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Chiesa cattolica s.p.a

Di cosa ci occupiamo nel nuovo numero di Left:

In copertina l’inchiesta esclusiva sull’accordo “segreto” dell’Inps con la Caritas.
Welfare in subappalto. Tutti i dettagli di un’operazione da 200 milioni l’anno che esclude i patronati e i caf dei sindacati e associazioni datoriali dall’erogazione di indennità e sussidi ad anziani e poveri, in favore dell’organismo pastorale della Conferenza episcopale.
Nelle casse della Chiesa italiana arriva un ulteriore fiume di denaro che si somma ai 6,7 miliardi l’anno incassati sotto forma di finanziamenti pubblici, stipendi e pensioni ai cappellani militari, 8permille, fondi alle paritarie e altre prebende

Mentre l’informazione italiana (a differenza di quella internazionale) è concentrata da giorni in maniera apologetica sulla morte di Joseph Ratzinger, il nuovo numero di Left si occupa della Chiesa cattolica approfondendo un aspetto inquietante e pressoché ignorato. Quello delle profonde ramificazioni ecclesiastiche in uno dei pilastri del nostro welfare: la gestione, ben remunerata, dell’assistenza ad anziani, poveri e persone emarginate.
Chiesa cattolica S.p.a. è il titolo della storia di copertina che si apre con un’inchiesta di Carla Corsetti, Federico Tulli e Lorenzo Fargnoli «sullo sconcertante accordo dell’Inps con la Caritas, che consegna a questa onlus, diretta emanazione della Cei, la gestione praticamente esclusiva nei quasi 8mila Comuni italiani, dell’erogazione di indennità e sussidi in favore di oltre 5 milioni di persone», scrive la direttrice Simona Maggiorelli nell’editoriale del mensile.
Questo progetto di subappalto surrettizio del welfare esclude, senza informarli, i patronati e caf “laici” titolari storici di queste attività e rappresenta per la Chiesa un “affare” da 200 milioni di euro l’anno. Un fiume di denaro che, come ricostruisce Roberto Grendene (segretario Uaar) nella seconda inchiesta di copertina, si somma ai circa 6,7 miliardi annui che la Chiesa già incassa dai contribuenti italiani sotto forma di finanziamenti pubblici statali, regionali e comunali, pensioni ai cappellani militari, stipendi ai religiosi nelle corsie d’ospedale, 8permille, esenzioni e contributi.
A ciò si aggiungono anche i fondi alle scuole paritarie, mai così alti come quelli stanziati dal governo Meloni. «In tutto – continua Simona Maggiorelli – sono ben 48 le voci di spesa, ma sarebbe più corretto dire le prebende, sottratte al welfare laico e donate alla casta clericale».
La storia di copertina si completa con un articolo del saggista Raffaele Carcano (già segretario Uaar) sull’inarrestabile processo di secolarizzazione in Italia (dove in 25 anni è triplicata la percentuale di non credenti) e nel mondo non solo occidentale (basti pensare alle rivolte dei giovani in Iran, Afghanistan e Turchia).
Sempre in copertina il sociologo Marco Marzano commenta il deludente risultato della prima indagine sulla pedofilia commissionata dalla Conferenza episcopale:
«Per la Chiesa italiana la svolta in questa lotta non può certo arrivare da un’inchiesta del genere», dice Marzano. «La Chiesa dovrebbe mettere radicalmente in gioco la cultura che nega la sessualità e l’affettività. Si dovrebbe quindi affrontare il nodo della formazione clericale e soprattutto il punto cardine che ruota intorno al celibato obbligatorio».
Infine, una nuova puntata del “caso Rupnik” che grazie al nostro scoop di inizio dicembre è diventato di dominio pubblico mondiale. Questa volta, avvalendoci delle riflessioni della psichiatra e psicoterapeuta Irene Calesini, ci occupiamo delle violenze e degli abusi di potere che hanno sconvolto la vita di molte suore della Comunità Loyola, alcune delle quali costrette a fuggire «per sottrarsi dalle dinamiche settarie».
La Comunità Loyola è la stessa in cui negli anni Novanta il religioso gesuita, artista e teologo di fama internazionale, Marko Rupnik, fu accusato di violenze sessuali e per questo allontanato dal vescovo di Lubjana (mantenendo segreto il motivo, in accordo con i vertici della Compagnia di Gesù e con la fondatrice della Comunità Loyola).
Il rifiuto del sistema patriarcale e fondamentalista religioso, della sua logica e delle sue violenze avvicina in questo particolare momento storico l’Occidente e il Medio Oriente: ne parlano su Left in due diversi articoli lo scrittore iraniano Kader Abdolah e Chiara Volpato, autrice di Psicosociologia del maschilismo, a colloquio con la psichiatra e psicoterapeuta Annelore Homberg.
Negli Esteri, un reportage di Valerio Giacoia dalla Costa degli schiavi, nel Benin, ricorda la ferita mai rimarginata, causata dalla deportazione per secoli di milioni di persone sulle navi negriere; mentre il capodanno berbero – la festa degli “uomini liberi” – è l’occasione per approfondire con Vermondo Brugnatelli e Sara Outamamat la storia e la cultura ma anche per accendere i riflettori sulla lotta incessante del popolo berbero per il riconoscimento dei propri diritti, che in Algeria è soffocata con condanne a morte ed ergastoli dei militanti pacifisti del Mak.
Il numero si chiude con un articolo del fisico Angelo Baracca che smonta la bufala della «svolta storica del nucleare», così come per giorni è stata definita da tutta la stampa mainstream sempre pronta ad esaltare acriticamente tutto ciò che accade negli Stati Uniti.
Le rubriche di questo mese sono a cura di: Luigi de Magistris, Filippo La Porta, Manlio Lilli e Giusi De Santis. Illustrazioni di Fabio Magnasciutti
Buona lettura!

Il decreto Piantedosi visto da un sindaco e dal suo porto

«Mentre il governo Meloni continua con la sua propaganda anti-Ong a Pozzallo gli sbarchi aumentano. Negli ultimi due mesi abbiamo registrato più arrivi ma di navi di Ong non c’è traccia».

A dirlo all’Adnkronos è Roberto Ammatuna, sindaco di Pozzallo, nel Ragusano, per il quale il decreto varato dall’Esecutivo di centrodestra è «incivile e disumano». «Norme chiaramente strumentali – dice -. È necessario che sia un tribunale a sancire eventuali contatti tra scafisti e organizzazioni non governative e sinora tutte le inchieste non hanno portato a nulla». Le ultime indagini, invece, hanno sgominato un’organizzazione criminale transnazionale sull’asse Tunisia-Sicilia che a bordo di gommoni veloci portava in Italia migranti in poche ore. «Su questi traffici bisognerebbe indagare, moltiplicare gli sforzi diplomatici nei Paesi del Nord Africa, lungo le rotte migratorie. Invece, siamo alla barbarie e chi salva vite umane viene criminalizzato». Per il primo cittadino, da sempre in prima linea sul fronte dell’accoglienza, è in atto «una vergognosa strumentalizzazione di un dramma umanitario per raccattare qualche voto».

«Le nuove norme varate dal governo non faranno altro che aumentare i morti nel Mediterraneo, il più grande cimitero d’Europa – avverte -. Tenere lontane le Ong da quel mare e costringerle a raggiungere porti distanti anche quattro giorni di navigazione dalla zona Sar è semplicemente assurdo». L’unico pull factor per lui è il meteo. «Con il mare piatto gli sbarchi aumentano. È un dato di fatto. Incontestabile. Lo sa chiunque si occupi di questa materia. A questo si aggiunge poi una situazione internazionale complessa che richiede un impegno a 360 gradi, lungo e difficile». Nell’hotspot di Pozzallo al momento ci sono 278 ospiti, nella struttura in località Cifali che accoglie i minori non accompagnati, invece, sono in 181. «Ma ogni giorno qualcuno esce e non fa più rientro, una lenta emorragia quotidiana», avverte Ammatuna. Da ieri a oggi di 32 migranti non si ha più traccia: in meno di 24 ore in 17 sono ‘spariti’ dai locali in contrada Cifali, 15 dall’hotspot.

Tutta fuffa. Solo propaganda. Però quelli muoiono davvero.

Buon venerdì.

Il clima sta cambiando, perché noi no?

Mercoledì c’è stata una discussione intorno alla mancanza di neve sull’Appennino fortemente emblematica. Il presidente dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini (nonché candidato favorito al congresso del Partito democratico) e l’assessore al Turismo Andrea Corsini hanno chiesto di sostituire i vecchi cannoni spara neve con modelli più evoluti: «Quelli che permettono di mantenere la neve artificiale anche a temperature più elevate», chiedono al governo. Fanno riferimento alle tecnologie che verranno utilizzate nel 2029 per l’appuntamento dei Giochi invernali in Arabia Saudita.

La preoccupazione di tutti, ministra Santanchè compresa, è che i turisti cancellino come stanno già facendo i propri appuntamenti per mancanza di neve e l’economia locale ne risenta pesantemente. Investimenti, mutui e liquidità sono le richieste degli operatori. Il tutto con il plauso del sindaco di Lizzano, Sergio Polmonari, lo stesso che qualche giorno fa negava il cambiamento climatico («Io credo poco a questi scienziati che guardano al futuro») e teorizzava un «complotto contro la montagna».

