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Cosa resta dell’assedio di Goražde

Dopo aver consumato la colazione mi dirigo verso il centro cittadino di Goražde. Attraverso nuovamente il ponte e raggiungo il corso dedicato a Zaim Imamović. La mia meta è il Centar za kulturu (Centro di cultura) della città: sede della biblioteca, dell’auditorium e dalla vecchia stazione di Radio Goražde. La struttura è un cubo di cemento con una delle facciate rivolta verso la Drina e un’altra verso il corso principale. Su questo lato c’è anche l’accesso a un bar mediamente frequentato che, almeno in queste giornate, passa della musica americana commerciale. All’interno qualche fotografia che ritrae la Goražde di una volta e poster a sfondo cinematografico. Il Centar, infatti, tra le sue varie offerte culturali proietta anche film che si possono gustare seduti su delle comode poltroncine rosse. Senza dubbio questo luogo rappresenta uno spazio d’aggregazione importante per la comunità locale, capace di condensare conoscenza e svago.

Un altro dei progetti del Centar interessa il versante pedagogico-espositivo. Dal 18 settembre del 2016 all’interno del Zavičajni muzej Goražde (Museo della patria di Goražde) è fruibile la mostra War exhibition. Un percorso espositivo che, partendo dagli oggetti di uso comune utilizzati (o creati) durante l’assedio, ha il duplice obiettivo di mantenere viva la memoria e di istruire le nuove generazioni sul passato recente. La mostra War exhibition in qualche maniera decostruisce il concetto stesso del monumento memoriale istituzionalizzato e riconduce la narrazione alle interpretazioni personali della guerra. La rievocazione del dramma non è sacralizzata e distante dai potenziali visitatori, ma è tangibile, reale, contemporanea.

Incontro Adi Džemidžić, storico, archeologo, cultore di musica metal e ricercatore al Centar. È uno dei ragazzi che ha curato la realizzazione del museo e che cerca attraverso il patrimonio cittadino di offrire linfa ed energie a Goražde. Adi è uno dei bambini di guerra, aveva sei anni quando è scoppiato il conflitto ed è riuscito a sopravvivere all’assedio. Non tutti i suoi coetanei hanno avuto la sua stessa fortuna. Davanti all’entrata principale del museo una piazzetta di recente installazione è tagliata in due da un muro di mattoni neri lucenti. Come per la targa dei partigiani sul ponte,

le scritte riportate sul dorso sono in bianco e in corsivo. È un’opera commissionata dall’amministrazione di Goražde e inaugurata nel 2013, dedicata alla memoria dei fanciulli morti durante il conflitto. Il muro è lungo una decina di metri e alto circa la metà. Sul lato fronte alla strada ci sono i nomi dei bambini uccisi dalla guerra; ne conto più di duecento. Sull’altro alcune scritte. «Non li hanno lasciati crescere», recita una di queste, «hanno sparato nel futuro, in occhi innocenti», sentenzia un’altra.

Entro nel Centar. Nell’atrio d’ingresso scorgo alcune fotografie del periodo comunista. Immortalano le vecchie attività del centro, si vedono degli attori sul palcoscenico sotto il tricolore jugoslavo con la stella rossa, bambini che corrono e donne in pose più o meno ricercate. Noto anche una pietra erratica dedicata allo scrittore locale Isak Samokovlija. Adi mi viene incontro. È un ragazzo alto, con i capelli biondi e lisci che arrivano a metà schiena. Li porta legati come un vecchio saggio indiano. Ha vissuto a Sarajevo durate il periodo universitario e ora è tornato in città per dare una mano.

Adi: «Ti voglio mostrare alcune opere di grande ingegno create dai cittadini di Goražde durante la guerra. Ecco, prendi in considerazione che tutte le zone intorno a Goražde erano occupate dai serbi: Foča era occupata, Čajniče era occupata, anche Rogatica era occupata. Quindi moltissimi dei profughi delle città circostanti vennero qui per cercare riparo. Prima della guerra, Goražde contava solo 27mila persone, durante l’assedio il numero si moltiplicò. In qualche maniera i rifugiati cercarono di difendere la città. Ora, di base immagina che non c’era nulla qui di cui vivere… quindi la gente si dovette inventare varie alternative: sia per difendersi che per creare gli strumenti d’apparente normalità. Vieni ti faccio vedere meglio (lo seguo lungo il corridoio del museo. Ci fermiamo davanti a una parete. Appese al muro alcune pistole, nda). Vedi, queste sono le prime armi che abbiamo creato per difendere la città… per difendere la libertà, insomma. Sono state fatte a casa, nei garage privati degli abitanti a partire dai tubi dell’acqua o anche dai tubi del gas delle cucine. Ma ci sono anche alcune pistole che hanno il calcio in legno. Diciamo che durante la guerra c’è stato un altissimo incentivo al riutilizzo degli oggetti…»

Andrea: Quindi la gente metteva a disposizione tubi e altro per la comunità?

Adi: Sì, sì. Diciamo che quando un tubo si rompeva o magari una casa veniva colpita dalla guerra e data alle fiamme, il proprietario cercava di mettere in salvo gli oggetti che sarebbero stati potenzialmente utili per la causa comune. Questo, invece, be’, diciamo che è una specie di cucinotto improvvisato: poteva servire per riscaldare il pane o qualche pietanza. Anche questa installazione è creata con pezzi di fortuna, anche provenienti da motori di vario genere.

Andrea: Incredibile…

Adi: Sì, davvero…

Andrea: E invece queste armi esposte, come le avete recuperate? Sono un regalo da parte della popolazione o cosa?

Adi: Sì, diciamo che abbiamo chiesto agli abitanti un piccolo sostegno quando abbiamo iniziato a concepire questo museo. Insomma, abbiamo detto alla gente che volevamo fare una mostra sulla guerra e abbiamo chiesto loro di donare alcuni oggetti che gli ricordassero quel periodo… e la gente è stata entusiasta! Le persone hanno capito il senso del lavoro… poi erano anche orgogliosi di quello che avevano fatto.

Andrea: Quando è stato inaugurato il museo?

Adi: 2016… Questa invece (mi indica con il dito una torcia da bosco in stile anni Ottanta, dalla forma simile a una calcolatrice e con il vetro largo che occupa la parte superiore. Saldata al retro della torcia c’è una piccola scatola metallica apribile dall’alto. Dal lato destro fuoriesce una manipola rossa, nda), era una maniera basica per fare luce in assenza di elettricità. Ecco, una maniera alternativa per illuminare le stanze. Dietro questa lampadina era stata montata una dinamo, così che per poter illuminare bastava girare la manopola. In questa teca, invece, c’è quel che rimane di una candela a benzina che funzionava tramite un dispositivo meccanico. Ecco, questo, è… (sogghigna) diciamo un quaderno delle elementari. Vedi, ci sono i calcoli di algebra e di altre materie. In realtà sono vari fogli uniti semplicemente da alcuni fili di metallo… sono tutti espedienti per provare ad avere una vita normale diciamo…

 


Il libro
Memorie di chi la Jugoslavia l’ha vissuta, in pace e in guerra, di chi ha sperimentato le conseguenze del conflitto, di chi vuole cambiare il suo Paese e di chi, invece, vuole solo scappare da quei luoghi, asfissiato da un futuro senza prospettive. Sono la materia prima della nuova opera di Andrea Caira, Un tetto e due scuole, da poco in libreria per Tab edizioni. Caira è un ricercatore indipendente di storia contemporanea e si occupa di storiografia della memoria tra l’Italia e la Bosnia-Erzegovina. Collabora con varie realtà editoriali, sia cartacee che digitali, ed è attivo in diversi progetti di valorizzazione del patrimonio immateriale. È co-autore del volume La resistenza oltre le armi. Sarajevo 1992-1996 (Mimesis edizioni, 2021).

