? «Io ho reagito in quanto membro di una comunità (slovena e credente) che amo e in quanto insegnante che ha sofferto per un anno la sua presenza nella mia scuola coi ragazzi (non tutti hanno sofferto ovviamente) e i loro genitori. Finito questo anno non ho voluto più avere a che fare con Rupnik. Di lui sentivo come un’ eco lontana che andava a volte a Trieste come gesuita e come artista (ha tenuto una mostra anche all’Auditorium di Gorizia), a Lubiana, Roma e altrove. Quindi penso che il Centro Stella Matutina gli sia servito per un paio di anni come base per i suoi viaggi nei dintorni».

Che idea si è fatta dell’inchiesta “interna” in corso su padre Rupnik? «Pur desiderando non posso aiutarvi più di quanto abbia fatto. Dalle parole del vescovo Saje, dei teologi Ivan Štuhec e Janez Juhant, e di p. Branko Cestnik, desumo che questi ne sappiamo parecchio sul suo conto, in quanto le loro parole sono di ferma condanna e di netta distanza. Questo per quanto riguarda la Chiesa slovena. Con ritardo purtroppo… In ogni caso si tratta di una brutta storia, che puzza di prestigio, potere e denaro e spero che altre vittime trovino il coraggio di testimoniare. «Un guru che ha usato il suo grande carisma per ipnotizzare e ammaliare e il suo sapere per approfittare delle persone accanto e in definitiva costruire una setta attorno a sé». Così p. Branko Cestnik ha definito Rupnik parlando a una radio slovena, ricordando che le vittime che denunciano questi soprusi subiti in sistemi simili prendono coscienza molto tardivamente di essere state manipolate e abusate «e non tutte riescono a denunciare preferendo sanare le proprie ferite non pubblicamente».

Ma la nostra fonte vede aprirsi uno spiraglio: «Credo che col tempo verrà a galla ancora molto; sui media sloveni si è aperto un dibattito importante che aiuta le persone a prendere posizione, chiarire e testimoniare».

ps. «Per quanto riguarda il Centro Stella Matutina e Rupnik a Gorizia, ultimato il suo Progetto Gorizia, considerato anche che i gesuiti di norma tendono a cambiare posto ogni tre anni per nuove esperienze, e lasciata Gorizia, e morto il superiore Gino Dalla Vecchia, il Centro Stella Mattutina in degrado è stato ceduto dall’Arcidiocesi dapprima all’Università di Udine (progetto di campo universitario rimasto sulla carta per mancanza fondi) e il 2018 a un istituto professionale Ial».

La testimonianza inedita

Caro Fratello in Cristo,

apprezzo molto il fatto che la Chiesa slovena si sia pronunciata pubblicamente sulla vicenda Rupnik e abbia espresso a riguardo una parola chiara e decisa. Ci avete invitato a parlare, quindi spero che le mie parole portino qualche chiarimento. Sono di Gorizia, professoressa … al liceo … di Gorizia in pensione. Le scrivo non tanto per me stessa e per le difficoltà che ho vissuto personalmente come membro della comunità credente di Gorizia, ma principalmente perché durante la permanenza di Rupnik a Gorizia ho vissuto le difficoltà, la sofferenza, la rabbia e l’astio degli studenti e dei loro genitori a scuola e di altre persone della nostra minoranza linguistica. Non scrivo per condannare Rupnik, ma soprattutto per rendere esplicito quante persone siano state ferite dal suo comportamento e dal suo stile. Penso di dover a tutte loro questo riconoscimento, soprattutto perché amo molto il mio territorio goriziano e perché appartengo a quelle persone del luogo che giorno dopo giorno hanno cercato tra mille difficoltà di migliorare l’atmosfera da questa parte del confine.

Rupnik è stato invitato a Gorizia, ne sono quasi sicura, da mons. Oskar Simčič, vicario per i fedeli sloveni dell’Arcidiocesi di Gorizia, per sostituirlo nell’insegnamento di religione al liceo … e allo stesso tempo ravvivare la vita religiosa nella comunità slovena di Gorizia, che in quel periodo stava vivendo un periodo di deserto: molti intellettuali provenienti da famiglie cattoliche si erano allontanati, mancavano sacerdoti … Quando Rupnik arrivò nel 1987 lo accogliemmo con grande gioia perché ci affascinò subito la sua lectio divina. In pochissimo tempo le sale, soprattutto quella della Stella Matutina SJ, si riempirono di ascoltatori di tutte le età. Il suo superiore una volta mi disse: «Spero che Dio non mi mandi un altro figlio così turbolento» … Credevamo ingenuamente che fosse arrivato un dono di Dio per tutti noi dopo lunghi anni di deserto. Non capimmo subito che, dopo averci studiati tutti, in poco tempo aveva cominciato unicamente ad attuare un suo piano, il “Progetto Gorizia”, come lo chiamava lui, che consisteva fondamentalmente nel fatto di scegliere tra di noi solo coloro disposti a seguirlo incondizionatamente, lasciando da parte gli altri come indesiderati.