La politica che si interroga su come sparare neve su una montagna drammaticamente calda è l’immagine di quest’epoca. Affidata a un tecnologismo disperato (e disperante), osserviamo la classe dirigente del Paese che usa un cerotto per coprire un burrone mentre in tutti i settori economici l’innalzamento delle temperature sta interferendo con il naturale svolgimento degli affari. Seguendo lo stesso macabro principio dell’occuparsi solo degli effetti negando le cause si potrebbe rispondere all’allarme di ieri della Coldiretti (che avvisava della fioritura a gennaio di mimose e limoni) affidandosi a mele fabbricate in laboratorio o pane estratto dal polistirolo.

L’imbarazzante ignoranza della classe politica italiana di fronte alla crisi climatica è l’elefante nella stanza che nessuno vede mentre una ciurma di benpensanti si accapiglia sulle pene da infliggere agli attivisti che sottolineano l’allarme. Si giunge così al paradosso di un presidente del Senato come Ignazio La Russa (quello che da giovane manifestante guidava il corteo del “giovedì nero” a Milano che con un bomba uccise il poliziotto Antonio Marino a Milano) che strepita per la vernice lavabile seguito da moralisti di destra e di sinistra. Si va avanti così per giorni senza che le ragioni dell’atto non violento vengano nemmeno discusse.

C’è un muro di gomma di gomma che avrà bisogno di molto di più di un secchio di vernice per essere abbattuto. La questione della giustizia climatica è stata sventolata dai partiti ma non trova nessun riscontro nei fatti. L’ambientalismo è uno spazio politico che non trova dimora nei partiti mentre l’elaborazione politica è molto più avanzata nei movimenti. La macchia (quella sì, indelebile) è il dislivello tra la consapevolezza che c’è nella base del movimento ambientalista e le moine nei partiti. E anche la questione politica, come quella ambientale, prima o poi ci scoppierà in mano.
Buon giovedì.

Il rigassificatore di Piombino e la democrazia gassosa

La vicenda del rigassificatore di Piombino, divenuto un caso nazionale grazie alla lotta dei cittadini organizzati in comitati, dimostra che accanto alla crisi energetica, frutto di un modello di sviluppo sbagliato, c’è la crisi della democrazia, che si esprime con l’arroganza del potere e la sudditanza della politica ai grandi interessi economici.

Il nuovo impianto consisterebbe in una grande nave ancorata permanentemente nel piccolo porto toscano e in grado di contenere 170mila metri cubi di gas liquefatto, che arriverebbe a ciclo continuo via mare, con lo scopo di riportarlo allo stato gassoso e immetterlo nella rete nazionale. Un impianto che per la Snam, titolare del progetto, dovrà servire a «garantire la massimizzazione dell’utilizzo della capacità di rigassificazione» del Paese per liberarsi, secondo il governo, dalla dipendenza dal gas russo.

Si tratta di un progetto altamente impattante e pericoloso, come confermano le moltissime prescrizioni formulati dai vari enti competenti al commissario governativo (che è anche presidente della Regione Toscana) ai fini dell’autorizzazione dell’impianto. Prescrizioni che, in uno stato di effettiva autonomia e libertà da condizionamenti politici, avrebbero certamente indotto i tecnici firmatari ad esprimere parere negativo. Invece hanno detto: ci sono tante cose che non vanno, tanti pericoli che si corrono, ma il parere è favorevole perché non si può andare contro Snam, i governi e i partiti che li sostengono. È una storia consueta, che si ripete. Altro che libertà della scienza e della tecnica! Del resto, quante valutazioni di impatto ambientale ci sono che si concludono con parere favorevole pur enucleando decine e decine di prescrizioni che in realtà sarebbero motivi ostativi? Ma qui si è esclusa perfino la procedura di impatto ambientale, sempre con la scusa dell’emergenza. E dal governo Draghi al governo Meloni la musica non è cambiata.

Ciò che più ha sorpreso in questa vicenda è che, nella sua veste di commissario, il presidente di una regione a forti tradizioni democratiche come la Toscana si sia prestato a svendere una parte significativa del territorio regionale, a sospendere le normali procedure democratiche e a non considerare la voce dei cittadini e degli enti locali, con in testa il consiglio comunale di Piombino che all’unanimità si è espresso contro il rigassificatore. Sull’autorizzazione commissariale pende anche il ricorso al Tar del Lazio presentato dal Comune di Piombino, con l’udienza di merito già fissata per il mese di marzo 2023.

La mobilitazione popolare contro questo progetto è stata forte, pacifica e continua per tutta l’estate, spinta da motivazioni di ordine ambientale, sanitario ed economico. La ex città siderurgica di Piombino e il suo comprensorio (la Val di Cornia) vivono una situazione di difficoltà: crisi industriale irrisolta, perdita di popolazione, servizi in diminuzione, niente bonifiche dei siti inquinati, nessun rilancio di un’industria moderna e ecosostenibile, impianti estesi di fotovoltaico che consumano suolo fertile, una discarica che ha accolto rifiuti da ogni dove… L’arrivo della nave rigassificatrice con tutti i suoi annessi marittimi e terrestri ostacolerebbe il processo di diversificazione economica e darebbe il colpo di grazia.
Per fare questo si adottano forme dirigiste, autoritarie, antidemocratiche. Per questi motivi la vicenda del rigassificatore è una questione ambientale e territoriale, ma anche una questione democratica. Non è, dunque, solo un problema di Piombino, una città dove, dopo l’abbandono dell’industria, energia e rifiuti sono diventati business, speculazione, arroganza del potere, sordità alle istanze dei cittadini. È un allarme che dalla costa toscana si allarga all’Italia intera. Non c’entra niente la questione Nimby che alcuni hanno tirato in ballo per depotenziare la mobilitazione popolare.

Ora che la realizzazione dell’impianto di rigassificazione è stata autorizzata, la mobilitazione si va estendendo su un piano più generale, perché con il rigassificatore, con impianti e procedure come queste, muore anche la fiducia nelle istituzioni centrali e regionali. Del resto, la politica dei commissari e il ricatto delle emergenze sono il contrario della democrazia. Anche sul piano energetico il rigassificatore è una scelta sbagliata, figlia del ricatto di una guerra in cui il governo ha trascinato il Paese e di una visione distorta della questione energetica, che non si può affrontare applicando lo stesso modello che l’ha generata. Per questo i rigassificatori non vanno bene né qui, né altrove se vogliamo interpretare correttamente la transizione verso la pace e l’equilibrio ecologico. Altrimenti sarà la democrazia a diventare gassosa.

L’autore: Rossano Pazzagli è docente all’Università del Molise e fa parte della rete di studiosi dell’Officina dei saperi

L’arte di rompere lo stigma dell’Aids

Quella che negli anni 80 e 90 fu una vera e propria epidemia, rimane in molti Paesi africani e asiatici una piaga non ancora debellata. Secondo i dati Unaids, nel mondo, nel 2021, erano oltre 38 milioni le persone affette dall’infezione da virus Hiv e 1,5 milioni le nuove diagnosi, mentre il numero di decessi correlati all’Aids, che continuano a diminuire, è stato di 650mila. Ma i successi della medicina e le migliori aspettative di vita, almeno in Occidente, non devono far abbassare la guardia nei confronti di una sindrome tuttora diffusa, che comporta ancora oggi pregiudizi e discriminazioni per le persone che ne sono affette (per i dati relativi all’Italia v. Istituto superiore di sanità e per la prevenzione v. qui)

Una stigmatizzazione che ebbe origine all’inizio degli anni 80, quando il dottor Michael Gottlieb del Los Angeles medical center venne chiamato a visitare un paziente (33 anni, bianco, omosessuale) affetto da una grave polmonite e da un’infezione orale da Citomegalovirus. Nel giro di un anno il medico riscontrò casi analoghi in giovani uomini omosessuali. Per questo, quella che in seguito venne definita Aids (sindrome da immunodeficienza acquisita) fu inizialmente identificata come Grid (immunodeficienza correlata all’omosessualità): da qui, la costruzione di uno stigma che avrebbe gravato e grava ancora oggi sulla comunità gay, supportato delle istituzioni religiose, che ai tempi riconobbero nel virus una punizione divina per l’omosessualità e, in genere, per le condotte sessuali libere. In realtà la smentita arrivò presto, da parte del Jackson Memorial Hospital di Miami, in Florida, grazie alla segnalazione di quadri clinici simili che riguardavano però sia uomini che donne. I Centers for disease control statunitensi riportavano inoltre molti casi tra tossicodipendenti ed emofiliaci. Nel 1982 quindi l’acronimo “Gay related immunodeficiency syndrome” venne corretto in “Acquired immunoDeficiency syndrome” (Aids).

Le difficoltà riscontrate inizialmente dalla comunità scientifica nel riconoscimento del virus da Hiv avrebbero però condizionato inevitabilmente il discorso pubblico, dunque la rappresentazione della sindrome nei notiziari televisivi così come nella carta stampata, relegandola quasi esclusivamente al contesto dei giovani uomini omosessuali, e successivamente ai consumatori di droghe per via endovenosa, contribuendo a un inquadramento marginalizzato del virus, oltre che a una responsabilizzazione delle sessualità divergenti nell’ambito dell’epidemia.

