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Kader Abdolah: La resistenza creativa e non violenta in Iran è rivoluzionaria

Un filo di struggente nostalgia percorre il nuovo, rocambolesco e toccante romanzo, Il faraone d’Olanda, di Kader Abdolah (il cui vero nome è Hossein Sadjadi Ghaemmaghami Farahani). Dietro l’immaginifica vicenda del sarcofago della regina Merneith nascosto nella cantina del famoso egittologo Herman Naven e che il suo amico, l’immigrato Abdolkarim Qasem, vuole riportare con sé in Egitto pare di poter leggere in filigrana una venatura autobiografica dell’autore di capolavori come La scrittura cuneiforme e La casa della moschea.

Dal 1988 rifugiato nei Paesi Bassi, costretto a fuggire dall’Iran dopo aver partecipato alla rivoluzione ed essere stato perseguitato dal regime degli Ayatollah è diventato uno dei più importanti autori della letteratura olandese.
La sua generazione, dalla rivoluzione iraniana, ne uscì distrutta ma ora una nuova rivolta infiamma l’Iran, una rivolta femminile, laica, nonviolenta. «Una delle più belle e creative della storia persiana degli ultimi cinque-seimila anni», commenta lo scrittore che ora vorrebbe tornare a casa. Lo abbiamo incontrato per parlare di letteratura, memoria e rivoluzione.

Ne Il faraone d’Olanda il celebre egittologo Herman Naven sta perdendo la memoria. Kader Abdolah, è il nostro bene più prezioso?
È tutto ciò che abbiamo. È tutto ciò che il cielo, la natura e i nostri avi ci hanno dato. Quando perdiamo questa ricchezza, non esistiamo più. Senza memoria non abbiamo più letteratura, cinema, pittura e amore e non possiamo innamorarci di nuovo.

Che importanza ha la memoria per lei come scrittore?
Senza la ricchezza delle sue memorie Kader Abdolah non sarebbe riuscito nemmeno a scrivere una parola. La capacità di creare vola via come un uccello quando perdiamo i nostri ricordi più profondi.

Che ricordi ha della sua giovinezza in Iran e dei suoi amici e compagni di lotta, Kader e Abdolah che furono uccisi dal regime?
Erano due miei amici curdi. Kader era un giovane medico e andava da un villaggio all’altro a cavallo per visitare i suoi pazienti. Abdolah era un architetto e costruiva belle case robuste nei villaggi sulle montagne. Ho ancora l’immagine di Kader a cavallo nella mia mente. E Abdolah indica con orgoglio le case che ha costruito.

Voi rovesciaste il regime dello Scià con le armi. Ma poi venne un regime forse ancora peggiore, oppressivo e integralista, come quello degli ayatollah. La rivolta delle giovani generazioni oggi in Iran è nonviolenta, pur rischiando la vita. È questa la vera rivoluzione?
La protesta di questa giovane generazione è una delle rivolte più belle e creative della storia persiana degli ultimi cinque-seimila anni. Hanno imparato dalla vecchia generazione che non possono ottenere nulla con la forza. Hanno fatto buon uso della memoria. Combattono a mani nude contro la più orrenda dittatura della terra. Il regime ha assassinato migliaia di persone della mia generazione, ma nessuno ne ha sentito parlare. Ma in questi giorni in giro per il mondo tutti sanno di quelle giovani donne che chiedono diritti e libertà per tutti. Ed è molto importante, è successo qualcosa di magico.

Il faraone d’Olanda è anche un romanzo sul desiderio di tornare a casa. È anche una sua aspirazione dopo tanti anni vissuti in Olanda, il Paese dove approdò come rifugiato nel 1988 e dove oggi è acclamato come uno dei più importanti scrittori?
Tornare a casa è una parte essenziale di noi, è una esigenza umana. A ben vedere è uno dei temi più autentici della letteratura mondiale. L’Odissea di Omero ne è un esempio. Anche Abdolah vuole tornare a casa. L’esilio è durato abbastanza. Quando è troppo è troppo.

«Donna, vita, libertà». «Via gli Ayatollah dal Paese siete il nostro Isis!», gridano gli studenti. Questa è una rivoluzione femminile e laica. È un fatto del tutto nuovo che avrà grandi effetti culturali sul Medio Oriente e in tutto il mondo?
Questo è un movimento moderno, creativo, vitale. È un nuovo passo avanti nel femminismo, alla maniera orientale. E avrà un grande impatto sulle giovani generazioni in tutti i Paesi. È un movimento rigenerante, senza sottomissione alla religione e al potere. È la voce naturale e indipendente delle giovani generazioni.

Il canto, la poesia, la musica, il cinema – che il regime ha sempre censurato – animano le proteste, sono fonte di resistenza?
I mullah non capiscono niente di arte, niente di cinema, pittura, canto e canzoni. Hanno familiarità solo con il lato materiale della vita umana. Vale a dire mangiare, riprodursi e dormire. Con il Corano in mano. Vedono l’arte, la letteratura, la musica e le belle donne indipendenti come un pericolo. È proprio con questi mezzi espressivi che gli artisti gli dichiarano guerra. Con la danza, il canto, il cinema, la scrittura e la bellezza.

Che cosa ci insegna la lezione di Rumi, l’antico poeta mistico persiano, a cui lei ha dedicato un libro da poco uscito in Olanda?
In tempi convulsi, di fretta e caos, abbiamo bisogno di pace e riflessione. Oggi dobbiamo prendere una certa distanza dal lato commerciale, meramente materialistico, della vita. Rumi è il rimedio giusto. Ci mette in contatto con noi stessi. Ci ricorda che siamo umani e non un prodotto. Rumi è il canto dell’umanità. E volevo raccontarlo agli olandesi, portarlo in dono.