Dalla postfazione di Un tetto e due scuole, a cura di Antonio Canovi:
Andrea Caira si muove nel paesaggio della Bosnia alla maniera ostinata di un novello El Quijote. Scruta fantasmi di pace mentre cammina nell’assedio dei segni di guerra. Annoda i capi della storia alla geografia di una nazione perduta. L’erranza sembra corrispondere nell’autore a una postura ontologica, come tale non fine a se stessa: questo viaggio nutre l’ambizione di restituire ad ogni approdo nominale la consistenza geostorica di luogo (…) Registratore alla mano, Andrea osserva, incontra, intervista e si fa intervistare. Non s’arrende all’evidenza di quanto gli si viene narrando, della guerra che continua a scavare l’odio nelle teste e nutre futuri separati. Gli intervistati che ci vengono fatti incontrare, donne e uomini, appartengono a generazioni distinte e tuttavia sono ancora compresi nel medesimo incantesimo: la dissoluzione della Jugoslavia.

 

* In foto, il monumento ai caduti della guerra a Goražde. Julian Nyča, CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons

Quelli che li aspettavano Ancona

Ad Ancona c’era qualcuno, al porto, che aspettava la nave Geo barents. L’associazione Ambasciata dei diritti Marche era lì. Centinaia di persone erano lì con il corpo e avevano qualcosa da dire. Il comunicato dell’associazione dice tutto quello che c’è da dire.

«È evidente – si legge nella nota – come il governo italiano nell’assegnare il porto di Ancona alle due navi da soccorso Geo barents e Ocean viking volesse esporre l’equipaggio, gli armatori ed i naufraghi al pubblico ludibrio. Nelle stanze al calduccio del ministero degli Interni chissà con quale sadico divertimento si sono immaginati il loro elettorato deridere e farsi beffe di clandestini e zecche costretti ad un viaggio tanto penoso quanto inutile. La lunga lista di commenti pieni di odio nei vari social alla notizia dell’arrivo delle navi sembrava dipingere una comunità tra l’indifferenza e l’ostilità nei confronti dei naufraghi e dei loro salvatori».

«Oramai da anni il Viminale si è trasformato in una macchina di propaganda che genera odio nei confronti di migranti, profughi e richiedenti asilo – prosegue il comunicato -. Da Minniti passando per Salvini fino a Piantedosi il modus operandi è sempre lo stesso, un enorme strumento di distrazione di massa e costruzione di false emergenze, con tanto di mass media pronti a fare da cassa di risonanza come in un gregge di pecore. Di fronte a questa potenza di fuoco la sensazione di impotenza e di incapacità di reazione sembrava pervadere un po’ tutti. Eppure…»

«Eppure – continua il contributo di Ambasciata dei diritti Marche – la notizia dell’arrivo in città delle due navi ha generato un tam tam positivo tra associazioni e singoli individui che ha avuto fin da subito la capacità di squarciare il pesante velo che la politica razzista governativa voleva stendere sul nostro Paese. Game over … la pacchia è finita continuavano a commentare nel mondo virtuale dei social. Ma come la storia insegna la propaganda spesso fallisce ed ecco nascere in varie parti della città assemblee vere, dal vivo partecipate al di la di ogni più rosea previsione, tutte coordinate e decise nel dare il benvenuto alle persone soccorse ed ai loro soccorritori, ma allo stesso tempo ferme a svelare l’infamia che sta dietro alla politica governativa. Il moto positivo è stato talmente strabordante da rendere impossibile una gestione sincrona di tutte le iniziative poiché la volontà di testimoniare la vicinanza era irrefrenabile».

Chiosano così gli attivisti marchigiani: «Questo è successo ieri sera e sta succedendo questi giorni, centinaia di persone si sono riversate al porto per essere una unica voce di solidarietà, un clima meraviglioso che non si respirava da tempo, le chat di coordinamento esplodono di foto e di appuntamenti per vedersi. Qualcuno potrebbe dire che si tratta di una sola goccia, speriamo sia quella (parafrasando Orso) che innesca una tempesta. L’ingiustizia è talmente chiara che solo una rivolta potrà porre rimedio, non esiste un diritto al sopruso, non è possibile tollerare la violenza gratuita nei confronti di chi non si può difendere. Carola Rakete agì correttamente, lo dice pure una sentenza, forzò il blocco navale per portare in salvo i naufraghi ed aveva ragione. Non ci è dato sapere chi avrà la capacità di ribaltare il tavolo ancora una volta, se sarà un equipaggio, i naufraghi stessi o qualcuno a terra in solidarietà con loro, la cosa certa è che più gocce cadranno più la tempesta si avvicinerà».

Buon venerdì.


* In foto, il presidio di attivisti presenti durante l’arrivo della nave dell’ong Geo barents al porto di Ancona. Immagine pubblicata nella pagina Facebook di Ambasciata dei diritti Marche

La vera accisa è questo governo

Nella commedia dell’assurdo a cui stiamo assistendo con questo governo di partiti “pronti” che sono ogni giorno più farsescamente impreparati si aggiunge l’atto delle accise sui carburanti. Come negli episodi precedenti (e nei prevedibilissimi episodi successivi) la risata è amara, forse un po’ malinconica, sicuramente salatissima.

Tipicamente, quando si tratta di Salvini e Meloni, non serve nemmeno entrare nei tecnicismi. I due leader di Lega e di Fratelli d’Italia hanno passato gli ultimi anni a utilizzare le accise sul carburante come fermenti vivi della propaganda. L’equazione è facile: si tratta di qualcosa che usano praticamente tutti, è un’ottima semplificazione del “costo” dello Stato e di quanto pesi in termini percentuali, è di facile comprensione. Ci rimangono in memoria le scenette dell’attuale presidente del Consiglio con il benzinaio e la lavagnetta su cui Salvini prometteva l’abolizione delle accise in diretta televisiva mentre irrideva il centesimo per la guerra in Abissinia.

La destra che si ritrova al governo del resto ha riempito i granai di voti con la politica più facile, l’opposizione fitta e sconclusionata che disegna la politica come un gioco da ragazzi finito semplicemente nelle mani dei ragazzi sbagliati. Conquistare un voto distratto promettendo che il pieno costerà meno è molto più semplice del dover spiegare cosa si intenda per giustizia sociale e del dover progettare una pianificazione delle risorse dello Stato. Solo che per loro sfortuna Meloni, Salvini e compagnia cantante hanno vinto. E qui inizia la farsa.

Il governo interviene sul taglio delle accise e il costo della benzina si alza. Giorgia Meloni spudoratamente dichiara di non averne mai promesso il taglio. Viene sbugiardata. Salvini intanto prova a eclissarsi ma si ritrova costretto ad alzare i pedaggi autostradali e quindi finisce nel fango. Ieri il vice capogruppo di Fratelli d’Italia al Senato, Salvatore Sallemi ci ha spiegato che «se il governo avesse tagliato le accise non ci sarebbero stati fondi a sufficienza per sanità e famiglie», sfoderando addirittura un ricatto morale. Quelli non sanno più che fare e provano a urlare che l’aumento dei carburanti è “solo speculazione”. Falso: i dati del ministero dell’Ambiente dicono che per entrambi i carburanti il rialzo è stato di circa 16-17 centesimi al litro, dunque in linea con l’aumento delle accise da 18 centesimi dopo la fine dello sconto.

Intanto la Cna di Padova fa i conti per gli autotrasportatori: per il settore dell’autotrasporto il 2023 si apre con un aumento dei costi che può arrivare ad incidere per 10mila euro all’anno per ogni singolo veicolo pesante. A pesare è soprattutto lo stop allo sconto sulle accise, che porta l’Italia al terzo posto nella graduatoria dei prezzi del gasolio alla pompa più alti d’Europa (secondo l’Osservatorio sui prezzi dell’energia della Commissione europea). Quelli impazziscono. Paroli (di Forza Italia) dice che «oggi le risorse servono a tutelare famiglie e imprese dai rincari delle bollette». Altro ricatto: volete il caldo o l’auto? Fenomenale Farolfi di Fratelli d’Italia: «Se il governo avesse mantenuto la sospensione delle accise – dichiara -, avrebbe compiuto un’ingiustizia sociale». Insomma, lo stanno facendo per noi. E poi si sa che la giustizia sociale è il primo dei loro pensieri. In serata interviene Paolo Trancassini, deputato di Fratelli d’Italia: «Sulle accise solo menzogne». Insomma, ce lo siamo inventati.

La vera insostenibile accisa sono loro al governo, in effetti.

Buon giovedì.