A partire dal 1985, con la trasmissione di An Early Frost, primo film sull’Aids prodotto dalla Nbc (In italia venne trasmesso nel 1987 su RaiUno), la malattia sarebbe entrata nelle sottotrame di diverse serie televisive e si sarebbe fatta strada anche nel panorama del cinema commerciale, plasmando una narrazione parziale, che avrebbe contribuito al consolidamento di uno stigma ancora oggi difficile da scardinare. Un inquadramento dell’omosessuale affetto da Aids che oscilla tra responsabilizzazione e vittimizzazione, nella quale componente affettiva e sessuale, se non vengono a mancare, sono tratteggiate in modo edulcorato.

Sempre nel 1985 esce Buddies di Arthur J.Bressan Jr, primo film per la sala sull’argomento, che però ebbe una distribuzione limitata. Quello della narrazione dell’Aids per la comunità gay era diventato un terreno essenziale da occupare e per cui lottare, per integrare, se non contrastare, la produzione imperante, al fine di fornire una posizione alternativa, rendendo visibili e accessibili informazioni sul virus, sulle modalità di trasmissione e sul decorso della malattia. Il cinema sperimentale, la videoarte, e l’attivismo degli anni 80, si sono trasformati quindi attraverso un’affermazione e un riesame della narrazione, per offrire nuove interpretazioni e testimonianze e dare voce e forma a tutte le corporeità, riconoscersi nel suono e nell’immagine. I confini tra i media sono stati incrinati e superati: era diventato essenziale decostruire il discorso pubblico. Nell’ambito delle pratiche video si stava verificando una integrazione e disintegrazione, una fusione e una rottura, tra supporto e forme.

La scena cinematografica indipendente e sperimentale si stava interrogando sui mezzi e sulla forma mediante cui costruire narrazioni minoritarie. In prima linea nell’ambito della contaminazione dei mezzi e dei linguaggi del film troviamo Isaac Julien e Derek Jarman, autori che riflettono l’importanza della questione identitaria in relazione alla diffusione del virus da Hiv e di come abbia saputo nutrire e influenzare, contaminare pratiche e linguaggi. Se in Sebastiane (1976) e Caravaggio (1986) di Jarman la forma pittorica occupa e costruisce lo spazio filmico, così come nelle opere di Jack Smith si può riscontrare l’uso del tableau e della vignette, tra gli anni 80 e i 90, la forma dominante di rappresentazione dell’epidemia viene contestata dalla produzione indipendente attraverso una sovversione e una appropriazione dei linguaggi più bassi e massmediali: una contaminazione che ritroviamo nella produzione di John Greyson, The Ads Epidemic (1987) o di Isaac Julien, This is non an AIDS Advertisement (1987). Film che combinano generi ed estetica, che fanno scontrare cultura alta e bassa, chic e trash.

 This is non an AIDS Advertisement di Isaac Julien (frame dal video)

I linguaggi del videoclip e della pubblicità amplificano la paura, rompono gli stigmi e ridefiniscono in modo più ampio sessualità e relazioni. Il video musicale irrompe nell’esperienza filmica combinando supporto e tecniche: una intermedialità già riscontrabile in Isaac Julien e David Wojnarowicz, o nello stesso contributo di Derek Jarman e Tom Kalin nel panorama del videoclip. Opere tra spot e documentario capaci di riscrivere le identità queer come esperienza trasgressiva, abbattendo le convenzioni legate alla diffusione dell’epidemia. Registi e videomaker che operavano all’interno dell’attivismo, spesso su base collettiva, hanno ridefinito il pensiero e le pratiche del lavoro documentario al fine di rimodellare il racconto della malattia e di generare un paesaggio in cui la dimensione politica e sociale fosse presente e rivendicata attraverso accenti poetici, autobiografici, politici, fino a sfociare nel diario e nel saggio.

Una immagine dal film Blue di Derek Jarman

Il cinema queer che racconta l’Aids riformula nel modo più radicale il rapporto tra testimone e spettatore, che raggiunge l’apice della dematerializzazione in Blue di Derek Jarman (1993) «il film più incorporeo mai prodotto», secondo la definizione di Roger Hallas. L’opera autobiografica in cui il corpo del testimone è sostituito per 76 minuti da uno schermo blue Klein, è un esempio estremo della costruzione narrativa dell’Aids ricercata dai media queer: il totale ripudio dell’immagine spettacolarizzata e patologizzante del malato. Il corpo del testimone scomparso dallo schermo ritorna attraverso il “corporeo” dell’esperienza dello spettatore. Il totale disconoscimento dell’apparato cinematografico da parte di Jarman, ormai cieco, al culmine della malattia, è la dichiarazione politica più estrema.

Nella foto di apertura: frame dall’opera di Isaac Julien This is non an AIDS Advertisement

ConFusione nucleare

Una campagna di stampa a livello internazionale ha esaltato l’esperimento fatto negli Stati Uniti verso la realizzazione della fusione nucleare controllata, un sogno (una promessa) inseguito fin dai primi passi della tecnologia nucleare negli anni 40-50 del secolo scorso: periodicamente ogni decina d’anni veniva annunciato che la realizzazione sarebbe stata vicina. Ma oggi questo pomposo annuncio richiede molte precisazioni e distinguo, che inevitabilmente sfuggono a chi è a digiuno di queste cose.
Detto in parole semplici, la realizzazione della fusione nucleare di nuclei leggeri (in un certo senso l’opposto della fissione di nuclei pesanti) richiede di riscaldare un plasma, tipicamente di deuterio e trizio, a milioni di gradi in modo che le energie cinetiche dei nuclei superino le barriere di repulsione elettrica. La reazione di fusione nucleare è stata realizzata già nel 1949, ma in modo esplosivo, vale a dire nelle bombe termonucleari nelle quali un dispositivo primario a fissione genera la temperatura necessaria ad innescare un dispositivo secondario a fusione. Da quel tempo è iniziata la ricerca per realizzare la fusione nucleare in modo controllato (non esplosivo) a scopi pacifici, ricerca che oggi si concentra su due metodi molto diversi: il confinamento magnetico di un “plasma” ottenuto dalla fusione di deuterio e trizio in macchine di grandi dimensioni come quella del progetto Iter (in costruzione in Francia, realizzata nell’ambito di una collaborazione internazionale da Europa, Giappone, Stati Uniti, Russia, Cina, India e Corea, ndr) e il confinamento inerziale ottenuto concentrando su un corpo grande quanto un granello di pepe, il cosiddetto “pellet”, composto sempre da deuterio e trizio, enormi energie, tipicamente generate da superlaser.

Ora, in queste ricerche si intrecciano interessi civili e interessi militari: civili per quanto riguarda la fusione a confinamento magnetico, militari invece per quanto riguarda la fusione a confinamento inerziale. La distinzione è fondamentale: un autorevole articolo del fisico Robert Gillette pubblicato sulla rivista Science già nel 1975 chiariva che «la simulazione delle armi può essere l’unica applicazione pratica della fusione laser in questo secolo». Da parte sua il generale dell’aeronautica degli Stati Uniti Edward B. Giller, incaricato delle applicazioni e ricerche militari presso l’Atomic energy commission, ebbe a dire, durante una conversazione, riportata ancora nell’articolo di Gillette: «La gente va dicendo che questo è un programma energetico, ma … in realtà questo è ed è sempre stato un programma militare».

In effetti le ricerche finalizzate allo sviluppo di armi nucleari basate sulla fusione a confinamento inerziale si sviluppano proprio in quegli anni, quando, con la messa in discussione a livello mondiale degli esperimenti atomici, il dipartimento della Difesa Usa e il dipartimento dell’Energia varano un programma per l’implementazione delle armi nucleari di terza generazione, focalizzato principalmente sulla fusione a confinamento inerziale. La reazione presenta il “vantaggio” (tutto militare) di emettere anche neutroni ad alta energia che, nell’ottica della maggiore distruzione possibile e in scenari di guerra circoscritti, possono aumentare la letalità di un’arma basata sulla fusione.

Il campo di indagine era inizialmente circoscritto allo sviluppo di armi con potenziale compreso tra 300 kg di esplosivo equivalente ed 1 kilotone, quindi armi di dimensioni contenute, facilmente trasportabili o comunque abbinabili ad un vettore di rapido impiego. Da notare che, fino alla fine degli anni 80, i test nucleari sotterranei, data l’alta intensità di radiazioni prodotte, servivano anche a verificare se si riusciva ad “ignire” (accendere) i pellet di deuterio e trizio impiegati nella fusione inerziale. Solo successivamente, e per i motivi già citati riguardanti i test atomici, le sperimentazioni in laboratorio divennero prioritarie al punto che perfino la National academy of sciences americana descrive i vantaggi potenziali della fusione a confinamento inerziale per la progettazione di armi in questi termini: «Un’utile risorsa di un laboratorio di esplosivi termonucleari da mille mega joule sarebbe uno strumento straordinario per esplorare la fisica delle armi termonucleari. Alcuni concetti su come utilizzare le armi nucleari come sorgenti di energia diretta, come i laser a raggi X o i fasci di microonde, potrebbero essere testati in un ambiente di laboratorio in modo rapido e interattivo … Campagne sperimentali estese … che avrebbero un costo proibitivo per i test sotterranei, potrebbero essere effettuate con una struttura per la fusione a confinamento inerziale».