Il movimento delle proteste non ha dietro un partito organizzato che possa ingaggiare una dialettica politica con il regime. Impiccagioni, violenze di ogni tipo, stupri colpiscono ogni giorno i giovanissimi manifestanti. Che fare per fermare il massacro e sostenere la rivolta? Quali scenari immagina?
Per ora non è possibile rovesciare questo regime. Sono pericolosi e armati. Torturano, stuprano, rubano, mentono, imbrogliano e uccidono. Ma i giovani hanno inferto loro un duro colpo. Purtroppo dobbiamo ancora sacrificarci molto e allo stesso tempo avere pazienza. Un passo alla volta.
Salam a coloro che sono morti in questa rivolta.
Salam a coloro che sono stati torturati.
Salam a coloro che sono mentalmente e fisicamente violentati.
Salam ai padri e alle madri che hanno perso le loro preziose figlie e figli in questa affascinante lotta di resistenza.

Chiara Volpato: Indagine sulle radici del sessismo

Chiara Volpato perché questa nuova edizione di Psicosociologia del maschilismo (Laterza), dopo la prima pubblicazione nel 2013?
Avevo finito di scrivere il libro nel 2012, esattamente dieci anni fa; nel frattempo è uscita nuova letteratura scientifica sull’argomento. In più, mi sembrava importante che il libro avesse una nuova vita perché in questo momento c’è una riflessione vivace su questi temi, che sta cambiando le cose. Ho aggiunto un capitolo intero sulle forme estreme del dominio. Nell’edizione precedente si parlava di oggettivazione e di violenza, ma la letteratura è cresciuta, la riflessione ugualmente, quindi ho pensato di dedicare più spazio a questi temi.

Lei apre il libro con un capitolo sulla “questione maschile” ricordando che gli studi sugli uomini inizialmente erano pochi rispetto alle ricerche sulle donne. La cito: «Essendo considerato prototipo dell’umano il genere maschile, allora le ricerche sono state più sui gruppi discriminati ma non sui maschi».
C’è stato un cambiamento a partire dagli anni Settanta-Ottanta del secolo scorso, che ha portato a riflessioni di cui si sono occupati studiosi uomini e donne.

Questo pensiero del maschile come “prototipo dell’umano” con cui tutte le altre categorie si devono confrontare, è una specificità della cultura occidentale?
Non sono un’antropologa, ma so che ci sono state delle culture nelle quali non c’era questa caratterizzazione. Però sono veramente minoritarie. Penso che, nella grandissima maggioranza delle culture umane, la definizione del maschile come prototipo dell’umano esista e sia potente.

Ci sono delle ipotesi sul perché?
Dagli studi emerge l’ipotesi che nella Preistoria, nelle culture di cacciatori e raccoglitori, non ci fosse subalternità femminile. Pare che i ruoli fossero distribuiti non tanto per genere quanto per età. Si ipotizza che i giovani partecipassero in maniera più o meno paritaria a procacciare il cibo, mentre le generazioni più anziane si dedicavano al lavoro di cura. La differenziazione che penalizza il femminile inizia probabilmente con lo sviluppo dell’agricoltura, quindi con il Neolitico. Lì viene introdotta la proprietà privata, vengono create le classi sociali, appaiono i ricchi e i poveri. E si crea anche la differenziazione tra maschile e femminile. La forza fisica maschile probabilmente ha fatto sì che gli uomini si occupassero della gestione militare e politica e le donne venissero relegate al lavoro di cura.

Lei descrive magnificamente l’iter del concetto di “vero uomo” nella cultura occidentale.
Ritengo che i ruoli sociali e quindi anche i ruoli di genere siano delle costruzioni storiche, cambino quindi a seconda delle epoche. Dall’Ottocento in poi, assistiamo a vari mutamenti, a momenti di ripensamento, di “crisi del maschile”, ma secondo un andamento non lineare. Nel corso del Novecento – soprattutto in concomitanza con le Guerre mondiali – si sono verificati anche dei momenti di recupero della visione maschile tradizionale. Poi, i movimenti degli anni Sessanta, soprattutto quello femminista, hanno cominciato a creare delle incrinature. Penso che ci troviamo tuttora all’interno di questa prospettiva, anche se, negli ultimi anni, assistiamo a preoccupanti recuperi del modello maschile tradizionale. Ci sono movimenti di contrattacco e ritorsione nei confronti della nuova autonomia femminile e figure politiche che li hanno incarnati, come Donald Trump negli Stati Uniti e Bolsonaro in Brasile.

Prima di Donald Trump c’era Barak Obama, che per certi versi proponeva un’altra immagine di uomo, sempre legato al potere ma con un atteggiamento più empatico, almeno a livello personale. Personaggi come Trump sono la reazione a quest’altro tipo di mascolinità?
Penso che Trump incarni una reazione sia ai nuovi modelli del maschile, sia a tutta una serie di cambiamenti sociali in atto. Interpreta una parte della società che, a mio avviso, guarda indietro invece che avanti.

Apprendiamo dal suo libro che in psicologia sociale si adopera costantemente il concetto dei Big Two, due caratteristiche che notiamo subito negli altri, distinguendo cioè tra il fattore della communality, attribuito alle donne, e la agency che sarebbe un po’ il compito e il nucleo dell’identità maschile.
Questa però non rispecchia la realtà oggettiva delle cose. È l’interpretazione stereotipica: il nucleo di credenze stereotipiche fa sì che alla donna vengano attribuiti i tratti collegati con la capacità di entrare in empatia con gli altri, di relazione, di calore. E all’uomo, invece, i tratti legati all’agency, al muoversi nel mondo, alla forza, alla conquista, al potere. Le cose oggi stanno cambiando, perché l’immagine femminile non è più quella tradizionale. È un’immagine più variegata, più complessa, caratterizzata anche da una serie di ambivalenze. Questa nuova immagine femminile suscita i contrattacchi e le ritorsioni della “mascolinità risentita”.