* In alto: foto ufficiale del governo Meloni (Quirinale.it)

Dal mare al carcere. Anche nel 2022

Arci Porco Rosso, Borderline Sicilia e Borderline-Europe anche quest’anno hanno continuato il progetto “Dal mare al carcere” sulla criminalizzazione dei cosiddetti scafisti che con questo governo sono ovviamente saliti alla ribalta.

Si parte dalla dichiarazione di Giorgia Meloni che, di fronte alla crisi con la Francia scaturita dal tentativo dell’Italia di bloccare l’ingresso e lo sbarco delle navi Ong che avevano prestato soccorso a centinaia di persone, sostiene: «Meglio isolare gli scafisti, non l’Italia». Affermazioni odiose, che alimentano la demonizzazione di chi non fa altro che condurre oltre la frontiera imbarcazioni di persone in fuga, cercando di imporre nuovamente la figura dello scafista al centro della conversazione, come capro espiatorio universale a cui si possa addossare la responsabilità della morte e della violenza che avviene alla frontiera marittima italiana.

Nel report si legge che «nel 2022, abbiamo contato il fermo di 264 persone in seguito agli sbarchi. Questa cifra non è scientifica, ma si basa su quanto riportato dai giornalisti, soprattutto nella stampa locale. Usando lo stesso metodo, l’anno scorso abbiamo contato 171 fermi, a fronte dei 225 fermi rivendicati dalla Polizia di Stato nel loro report annuale uscito ad aprile. Se abbiamo mantenuto lo stesso livello di precisione, possiamo stimare che il numero di fermi complessivamente nel 2022 è di 350 persone circa».

Il numero di fermi rappresenta una persona ogni 300 persone arrivate, una proporzione simile al 2021, e complessivamente anche simile al periodo 2014-2017. «Molto diverse rispetto a questo periodo, però, sono le nazionalità delle persone fermate. Negli anni successivi all’apertura della rotta libica, tantissime persone provenienti dall’Africa occidentale sono state arrestate, circa un quarto di tutti i fermi. Negli ultimi due anni, abbiamo contato meno di 10 fermi che coinvolgono cittadini di questi Paesi».

Le associazioni hanno seguito nel dettaglio 84 persone criminalizzate, 54 delle quali sono in carcere. «Quasi metà di loro provengono dal Nord Africa, e un terzo dall’Africa Occidentale. Gli altri da paesi asiatici, dall’Africa Orientale o dall’Europa dell’Est. Tra le persone che seguiamo ci sono due donne detenute, una proveniente dalla Russia e l’altra dall’Ucraina».

«Fare uscire la voce delle persone sotto processo e detenute è fondamentale per sfidare la narrazione attualmente dominante che mira a demonizzare le persone accusate di essere scafisti. Per questo motivo negli ultimi mesi ci siamo messə a disposizione di giornalisti che hanno pubblicato articoli di cronaca e inchieste importanti a tal riguardo. Il lavoro del gruppo Lost in Europe ha contributo all’approfondimento della questione dei minori stranieri accusati di essere scafisti, pubblicato, fra altre testate, su L’Essenziale e ANSA. Il Post International invece ha pubblicato un esaustivo articolo che riporta il caso di due cittadini turchi condannati a 12 anni di carcere in primo grado; siamo ora in contatto sia con gli imputati che i difensori. Lorenzo D’Agostino ha scritto per il Domani del caso di Helmi El Loumi , un ragazzo tunisino condannato per l’orrendo naufragio di novembre 2019, condannato ad otto anni di reclusione e con il quale manteniamo una corrispondenza epistolare. In più, la situazione in Italia è stata paragonata a quella in Grecia e Regno Unito da diversi giornalisti: per il New Humanitarian in inglese, e per La Liberation in francese. Si possono leggere tutti questi articoli e altri ancora nel nostro sito”, scrivono gli autori del rapporto.

Tutte queste storie hanno la stessa morale. Come scrivevano gli autori nel loro rapporto precedente la persecuzione sotto il profilo penale dei cosiddetti scafisti in Italia andrebbe letta nel contesto sempre più ampio della criminalizzazione della migrazione verso l’Europa. Nel caso dei cosiddetti scafisti, si tratta della criminalizzazione dell’atto di guidare una barca con a bordo migranti che fanno ingresso in Europa senza visto; va ricordato che i procedimenti penali contro i guidatori delle barche si svolgono non solo in Italia ma anche in Grecia, Spagna, le Canarie e il Regno unito: le tragiche situazioni che emergono da questa ricerca rappresentano, quindi, un tassello di un fenomeno di scala internazionale. Allo stesso tempo, questi eventi devono essere visti e analizzati anche tenendo conto del contesto italiano, un Paese in cui gli atti di solidarietà alle persone migranti sono presi di mira dalle procure, come dimostrato dai procedimenti penali aperti contro gli equipaggi delle missioni civili di ricerca e soccorso (Iuventa, Mediterranea) e dalla condanna in primo grado del Sindaco di Riace.

La realtà è molto più complessa di come ci piacerebbe che fosse. In quelle sfumature di grigio c’è il senso di responsabilità della politica, della stampa e dei cittadini.

Buon mercoledì.

La sinistra radicale, una prospettiva

La domanda più ovvia è: per quale ragione la sinistra radicale, in Italia, da anni resta inchiodata a valori cosi marginali di consenso? La risposta più ricorrente è che i gruppi che la rappresentano sono portatori di una politica settaria, rosi da continue litigiosità interne, votati alla scissione. È un giudizio severo, che coglie elementi di verità, ma puramente descrittivo e lascia in ombra tante altre ragioni profonde di possibili spiegazioni. Qui per sinistra radicale intendo essenzialmente Rifondazione comunista e Potere al popolo, lascio fuori i tanti partitini comunisti e naturalmente Unione popolare, troppo giovane per essere giudicata con un minimo di prospettiva storica. Ma su cui tornerò.

Occorrerebbe infatti spiegare come mai queste formazioni non incrementino la loro forza in un contesto sociale e politico così favorevole a una prospettiva radicale. Con la crescita clamorosa delle disuguaglianze sociali, l’impoverimento di strati crescenti di popolazione, il moderatismo centrista del Pd, le ambiguità del Movimento 5 stelle, l’Italia dovrebbe rappresentare il laboratorio ideale per il rapido emergere di una forza di sinistra. Tanto più che le due formazioni non mancano di assumere posizioni avanzate sui tanti problemi della vita nazionale, e da anni partecipano, in alcuni territori, alle lotte operaie e alle proteste dei cittadini.

Io credo che una spiegazione immediata della loro perdurante marginalità risieda in una lettura politicamente inadeguata della situazione presente, dietro cui si nasconde, completamente rimossa, una catastrofe storica che riguarda l’intera dimensione della politica in età contemporanea. Un tracollo materiale e simbolico che ovviamente investe oggi il destino di tutte le forze progressiste.

È idea comune nel campo della sinistra che la politica sia una forma qualsiasi di pratica intellettuale, la cui riuscita dipende dall’aderenza dell’analisi alla realtà fattuale, dall’onestà dei principi ispiratori, dalla scelta coerente di rappresentare i ceti svantaggiati dalle politiche dei vari poteri. Ma dovrebbe essere evidente che questa è solo una premessa.
Non è sufficiente stare accanto al popolo e alle sue sofferenze per diventare popolari, se non si entra nel raggio visivo dell’opinione pubblica nazionale. A meno che non si creda, di diventare, dopo anni di battaglie, talmente grandi e forti da poter dare un giorno l’assalto al Palazzo d’inverno, occorre riconoscere che una forza politica cresce se aumenta il suo consenso elettorale. È questa la porta stretta attraverso cui occorre passare in un sistema democratico.

E che cosa accade puntualmente nelle scadenze elettorali? Noi tutti lo chiamiamo il ricatto del voto utile: quello che per un quindicennio il Pd ha utilizzato per vampirizzare le forze alla sua sinistra, complici i sistemi elettorali da esso difesi o creati. È stato certamente questo ma anche qualcosa di più. I sempre più ridotti elettori italiani che entrano in cabina, soprattutto quelli che si attendono dai governi un possibile mutamento della propria condizione, affidano il proprio consenso non alle forze che hanno il programma più esaltante, ma a quelle che per consistenza numerica consentano di sperare in qualche iniziativa parlamentare utile. Tanto Rifondazione comunista che Potere al popolo non nutrono alcuna preoccupazione di come essi appaiono all’opinione pubblica generale, badano all’idea che se ne fanno i propri seguaci e, teoricamente, la classe operaia e i ceti popolari. I quali evidentemente, pur avendone stima, nel caso ne abbiano sperimentato da vicino l’appoggio e la solidarietà, non li votano. Disertano le urne o votano qualche altro partito a cui affidano qualche vaga chance di mutamento.

