A Torino fino al 26 febbraio, mostre, incontri dibattiti, organizzati dai giovani dell'associazione Adass, fondata da Suad Omar. «È anche un'occasione per l'Italia di ripensare il passato coloniale, un passato che si ripercuote a tanti livelli sul presente», dice l'antropologa Cecilia Pennacini

Quasi un secolo fa, negli Usa, Carter G. Woodson (1875-1950), oggi noto come il padre della Black History, proclamò la Negro history week: una settimana da celebrare in tutto il Paese con lo scopo di incoraggiare gli statunitensi a studiare la storia dei neri. La settimana cadeva a febbraio, mese di nascita del presidente Abraham Lincoln (1809-1865) e del politico e attivista abolizionista Frederick Douglass (1818- 1895), e si proponeva di estendere a tutti Usa il Douglass’day proposto verso fine Ottocento come giornata di festa per gli studenti delle colored schools dell’area di Washington dalla giornalista e attivista Mary Church Terrell (1863-1954), una delle prime donne afroamericane a laurearsi. Durante quella settimana Woodson distribuiva agli studenti delle colored schools, anche nelle zone rurali, giornali e riviste contenenti discorsi e foto di persone afroamericane che finalmente prendevano la parola, e divulgava ai giovani che incontrava la sua idea che se una razza non ha una storia diventa “trascurabile” agli occhi del mondo, e possibilmente soggetta al rischio di essere sterminata. Era la seconda metà degli anni Venti; cinquant’anni dopo circa, la Negro history week verrà ulteriormente ampliata dagli studenti ed educatori dell’Università del Kent a Black history month, in seguito ufficialmente riconosciuto dal governo statunitense nel 1976.

Torino è la terza città in Italia, dopo Firenze e Bologna, rispettivamente alla settima e alla quarta edizione del Black history month, dove febbraio è il mese dedicato alla valorizzazione e celebrazione della storia dei neri. Dell’eredità di Woodson, qui, si è fatta carico una donna, il suo nome è Suad Omar: somala ma in Italia da trentaquattro anni, mediatrice culturale, attivista, formatrice, poetessa e scrittrice, e un entusiasmo dirompente tra gli intercalari esotici del suo italiano. L’associazione che ha fondato nel 2007 insieme ad altre sei donne di origine africana (Adass, Associazione donne Africa subsahariana e seconda generazione) ha coordinato i lavori per la seconda edizione del Black history month Torino (1-26 febbraio), patrocinata da Città di Torino in collaborazione con numerose altre associazioni del territorio. La rassegna si snoda nell’arco di quattro settimane mediante convegni, incontri con autrici e autori, mostre, proiezioni di film, attività per le scuole, cene etniche, concerti, performance artistiche, e attraversa spazi diversissimi della città, dallo spazio museo di palazzo Madama alla Casa di quartiere di San Salvario, mettendo in rete comunità, persone e luoghi. Quest’anno le tre tematiche attorno a cui ruotano gli eventi in programma sono radici, identità ed empowerment, e si inseriscono in grassetto tra i fili colorati delle lunghe trecce della donna disegnata sulla locandina.

La locandina del Black History Month di Torino

«Vogliamo raccontare un’altra Africa attraverso gli occhi delle donne, da un lato, e delle seconde generazioni, dall’altro. Dalla cura del corpo a quella dei capelli, dalla scrittura alla poesia. L’obiettivo è quello di far conoscere, sperimentare, scoprire e riscoprire includendo ed educando», mi spiega al telefono Suad, e le sue parole sembrano continuare in quelle di Cecilia Pennacini, professoressa ordinaria di Antropologia culturale e direttrice del Museo di Antropologia ed Etnografia dell’Università di Torino, coinvolto nell’organizzazione di alcune mostre ed eventi della rassegna: «Anche l’Italia ha bisogno di conoscere la storia dell’Africa – che è una storia antica, di civiltà importanti, e che conosciamo poco. Altrimenti si rischia di semplificare o addirittura di dar luogo a fenomeni pericolosi come xenofobia e razzismo» (Per approfondire si può leggere l’articolo di Pennacini Innovazione dal Mediterraneo in giù apparso sul numero di Left Africa, il futuro è qui).

Suad mi spiega che ad organizzare la rassegna ci hanno pensato ragazze e ragazzi di seconda generazione, quei giovani le cui identità sono «in bilico tra diverse appartenenze, che spesso sentono il bisogno di riconnettere», come osserva l’antropologa Pennacini. «Hanno dai 14-15 anni in su –  dice la portavoce di Adass – e sono loro le persone chiamate in causa: perché conoscano le proprie radici, scoprano le proprie identità e acquisiscano l’empowerment che gli permette di raccontare che esistono. Attraverso l’arte africana, frutto della diaspora e del melting pot culturale».

In occasione della rassegna, il 3 febbraio è stata inaugurata a palazzo Madama la mostra Congo- Italia. Ripensare il passato. L’operazione messa in atto in questo caso dall’Università di Torino, spiega la professoressa Pennacini, è stata quella di lavorare con gli oggetti africani già collezionati nei musei della città, in un lavoro di rete tra istituzioni ed enti del territorio: «Per ragioni storiche le nostre collezioni museali sono ricche di oggetti che vengono dall’Africa, dal passato: oggetti che, oltre all’interesse estetico, hanno anche un interesse storico, e ci consentono un pretesto per raccontare la storia delle civiltà africane e del colonialismo», dice l’antropologa menzionando Yekatit 12, la giornata in cui in Etiopia si celebra il ricordo delle circa 30mila vittime della strage di Addis Abeba, un insieme di episodi di indiscriminata e brutale rappresaglia compiuti tra il 19 e il 21 febbraio 1937 nella capitale dell’Etiopia da parte di civili italiani, militari del Regio esercito e squadre fasciste contro civili etiopi; una strage per cui l’Italia non chiese mai scusa (per approfondire v. Left del 12 febbraio 2021).

Cecilia Pennacini ci parla del difficile rapporto dell’Italia con il proprio passato coloniale: «Delle colonie italiane in Africa c’è poca memoria: di questo pezzo della nostra storia, che è una storia che condividiamo con l’Africa, si parla poco anche a scuola. A me sembra molto interessante il fatto che gli afro-italiani e gli afrodiscendenti che vivono in Italia, che cominciano a essere piuttosto numerosi, sia di prima che di seconda generazione, hanno preso in mano questa iniziativa per cominciare a parlare di Africa dal loro punto di vista. Mi sembra interessante perché i giovani di origine africana che vivono in Italia hanno poche occasioni di studiare e informarsi sulla storia dell’Africa e anche sulla storia dell’Italia in Africa, che è una storia drammatica. Il Black history month – conclude – è anche un’occasione per l’Italia di ripensare il passato coloniale, questo passato che si ripercuote a tanti livelli sul presente. Farlo attraverso le donne e i giovani che ruotano intorno ad Adass, che hanno una memoria familiare del colonialismo e della migrazione, e magari analizzando le loro testimonianze dal punto di vista degli storici dell’Africa e antropologi, è un modo per far riemergere questi temi poco ricordati». Il Black history month, dunque, come strumento attraverso cui riappropriarsi della narrazione della storia che le diaspore scrivono in Italia, rileggere e riscoprire le radici coloniali e gli esiti che queste hanno prodotto sull’identità dei corpi neri, tuttora troppo spesso razzializzati.