Riuscì a fare questo abbastanza velocemente. Attraverso la sua influenza sui giovani e sulle famiglie, facendo capire loro quanto siano i più importanti tra gli altri, riuscì a provocare una spaccatura nella nostra comunità. In quel periodo noi giovani famiglie credenti cominciavamo a riunirci nel circolo della Comunità di famiglie Girasole (Skupnost družin Sončnica). Quando arrivò, Rupnik cominciò ad attirare a sé alcune famiglie in modo che i legami tra di noi si spezzarono. La tattica era molto semplice. Quando alcuni di noi arrivavano alla Stella Matutina per la lectio divina, non c’era nessuno perché avevano cambiato la data dell’incontro. Del cambio della data si informavano tra di loro solo alcuni, quelli indesiderati rimanevano tagliati fuori. Finché abbiamo desistito … Le sue attività cominciarono ad essere avvolte nel silenzio, dal quale non usciva alcuna informazione su cosa stessero facendo, quando e dove. Tutti i “prescelti” rispettavano rigorosamente questo silenzio, quindi alla fine abbiamo accettato il fatto di non essere degni della sua attenzione. Questo è stato molto doloroso per noi poiché volevamo solo sperimentare la profondità della parola di Dio, e umiliante perché eravamo esclusi ed etichettati come incapaci di seguire. Per diversi anni la comunità delle famiglie è rimasta lacerata. Alcune famiglie si riunivano sempre alla Stella Matutina, le altre sono rimaste nel centro pastorale sloveno della città presso la chiesa di S. Giovanni.

Tra le persone che seguivano Rupnik regnava qualcosa di molto simile all’”omertà”. Rupnik sapeva convincere in modo sofisticato la sua gente a tacere e coprire, a non dare informazioni e adito per parlare delle sue attività. Pertanto non sono affatto sorpresa del fatto che i suoi abusi siano rimasti nascosti per così tanti anni. Non fu difficile convincere le persone, sulle quali Rupnik influiva con le sue qualità, a tacere.

Ricordo uno dei primi incontri al collegio sloveno Alojzijevišče a Gorizia dove ascoltammo una lectio divina con un gruppo di amici. Durante la conversazione dopo la lectio divina Rupnik si rivolse all’amica … ed espresse davanti a tutti noi il suo alto riconoscimento: «Da te sì che nascerà qualcosa». Lo disse con un tono tale che lei si sentì estremamente onorata, e noi estremamente umiliati perché non sapevamo cosa stessimo effettivamente facendo lì, considerato che non capivamo niente. … entrò a far parte della comunità Loyola.

Diciamo che noi adulti esclusi piano piano accettammo questo suo stile e prendemmo atto con tristezza che non era venuto per noi. Gli studenti del liceo, però, non glielo perdonarono. Nell’anno del suo arrivo a Gorizia cominciò ad insegnare religione al liceo … che all’epoca era sito ancora nell’ex seminario di Gorizia, ma dopo un determinato periodo noi pedagoghi intuimmo che qualcosa non andava. Mentre all’inizio noi professori credenti eravamo contenti del fatto che gli studenti potessero ascoltare le sue belle lezioni e avere delle belle conversazioni con lui, cominciammo a notare una crescente irritazione tra gli studenti e molti genitori preoccupati che ci chiedevano cosa stesse succedendo durante le ore di religione. Quanto queste ore dovevano essere state traumatizzanti per gli studenti si rese palese una mattina quando arrivati ​​a scuola vedemmo le porte di tutte le aule e delle altre stanze del liceo ricoperte da parolacce irripetibili, scritte e disegni vergognosi contro Rupnik. Noi professori rimanemmo scioccati. Anche Rupnik accanto a me rimase stupito e si limitò a commentare: «Questo dovrebbe essere fotografato». Credo che qualcuno abbia fotografato il tutto. Noi leggevamo gli insulti in silenzio e quel giorno penso non ci fu lezione per poter ripulire il prima possibile tutte le porte. Mai avevo vissuto una cosa del genere, tante maledizioni e scritte così velenose contro un professore. Questa reazione mi ha fatto capire quanto fosse stato traumatizzante per questi giovani la loro esperienza con Rupnik. L’ora di religione fu poi portata avanti da una sorella … e l’atmosfera a scuola si è gradualmente calmata.

Il periodo della permanenza e attività di Rupnik a Gorizia è stato per me, tranne i primi mesi, molto brutto. Con il suo arrivo Rupnik ha squarciato la comunità slovena credente di Gorizia e si è permesso in un territorio che aveva conosciuto tante sofferenze e che negli anni aveva faticato a riprendersi dalle divisioni della guerra, che passo dopo passo aveva cercato di sanare nella comunità slovena le ferite ereditate dalle mentalità divergenti e di superare gli ostacoli tra le diverse comunità linguistiche qui viventi, e nella stessa comunità di credenti slovena, che nel suo piccolo cercava di vivere la propria fede, – Rupnik si è permesso di irrompere e stralciare così violentemente, elevando alcuni a tal punto che andavano dicendo ossessivamente che volevano diventare gesuiti e Loyola (sacerdoti e suore, ndr), mentre altri ne uscivano umiliati e abbattuti. Per quanto ne sappia, dal suo Progetto Gorizia uscirono alcuni sacerdoti (D. Bresciani DJ, I. Bresciani DJ, F. Bertolini, M. Pelicon DJ) e Loyola (seguono i nomi di tre suore della Comunità Loyola, ndr). Conosco due famiglie che hanno sofferto moltissimo perché le ragazze se ne andarono senza un saluto e per molti anni non le hanno potute vedere né avere alcun contatto con loro. Ho parlato spesso con i loro genitori e sorelle/fratello e parenti. Tre genitori, credo, siano morti senza aver mai rivisto le loro figlie.