Dunque queste formazioni sono chiuse in una trappola: sono troppo piccole e deboli, per essere credute capaci di realizzare i loro programmi e quanto più si mostrano radicali e intransigenti – la loro ragion d’essere come forze politiche alternative – tanto più le loro pretese appaiono velleitarie.

Dunque, la prima e più importante risposta alla domanda dell’inizio viene dalla politica irrealistica dei gruppi dirigenti, i quali, significativamente, non perseguono più di tanto alleanze nell’ambito della sinistra, una condizione decisiva per uscire dalla trappola, per non apparire troppo deboli e isolati. Oggi il comportamento di sospetto, se non di ostilità, nei confronti del Movimento 5 stelle è molto significativo e conferma la vecchia logica di auto emarginazione. Ancora più evidente specie in questa fase, nella quale Conte è un concorrente temibile, avendo compreso quale vasto spazio si apra a sinistra con il dissolvimento strisciante del Pd.

Non entro nel merito, come premesso, della novità rappresentata dalla nascita di Unione popolare di cui Rifondazione comunista e Potere al popolo costituiscono componenti essenziali insieme al gruppo di ManifestA. È un esperimento appena avviato. Ma ancora oggi, in gran parte di questi gruppi dirigenti – non necessariamente nelle varie militanze locali – si annida, inscalfita, la colossale e tragica incomprensione storica dell’epoca in cui viviamo.

Presentarsi alle elezioni del Lazio con un proprio candidato rientra in questo basso orizzonte di pensiero. Senza dire che non pochi rappresentanti, in alcuni casi dirigenti nazionali di Potere al popolo, vanno in giro per l’Italia ancora sotto le insegne del loro partito, mostrando evidentemente sospetto e sfiducia nei confronti del tentativo di unità condotto da Luigi de Magistris, portavoce di Unione popolare: unico e ultimo progetto d’innovazione politica che li può salvare da una fine certa nell’irrilevanza definitiva.

Ora, quali sono in stringata sintesi giornalistica i tratti tragici della condizione attuale dei ceti proletari, delle forze politiche, delle culture e dei gruppi che verrebbero rappresentarli? Si tratta degli esiti di una catena inesorabile di processi ed eventi che hanno demolito configurazioni sociali di durata secolare, sconvolto in profondità, per lo meno in gran parte del mondo sviluppato, le soggettività umane, cambiato la dimensione e la qualità stessa della politica. Negli ultimi 30 anni è cambiato tutto e la sinistra radicale è rimasta chiusa nei quadri di riferimento del Novecento.

Non è retorica. L’iniziativa capitalistica avviata da alcuni grandi Stati dell’Occidente, Reagan negli Stati Uniti e Thatcher in Gran Bretagna, ha visto soffiare i venti della Fortuna nelle sue ampie vele e cambiato volto al mondo. La Fortuna nel senso moderno e drammatico con cui Machiavelli applica il termine alle vicende della politica. Per una fatale congiuntura astrale la deregulation, avviata dai due leader si è incontrata con la rivoluzione informatica. Una innovazione tecnica senza precedenti, che ha concesso ai gruppi capitalistici di ristrutturare le proprie imprese, frantumando, con le varie forme di subappalto, il corpo coeso della classe operaia dell’era fordista. Ma soprattutto consentendo al capitale, non solo a quello finanziario, con la strategia delle delocalizzazioni, una libertà mondiale di movimento mentre la classe operaia e le forze che la rappresentavano restavano inchiodate nel recinto nazionale. Una libertà delle imprese di portare le proprie fabbriche dove la classe operaia era più docile e i suoi salari più bassi, diventata ben presto un ricatto sistematico contro i lavoratori in lotta in tutto l’Occidente.

Negli ultimi trent’anni chi ha preteso aumenti salariali e migliori condizioni di lavoro ha dovuto chinare la testa di fronte alla minaccia di chiusura dell’impresa e di trasferimento dei suoi impianti. Non si comprende quel che è avvenuto alla lotta politica in questa fase storica se non si afferra questo nodo essenziale: il depotenziamento del conflitto operaio, che è stato il motore dell’innovazione industriale per tutta l’età contemporanea, e ha fornito alle forze della sinistra la spinta per redistribuire la ricchezza e democratizzare lo Stato. Non a caso oggi, dispersi e scoraggiati i conflitti operai, il capitalismo sembra tornare al carattere selvaggio delle sue origini. Ma la Fortuna ha voluto soffiare ancora più forte nelle vele del capitale.

Ai primi degli anni ’90 crolla l’Urss, che pur essendo un pachiderma burocratico e autoritario, aveva pur sempre costituito una minaccia per i poteri capitalistici. Essa costituiva una forza competitiva, che ha spinto gli Stati dell’Occidente ad ampliare gli spazi del Welfare per sottrarre consenso ai partiti comunisti nazionali. Sul piano simbolico quel tracollo voleva dire che “non c’è alternativa”. E per rendere ancora più favorevole al capitale il corso delle stelle le élites borghesi si sono trovate in dono un vero e proprio patrimonio di pensiero e di retoriche, il neoliberismo, elaborato fin dal dopoguerra, che aveva tra i suoi esponenti resi prestigiosi dai premi Nobel, come Friedrick von Hayek e Milton Friedman. Quel pensiero, con le sue formule, il suo linguaggio, è diventato l’intelaiatura del pensiero unico, il nuovo aristotelismo della nostra epoca. Una risorsa, ahimè, anche per i partiti socialdemocratici e comunisti, che ne hanno assunto il linguaggio e la prospettiva, salvando se stessi come ceto politico dalla disfatta che nel frattempo si abbatteva sulla classe operaia e i ceti popolari.

Dunque un trionfo del capitale che non ha precedenti nella storia di questo modo di produzione e su cui in così pochi abbiamo riflettuto e studiato. Il primato del mercato, stabilito come superstizione universale, ha significato che la politica poteva solo restare a guardare le forze libere dei privati scatenarsi nell’agone mondiale. Nulla più di questo. Ma la rivoluzione tecnologica di questa fase ha anche visto nascere la “società dello spettacolo”, un sopramondo di inedita potenza manipolatoria, il “cuore dell’irrealismo della società reale” come l’ha definito Guy Debord, che ha consegnato al capitale la rappresentazione della realtà.

L’immaginario collettivo è finito nelle mani di schiere di manager, pubblicitari, intellettuali, esperti di marketing che ne veicolano e sublimano la mercificazione quotidiana. Essi decretano la passività dei cittadini ridotti a massa di consumatori di finzioni, mentre i detentori effettivi del potere televisivo decretano l’esistenza o l’inesistenza delle forze politiche. Se non si è parte dello spettacolo televisivo si è privi di presenza nel mondo reale. Rifondazione comunista e Potere al popolo non hanno alcun ruolo nello spettacolo e dunque le loro voci, per quanto gonfie di legittime denunce e di sdegno, non arrivano da nessuna parte.

In tale paesaggio di macerie – di cui son parte le divisioni a catena dei partiti comunisti superstiti – è evidente che l’interesse preminente di tali forze dovrebbe essere quello di non apparire come le truppe sbandate di un esercito sconfitto. Aprirsi a nuovi spazi di comunicazione, mostrarsi aperti a sperimentazioni con il vasto arcipelago dei movimenti della società civile. Ma anche essere disponibili ad alleanze con le forze politiche affini, indicare programmaticamente lo sforzo di volere unificare, mettere in contatto, fin dove possibile, le diversità che la soggettività individualistica dei nostri anni ha frantumato e disperso. La più grande aspirazione delle masse sconfitte è una qualche forma di unità delle forze che un tempo le proteggevano. Per Rifondazione comunista, Potere al popolo e Unione popolare rappresenta oggi la possibilità di percorrere questa strada. Ed è l’ultimo treno per la Finlandia.