Nel libro ci sono pagine molto efficaci sulla difficoltà degli uomini di corrispondere allo stereotipo del “vero uomo”. La loro socializzazione in questa direzione appare quasi più difficile della socializzazione femminile e passa, così lei scrive, attraverso i legami tra uomini, il male bonding.
Questi legami profondi tra uomini sono molto importanti nella socializzazione maschile. Credo che contribuiscano anche a un certo maschilismo, perché l’uomo deve diventare tale di fronte agli altri uomini. Non può perdere la faccia, non può comportarsi “da femminuccia”. Pensiamo, per esempio, a tutto il discorso militare, come è stato e come è tuttora, perché le guerre esistono ancora ed esiste tuttora una certa mentalità militare da macho. Il “vero uomo” non deve avere tratti femminili e deve reprimere tutto ciò che può far interpretare il suo comportamento come incline all’omosessualità. La costruzione dello stereotipo tiene sempre presente l’allontanamento da questi due aspetti: dal femminile e da tutto ciò che non è eterosessuale.

Allora, una donna è tale perché viene considerata “femminile”, desiderabile e valida dagli uomini. Mentre gli uomini non devono essere confermati nella loro identità dalle donne, ma dagli altri uomini?
Certo, nella visione tradizionale sono gli uomini a decidere cosa è valido sia per se stessi sia per le donne. Si tratta di una costruzione per opposizione, per divaricazione tra i tratti tipici femminili e i tratti tipici maschili.

Lei riporta una serie di studi secondo cui la supremazia maschile non è indolore nemmeno per i diretti interessati.
La supremazia maschile comporta un prezzo molto alto che per tanto tempo è stato sottovalutato. Se si costruisce il militare come paradigma del “vero uomo”, non si può lasciare spazio all’emotività, alla tenerezza, alla confidenza. Le amicizie maschili sono soprattutto amicizie del fare, mentre quelle femminili sono amicizie basate sulla confidenza, caratterizzate dal disvelamento. Gli uomini pagano il non potersi aprire all’altro in termini di salute psicologica e fisica. Vi sono molte malattie, o difficoltà a far fronte alla malattia, che colpiscono più gli uomini che le donne. Su questi piani gli uomini hanno meno risorse. La costruzione di un’identità forte, tutta d’un pezzo, corrazzata li rende più deboli di fronte ad alcune difficoltà esistenziali.

Descrivendo invece gli stereotipi di genere relativi alle donne, lei annota che non esiste soltanto il noto stereotipo del disprezzo, basato su una presunta inferiorità femminile, ma anche altri stereotipi.
Esiste una specie di tassonomia degli stereotipi che ne prevede quattro tipi tra cui quelli di ammirazione e di disprezzo. Il disprezzo nei confronti delle donne era molto presente nell’antichità, ma lo troviamo anche oggi. Lo stereotipo di ammirazione nei loro confronti è invece molto raro, perché di solito il pregiudizio di ammirazione si prova nei confronti dei gruppi sociali favoriti, e le donne, per definizione, non lo sono. Però, verso le donne si trova il cosiddetto women wonderful effect, che le definisce meravigliose. Si tratta di una maniera di lodare il loro essere stupende nelle relazioni e nella cura – con l’obiettivo però di mantenerle al posto loro assegnato. Quindi, anche questo non può essere interpretato come uno stereotipo di ammirazione.

Un filo rosso che attraversa tutti i suoi libri è l’indagine sui motivi che fanno sì che le categorie oppresse siano d’accordo con la loro discriminazione. Che si considerino, in qualche modo, giustamente non considerate alla pari.
C’è spesso un’accettazione del ruolo subalterno perché può essere comodo. È difficile essere sempre allerta, in uno stato di ribellione. Allora si accetta il sessismo benevolo, quell’atteggiamento che dice “sei una persona meravigliosa, che però ha bisogno della protezione maschile”. C’è l’accettazione della complementarietà dei ruoli, sia nelle relazioni private che nel lavoro in cui spesso le donne accettano di stare un passo indietro. Anche per motivi oggettivi, perché hanno bisogno di spazio per l’affettività, il lavoro di cura, la maternità. A volte c’è lucidità nell’attuare questa collusione; a volte invece le donne la attuano in modo inconsapevole, magari prendendone coscienza solo anni dopo. L’ho visto succedere ad alcune studentesse. Gli anni dell’università sono anni importanti per le scelte che richiedono, che sono spesso scelte di vita sul piano affettivo e su quello del lavoro. Spesso però non c’è molta consapevolezza o lucidità nel fare tali scelte.

Lei menziona anche limitazioni imposte dall’esterno, invisibili ma efficaci.
Ci sono degli indici oggettivi che ci dicono, sulla base dei numeri, che in effetti esiste il “soffitto di vetro” e il fenomeno della “conduttura che perde”. Le ragazze spesso sono le più brave all’università, ma poi incontrano difficoltà specifiche e rischiano di perdersi per strada. Qualche anno dopo la laurea, i posti migliori o più remunerati vanno ai loro compagni. Il mondo del lavoro è tuttora un mondo difficile per le donne.

Mi ha colpito quando lei parla della paura del successo da parte delle donne, di questa sensazione per cui si pensa “non devo emergere troppo, non sta bene”.
Ho trovato interessante uno studio secondo cui che le donne che hanno più successo del partner tendono a nasconderlo o a farsi perdonare cercando di essere iperfemminili nella gestione della casa e delle relazioni.