Dunque, diversamente da quanto si legge sugli organi di informazione, lo scopo prioritario dell’intero progetto National ignition facility, di cui è parte integrante l’esperimento del 5 dicembre scorso presso il Lawrence Livermore national laboratory, è di tipo militare; prova ne sia che il progetto è stato formalizzato all’indomani della messa al bando dei test nucleari sotterranei – votata dall’Assemblea generale dell’Onu nel 1996, con la firma del Trattato sulla messa al bando totale degli esperimenti nucleari, mai ratificato dagli Usa – proprio per ottenere in modo non distruttivo le informazioni risultanti da quei test.
D’altronde Mark Herrmann, direttore del programma di fisica e progettazione delle armi nucleari al Livermore, nei giorni successivi al “successo” dello scorso dicembre, ha fatto la seguente dichiarazione, ripresa anche dal New York times: «Questo esperimento ci aiuterà a salvaguardare la fiducia nella nostra deterrenza nucleare senza dover ricorrere a nuovi test sotterranei», dato che «il risultato dell’esperimento (la grande energia ottenuta, ndr) … crea di per sé ambienti molto estremi», che assomigliano da vicino a quelli provocati da un’arma nucleare. Tale finalità militare era stata esplicitamente prevista da Gillette, già nel 1975: «La fusione laser può diventare uno strumento sperimentale straordinariamente utile per studiare la “fisica fondamentale delle testate” [che presenta ancora molti aspetti oscuri] e … per sviluppare nuovi progetti di armi».

Alla base di tutta questa vicenda c’era, indubbiamente, la competizione in campo nucleare tra Usa e Urss la cui massima intensità si raggiunse durante la cosiddetta Guerra fredda. Tuttavia, se fino agli anni 80 la preoccupazione degli Stati Uniti di essere superati dall’Unione Sovietica aveva qualche fondamento, l’idea di armi di terza generazione da impiegare in determinati teatri di guerra (come ad esempio quelli occorsi in Iraq e Afghanistan) è frutto dell’ossessione statunitense di mantenere il dominio esclusivo della deterrenza nucleare, atteggiamento riscontrabile già sotto l’amministrazione Reagan quando, nel 1987, rispondendo ad una interrogazione parlamentare relativa a questo tipo di armi, l’allora segretario del dipartimento dell’Energia, John S. Herrington, rispose: «La ragione principale per cui stiamo perseguendo armi a energia nucleare diretta è sapere a che punto sono le conoscenze dei sovietici nel progettare e schierare armi simili, che metterebbero a rischio la forza deterrente strategica degli Stati Uniti o un futuro sistema difensivo».

Tornando alle questioni di tipo scientifico, l’aspetto più appariscente dell’esperimento condotto negli Usa riguarda il cosiddetto “energy gain”, il guadagno di energia, che è stato presentato come una svolta storica nel cammino verso la fusione nucleare, perché per la prima volta è stata generata una quantità di energia superiore a quella fornita dagli impulsi laser per ottenere la reazione di fusione, cosa che – se non spiegata in modo approfondito – lascia intendere all’opinione pubblica che il sogno di quei personaggi (tra cui lo stesso Leonardo da Vinci) che tra il ’500 e il ’700 si ingegnarono per realizzare il moto perpetuo, si sia avverato.

Ciò che si è ottenuto al Livermore, in realtà, consiste esclusivamente in un guadagno di energia nel rapporto tra quella fornita dall’impulso laser per fondere gli atomi di deuterio e trizio e quella ottenuta da questa fusione che è stata, rispettivamente, di 2,05 mega joule e 3,15 mega joule, con un guadagno di 1,5 volte per un tempo infinitesimo, dell’ordine del trilionesimo di secondo. Ma per generare quell’impulso, i 192 laser impiegati hanno consumato una energia pari a 300 mega joule, cioè 150 volte superiore a quella fornita dall’impulso e 100 volte superiore a quella ottenuta dalla fusione.
Ora non c’è dubbio che dal punto di vista della sperimentazione di laboratorio questa prova rappresenti un successo, dato che finora l’energia ottenuta in questi test non aveva mai raggiunto la soglia del break even, ottenendo cioè dalla reazione di fusione una energia almeno pari a quella immessa attraverso l’impulso laser, ma ciò non ha nulla a che vedere con il bilancio energetico dell’intero processo che rimane enormemente deficitario e dell’ordine di 100 a 1 (300 mega joule contro 3,15 mega joule) che in buona sostanza corrisponde al rendimento – estremamente basso – del tipo di laser impiegati.

Quello che è certo è che questo aspetto non ha alcuna rilevanza dal punto di vista militare, dove importa solo ottenere la fusione di un minuscolo pellet (nelle ricerche sulle armi nucleari sono state spese quantità di energia colossali, enormemente superiori alle potenze di tutte le testate realizzate). Inoltre, dal punto di vista industriale, ciò significa che l’applicazione di questa tecnologia è ben lungi dal potersi, non si dica realizzare, ma almeno progettare. Anche perché la tecnologia sviluppata dalla National ignition facility – a differenza di quella sviluppata nel progetto Iter, basata su di una reazione che si autosostiene, come il confinamento magnetico del plasma – si fonda sulla possibilità di provocare la fusione “sparando” su un pellet singoli impulsi di energia laser che non possono autosostenersi e quindi per dare vita ad un processo continuo di generazione di energia bisognerebbe realizzare una macchina in grado di “sparare” impulsi di energia su una successione di pellet con una frequenza di varie volte al secondo, cosa che al momento risulta tecnologicamente ancora più difficile di quanto si presenti il confinamento magnetico del plasma.

Se infatti gli aspetti critici del confinamento magnetico risiedono nelle alte temperature che si devono raggiungere, superiori a quelle del Sole, dato che non è possibile riprodurre la stessa densità della massa solare, e nel mantenere il plasma stabile e isolato dalle infrastrutture, quelli del confinamento inerziale riguardano sia la sua discontinuità che implica sia una frequenza elevata di impulsi laser – quindi la possibilità che questi si ricarichino rapidamente, cosa per nulla scontata -, sia una disponibilità illimitata di bersagli da colpire, i pellet, di ridotte dimensioni, altrimenti l’energia rilasciata dalla reazione di fusione, oltre una certa soglia, assumerebbe caratteristiche distruttive.
Insomma, il risultato trionfalistico ottenuto al Livermore non è, almeno per ora e nelle intenzioni, un passo avanti nell’ottica di produrre energia illimitata, ma in quella di potere progettare armi, forse micro-bombe a fusione: se poi potrà servire anche per procedere alla produzione pacifica di energia è tutto da vedere. Se non si comprendono questi aspetti non si fornisce veramente l’informazione utile e trasparente per l’opinione pubblica, e si rischia di mistificare le ricerche militari.

Gli autori: Angelo Baracca è docente emerito di Fisica teorica dell’Università di Firenze, autore di numerosi saggi sul nucleare, tra cui A volte ritornano: il nucleare (Jaca book, 2005). Con Giorgio Ferrari ha pubblicato Scram ovvero la fine del nucleare (Jaca book, 2011). Ferrari dagli anni 60 fino al 1987 si è occupato della progettazione e fabbricazione del combustibile nucleare per tutte le centrali Enel. Dopo Chernobyl fece obiezione di coscienza e chiese di essere adibito ad altri incarichi. Ha collaborato a varie riviste nel campo dei problemi dell’energia tra cui Rossovivo

 

Duo Gazzana: L’armonia tra contemporanei e classici

Il duo Gazzana ha pubblicato Kõrvits, Schumann, Grieg, il quarto disco prodotto dalla prestigiosa etichetta tedesca Ecm Records nella collana New series. Il cd è uscito in Europa e su tutte le piattaforme online mentre in America arriva a partire dal 6 gennaio. Il duo Gazzana è composto dalle sorelle Natascia al violino e Raffaella al pianoforte che in breve tempo si sono affermate sulla scena internazionale ricevendo moltissimi consensi dalla critica per il loro «modo di suonare fantasioso e la volontà di colorare al di fuori delle linee abituali». Anche in questo lavoro le musiciste sono protese nella costruzione di un ponte sonoro tra autori molto lontani nel tempo, legando la Sonata op. 105 di Robert Schumann alle prime registrazioni della Stalker Suite e Notturni del compositore estone contemporaneo Tõnu Kõrvits, alla Sonata op. 45 di Edvard Grieg in un’inedita versione manoscritta. I contrasti, la profondità e gli equilibri che ne derivano sono di forte impatto per l’ascoltatore. Abbiamo parlato di questo e di tanto altro con la violinista Natascia Gazzana.

Il duo musicale è un equilibrio splendido ed impegnativo, qual è stato il vostro percorso musicale e il trampolino che vi ha portato, così velocemente, dalla provincia di Frosinone a tuffarvi nel mondo con le vostre tournée, e a ottenere tanti riconoscimenti internazionali?
Abbiamo cominciato a studiare dapprima privatamente a Sora, nostra città natale, poi abbiamo frequentato il Conservatorio di Frosinone e ci siamo diplomate a Roma, dopodiché siamo andate a perfezionarci in Svizzera a Losanna e a Ginevra, dove abbiamo trovato un ambiente molto interessante. In quegli anni vi confluivano musicisti e maestri, anche i migliori, da tutto il mondo per cui abbiamo avuto tanti contatti importanti e ricevuto stimoli forti, come ad esempio con il maestro Bruno Canino. Ho avuto la fortuna di incontrare il maestro francese Pierre Amoyal, con il quale ho studiato, e di rapportarmi con i compagni di corso che provenivano da Paesi diversi. Diciamo che la formazione è stata una fase molto importante, forse l’investimento più grande che hanno fatto i nostri genitori, entrambi insegnanti di lettere, laureati in filologia classica, però con una grande passione per la musica classica, per cui ci svegliavamo al mattino ascoltando Beethoven, Ciajkovskij… La musica ha sempre fatto parte della nostra vita.