* In foto: uno striscione presente alla manifestazione nazionale per la pace del 5 novembre 2022 a Roma, in un’immagine tratta dalla pagina Facebook di Unione popolare

Soumahoro e il delitto perfetto (della sinistra)

La notizia che tutti sapevano irrompe nel pomeriggio. Un’agenzia riporta le parole di Aboubakar Soumahoro: «Mi ha francamente stupito e amareggiato, ad eccezione di qualche parlamentare, l’assenza della solidarietà umana e del supporto politico da parte del gruppo parlamentare Alleanza Verdi-Sinistra, con quale sono stato eletto da indipendente. Dopo un’attenta e sofferta meditazione sul piano umano e politico, ho maturato la decisione di aderire al gruppo parlamentare Misto, lasciando il gruppo Avs, per proseguire la mia attività di parlamentare».
Qualcuno si potrebbe aspettare delle spiegazioni. Soumahoro dice che è stato frainteso sulla sua frase del “diritto all’eleganza”: «Mi spiace sinceramente che non sia stato compreso ciò che realmente intendevo dire quando ho parlato di diritto alla moda e all’eleganza, laddove intendevo riferirmi al diritto di chiunque di vestirsi come meglio crede», spiega il deputato. Sono passate settimane e ancora non si è centrato il punto. Incredibile. «Tuttavia trovo davvero singolare che mi si chieda di esprimere un giudizio di valore circa foto della mia compagna risalenti a 4 anni prima che io la conoscessi», aggiunge Soumahoro. Non ha tutti i torti però qualcuno dovrebbe spiegargli che accade così: si diventa una personalità pubblica e i giornalisti scavano nel passato. È uno dei compiti della stampa.
Nel dossier del deputato (che dovrebbe chiarire tutto) si legge che le foto di Liliane Murekatete sono state riprese «da quotidiani, siti e rotocalchi che hanno sottolineato e commentato il suo modo di vestirsi, la tipologia di abbigliamento e accessori utilizzati, etc». «Soprannominata provocatoriamente ‘lady Gucci’ – prosegue il dossier – la donna è stata al centro di una serie di pesanti commenti e insinuazioni da parte della stampa e di opinionisti di varia natura». Impossibile dargli torto: i nemici di Soumahoro sono i templari del patriarcato e l’occasione per loro era imperdibile.
Una riflessione merita un altro passaggio. Il deputato osserva che qui da noi una persona di colore «va bene finché è un ‘negro da cortile’, finché protesta con gli striscioni, che che peraltro ho fatto mille volte e non smetterò mai di fare, se è povero e sta ai margini. Ma se prova a fare un salto di qualità immediatamente disturba». Spiega di avere chiesto chiarimenti nel 2021 sulla cooperativa di famiglia: «A fine 2021 lessi da alcuni articoli di stampa sulla mancata retribuzione ad alcuni dipendenti della Karibu e – pur non avendo alcun interesse diretto nelle cooperative – chiesi immediati chiarimenti a riguardo. Venni informato del fatto che non erano ancora pervenuti tutti i soldi necessari per pagare gli stipendi, che si erano sollecitati gli Enti pubblici, e che – così mi venne detto – auspicabilmente tutto si sarebbe risolto in tempi ragionevoli». È consapevole però dell’errore: «Alla domanda del perché io non mi sia immediatamente attivato per intervenire a sostegno dei lavoratori della Karibu in difficoltà, posso rispondere due cose: la prima, a giustificazione del tutto parziale, è che mentre ero fortemente impegnato con le mie attività sindacali e sociali sul territorio nazionale, avevo speranza che la situazione potesse rapidamente risolversi una volta arrivati i fondi pubblici attesi; la seconda è porre le mie scuse incondizionate a quei lavoratori, che avrebbero meritato da parte mia – in ogni caso e a prescindere da quanto sopra – una più sollecita attenzione. Quando una persona sbaglia, anche se solo per sottostima del problema e non in malafede, esiste una sola soluzione: scusarsi, ed impegnarsi a fare meglio in futuro affinché non capiti mai più».
Passa qualche minuto e la capogruppo di Alleanza Verdi Sinistra spiega di non avere mai avuto occasione di parlare con il suo deputato dopo l’esplosione del presunto scandalo. Mai, ripete. In compenso le sue dimissioni sono arrivati solo in copia alla mail spedita al presidente della Camera Lorenzo Fontana. «Diciamo che Aboubakar ha fatto tutto da solo, non abbiamo più avuto nessun confronto, ne sappiamo di dossier. Mi sarei aspettata una comunicazione più diretta e meno burocratica», spiega ai giornalisti. Passa un’ora e interviene il leader dei Verdi Angelo Bonelli. Spiega che il dossier di Soumahoro “non fa chiarezza”: «Se io fossi stato in lui avrei aspettato non più di 48 ore per tirare fuori tutti i documenti e chiarire tutto quello che c’era da chiarire. E invece c’è stato silenzio», dice Bonelli. E aggiunge: «Avrebbe dovuto spiegare. Avrebbe potuto farlo. Anche nei rapporti padre-figlio, mio padre mi dava solidarietà se mi comportavo bene, se mi comportavo male, mi dava uno schiaffone. Se voleva solidarietà doveva essere chiaro».
«Siamo cornuti e mazziati», dice Bonelli. Anche la sinistra. Pensa gli elettori. Una storia in cui ci hanno rimesso tutti mentre la destra gongola.
Buon martedì.

 

*L’immagine di apertura è tratta da uno dei video del Dossier dell’onorevole Soumahoro

Brasilia non è Capitol Hill

L’attacco terroristico alle istituzioni brasiliane avvenuto in queste ore, con l’invasione, distruzione e sottrazione del patrimonio pubblico del Senato, della Camera dei deputati, della Corte suprema e del Palácio do Planalto, la sede ufficiale della Presidenza della Repubblica del Brasile, poteva avvenire soltanto con il consenso – e persino con l’effettiva partecipazione – delle autorità competenti per la pubblica sicurezza e l’intelligence, dal momento che l’organizzazione delle presunte “manifestazioni pacifiche” era un fatto noto, pubblicizzato dai media brasiliani, che ne denunciavano il nome in codice utilizzato dai più fanatici bolsonaristi per darsi appuntamento a Brasilia: “Festa da Selma”.

Messaggi con linee guida e inviti a occupare edifici pubblici e strade circolavano su Whatsapp almeno dal 5 gennaio. Secondo un monitoraggio eseguito dalla società di analisi dei dati Palver, che tiene traccia di oltre diciassettemila gruppi pubblici su questa app di messaggistica, uno dei messaggi più diffusi era una sorta di manuale su come agire durante gli attacchi agli edifici pubblici. «Non iniziate mai l’invasione senza avere a disposizione una folla che si impadronisca contemporaneamente delle sedi dei tre poteri della Repubblica, cioè, iniziate l’invasione solo quando ci sono abbastanza patrioti per invadere tutto!»

Nei gruppi monitorati erano incentivate anche le invasioni dei municipi, dei consigli comunali e degli uffici dei governatori di ogni Stato, sempre con le stesse modalità. Ai membri, gli amministratori delle chat consigliavano di arrivare nei pressi degli edifici interessati “tutti insieme, non in piccoli gruppi”, per invaderli, senza essere attaccati dalle guardie di sicurezza o dalla polizia.

Il giudice della Corte suprema Alexandre de Moraes, nel determinare la sospensione dai pubblici uffici del governatore del Distretto federale Ibaneis Rocha, per un periodo di tre mesi, elenca «omissioni e connivenze di varie autorità, dimostrati dall’assenza della necessaria attività di polizia» soprattutto da parte delle squadre anti sommossa del Distretto federale (Comando de choque da polícia militar).