Tuttavia, ci sono stati cambiamenti enormi, come forse mai prima nella storia. Essi riguardano sia le donne che gli uomini?
Le ricerche hanno constatato che lo stereotipo femminile si è molto diversificato negli ultimi trent’anni. Non ha perso i tratti tipici femminili, ma ha acquisito anche tratti maschili, diventando più complesso. Questo è successo molto meno con lo stereotipo maschile. Teniamo però presente che stiamo parlando di stereotipi! Nella realtà, anche il maschile sta cambiando. Un’esperienza personale: ad agosto ho fatto un viaggio nella parte orientale della Turchia. Anche lì ho visto uomini che portano in giro i bambini in carrozzina. Ho notato cioè una certa vicinanza al figlio o alla figlia, che non penso tradizionalmente fosse così esibita e accettata socialmente. E anche lì si vedono molte donne che lavorano, che hanno cambiato il loro ruolo nella società.

Lei sottolinea più volte nel libro che arrivare a un superamento degli stereotipi di genere non favorisce solo le donne, ma è anche nell’interesse maschile.
Sì, perché va a beneficio di entrambi. Se queste visioni e questi ruoli cambiassero, non ne beneficerebbero solo uomini e donne, ma la società tutta, come provato da molte ricerche anche di tipo economico: le società in cui le donne hanno una partecipazione attiva alla vita economica e politica del Paese sono società che stanno meglio delle altre, decisamente meglio delle società in cui la partecipazione femminile è ridotta.

Un anno fa è finita l’era Merkel, in Italia abbiamo la prima presidente del Consiglio: sto parlando delle donne al potere. Anche lei pensa, come molti, che una volta al potere una donna si comporta esattamente come gli uomini?
Penso che sia difficile generalizzare. Alcune donne – l’emblema è Margaret Thatcher – sono andate al potere con delle strategie tipicamente maschili e con una visione tradizionale della società. In altri Paesi invece le donne arrivate al potere hanno cercato di portare una visione un po’ diversa basata sulla loro esperienza storica, che implica una maggior attenzione alla cura, alle relazioni, all’ambiente. Se ci pensiamo, anche l’attenzione all’ambiente ha a che fare con le relazioni di cura. È una cura per ciò che ci sta intorno… Però le donne al potere con questa visione sono poche, le troviamo soprattutto in alcune situazioni particolarmente favorevoli come nei Paesi del Nord Europa, Paesi ricchi e con una popolazione poco numerosa. Penso che le donne, per poter portare un cambiamento in politica, non devono essere sole. Possono innescare un cambiamento quando sono almeno in un piccolo gruppo, che permette di darsi forza e sostegno reciproco.

Storicamente parlando, quindi, piuttosto che la singola Thatcher o Merkel, è più significativo che nei Parlamenti – in alcuni Paesi – sono presenti sempre più donne?
Quando le donne sono un certo numero possono indirizzare la politica del Paese verso certi temi rispetto ad altri. L’attuale però non è un buon momento da questo punto di vista, perché con l’aggressione russa all’Ucraina, si è tornati a una visione più militarista della società.

Se in Russia e in Ucraina ci fossero più donne nel governo, la guerra non sarebbe scoppiata o sarebbe già finita?
Probabilmente sì. La guerra mi dà l’impressione di un ritorno al Medioevo. Ha innescato una contrapposizione militare e maschilista, che speravo non avremmo rivisto.

L’Italia come si colloca rispetto al superamento degli stereotipi di genere?
L’Italia continua a coltivarne molti. Nelle ricerche sul sessismo non si colloca bene, siamo tra gli ultimi tra i Paesi europei sia dal punto di vista degli stereotipi, sia da quello dei posti di lavoro. L’Italia non fa una politica per le donne. Non aiuta né promuove la maternità, non aiuta né promuove il lavoro delle donne. Pensiamo, ad esempio, alla carenza di asili nido.

A concludere il suo libro sono delle pagine veramente belle che non vorrei anticipare perché ognuno deve leggerle da sé. Ripeto solo la domanda che lei si pone lì: “Che cosa si può fare per migliorare la situazione”?
Oltre alla lotta politica, quello che le singole persone possono fare è avere maggiore attenzione. Resto sempre colpita dal fatto che spesso passiamo vicino alle cose senza vederle. Spesso non mettiamo in discussione i rapporti di collusione di cui parlavamo prima, un certo sessismo quotidiano, non particolarmente aggressivo, ma molto radicato, perché non lo vediamo. Secondo me, il primo lavoro da fare è imparare a vedere e a prendere in mano le cose, una volta che le abbiamo viste. Non vuol dire combattere 24 ore al giorno, ma tenere presente che un certo modo di vivere non è scontato e impossibile da affrontare. Lo diventa se lasciamo che sia così. Questo è il primo lavoro: vedere ed essere critici. E poi bisogna fare un lavoro di rivalutazione. A me pare che la cura – il Covid dovrebbe avercelo insegnato – che noi esseri umani possiamo prenderci l’uno dell’altro sia una delle cose più importanti e preziose della vita. Però è sempre stata sottovalutata, proprio perché attribuita al femminile. Non diamo abbastanza importanza né alla cura delle relazioni, né alla cura della persona sofferente, né alla cura dell’ambiente, aspetti molto vicini tra di loro. La cura delle relazioni e dell’ambiente nel quale viviamo è un valore fondamentale, il primo a cui una società dovrebbe porre attenzione. Il fatto che non lo sia costituisce un motivo di allarme: rischiamo di precipitare in una situazione molto pericolosa.

L’autrice: Annelore Homberg, psichiatra e psicoterapeuta, è presidente del Network Europeo per la Psichiatria Psicodinamica – Netforpp Europa

La festa degli “uomini liberi”

In Nord Africa, prima della conquista arabo-islamica del VII-VIII secolo d.C., e fino a oggi, gli Imazighen (conosciuti in Occidente come “berberi”) hanno sempre avuto cura della conservazione e della libera, cosciente e spontanea pratica dei loro usi e costumi, tra cui la festa agreste Yennayr (scritta in tifinagh ⵢⵏⵏⴰⵢⵔ). Celebrata a seconda delle regioni, Yennayr corrisponde al primo giorno di gennaio del calendario giuliano, di 13 giorni più indietro rispetto a quello gregoriano. Ma qual è l’origine di questa festa?