Dopo i diplomi in Svizzera arriva la professione.
Sì, abbiamo cominciato a girare il mondo e siamo molto felici perché la nostra è una professione che ci ha aperto le porte anche alla conoscenza di popoli, di Paesi molto distanti culturalmente dal nostro e queste esperienze arricchiscono la nostra musica.

La vostra formazione, infatti, non è esclusivamente musicale. Questo vi ha agevolato nelle riflessioni, di più ampia veduta, sulla materia artistica in generale e nel corso del vostro impegno quotidiano?
Oltre alla musica abbiamo cercato di coltivare sempre interessi diversi. Amiamo il cinema, i viaggi, la lettura e lo studio delle lingue. Siamo entrambe laureate in Lettere alla Sapienza, Raffaella con indirizzo musicale ed io in storia dell’arte contemporanea. Ritengo che occuparsi di cose diverse dia anche un’altra freschezza e consapevolezza all’approccio musicale.

Questo lungo sodalizio artistico tra sorelle ha manifestato, qualche volta, anche delle asperità?
(ride) Per il momento solo il normale scambio di opinioni, una dialettica costruttiva. In realtà non abbiamo neanche tanto bisogno di parlare perché avendo condiviso anche la fase degli studi, avendo vissuto un percorso simile, quando proviamo ci capiamo in silenzio, ci sentiamo. Posso dire che è un’esperienza molto positiva, soprattutto per me che suono il violino, perché poter contare su un rapporto così profondo con una pianista rappresenta un vero privilegio.

Arrivati al quarto disco pubblicato dalla stessa etichetta, si intuisce la rilevanza dell’esperienza, una collaborazione che meriterebbe dei commenti sia per come è nata, sia per il peso che ha sull’organizzazione della registrazione e sull’idea progettuale.
Il primo disco è stato pubblicato nel 2011 e tutto è cominciato poco più di un anno prima quando abbiamo incontrato il produttore discografico tedesco Manfred Eicher alla Casa del cinema a Roma, in occasione della proiezione di Sounds and silence, il bel docufilm sulla storia dell’etichetta. Eicher ha subito mostrato interesse per il nostro duo e ci ha chiesto se ci sarebbe piaciuta l’idea di registrare ma noi, anche in modo naïf, gli abbiamo risposto di no perché venivamo da un’esperienza di registrazione di un disco autoprodotto che si era rilevata piuttosto difficile. Gli abbiamo poi spedito una registrazione dal vivo effettuata a Ginevra, alla Radio Suisse Romande, e poi, dopo essere venuto ad ascoltarci dal vivo in concerto ci ha proposto di lavorare insieme. Per prima cosa ci ha espresso il suo pensiero al riguardo, e cioè che concepiva la registrazione come un lungo processo che sarebbe partito dall’ideazione del programma e poi dalla scelta del luogo dove registrare.

La Ecm non si avvale di un suo studio di registrazione?
No, questa è una sua peculiarità, quella cioè di non avere un proprio studio di registrazione ma di pensare ad un luogo diverso in rapporto all’artista con cui sta collaborando. A noi, visto il profondo legame con la Svizzera, è stato proposto l’Auditorium della Radio di Lugano, dove abbiamo registrato nel tempo i primi tre dischi. Anche il quarto disco avrebbe dovuto essere registrato lì anche perché rappresentava la centesima produzione Ecm a Lugano ma siamo stati travolti dalla pandemia e tutto si è fermato. In effetti questo ultimo lavoro ha impiegato quasi tre anni per venire alla luce e lo abbiamo registrato in Baviera in uno studio non distante da Norimberga.

Un’attesa ripagata ampiamente dai risultati ottenuti.
Sì, in effetti quando ti trovi in un posto che è acusticamente perfetto, dove hai degli strumenti a disposizione che rappresentano il top come un pianoforte Steinway, e ci sono competenze e cura fin nei più piccoli dettagli intorno a te, suonare e registrare è veramente un’esperienza molto piacevole. In questo ultimo disco poi avevamo tantissima voglia di fare musica perché venivamo dall’isolamento forzato cosicché siamo state rapite dai suoni di questo repertorio e ci siamo lasciate andare. Ci tengo a dire che l’ingegnere dei suoni è stato sempre Markus Heiland, in tutti e quattro i dischi, mentre Manfred Eicher è stato sempre presente. In realtà si è formato un quartetto molto affiatato che ha contribuito alla realizzazione del disco.

Se parliamo invece del repertorio inciso, l’etichetta come si è posta? Vi ha provocato, dato indicazioni, oppure ha lasciato a voi la scelta?
Essendo un’etichetta indipendente, la Ecm ricerca senza pregiudizi, ha una grande curiosità per i compositori viventi la cui musica, almeno per quanto riguarda la nostra esperienza, è molto bella come, ad esempio, quella del compositore ucraino Valentin Silvestrov presente nei nostri primi dischi. È stato Manfred Eicher a scoprirlo tanti anni fa facendo delle registrazioni anche in Ucraina. La Ecm ha registrato musica in Armenia, in Georgia… In questo quarto disco, invece, abbiamo inserito la musica del compositore estone Tõnu Kõrvits.

È una bella sfida il confronto tra la musica di Kõrvits ed il repertorio romantico contenuto nel Cd, ed è una caratteristica anche degli altri dischi quella di inserire autori molto distanti nel tempo.
Questa volta ci siamo spinte nel romanticismo di Schumann; è anche la caratteristica dei nostri concerti quella di accostare musica che fa parte del repertorio tradizionale ad autori contemporanei. Questa sensibilità e corrispondenza nel fare ricerca l’abbiamo riscontrata anche nell’etichetta. Eicher ha un particolare fiuto nel collegare le opere tra di loro, anche nella scelta della successione dei brani, riuscendo a rendere tutto coerente e armonico. Dedicarsi agli autori contemporanei è molto stimolante perché ti dà modo di confrontarti e scambiare idee con l’autore della musica che vai ad eseguire. In particolare, Kõrvits ci ha dedicato questi brani, non è la prima volta che ci capita ma questa volta è stato proprio un bel movimento da parte sua. Dopo aver incontrato mia sorella a Berlino ci ha inviato la partitura dei Notturni insieme ad una bellissima cartolina antica di Tallinn e abbiamo cominciato a scambiarci opinioni, poi in seguito ha scritto per noi la Stalker Suite, in omaggio al regista Andrej Tarkovskij.

Suonate molto più all’estero che in Italia, è una scelta?
Purtroppo nel nostro Paese suoniamo poco, e ci dispiace per questo, anche se spesso siamo chiamate a rappresentare l’Italia nel resto del mondo. Queste sono delle occasioni veramente affascinanti come ad esempio quando siamo state ambasciatrici di Firenze in Giappone o quando abbiamo suonato per Re Carlo III oppure in Marocco, dove abbiamo partecipato alla settimana della musica italiana a Rabat e a Marrakech.

Il vostro è un osservatorio internazionale privilegiato, a tal proposito possiamo tentare di capire meglio questo fenomeno? Perché in Italia è più difficile?
Forse la differenza sta nella scelta della programmazione musicale degli organizzatori, non tanto nella scarsa sensibilità del pubblico. In Italia si tende a privilegiare autori classici rispetto a quelli contemporanei mentre in Olanda, per esempio, richiedono esclusivamente musica contemporanea, come può capitare anche in Germania del resto. Il pubblico, se stimolato, reagisce bene anche nel nostro Paese: ci è capitato che dopo aver suonato brani di autori pressoché sconosciuti le persone ci abbiano chiesto informazioni, abbiano reagito con entusiasmo. Credo che ci sia una grande spaccatura tra il desiderio di conoscenza delle persone, la curiosità intellettuale, e la proposta un po’ conservativa dell’offerta culturale. Visti anche i nostri trascorsi, possiamo tranquillamente affermare che ci meriteremmo di più nel nostro Paese.

Parliamo tanto della necessità della formazione per creare il pubblico del domani. Sarebbe auspicabile che ci fossero molti più dilettanti, amatori, di tutte le età, come capita per esempio nel resto d’Europa. Nel 1927 in Germania, la più grande associazione di dilettanti contava più di un milione di iscritti…
Il problema è anche consentire un approccio alla musica più democratico. Studiare musica è costoso e alla fine diventa un settore per privilegiati se non si introducono aiuti a favore dell’apprendimento e della pratica musicale. Bisognerebbe tornare ai principi fondatori della Scuola di musica di Fiesole fondata dal maestro Piero Farulli, dove abbiamo studiato musica da camera: capire le necessità di coloro che vogliono studiare musica e facilitarne il percorso. Per esperienza diretta posso dire che il Conservatorio di Losanna, così come era strutturato, prevedeva delle classi per i virtuosi e per il perfezionamento ad altissimo livello, ma il resto della struttura rispondeva alle richieste di coloro che volevano studiare musica non per diventare musicisti professionisti ma per il piacere di farlo, coloro che costituiranno il pubblico dei concerti, appunto. Mi è capitato di essere coinvolta anche in un’orchestra di amatori affinché aiutassi i musicisti a studiare il Concerto per violino e orchestra di Brahms e l’Idillio di Sigfrido di Wagner e mi sono divertita perché erano talmente pieni di entusiasmo, vitali, e pronti a carpire ogni segreto… Anche in Giappone c’è una grande cultura musicale coltivata da una folta schiera di amatori. Speriamo che le persone siano sempre più libere di potersi esprimere con quello che di bello hanno da proporre. Questo è il mio pensiero.