Tali “omissioni e connivenze” da parte delle autorità competenti hanno permesso che, in sole tre ore, le sedi dei poteri esecutivo, giudiziario e legislativo fossero distrutte. Oltre all’assenza della necessaria vigilanza da parte della Polizia militare del Distretto federale e all’autorizzazione all’ingresso di autobus di manifestanti a Brasilia, senza alcun controllo e con il beneplacito dell’ex capo della Pubblica sicurezza del Distretto federale, Anderson Torres – già ministro della Giustizia e della Pubblica sicurezza di Bolsonaro – il giudice Alexandre de Moraes, ha sottolineato la «totale inerzia nel chiudere l’accampamento criminale di fronte al quartier generale dell’esercito», messo in piedi sin dai primi di novembre ed immediatamente dopo la vittoria di Lula alle elezioni presidenziali.

Fondamentale è stato il sostegno dell’esercito brasiliano nella protezione dei vandali e dei terroristi della estrema destra bolsonarista. Oltre ad accoglierli, ai migliaia, all’interno di un’area militare di Brasilia, dopo aver distrutto il patrimonio pubblico, buona parte dei criminali è tornata a piedi dal luogo del delitto, la Praça dos três poderes (Piazza dei tre poteri), al loro quartiere generale militare, percorrendo indisturbata circa otto chilometri.

Nel pomeriggio di domenica, il ministro della Difesa José Múcio Monteiro ha incontrato il comandante dell’Esercito Júlio César de Arruda e altri generali per stabilire le modalità di sgombero della zona militare. Per chiudere l’accampamento i militari hanno convenuto con il neo ministro della Difesa di inasprire la strategia di strangolare la logistica degli estremisti che pernottano davanti alla loro sede, privando loro dell’acqua e del cibo fornito dagli imprenditori che finanziano tali atti antidemocratici.

Anderson Torres, oramai esautorato dall’incarico di segretario della Pubblica sicurezza del Distretto federale, grazie al commissariamento indetto da Lula (Intervenção federal), era stato nominato dal governatore Ibaneis Rocha il 2 gennaio scorso. La scelta di Torres aveva destato non poche perplessità ai giudici della Corte suprema e alla cupola del Partido dos trabalhadores. Da ministro della Giustizia di Bolsonaro, Torres aveva permesso che la Polizia stradale fermasse oltre 600 autobus che trasportavano elettori di sinistra, cercando di ritardare il loro arrivo alle urne al secondo turno delle elezioni presidenziali, dichiarato guerra agli istituti di sondaggi che divulgavano dati favorevoli a Lula e, infine, affermato di non avere a sua disposizione forze di polizia sufficienti per impedire gli svariati blocchi verificatesi nelle autostrade, subito dopo il risultato elettorale.

Nonostante fosse assurto agli onori della cronaca come “uomo forte” di Bolsonaro, il governatore del Distretto federale si era detto fiducioso nell’operato di Anderson Torres, procedendo alla contestata nomina. In vacanza in Florida, proprio come Bolsonaro, Torres nega di aver scelto come meta gli Stati Uniti per ricongiungersi all’ex Presidente, sostenendo di aver lasciato Brasilia dopo aver stabilito ogni misura atta a garantire la pubblica sicurezza del territorio.

Via Twitter, Bolsonaro si difende dall’accusa di essere il mentore degli atti terroristici di Brasilia, che paragona a manifestazioni avvenute nel 2013 e nel 2017. «Le manifestazioni pacifiche, sotto forma di legge, fanno parte della democrazia. Tuttavia, le depredazioni e le invasioni di edifici pubblici come quelle di oggi, così come quelle praticate dalla sinistra nel 2013 e nel 2017, non sono ammesse».

Le manifestazioni avvenute nel 2013, però, non possono essere riconducibili alla sinistra, essendo proteste contrarie al governo Dilma Rousseff, ai giochi olimpionici, ai mondiali di calcio e all’aumento del costo dei biglietti dell’autobus. Tali manifestazioni diedero visibilità ad esponenti e movimenti di destra trasformatisi poi in partiti. Senza la partecipazione dei sindacati, dei movimenti sociali o dei partiti di sinistra, quanto avvenuto nel giugno 2013, in diverse città brasiliane, con manifestazioni rimaste conosciute come “Primavera carioca”, si è presto trasformato in “proteste anti corruzione” contro il Partito dos trabalhadores, terminando con la distruzione del patrimonio pubblico, l’invasione della sede del governo di Rio de Janeiro, saccheggi, decine di feriti e il tentativo di dare fuoco all’Itamaraty, la sede del ministero degli Affari esteri, a Brasilia.

Il 28 aprile del 2017, sotto il governo dell’ex presidente Michel Temer, che assunse alla presidenza dopo il golpe bianco subito da Dilma Rousseff, si è verificato il più grande sciopero generale del Brasile, a cent’anni dal primo. Milioni di lavoratori hanno incrociato le braccia in ogni angolo del Paese, essendo duramente manganellati e repressi quando hanno deciso di guadagnare le strade delle capitali per protestare contro i tagli dei loro diritti.

Per comprendere la dinamica di quanto avvenuto a Brasilia è necessario risalire al mese di maggio 2020, e non all’attacco a Capitol Hill (gennaio 2021). Il 15 aprile del 2020, di fronte all’inerzia del governo Bolsonaro per contenere l’epidemia di Covid, la Suprema corte brasiliana dichiarò che sindaci e governatori potevano promulgare misure d’isolamento e di distanziamento sociale atte a fermare l’avanzare del coronavirus nel Paese. Per i giudici della Corte, l’allora presidente della Repubblica non poteva disporre dei propri poteri al fine di «mettere eventualmente in atto una politica pubblica di carattere genocida».

In una sequela di video e uscite sui social network, Bolsonaro aveva sfogato la propria ira contro la magistratura, sostenendo che uscire per le strade impugnando armi per difendere la propria libertà fosse lecito. Eletto mimando pistole e mitragliatrici con una mano, mentre con l’altra innalzava la Bibbia, Bolsonaro sapeva che qualcuno appartenente alle frange più estreme dei suoi sostenitori l’avrebbe potuto prendere in parola e agire di conseguenza.

Sara Fernanda Giromini, nota attivista dell’estrema destra brasiliana, più conosciuta come Sara Winter (pseudonimo scelto per omaggiare una famosa spia di Hitler), rispose subito alla chiamata di Bolsonaro, diffondendo sulle proprie pagine social diversi selfie e video impugnando pistole e la Bibbia. Bolsonaro le assegnò un ruolo come assistente della ministra per la Famiglia, la pastora evangelica Damares Alves.

A pochi mesi dalla nomina, però, Sara Winter divenne l’ideatrice di un movimento estremista intitolato i 300 do Brasil. Attorno al palazzo presidenziale fece disporre un numero imprecisato di tende. Il gruppo, autoproclamatosi “il più grande campeggio di azioni strategiche contro la corruzione della sinistra nel mondo”, non esitò a disobbedire alle misure di distanziamento e isolamento sociale emanate dal sindaco di Brasília. Si sentivano le “guardie pretoriane di Bolsonaro” e sfidavano le forze dell’ordine a sgomberarli. Imperterriti nella difesa di ogni parola e posizione di Bolsonaro, i 300 do Brasil passarono a minacciare fisicamente chiunque controbatteva alle dichiarazioni del loro leader, in particolare quando questi erano esponenti delle istituzioni democratiche, in special modo i giudici della Corte suprema.

Dopo aver affermato di offrire addestramento paramilitare e di essere in possesso di molte armi, Sara Winter, che mostrava con orgoglio la vistosa croce celtica tatuata sul seno, non poté che finire sotto l’occhio della magistratura. In risposta, dal quartier generale, l’improvvisato campeggio, partirono con inaudita violenza minacce e proteste antidemocratiche contro i giudici.

Per infoltire le file del movimento, e reclutare “soggetti patriottici, sovranisti e nazionalisti”, Sara Winter usava Whatsapp e le reti sociali online. Al fine di garantire la segretezza ed evitare infiltrati, i 300 do Brasil svilupparono una banca dati, attraverso la quale verificavano il passato di ogni aspirante “guardia pretoriana” che, dopo aver raggiunto Brasília, sarebbe stata sottoposta ad un addestramento paramilitare, che includeva lezioni di tiro, al fine di prepararsi alla difesa del presidente.