Cenni storici
Il primo anno di qualsiasi calendario corrisponde sempre a un fatto storico importante che ne giustifica la designazione. Se la scelta della nascita di Cristo, per il calendario gregoriano, o dell’Egira, per il calendario musulmano, appaiono evidenti, quella riferita all’anno dell’avvento di una dinastia amazigh nell’Antico Egitto, per la definizione di un calendario amazigh, è ancora poco conosciuta.
Questa festa corrisponderebbe alla presa del potere in Egitto da parte di Chachnak (Sheshong I, primo faraone berbero) e alla fondazione della ventiduesima Dinastia nell’anno 950 avanti Cristo.
ⴰⵙⴳⴳⵯⴰⵙ ⴰⵎⴳⴰⵣ 2973! Buon Capodanno 2973!
La celebrazione del Capodanno amazigh da parte delle popolazioni nordafricane perpetua una tradizione ancestrale legata a un valore identitario che riflette il forte rapporto intrattenuto da questa popolazione con la terra e le sue ricchezze. Questa festa mette in luce l’importanza del nuovo anno agreste e la forte simbologia che questo evento possiede all’interno del patrimonio culturale amazigh di tutto il territorio nordafricano. Orchestrata principalmente dalle donne, custodi del tempio della cultura amazigh, la celebrazione del Yennayr si caratterizza essenzialmente per le danze, gli yu-yu (tipico trillo che le donne esprimono sotto forma di grido di gioia), i canti di buon auspicio e la preparazione di piatti speciali. Fra questi, tagwlla (tipico impasto del sud del Marocco a base di mais cotto e burro, accompagnato da olio di argan e miele), frutta secca, cous-cous algerino con fave e pollo e ovviamente l’immancabile cous-cous marocchino dentro cui viene nascosto un nocciolo di dattero (a chi lo trova il titolo di “fortunato dell’anno”).
Il cous-cous marocchino è normalmente composto di sette varietà di verdure e altrettante di semi. La simbologia del numero (7) nella cultura popolare nordafricana è infatti ricorrente. Si riferisce all’abbondanza, alla fertilità e alla perfezione. I piatti e la cerimonia di Yennayr possono variare da regione a regione e da un Paese all’altro. Il loro punto in comune resta il valore simbolico e culturale di questa festa che celebra in abbondanza la terra e l’essere umano affinché l’anno a venire sia prospero. Celebrare Yennayr è un atto culturale e identitario fortemente sentito anche da parte della diaspora amazigh sparsa nel mondo intero. In Italia (Napoli, Roma, Milano e Torino), in Francia (Parigi, Marsiglia…), in Spagna (soprattutto nelle isole Canarie), addirittura negli Stati Uniti d’America e in Canada, numerose associazioni, università e individui non esitano a mostrare ogni anno l’attaccamento alle proprie radici e il rispetto verso le tradizioni dei loro antenati.

Imazighen: un popolo in perpetua resistenza
2973 anni di resistenza e di esistenza ancora in attesa di pieno riconoscimento hanno fatto sì che il motto degli Imazighen sia “piuttosto rompersi che piegarsi!”.
Ancora oggi, gli Imazighen, letteralmente “uomini liberi”, lottano per ottenere più diritti e un più ampio riconoscimento della loro identità. Sono il popolo autoctono del Nord Africa, tanto che la presenza della lingua e cultura amazigh in questa regione precede di molto l’arrivo degli arabi e dell’Islam. Dopo essere stati i padroni della loro terra per secoli e secoli, gli Imazighen sono stati oggetto di rilevante ostracismo sociale e culturale da parte dei governi formatisi attorno all’“arabità”. Un sistema di governo che ha calpestato i fondamenti della diversità culturale e del vivere insieme che da sempre caratterizzavano l’Africa del Nord. Ciò viene magistralmente espresso da un noto proverbio amazigh “ⴷⴷⴰⵏ ⴷ ⴰⴷ ⵏⵙⵉⵏ ⴰⵔ ⴰⴴ ⵜⵜⵏⵓⵢⵏ ⵉⵍⴴⵯⵎⴰⵏ” (Erano venuti solo per passare la notte e adesso eccoli che cavalcano i nostri dromedari).

In Marocco. Dal censimento nazionale del 2014, è emerso che più di un quarto (26,7%) dei marocchini utilizza almeno una delle tre varietà principali di berbero del Paese (la tarifit, la tamazight e la tachelhit). Nel 2011, la lingua amazigh è stata riconosciuta lingua ufficiale del Marocco accanto a quella araba. Nonostante questa importante vittoria, numerose voci hanno tuttavia richiesto maggiori diritti, tra cui la richiesta di ufficializzazione dello Yennayr quale festa nazionale e giorno di ferie d’importanza pari ai capodanni secondo il calendario gregoriano e musulmano.
È in quest’ottica che Ahmed Boukous, rettore dell’Istituto reale della cultura amazigh (Ircam) in Marocco, ha affermato che «il riconoscimento del nuovo anno amazigh è un diritto legittimo in perfetta coerenza con la linea politica del nostro Paese in materia di diritti culturali, consacrato d’altronde dalla Costituzione e dalle leggi afferenti alla promozione della lingua e cultura amazigh». Cosa aspetta ancora il Marocco, Paese col più alto numero di Imazighen al mondo, a fare questo passo in avanti, considerando inoltre che nel 2015 il nuovo anno amazigh è stato proclamato dall’Unesco patrimonio immateriale universale? Chissà se l’occasione giusta non possa arrivare quest’anno!