Lello Voce, l’artivista

Lello Voce, napoletano del Vomero, vive a Treviso, città dove sono state composte la maggior parte delle vidas dei trovatori provenzali, biografie inventate scritte per la maggior parte da un trovatore di nome Uc de Saint Circ che le scrisse proprio a Treviso in attesa che una dama gli concedesse udienza. Incontro che però non si realizzò mai.
In cerca di nuova poesia Lello Voce è tornato alle vidas e ai razos, brevi componimenti in prosa presenti in alcuni dei codici che ci tramandano i testi trobadorici ricreandoli in forme nuove. Accompagnato da Luigi Cinque, che a tratti e in modo asincronico impone le mani sull’antico pianoforte del Maestro Scelsi, Lello Voce alla Fondazione Scelsi a Roma presenta e ci parla dei suoi Razos, diventati anche un coraggioso libro pubblicato da La Nave di Teseo: un libro di poesia senza poesie, dotato persino di una piccola appendice di poesie mute. Frutto di oltre quattro anni di lavoro, di dubbi, di bisogno di cambiamento. Un libro arrivato quando tutto sembrava perduto.

Ed è su questo sentire o stato d’animo del poeta che si erge la sua voce che prende a crescere, a dire, a raccontare, forte sempre di un concetto che era di Nanni Balestrini e che ad ogni momento risplende come la stella del mattino: «L’importante è sentire di esistere/poi all’improvviso arriva qualcosa/prima non c’è nulla poi all’improvviso». Ci spiega Lello Voce che i razos sono brevi componimenti in prosa di epoca trobadorica che illustravano al giullare le poesie che avrebbe dovuto eseguire raccontandone le ragioni, lo scopo, il senso. Ne è uscito fuori, sempre seguendo il suo ardito ed antico filo di ricerca, un libro di poesia senza poesie. Un libro silenzioso. Muto. Un libro da artivista. «Del muto cosa dire, se non parla/né ascoltare del sordo, se non sente/ e a cosa vale pensare, se fa ciarla/ogni opinione, se ogni lingua è dente?/Se articolando in glosse mascheriamo/per chi ci paga l’ultima menzogna: /siamo poeti vecchi e ci arrendiamo/all’evidenza che il verso sia vergogna». Da una parte il poeta si confronta con tematiche medievali, ma dall’altra affonda il coltello nella contemporaneità con una forte attenzione tematica all’informatica, l’elettronica. Oscillando tra l’essere un antico trovatore e un nipotino diretto del movimento Fluxus. Non è un caso che la copertina del libro mostri una delle tante quasi automatiche cancellature di Emilio Isgrò: «Ho voluto fortemente questa immagine, perché i razos sono delle cancellature: quello che sta sotto è la poesia, ma per arrivare alla poesia devi cancellare la cancellatura e dunque devi renderti protagonista tu stesso del libro. Un libro fatto solo di istruzioni per l’uso, come questo, apparentemente senza poesia, vede Isgrò parte integrante di questa ricerca».

Lello Voce lei si sente un figlio della poesia visiva e delle ultime avanguardie?
Io sono sicuramente nato in quell’ambito. Ma non mi sento un autore di avanguardia. La tradizione è solo genealogia delle avanguardie. Quella che noi chiamiamo rapporto tra tradizione e avanguardia è il moto ondoso che fuoriesce dalla poesia che vive. La poesia è un “animale” che parassita qualsiasi cosa. Sta dappertutto, la poesia, se ci pensi, è un’arte plurale ed è l’unica arte che ha cambiato il suo medium di fruizione. Prima era aurale, auditiva e poi diventata scritta,quotidiana, virale..

Ma è ancora possibile oggi rendere fruibile la poesia?
È molto difficile. È forse possibile grazie alla nostra capacità di sfruttare di volta in volta le condizioni in cui si trova il linguaggio. Mi spiego meglio. Riuscendo a dare una scossa, a renderlo dinamico. Con le poetry slam, con delle letture anche private o persino con i libri. Il problema è che sia chi scrive, sia chi legge dovrebbero farsi un’idea della temperatura della poesia. A che temperatura bolle la poesia? In questo magma spesso si creano delle immagini. Non è importante che la poesia torni ad essere un’arte fruita da tutti. Ma è necessario. Vinceremo distratti, diceva un poeta brasiliano.

E l’attivismo allora nel fare poesia, cosa significa?
Io mi entusiasmo sempre. Non sono sospettoso. Appena ho visto il primo computer la mia curiosità è stata come fare poesia con il computer. Io sono cresciuto con John Giorno che metteva poesia anche sulle magliette, le tazzine. Il problema è riuscire ad avere attenzione costante a quello e a come lo diciamo. Penso di essere una persona che una volta sarebbe stato definito un attivista. Per me, voglio dire, è stata molto importante non solo la mia poesia, ma anche la poesia degli altri. Non ho mai pensato che da soli si possano trovare le soluzioni: come fare con la parola, cosa sono le lettere, che cosa è il linguaggio? Non è una battaglia che possa essere vinta singolarmente. E dunque definirei il mio attivismo puro egoismo, ovvero esigenza di confrontarmi con gli altri. Senza gli altri avrei scritto poesie peggiori.

Questo libro parla di una forma antichissima di componimento, di epoca trovadorica, ma lo fa con un forte senso della contemporaneità. È anche un modo per riflettere e discutere la questione della tradizione?
Certamente. La poesia è il fiore inverso, quella che nasce con le radici rivolte verso il cielo. Cercare il nuovo significa andare indietro, riscoprire qualcosa del nostro passato che non conoscevamo e ricominciare a costruire. Senza radici crolla tutto. Ogni volta, quando qualcosa cambia, è perché c’è alla base la scoperta di una parte delle nostre tradizioni che ancora con ha fatto frutto. Le razos sono una forma antichissima di componimento poetico, minoritaria, che appaiono nella Vita nova di Dante e poi in parte nel Convivio.

Ho davanti questo piccolo libro fatto a strati, che però non è un trattato…
Penso che sia l’opera più performativa che abbia mai realizzato stando completamente in silenzio e aspettando che siate voi che gli diate voce.

Lello Voce (foto di Francesco Francaviglia)

L’arte perduta di rigenerare le città

La legge urbanistica approvata nell’agosto 1942 da Vittorio Emanuele III, durante la guerra, ha assegnato alla materia aspetti ancora attuali sul governo del territorio, distinti da quelli dell’architettura a grande scala. A ottant’anni da questo atto, Vezio De Lucia, uno dei più illustri urbanisti italiani, ha voluto ricordarne i contenuti e sottolinearne la modernità con L’Italia era bellissima. Città e paesaggio nell’Italia repubblicana (DeriveApprodi), un libro denso di entusiasmo e certezze che si pone come una celebrazione all’Italia, tanto bella quanto offesa.
Il saggio scorre come un racconto che mette in relazione le vicende urbanistiche più rilevanti con episodi della storia della nazione e della politica che hanno indirizzato le scelte e le occasioni mancate, lasciando alla fine spazio all’affermazione degli interessi della rendita e della speculazione, a danno di quelli delle classi più bisognose della popolazione. Come ha scritto Enzo Scandurra nella bella prefazione, Vezio De Lucia ha la capacità di emozionare, attraverso testimonianze che esprimono la passione che ha guidato e guida ancora la sua opera, da combattente irriducibile che non si rassegna alla crisi della città storica e allo sfruttamento del territorio. Il libro si rivolge ai giovani urbanisti, lanciando messaggi al presente e al futuro per una cultura della riforma urbanistica a cui l’autore ha dedicato parte dei migliori anni della sua vita, con la consapevolezza che intanto si deve utilizzare al meglio l’attuale complicato e contraddittorio quadro legislativo. De Lucia dichiara, infatti, di aver scritto per riproporre la necessità di «un aggiornamento nella lettura e nell’uso dell’apparato normativo di cui disponiamo chiudendo definitivamente con le prospettive di crescita, promuovendo viceversa lo studio, l’impegno, i magisteri per ricomporre l’esistente».