Le parole violente della donna contro le istituzioni democratiche portarono tuttavia al sequestro dei telefonini e dei computer del gruppo. A quel punto l’ex presidente Bolsonaro, intervenne in prima persona, dicendosi indignato per il sequestro dei pc e telefonini degli estremisti che minacciavano l’incolumità dei giudici della Corte suprema, con tanto di video pubblicati sui social. A presentare la difesa dei capi dei 300 do Brasil presso la Suprema corte, su espressa richiesta dell’ex presidente, fu il ministro della Giustizia di Bolsonaro, nonché pastore presbiteriano, André Mendonça. Per ricompensarlo della fedeltà, Mendonça fu nominato giudice della Corte suprema mesi dopo.

Sentendosi legittimati dalle parole di solidarietà del capo dello Stato, decine di fanatici si appostarono sotto la residenza del giudice Alexandre de Moraes e, con dei megafoni e slogan, lo accusarono di essere un “comunista”.

Lo storico Federico Finchelstein, esperto di estremismi e populismi, spiegava già nel 2020 perché il 300 do Brasil non potevano essere considerati semplicemente un raduno di innocui “compagni di merenda”. Finchelstein parlava di persone «disposte a morire per il loro leader», persone che possedevano «idee chiare sul sacrificio, come se la morte dei singoli appartenenti al movimento fosse irrilevante di fronte all’obiettivo principale costituito dalla diffusione delle idee propagandate dal gruppo».

Il fanatismo religioso dei 300 dos Brasil è lo stesso ostentato dai terroristi che hanno attentato contro la democrazia brasiliana nelle ore precedenti. Negli otto chilometri di marcia intrapresa per distruggere i palazzi istituzionali si udivano dalla folla le seguenti parole d’ordine: “Dio, patria, famiglia, libertà”. Nei video postati sui social, uomini e donne, giovani ed anziani, giustificano oramai il loro passaggio da semplici elettori ad attentatori. Si tratta di una lotta del “bene contro il male”, dicono, laddove il bene viene visto nei militari che prendono il potere con la forza, mentre il male sta nella “democrazia”, nel “comunismo” e nella “sinistra”.

Secondo un sondaggio condotto dall’Istituto Quaest, durante lo svolgimento dell’assalto terroristico il 90% degli utenti di Internet disapprovava l’azione dei “patrioti bolsonaristi”. Secondo il direttore dell’Istituto, Felipe Nunes, l’indagine ha valutato 2,2 milioni di post pubblicati sui social network tra le ore 14 e le ore 18 di domenica 8 gennaio.

Simbolo di questo attacco senza precedenti al cuore amministrativo e alla democrazia del Brasile è il dipinto sei volte accoltellato di uno dei maggiori esponenti della pittura moderna brasiliana, Emiliano Di Cavalcanti (1897-1976). Non a caso raffigura quattro donne; una di loro suona una chitarra, mentre le altre vendono prodotti del campo. Intitolata “Mulatas” dall’artista, si tratta di un omaggio al Brasile delle donne lavoratrici, dei meticci e della povera gente che ha portato sulle spalle una delle maggiori democrazie del mondo.

Oltre agli incalcolabili danni materiali subiti, colpisce l’odio estremista, capace di martoriare il ventre di una delle donne dipinte nella tela di Di Cavalcanti. Oltre all’inquietudine per questo Brasile ricattato da una estrema destra fortemente armata, grazie ai decreti di Bolsonaro, revocati da Lula, urge la sfida di dover ricostruire un Paese che non si riconosce più nella mansuetudine della bossa nova o nell’allegria del samba, perché colpito al ventre e al cuore dall’inaudita ferocia dell’ignoranza diffusa.

 

* In foto: un frame da un video del Telegraph dedicato al tentato golpe in Brasile

Peronismo e xenofobia in salsa italiana

Il governo di destra-centro nella campagna elettorale e nella propaganda di Giorgia Meloni degli ultimi anni aveva messo al centro i bisogni degli italiani e politiche sociali ed economiche che sostenessero il popolo. Alla prima prova, però, più importante hanno buttato giù la maschera. Evidenziando ciò che sono: un governo reazionario, antipopolare, garante dei poteri forti, in perfetta continuità con le politiche economiche e finanziarie che hanno messo in ginocchio i ceti meno abbienti del nostro Paese. La vicenda dell’aumento della benzina, dall’1 gennaio, è la prova lampante della falsa propaganda e del menzognero nuovismo che caratterizza la Premier. Hanno messo le mani in tasca agli italiani, così come Draghi con il governo delle larghe intese. La metà dei soldi della benzina vanno al governo.
Quindi se Salvini parla di speculazioni fa la stessa fine del ministro Cingolani, si autodenuncia in realtà per truffa perché chi guadagna sulla eventuale truffa è lo stesso governo.

Tra bollette e benzina si stima che ogni famiglia avrà nel 2023 un aumento di spesa di 2500 euro. Il salario minimo ovviamente non lo hanno nemmeno ipotizzato, guai ad aiutare lavoratrici e lavoratori del nostro Paese. Le pensioni minime aumentate mediamente del 2%. Berlusconi in campagna elettorale aveva parlato di portare a mille euro tutte le pensioni: altra bugia che colpisce e ferisce i più fragili. Non c’è stato alcun intervento, quindi, in maniera concreta, sul potere di acquisto del portafoglio degli italiani, e pertanto, con il governo delle destre, la situazione non migliora ed anzi peggiora per i ceti medio-bassi e per i poveri. Basta vedere la sostanziale cancellazione del reddito di cittadinanza, decisione punitiva per chi non riesce a mettere il piatto a tavola.

Non si dica che la manovra del governo è resa obbligata dalla mancanza delle risorse. Le scelte del governo sono discrezionali, la manovra economica del governo è politica. Hanno voluto mettere le mani in tasca a chi lavora e produce e a chi sta maggiormente in difficoltà. Hanno, invece, trovato 900 milioni per le società di calcio, tassato poco e male chi ha fatto ingentissimi profitti sulle speculazioni del gas e dell’energia, approvato la tassa piatta e non hanno invece tolto l’Iva per i beni di prima necessità. Per dare poi ulteriori mazzate ad un Paese con sempre maggiori disuguaglianze economiche e discriminazioni territoriali hanno diminuito la spesa sanitaria, in continuità con il governo Draghi, e previsto l’autonomia differenziata, meglio battezzata come “secessione dei ricchi”.

Di fronte ad un disastro di questa portata sul piano politico per non perdere consenso e per distrarre, quindi, l’opinione pubblica hanno rispolverato la paura dell’immigrato nero attaccando le Ong. Tema dell’immigrazione che guarda caso è diventato nuovamente centrale pur non essendoci alcuna emergenza rispetto ad un’emergenza che essendo cronica è divenuta tragica ordinarietà. Si criminalizza, poi, il dissenso e si agitano manganelli e manette contro chi protesta. Per ora siamo sulla buona strada per un peronismo in salsa italiana. È un governo, tra l’altro, assai vicino politicamente alla destra di Trump negli Usa e a quella di Bolsonaro in Brasile. I sostenitori di Trump, due anni fa, con l’assalto criminale a Capitol Hill, colpirono l’inviolabilità negli Stati Uniti d’America dei luoghi simbolo della democrazia. Con Trump complice sul piano sicuramente politico e probabilmente non solo politico.

Adesso i supporters di Bolsonaro in Brasile, con metodi golpisti, attaccano le più importanti istituzioni nazionali. Bolsonaro leader politico peronista e razzista, acclamato ed osannato dai partiti di destra che sono oggi da noi al governo. In Italia le destre stanno utilizzando arnesi giuridici e simbolismi politici incostituzionali che vanno contrastati con energia democratica e con coraggio giuridico ed istituzionale. Per arginare le estreme destre nel mondo si deve costruire anche un processo politico di internazionalizzazione dei movimenti e dei partiti che sono fuori dal recinto del neoliberismo e del capitalismo predatorio. Bisogna, oggi, con forza, sostenere Lula e il Governo legittimo e democratico del Brasile. Nel Sud America i popoli, con una forte ricerca unitaria delle forze popolari ed antisistema, stanno, con le elezioni, scegliendo cambiamenti radicali che vanno difesi e sostenuti.