In Algeria. Qui ci sono più di 13 milioni di Imazighen, che rappresentano circa un terzo della popolazione totale. Dopo molte lotte e scontri contro il regime algerino, Yennayr (12 gennaio) è stato finalmente proclamato giorno di festa in tutto il Paese per la prima volta nel 2018.

In Tunisia. La questione amazigh in Tunisia prima del 2011, anno della Primavera araba, costituisce uno dei grandi tabù intoccabili del Paese. Tuttavia, da quell’anno la situazione è radicalmente cambiata: la società tunisina vive una vera e propria rinascita amazigh basata sulla denuncia di qualsiasi forma di negazione della propria specificità da parte dello Stato tunisino, che si identifica nella lingua araba e nella religione musulmana.
In Libia. Anche qui la situazione degli Imazighen è complicata e complessa. «Prima della rivoluzione libica del 2011, la celebrazione dello yennayr era interdetta», testimonia Amjed Said, attivista amazigh di Nefousa, località del nord ovest della Libia. Perseguitati sotto il regime del generale Mu’ammar Gheddafi, il quale ha sempre negato la loro esistenza, gli Imazighen hanno reclamato il diritto all’ufficializzazione della loro lingua e a un’equa rappresentanza alla partecipazione alle pubbliche istituzioni. Il cammino della resistenza e della lotta per i diritti identitari è parimenti lungo e tortuoso per gli Imazighen di Egitto, Mali, Niger e Burkina Faso.
Davanti al caos che il mondo attuale sta vivendo, l’Africa, e in particolare l’Africa del Nord, se desidera fortificarsi, deve ritornare alle sue fonti e alle sue radici, riconoscendo innanzitutto il patrimonio dei suoi antenati. Per ricordarci che ogni passo riuscito verso il futuro necessita di (ri)conoscenza e riconoscimento del passato, proponiamo un antico proverbio amazigh:
«ⵜⴰⵎⴰⵣⵉⵔⵜ ⵏ ⴽⴰ ⴰⵎ ⵎⵎⴰ ⵏⵏⵙ, ⴰ ⵄⵏⴷ ⴰⵙ ⵏ ⵡⵏⵏⴰ ⵜⵜ ⵉⵣⵔⵉⵏ»
(Tamazirt – termine polisemantico che può significare “la lingua”, “la terra” o “le origini” – è come una madre, maledetto chi l’abbandona!).

L’autrice: Sara Outamamat è dottoranda in Antropologia (Università di Fes, Marocco- Università degli studi l’Orientale Napoli)

 

La lotta tenace (e ignorata) dei berberi

Per il sessantennale dell’indipendenza algerina è stata emessa una moneta da 200 dinari che cita tre calendari: gregoriano, islamico e per la prima volta, anche quello amazigh. Ma al di là di questo fatto simbolico in Algeria, i berberi vivono una situazione tutt’altro che facile. Nel Paese che dal 1962 è ancora in cerca di democrazia i berberi sono più che mai nel mirino del potere e messi sotto processo. «Di recente sentenze di condanna molto pesanti sono state emesse nei confronti di militanti del Mak, il movimento per l’autodeterminazione della Cabilia. Ma in Italia non se ne parla», denuncia Vermondo Brugnatelli, docente di Lingue e letterature del Nordafrica all’Università Bicocca e presidente dell’associazione culturale berbera che ha sede a Milano.
La Cabilia è una regione berberofona delle montagne algerine che scende fino alla costa non lontano da Algeri, una zona dove le vessate minoranze locali sono in lotta da molti anni per il riconoscimento della propria identità. Il Mak nacque nel 2001 in seguito alla “Primavera nera” quando le forze di polizia algerine spararono e uccisero molte decine di giovani disarmati che protestavano contro le ingiustizie.

«Benché siano pacifici, democratici e spesso in prima linea nel richiedere democrazia e diritti umani i militanti del Mak sono stati additati come terroristi dal governo algerino», spiega l’autore di numerosi saggi di linguistica comparativa e di letteratura berbera. Di recente il presidente del Mak, il politico e musicista Ferhat Mehenni, che vive in esilio in Francia, è stato di nuovo condannato all’ergastolo in contumacia e nelle settimane scorse sono state comminate 49 condanne a morte di attivisti all’estero. «Le pene capitali per una moratoria potrebbero diventare ergastoli- dice Brugnatelli – ma il “messaggio” a loro rivolto in ogni caso è forte e chiaro: non mettete più piede in Algeria».
Professore perché di tutto questo in Italia non si parla? «Perché in generale da noi si parla pochissimo di Africa. E ora che l’Algeria è diventato un nostro importante fornitore di gas i nostri governanti fanno finta di non sapere quel che accade nel Paese. Anche i media tacciono».

In questo contesto una piccola, importante, finestra culturale si è aperta lo scorso novembre quando per Bookcity è venuto a Milano il leader del Mak, Ferhat Mehenni per parlare del libro La tortura di Henri Alleg ripubblicato di recente da Einaudi. Nel 1957, mentre infuriava la guerra in Algeria, Alleg era il direttore del quotidiano comunista Alger républicain che denunciava la violenta occupazione francese, simpatizzando con l’indipendenza algerina. Il giornale fu messo fuorilegge e lui, cittadino francese, fu costretto alla clandestinità. Per ottenere da lui informazioni sulla rete di contatti della resistenza, quando fu catturato, fu sottoposto ad ogni tipo di torture: waterboarding, elettroshock, ustioni in ogni parte del corpo. Miracolosamente Alleg riuscì a sopravvivere e a far uscire dal carcere un diario della atrocità che aveva subìto.