Diversamente, nei fatti, si deve constatare l’indirizzo denso di insidie che si trova ad esempio in materia di “rigenerazione urbana”, sia a livello nazionale che locale, per l’opportunità che si offre all’iniziativa privata di attuare opere di solo rinnovo edilizio, perseguendo interessi puramente economici, tralasciando di intervenire sul patrimonio edilizio degradato, dove dovrebbero concentrarsi i processi di rigenerazione per sostenere l’integrazione sociale e culturale, per dare equilibrio ai quartieri disagiati, avendo cura di tutelare i centri storici dalle distorsioni causate da pressione turistica e diminuzione dei residenti. Nell’autore prevale innanzitutto l’impegno politico, sommo, senza mezzi termini che guida il suo pensiero straordinariamente saldo. Tale impegno corrisponde a un valore estremo alla luce delle diverse crisi che testimoniano la deriva nella quale i processi di trasformazione hanno trascinato la disciplina urbanistica, orientata sempre dalle tendenze politiche. Le tappe dell’urbanistica sono qui raccontate in quattro capitoli scelti come episodi del passato, con i protagonisti e le idee, che si riconoscono di piena attualità e come potenziali opportunità per fornire un contributo alla possibilità di migliorare la vita della collettività. Alla fine della Seconda guerra mondiale l’Italia era ancora bellissima, se pur con i danni subiti dal conflitto. Il miracolo economico compie la trasformazione, l’agricoltura è sostituita dall’industria, portando benessere e occupazione, ma anche disuguaglianze tra le regioni della nazione e il fenomeno di migrazione al nord, senza che il boom economico venisse accompagnato dall’incremento di servizi sociali che tutt’ora discriminano l’Italia. Gli anni sono gli stessi della speculazione edilizia, delle ricostruzioni con decreti che mettevano da parte la legge urbanistica del 1942 e delle devastazioni nelle principali città, nei luoghi di maggiore pregio, in contrasto anche con alcune esperienze positive del Ventennio. «L’incapacità di abbinare il benessere alla qualità sociale e alla bellezza» è una eredità che ha contrassegnato le trasformazioni del Paese. A nulla sono valse le instancabili denunce di Antonio Cederna e dei fondatori di Italia Nostra, con l’Istituto nazionale di urbanistica che per un lungo periodo ha sostenuto la stessa linea.

Negli anni Sessanta non sono mancati esempi eccellenti che l’autore descrive, ma il periodo del centrosinistra, durante il quale si sono attuate importanti riforme, ha invece segnato un epilogo negativo per la riforma urbanistica, a cui si era dedicato Fiorentino Sullo (esponente della sinistra democristiana), con l’obiettivo di ridurre il costo degli alloggi. Il suo allontanamento dalla vita politica nel 1963, dopo che anche il Partito comunista si era dissociato dalla sua proposta, causò addirittura un tentativo di colpo di Stato da parte di esponenti delle forze armate, del quale, nel tempo, si chiarirà la vera finalità, ossia bloccare la proposta urbanistica Sullo.

Nella eterna connivenza tra amministratori e speculatori in ambito urbanistico, Giacomo Mancini, ministro socialista dei Lavori pubblici, fa approvare nel 1967 la cosiddetta “legge ponte”, con gli standard pro capite da riservare a verde e servizi, «unico autentico brandello di riforma urbanistica della Repubblica italiana», nel tentativo di porre un freno al disordine urbanistico-edilizio.
Solo nel 1969, con lo sciopero nazionale del 19 novembre, preceduto dalle prime lotte operaie, emerge tutta l’agitazione per il disagio abitativo, anche a seguito delle ricadute che si sarebbero determinate con le nuove massicce assunzioni da parte della Fiat tra la gente del sud. Milioni di lavoratori entrano in sciopero, fermando l’Italia intera, con il fine di assicurare a tutti i cittadini condizioni abitative adeguate e il diritto alla casa. A breve seguirono la strage di piazza Fontana e le bombe a Milano e Roma, esordio alla strategia della tensione e agli anni di piombo.

Con i decreti attuativi del 1972 e 1977 sono trasferiti alle Regioni il potere di legiferare e le funzioni amministrative in materia di urbanistica, prima di competenza del ministero dei Lavori pubblici. L’ordinamento si rafforza nell’assenza del coordinamento statale e successivamente la riforma del Titolo V della Costituzione del 2001 contribuisce ad accentuare la distanza tra Nord e Sud. Le regioni assumono anche la competenza di redigere i Piani territoriali urbanistici, in virtù dei vincoli paesaggistici.
La deroga diventa regola e si assiste al disfacimento delle prescrizioni dello Stato; la negoziazione prende il posto della pianificazione, Print, Pru, Prusst, programmi per mascherare il disimpegno statale e regionale in materia di edilizia residenziale feriscono irrimediabilmente il territorio, anche in aree di pregio, con la conseguenza della «cancellazione in gran parte dell’Italia di quell’emozionante scenario – formato da due mondi contrapposti, la città e la campagna – che aveva accompagnato la vita dei nostri antenati». I governi presieduti da Berlusconi nel periodo tra il 1994 e il 2011 hanno concorso alla cancellazione di ciò che di buono vi era stato nella politica del territorio. Senza tregua, ai condoni seguono i Piani casa, subito attuati da tutte le regioni, che avrebbero prodotto aumenti di cubatura indecenti. L’autore non omette di ricordare la circostanza drammatica del terremoto dell’Aquila del 6 aprile 2009 che ha consentito a Berlusconi di realizzare un piano che avrebbe sottratto la città ai cittadini, provvedendo a costruire costosissime case e ottenendo un enorme consenso con l’organizzazione del G9 a l’Aquila, tre mesi dopo il terremoto tra tende e macerie. Ancora una volta si antepone l’edilizia alla città.

Alla salvaguardia dei centri storici, messi a dura prova da una scomposta attività edilizia e soprattutto dal fenomeno dell’abbandono della residenza a favore dello sfruttamento turistico, De Lucia ha dedicato nel 2018 un convegno con l’Associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli, presentando una proposta di legge elaborata con Giovanni Losavio e altri illustri urbanisti. Dai riconoscimenti della tutela della città storica segnati da Antonio Cederna, nell’introduzione a I vandali in casa (1956), alla Carta di Gubbio (1960), gli esempi positivi sono stati pochi, seguiti da una graduale regressione che potrà essere contenuta solo attraverso il riconoscimento dei centri storici da parte dello Stato come beni culturali d’insieme e un programma straordinario dello Stato di edilizia residenziale pubblica.

Approfondendo questo tema, e poi Roma, l’Appia Antica e altro, De Lucia dedica un capitolo ad Antonio Cederna, amico della vita e dal quale era considerato il suo urbanista. Tra i temi di assoluta priorità per l’autore vi è il “Progetto Fori”, nato a Roma negli anni Settanta con una visione moderna e democratica della città, elemento di rinnovamento per il forte legame tra l’archeologia e l’urbanistica, che ha trovato in pieno accordo l’impulso politico, parte del mondo scientifico con Adriano La Regina – protagonista da soprintendente ai Beni archeologici della Capitale dal 1976 al 2004 -, e la comunità che ha manifestato il proprio consenso, soprattutto quella dei quartieri periferici. La storia è nota fino a oggi, quando l’Amministrazione capitolina, con lo studio affidato a Walter Tocci, dopo l’avvio della pedonalizzazione voluta dal sindaco Ignazio Marino e la prospettiva a breve termine del collegamento con la metropolitana, sta elaborando un piano per la valorizzazione della vasta area archeologica monumentale, dal Tevere al Celio. Uno sguardo al passato, nella seconda parte del libro, mette in evidenza la qualità di alcuni provvedimenti urbanistici prima del 1942, come il piano regolatore di Roma del 1931, per le previsioni di espropri delle aree edificabili, e la proposta di legge urbanistica del 1933, che prevede una Commissione reale sull’esproprio per pubblica utilità, ottimo provvedimento che non riceve però l’approvazione. Il dominio incontrastato della rendita fondiaria sarà una novità del dopoguerra. Benedetto Croce nel 1922 fa approvare la prima legge per la tutela delle bellezze naturali e degli immobili di interesse storico che metteva in evidenza anche il concetto di bellezza naturale nella nazione per come si era formata attraverso i secoli. Nel 1939, con Giuseppe Bottai, entra in vigore la legge n.1947 per la protezione delle bellezze naturali che riprende i principi della precedente, ma introduce la previsione della pianificazione paesistica, a cui dovrebbe essere affidata la tutela.

La legge Galasso n.431 del 1985 costituisce un notevole passo in avanti nella tutela territoriale disponendo che le regioni sottopongano a specifica normativa d’uso e valorizzazione le zone perimetrate. I termini normativi confluiscono nel Codice del beni culturali e del paesaggio (del 2004, ndr) che per il paesaggio riprende i concetti di Benedetto Croce, relativamente all’identità nazionale. Il primo comma dell’articolo 145 del Codice recita: «La individuazione, da parte del ministero, delle linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale per quanto riguarda la tutela del paesaggio, con finalità di indirizzo della pianificazione, costituisce compito di rilievo nazionale, ai sensi delle vigenti disposizioni in materia di principi e criteri direttivi per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali».

De Lucia osserva dunque che «la tutela del paesaggio dovrebbe diventare la matrice dell’assetto del territorio nazionale affidato all’amministrazione dei Beni culturali». La tutela entra nell’urbanistica e attraverso i piani paesaggistici che sono sovraordinati rispetto ad altri strumenti di pianificazione, con la prevalenza dell’amministrazione dei Beni culturali su altri «soggetti titolari di poteri di pianificazione», come osserva correttamente De Lucia, se pure con prospettive totalmente disattese, creando una bolla d’aria in cui il sovvertimento delle regole trova il proprio spazio.
Il libro conclude con la proposta di tracciare una invalicabile “linea rossa” per porre fine al consumo di suolo senza nuocere allo sviluppo, individuando gli spazi d’intervento all’interno di questo nuovo limite, attuando una «conservazione critica dell’urbanistica esistente».