Alternanza scuola-armi

Il mondo che sognano alcuni anche se non hanno il coraggio di ammetterlo è già qua. I senatori dell’Alleanza Verdi e Sinistra Ilaria Cucchi e Peppe De Cristofaro presentano un’interrogazione al ministro dell’Istruzione (e del merito, eh già) in cui chiedono conto sull’alternanza scuola-lavoro presso la «MES S.p.A., con sede operativa a Roma, in via Tiburtina 1292, su di un’area di circa 22.000 m², di cui la metà è dedicata alle attività produttive. La società opera da 60 anni nel settore militare e spaziale, ed è specializzata nella produzione di armi, in collaborazione con AID (Agenzie Industrie Difesa), progetta e produce munizioni per impiego terrestre, navale e aeronautico di piccolo, medio e grosso calibro, sistemi di autoprotezione “Chaff and Flares”».

I senatori sottolineano come sia «inopportuno che il sistema scolastico autorizzi percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento (Pcto) presso aziende che producono armamenti militari o che siano impegnate nelle produzione di componentistica militare, ciò tanto sul piano della sicurezza personale e della salute dei ragazzi e delle ragazze, ma anche sul piano della compatibilità di progetti di tal fatta con gli obiettivi pedagogici ed educativi promossi dalla scuola pubblica, e ancora della loro compatibilità con i valori e i principi costituzionali».

Non è una storia nuova. Come scrive Antonio Mazzeo nel suo studio Scuole armate «in un articolo pubblicato in Peacereporter (“L’ingresso di AgustaWestland nelle scuole medie inferiori del territorio ”), il giornalista Ferrario sottolineava come “un altro anello importante della catena della produzione militare ”fosse rappresentato dal “rapporto tra le aziende a prevalente produzione bellica e le scuole del territorio, con il coinvolgimento dei comuni, indipendentemente dal colore partitico dell’amministrazione comunale” . Il giornalista puntò il dito contro l’opera di “reclutamento” dei giovani all’interno delle aziende controllate al tempo dal gruppo Finmeccanica (oggi Leonardo): “Facciamo l’esempio di alcune situazioni in provincia di Varese che ha un’alta concentrazione d’aziende aeronautiche con AgustaWestland (a Samarate, Vergiate, Somma Lombardo e altri nuclei minori in altri Comuni), Aermacchi (Venegono Inferiore) e l’indotto a loro collegato (come è un’altra storica azienda aeronautica, la Secondo Mona) e Novara, che avrà un polo aeronautico d’importanza internazionale, come l’aeroporto militare di Cameri, dove Alenia Aeronautica assemblerà i cacciabombardieri F35». Nel suo report sono citati decine di esempi.

Lo scorso mese di luglio, ad esempio, presso la caserma di Solbiate Olona si è tenuto l’International Day 2022, «evento di consolidamento dei legami e di coesione condivisa degli aspetti culturali tra le nazioni partecipanti al Corpo di armata di reazione rapida NATO». A collaborare nella gestione degli stand della manifestazione come hostess e camerieri 44 studenti dell’Istituto alberghiero “Giovanni Falcone” di Gallarate. «Con piacere il Dirigente scolastico ha ricevuto espresso apprezzamento degli alti ufficiali della NATO per il comportamento degli alunni presenti, che ringrazia ed ai quali annuncia che sarà loro conferito un segno di riconoscimento della Organizzazione Internazionale», si legge nella circolare pubblicata all’albo dell’Istituto. Alla cerimonia del Comando Nato era presente il dirigente dell’Ufficio scolastico territoriale di Varese, professor Giuseppe Carcano.

Così il quadro è completo: allevare schiavi e/o soldati. Se poi nell’alternanza scuola-lavoro ci muore qualcuno una bella commozione di Stato non si nega a nessuno.

Buon lunedì.

Gruppo di famiglia in una biblioteca

Luigi Contu, sessanta anni appena compiuti, direttore da tredici dell’Ansa, la più importante agenzia giornalistica italiana, ha recentemente pubblicato un bel volume, I libri si sentono soli, per la casa editrice La nave di Teseo. Un libro che ricostruisce e racconta attraverso la risistemazione di una enorme biblioteca di 15.000 volumi la storia di una famiglia importante (il papà Ignazio è stato direttore editoriale di Rusconi, giornalista parlamentare e poi portavoce di Amintore Fanfani; il nonno Raffaele umanista e uomo di scienza, grande estimatore di James Joyce, ha diretto con Giuseppe Ungaretti i Quaderni di Novissima e ha tradotto autori come Albert Einstein e Paul Valéry) e anche un bel pezzo di storia d’Italia. Lo incontriamo a Fiuggi, in occasione di una presentazione del volume, e ne approfittiamo per rivolgergli alcune domande sul libro e sul suo lavoro di giornalista.

Direttore, da dove nasce l’idea di scrivere questo libro?
È un libro nato per caso. Mi sono trovato all’improvviso nella necessità di traslocare la biblioteca di famiglia, più di diecimila volumi, in un paio di mesi. Ho deciso di sistemarli tutti senza ricorrere a un deposito e così con l’aiuto dei miei figli ho iniziato un viaggio in quell’oceano di carta. Ho scoperto un vero e proprio tesoro: i miei avi hanno accumulato libri, carte, oggetti attraverso tre secoli. Ne sono rimasto così affascinato, inebriato, che ho pensato di raccontare questo viaggio nella memoria, nella storia e nei sentimenti più intimi.

La copertina e il titolo sono particolari, incuriosiscono.
Mio nonno è stato amico dei pittori futuristi. Non riuscivamo a trovare una copertina che ci soddisfacesse, per questa ragione ho iniziato a rovistare tra le sue carte. E ho trovato l’immagine di questo disegno di Balla. Il caso ha voluto che il grande pittore lo avesse chiamato Gli stati d’animo dei libri. Perfetto per il mio racconto!

È decisamente interessante il fatto che una storia familiare, la sua, ricostruita attraverso la risistemazione di una enorme biblioteca, restituisca al tempo stesso una parte importante della storia d’Italia, soprattutto del Novecento.
Attraverso libri, riviste, manifesti, appunti, la storia si è aperta davanti ai nostri occhi. È stato come entrarci dentro, viverla con le emozioni e il trasporto che provavano gli autori: grandi poeti, pittori, scienziati, giornalisti, politici. Da quando ho cominciato a scrivere hanno animato le mie nottate.

Nel suo libro sono presenti, in modo diverso, due figure fondamentali della storia politica repubblicana molto legate tra loro: Enrico Berlinguer e Aldo Moro.
Le due figure principali del dopoguerra italiano. Il dialogo tra loro ha consentito la maturazione del sistema politico italiano. Moro, per questo disegno, ha perso la vita. Mi domando spesso dove sarebbe andata la prima Repubblica se non fosse stato fermato dalla follia antistorica delle Br.

Tra le pagine di I libri si sentono soli c’è tanta storia contemporanea, ma anche cronaca. Quali fatti di attualità l’hanno colpita di più?
Tra gli scaffali ho ritrovato un libro che mi regalò Enzo Tortora poco prima di essere arrestato. Ero molto amico della figlia Silvia, anche lei scomparsa recentemente. Ero molto giovane a quel tempo, ma aver visto la sofferenza di Silvia e Gaia per quell’arresto che ha disonorato la storia della giustizia e del giornalismo italiano mi ha insegnato che le persone vanno rispettate sempre, soprattutto da noi giornalisti. Tortora è morto perché dei magistrati in cattiva fede lo hanno additato alla pubblica opinione come un mostro, e i giornali, tranne qualche rara eccezione, si sono prestati al linciaggio.

Come procede il lavoro all’Ansa?
Lavorare in una grande agenzia ti impone di essere sempre operativo. L’Ansa, con grande intelligenza e duttilità dei suoi giornalisti e dei suoi azionisti è stata capace di attraversare la tempesta scatenata nel mondo dell’informazione prima dal web poi dai social. Siamo stati la prima agenzia al mondo ad aprire un sito web, i primi ad applicare la tecnologia blockchain ai nostri contenuti. Ma senza mai snaturarci e senza mai dimenticare i valori che dal 1945 caratterizzano il nostro modo di fare giornalismo: essere oggettivi, aderenti ai fatti. Le opinioni ce le teniamo per noi.

Nella foto: Giacomo Balla, Gli stati d’animo dei libri (particolare)