Uomo mite e amante dell’arte anche Farhat Mehenni è stato torturato, imprigionato una dozzina di volte e perseguito per aver creato con altri la Lega algerina per i diritti dell’uomo, ci racconta Brugnatelli che lo conosce da molti anni. Mehenni ha anche il merito di aver fatto conoscere la cultura berbera attraverso le sue canzoni negli anni 70 e 80. Più di recente ha arrangiato una toccante versione di “Bella ciao” in berbero, stimolato da suo figlio Ameziane che si era molto interessato alla storia della Resistenza italiana prima di essere assassinato, con un colpo di pugnale dritto nel cuore, mentre girava pacificamente per le vie di Parigi. «Molti pensano che sia stata una vendetta trasversale attuata da un killer professionista – rivela Brugnatelli-. Non hanno ucciso Ferhat ma suo figlio, perché per tutta la vita fosse piegato da questo dolore». Questa lunga e sanguinosa lotta per l’affermazione dell’identità berbera ha almeno portato dei frutti? «In Algeria un po’ alla volta hanno ceduto su molti punti», risponde il professore sottolineando l’importanza dell’azione non violenta che hanno portato avanti i cabili anche negli anni della guerra civile. «Mentre l’esercito faceva rappresaglie violentissime, i berberi nel 1994-1995 fecero lo sciopero della cartella. Tutti gli studenti della Cabilia persero un anno di scuola. La boicottavano dicendo: vogliamo la lingua berbera a scuola. Alla fine il governo militare ha ceduto e hanno cominciato a introdurre corsi di berbero». Poi il berbero è stato proclamato lingua nazionale e ufficiale in Algeria e in Marocco. «Anche se – precisa Brugnatelli – viene declinato in modo un po’ curioso in Costituzione: la sua ufficialità è regolamentata per decreto stabilendo quando e come usare il berbero. Quei decreti in Algeria non sono ancora arrivati. Mentre in Marocco sono arrivati dopo un decennio e sono ancora poco applicati.

Cosa è cambiato dunque? Quanto meno – risponde sorridendo – non ti arrestano più se ti trovano con un libro berbero in mano, come invece accadeva negli anni 80».
In Marocco cosa succede? Ci sono stati maggiori passi avanti? Chiediamo ancora a Brugnatelli cercando di mettere a fuoco un quadro più ampio, viste le tante nazioni che la cultura berbera attraversa. «I marocchini hanno un modo un po’ diverso di reclamare il proprio essere berberi rispetto agli algerini. Anche perché sono molto più numerosi. In Marocco, di fatto, gran parte della popolazione è di origine berbera». Anche durante i recenti, discussi, mondiali del Qatar si sono visti tifosi del Marocco con bandiere berbere: blu, verde e giallo e un carattere amazigh rosso sangue al centro. Segno che la cultura berbera e la lingua sono finalmente patrimonio nazionale marocchino? «Anche se formalmente la lingua berbera è riconosciuta come lingua nazionale e ufficiale la realtà è ben diversa – approfondisce il docente -. A gestire le scuole in Marocco sono perlopiù arabofoni. E non dimentichiamo che per tanto tempo il berbero era stigmatizzato come un dialetto da reietti». La parola araba barbar, del latino barbarus, significa berbero significa sia barbaro che berbero. E gli arabi hanno spesso ironizzato su questo. Perciò i berberi marocchini preferiscono dirsi Imazighen, “uomini liberi”.

Dunque, anche in Marocco, il riconoscimento procede con lentezza? «In Marocco il potere è accentrato nelle mani del re che ha creato l’Institut royal de la culture amazighe (Ircam) per evitare il malcontento dei berberi che hanno portato avanti le rivendicazioni, poco per volta senza scontri duri, accettando compromessi». Il risultato dello scontro, duro in Algeria e più modulato in Marocco, è che oggi sono molti di più i berberi alfabetizzati rispetto al passato e questo è stato di sprone allo sviluppo dell’editoria. «Anni fa quando mi capitava di trovare un libro berbero in Algeria lo compravo subito, perché erano libri rarissimi, auto prodotti da associazioni, di volontari – ricorda il docente e attivista -. Adesso l’offerta è molto più vasta, ci sono varie case editrici, si è creato per la prima volta un mercato. Il fatto che la lingua berbera abbia avuto la possibilità di essere letta e scritta ha cambiato le cose. Prima non esisteva neanche uno standard».

Abbiamo parlato di Algeria e di Marocco ma qual è la situazione dei Tuareg a cui si deve l’alfabeto Tifinagh? «È decisamente molto complessa: in quanto nomadi del deserto oggi patiscono molti confini imposti astrattamente». Il libro di Jean Clauzel L’uomo di Amekessu (L’Asino d’oro) ben descrive le traversie dei Tuareg dall’indipendenza suggerisce Brugnatelli. «Mentre i Paesi che si affacciamo sul Mediterraneo sono arabofoni, l’Africa subsahariana è multilingue, ma insegnarle nel deserto di certo non è semplice, mancano le infrastrutture, le scuole, manca tutto», risponde lo studioso, al quale chiediamo di dirci di più dell’alfabeto Tifinagh a cui fa riferimento la scrittura berbera: «Risale proprio alla scrittura Tuareg che si ritrova ancora nelle iscrizioni antiche, per esempio di Giugurta». Ma, precisa, resta un fatto nominale. «L’Ircam in Marocco ha dato come indicazione di usare quell’alfabeto per il berbero. Anche se di fatto in pochi lo usano veramente». Perché? «L’alfabeto latino era preferito dai berberi, ma stigmatizzato come l’alfabeto dei francesi colonizzatori dalle organizzazioni islamiche, che invece spingevano per l’alfabeto arabo. Ma i berberi l’arabo non lo volevano. Così – conclude Brugnatelli – si è arrivati a questa forma di compromesso, scegliendo l’alfabeto Tifinagh come simbolo identitario forte. Ma di solito i libri berberi in Marocco riportano i testi scritti sia in Tifinagh che in caratteri latini, perché si possa leggere senza stare a compitare lettera per lettera».