L’autrice: Rita Paris, archeologa, già direttrice del Parco dell’Appia Antica, è presidente dell’associazione Bianchi Bandinelli

Machiavelli, il pensiero politico è vita

Giunge al traguardo l’edizione nazionale delle opere di Niccolò Machiavelli (Salerno Editrice), ambizioso progetto intrapreso trent’anni fa da illustri studiosi, il fior fiore dell’italianistica del tempo. Nella storica sede dell’Enciclopedia Treccani sono stati presentati i tre tomi delle Lettere del Segretario della Repubblica fiorentina che, con Dante e Gramsci, è oggi tra gli scrittori italiani più studiati e tradotti al mondo. Sorprendenti, per un autore che è stato innanzitutto un uomo d’azione e un diplomatico, i 17 volumi esposti tutti insieme: alle opere politiche, storiche e letterarie e alle Lettere si aggiungono anche i 7 tomi di Legazioni. Commissarie. Scritti di governo, che dal 1498, anno dell’incarico politico, arrivano fino alla morte. Assai più che di un letterato, l’opera è il ritratto di uno scrittore a tutto tondo, assolutamente originale nel panorama del Rinascimento e non solo.

Nel compito arduo e affascinante di curare la ricerca e lo studio del carteggio privato (oltre 2mila pagine, spesso disperse dal collezionismo) ha raccolto il testimone Francesco Bausi, con un’équipe di studiosi. Con lui, coordinati da Emma Giammattei, hanno presentato l’opera Emanuele Cutinelli-Rendina e il grande Gennaro Sasso. Classe 1928, l’emerito professore esordisce ricordando una tenera lettera della moglie a Niccolò, lontano per incarichi politici, che nel novembre 1503 annuncia la nascita del secondo figlio, Bernardo. Il bimbo sta bene, scrive, ha un incarnato bianchissimo e una capigliatura nera come di velluto. E poiché somiglia tutto a lui, le piace tantissimo. L’epistolario, oltre trecento missive, con ottanta lettere autografe comprende anche quelle dei corrispondenti, preziose per ricostruire la personalità del grande fiorentino, sempre al limite tra vita privata e vita politica. E sono, sottolinea Sasso, vere lettere ai familiari, non ai posteri come quelle di Petrarca. O come quelle di Guicciardini (di recente ripubblicate da Einaudi in nuova edizione ndr) in cui, anche quando scrive al padre, di familiare non c’è niente. In 70 anni di ricerca e insegnamento, l’emerito specialista di Machiavelli racconta di avere praticato un’assidua frequentazione del fiorentino e, forse proprio per questo, di non avere mai tenuto un corso su di lui.

A conferma dell’intimità tutta speciale cita il passo della celebre lettera del 10 dicembre 1513 a Francesco Vettori, amico al servizio del papa Leone X, in cui l’ex Segretario, dopo il ritorno dei Medici in esilio forzato nella tenuta familiare dell’Albergaccio di Sant’Andrea in Percussina, racconta il confronto con gli antichi scrittori, dai quali si impara la politica e la storia, trascorsa la giornata tra la caccia, le incombenze di campagna e, dopo pranzo, certi chiassosi giochi paesani all’osteria. «Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; e in sull’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro». Sasso illustra la peculiarità del rapporto di Machiavelli con gli antichi, così lontano dal classicismo dominante: uno studio del passato sconnesso con l’azione, un rapporto vivente, come fu quello con la Prima decade di Tito Livio sulle origini di Roma. E, sempre citando a memoria, si sofferma sul seguito della lettera, in cui l’ex Segretario annuncia la stesura del suo capolavoro: «E perché Dante dice che non fa scienza sanza lo ritenere lo havere inteso, io ho notato quello di che per la loro conversazione ho fatto capitale, e composto uno opuscolo De principatibus; dove io mi profondo quanto io posso nelle cogitazioni di questo subietto, disputando che cosa è principato, di quale spezie sono, come e’ si acquistono, come e’ si mantengono, perché e’ si perdono. E se vi piacque mai alcuno mio ghiribizzo, questo non vi doverrebbe dispiacere; e a un principe, e massime a un principe nuovo, doverrebbe essere accetto».“Ghiribizzo”, proprio così. Il principe, il trattato di politica più famoso, è presentato dal suo autore, con scherzosa modestia, come in capriccio, una fantasticheria, una trovata bizzarra, che intende proporre, se mai volesse chiamarlo «a voltolare un sasso», a Giuliano dei Medici. Che invece lo ignorò totalmente.

Essere nato per leggere i classici: ma quando lo ha fatto, si domanda il professore, sempre di corsa tra i mille incarichi? Nell’Arte della guerra Machiavelli polemizza con l’attitudine umanistica del circolo degli Orti Oricellari, dove gli eruditi si intrattengono tra le statue degli antichi all’ombra delle piante, invece che imparare dalle cose che si fanno sotto il sole. Machiavelli, scrive Francesco de Sanctis, è un «filosofo dell’uomo», non dell’Essere come Spinoza. Meglio ancora sarebbe definirlo un pensatore. «Mariuolo ma profondo», lo etichetta l’eruditissimo don Ferrante nei Promessi sposi. Un «sollecitatore di problemi», lo definisce Eugenio Garin, più che un filosofo sistematico: cercarlo sarebbe un esercizio, oltre che vano, del tutto riduttivo. A questo punto Sasso cita la corrispondenza tra la lettera a Bartolomeo Vespucci del giugno 1504 e il capitolo XXV del Principe sul rapporto tra virtù e fortuna, paragonato a quello tra uomo e donna. Tra impetuoso e rispettivo, una dialettica che richiede, è il commento, cura e attenzione: «Conchiudo adunque, che, variando la fortuna, e gli uomini stando nei loro modi ostinati, sono felici mentre concordano insieme, e come discordano sono infelici. Io giudico ben questo, che sia meglio essere impetuoso, che rispettivo, perché la Fortuna è donna; ed è necessario, volendola tener sotto, batterla, ed urtarla; e si vede che la si lascia più vincere da questi che da quelli che freddamente procedono. E però sempre, come donna, è amica de’ giovani, perché sono meno rispettivi, più feroci, e con più audacia la comandano». Con questo audace passo, che una prospettiva femminista giudicherebbe più che discutibile, il professore ci porta al cuore della peculiarità di Machiavelli, che è la trasversalità con cui lega vita privata e attività politica, non rispettosa delle convenzionali barriere di classe e di genere, e la sua grande capacità di aderire al presente, al movimento della storia. Una straordinaria fusione tra ricerca teorica e vita.

E vuoi per il carattere del suo pensiero politico, vuoi per il rapporto passionale con le donne e affettivo con i figli che emerge dalle lettere viene in mente Gramsci, delle cui opere tra l’altro proprio per la Treccani è in corso l’Edizione nazionale. Il Machia, come lo chiamavano i fiorentini, fu certamente un precursore della filosofia della praxis, il che spiega l’interesse per lui di Gramsci, che al Moderno principe dedicherà in carcere il Quaderno 13. Ma anche l’epistolario di Gramsci, ancor più di quello di Machiavelli, comprende lettere dedicate a donne e ai figli, nelle quali il pensiero politico è intessuto di affetti e delle cure della vita privata. L’edizione delle lettere contribuisce anche a liberare Machiavelli dall’ombra ambigua della condanna cattolica che lo accompagna da cinque secoli. Rousseau, seguito dal nostro Foscolo, giudicò Il principe il libro dei repubblicani. In un carcere fascista Gramsci, in dissidio con i compagni, vi trovò ispirazione per disegnare un partito nuovo, capace di lottare per l’egemonia e di fondare un nuovo Stato. Di questo oggi avremmo assoluto bisogno. Va tuttavia tenuto presente che la generosa utopia di Machiavelli, repubblicano di elezione che usò sempre l’aggettivo “assoluto” con accezione negativa, come recentemente accade anche a Gramsci è stata cavalcata anche dalle destre.

Nell’aprile del 1924, proprio alla vigilia dell’assassinio di Matteotti, Benito Mussolini pubblicò nella rivista Gerarchia della rivoluzione fascista il testo della mancata tesi di laurea “ad honorem” Preludio al Machiavelli. In anni più recenti, presentazioni del Principe sono state firmate da Craxi e perfino da Berlusconi. Per questo vogliamo concludere con un’attualissima lettera di Gramsci di novembre di quel drammatico anno alla compagna Iulca Schucht: «Gli avvenimenti si svolgono fulmineamente e pure si presentano in forme così capricciose e puerili che per darne una valutazione comprensibile a chi non vive in Italia, immerso nell’ambiente, occorrerebbe una trattazione sistematica sulla psicologia del fascismo, fase acuta della civiltà borghese in decomposizione galoppante quando ancora il proletariato non ha l’organizzazione sufficiente per prendere il potere. Demoralizzazione, vigliaccheria, corruzione, criminalità assumono gradi inauditi; dei fanciulli e degli idioti si trovano ad essere l’espressione politica della situazione e piagnucolano o impazziscono sotto il peso della responsabilità storica che all’improvviso grava sulle loro spalle di dilettanti ambiziosi irresponsabili; la tragedia e la farsa si alternano sulla scena senza alcuna connessione; il disordine raggiunge gradi che parevano impossibili alla fantasia più sfrenata. Penso qualche volta di essere anch’io come un fuscello in questo uragano storico, ma ho abbastanza energia per mantenere tutta la freddezza possibile e per fare quanto ritengo doveroso. Penso a te in simili momenti; alla maggior forza che avrei se tu mi fossi vicina e alla dolcezza che tonificherà tutte le mie forze vitali quando, nonostante tutto, riuscirò a rivederti e ad essere felice del tuo amore».In questo mondo «grande, terribile e complicato» abbiamo l’esigenza di pensatori come questi.