Quando Rupnik lasciò Gorizia nel 1991, fummo sollevati. Le famiglie “prescelte” si calmarono lentamente e si ricredettero sul suo modo di fare, si riconnessero alle altre e la comunità Girasole prese vita ed è attiva ancora oggi. Ho pubblicato articoli sulle sue attività sul settimanale sloveno Novi glas. Anche i giovani “prescelti” che seguivano Rupnik si calmarono e le loro famiglie tirarono un sospiro di sollievo. Al centro pastorale S. Giovanni arrivò dopo alcuni anni p. Mirko Pelicon SJ che abbiamo apprezzato moltissimo.

Rupnik ha lasciato alcune ferite profonde. Tra i giovani di allora che sperimentarono a scuola la sua “ora di religione” c’è ora una giornalista che ha subito colto l’occasione per riferire alla radio slovena Radio Trst A su questi argomenti di cui ne sono pieni i giornali italiani. Alcuni giovani di allora hanno subito postato le pubblicazioni dei giornali sui social media chiedendosi perché la Chiesa ufficiale rimaneva in silenzio. Pertanto è stato giusto che la Chiesa slovena abbia preso una posizione chiara su questa vicenda e l’abbia espressa pubblicamente. Di questo le persone ne avevano bisogno, sia coloro che hanno vissuto abusi sia coloro che sono rimasti ammaliati dal fascino di Rupnik.

In una delle prime lectio divina Rupnik ci diceva come fosse necessario per prima cosa «ripulire il fondo» della nostra anima. Quando gli chiedemmo cosa dovesse eliminare lui, rispose: «La superbia». Non so quanto ci sia già riuscito… superbia, autocompiacimento, potere sugli altri…

Per parecchio tempo dopo la sua partenza ho desiderato di scrivergli a Roma: sarebbe opportuno e giusto che ti scusassi pubblicamente con Gorizia! Alla fine non l’ho fatto perché: … lasciamo perdere… perdoniamo… abbiamo superato… andiamo avanti… è un’anima artistica…

I mosaici di Rupnik non mi ispirano più, non mi dicono più niente, perché ho vissuto colui che sta dietro a loro. Sicuramente saranno importanti per gli altri, ma non per me. Mi chiedo come vivano le sue opere le famiglie “elette” che lo hanno seguito e alle quali ha donato le sue opere che si trovano appese nelle loro case, dopo questa vicenda… e gli altri nel resto del mondo …

Che abbia peccato a volte de sexto posso anche accettarlo e comprenderlo (sempre meno, dopo le dimensioni e le modalità che stanno emergendo in questi giorni). Mi è molto più difficile accettare che, come uomo consacrato, determinasse chi fosse degno della parola di Dio e chi no, che escludesse le persone e le allontanasse dalla bellezza, dal conforto e dalla forza del Vangelo, questo trovo difficile da accettare. Tanto più difficile in quanto ciò avveniva tra i giovani a scuola e in una comunità a me tanto cara e per la quale desidero tutto il meglio. Non è difficile trovare un nome per lo spirito che divide, separa, esclude…

Il fascino di Rupnik ha oscurato ingiustamente anche l’operare degli altri sacerdoti, perché «lui sapeva predicare, gli altri invece …». Il sacerdote più giovane del centro pastorale sloveno ne è rimasto per lungo tempo veramente turbato.

Personalmente sarò sempre grata a Dio di aver incontrato nella mia vita il sacerdote Vinko Kobal e di essere cresciuta con la sua fede e il suo amore. Non mi sono mai sentita umiliata o indegna davanti a lui, mi ha sempre accettato come fossi la persona più importante del mondo, ha sempre cercato di trovare con me risposte ai miei dubbi e alle mie domande, anche se era superimpegnato con i giovani, trovava sempre un momento per me se ne avessi bisogno… I suoi pensieri, le conversazioni, le esperienze vissute accanto a lui mi accompagnano ancora nella mia vita, sono una luce e un grande aiuto per me ancora adesso.

Di Rupnik mi sono rimasti alcuni bei insegnamenti e molto dolore. Vorrei ripetere che non ho scritto tutto questo a causa del mio dolore personale, ma per il dolore dei giovani a scuola e delle loro famiglie e di molte persone della mia comunità che amo molto. Ho sentito il dovere di scriverlo per la mia gente e i miei luoghi, ed è per questo che considero questa mia testimonianza scritta giustificata e giusta.

Lettera firmata

Nell’immagine di apertura padre Marko Ivan Rupnik (Foto da un video su Youtube)

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