Benin, là dove si consumò l’Olocausto nero

Sembra un mare che medita, e rimugina, l’Atlantico tra Grand-Popo e Ouidah. Siamo sulla Costa degli Schiavi, nel Golfo di Guinea, in quel Benin da dove partivano le navi negriere gremite di donne, bambini, uomini catturati nelle foreste dagli sgherri dei potenti regnanti africani costieri al soldo delle potenze occidentali, pronti a soggiogare il popolo anche con le fandonie di “fede” del vudù, che in Benin è nato e ancora “opera” tra riti e fantocci, sacrifici e divinità di serpenti, di fuoco, di vento, di fulmini. Così questo mare che pensa, perennemente infuriato, non appare mai stanco di ripetere, col linguaggio delle sue onde e quella potenza che a stento ti permette di entrarvi, che proprio su queste rive dalla fine del ‘400 e per tre lunghissimi, insopportabili secoli, si è consumato il più grande orrore della storia dell’umanità. Ci avviciniamo al budello d’acqua che congiunge la laguna all’oceano, a Grand-Popo. Proprio da questo varco le canoe cariche di persone acciuffate come animali, incatenate, transitavano verso il largo. Pare di sentirle tutt’attorno, adesso, quelle grida, quelle voci, quei pianti. Ed è così, se ti fermi ad ascoltare. Li “vedi”, anche, se scavi negli occhi dei pescatori. Nei segni impressi sui loro volti mentre gettano, solitari, le reti in laguna. Cosma e Gabriel ci raccontano che fanno questa vita da sempre, che abitano nelle capanne a ridosso della spiaggia, che è una vita assai dura ma che è un dono tutte le volte quando prendono pesci e sfamano i loro figli. Oppure mentre, tutti assieme, a Ouidah, che fu “capitale” del commercio di uomini, quelle reti le tirano su, pesantissime, sotto il sole cocente, intonando canti antichissimi per darsi forza. La “schiavitù” sta ben scritta nei solchi sul viso che indicano la tribù di provenienza di gente che mai ha trovato riscatto. Che questo riscatto non lo cerca, impegnata com’è a sopravvivere. In realtà è una ferita, la tratta, e quei quasi quattro milioni di vittime che fece il black holocaust, l’olocausto nero, mai rimarginata. Al contrario di quanto si possa pensare in occidente, non affatto sepolta in biblioteca. Sta qui, presente, sanguinante. Basta dilatare la vista e l’udito.

«Noi uomini dominati di oggi/noi le forze della luce eterna/ Sotto il peso del mondo sfruttatore, ci accovacciamo ancora./Stiamo ancora camminando sotto il manganello…», scriveva non a caso Babou Paulin Bamouni (1950-1987), braccio destro di Thomas Sankara, il “Che Guevara” africano, presidente-rivoluzionario del Burkina Faso, che con lui fu assassinato, esortando a prendere coscienza, visto che «moriamo di fame/e di ingiustizia quotidiana». Perché se tra il grosso tronco di iroko dell’Albero degli Schiavi – in 12 milioni sono passati da qui, venduti all’asta sulla piazza, costretti a girarvici incatenati attorno, per dimenticare la terra che lasciavano per sempre – che sta al centro di Ouidah, il Museo della memoria (oggi in ristrutturazione) e la famigerata “Porta del non ritorno”, le catene ai polsi di quegli uomini sono visibili nelle rappresentazioni e tra i reperti di quella vergogna universale, ciò che impressiona oggi in Benin, dove a diluviare sugli “alluvionati” ci si è messa pure l’onda lunga della guerra in Ucraina, che ha fatto schizzare i prezzi di tutti i beni primari, sono le catene strette ai polsi del 49 per cento della popolazione che vive in assoluta povertà. Miseria che genera schiavitù, in una sequenza che potrebbe esprimersi con equazione matematica. A pagare le spese maggiori sono i bambini. Il Benin che abbiamo percorso è la terra dell’infanzia negata.

In questo Paese dell’Africa occidentale, ex colonia francese che confina con Nigeria, Burkina, Niger e Togo, dove il reddito pro capite mensile non supera, quando va bene, i 100 euro, le famiglie sul lastrico vendono, letterale, i propri figli al maggiore offerente. Un fenomeno complesso però. Estrema indigenza e fattori socio-culturali hanno contribuito alla degenerazione di pratiche tradizionali come l’affidamento dei minori, un’usanza da sempre radicata nel Paese. Pensiamo a quella tradizionale del Vidomegon, che in lingua Fon, quella che si parla, col francese, in Benin, significa “bambino affidato”. Rappresentava in tempi remoti un ammortizzatore sociale per le famiglie, oltre che una occasione per questi bambini di istruirsi o imparare un mestiere, ma si è trasformata in una forma di schiavitù da quando veri e propri cacciatori fanno da intermediari battendo villaggio dopo villaggio o le zone più degradate delle città, pagando pochi spiccioli e prelevando piccoli, soprattutto bambine, da affidare. In realtà da mettere a totale servizio dei padroni, senza ritorno. A chi andrà “bene” finirà nelle case dei ricchi, anche bianchi, senza possibilità di lamentela sotto ogni aspetto, anche sessuale. A chi andrà male, ma è una scelta difficile capire per noi tra le due mostruosità quale sia la peggiore, verrà spedito nelle piantagioni della Costa d’Avorio, o nelle fabbriche della Nigeria.

Sfruttati per pochi “franchi Sefa”, la moneta corrente, o addirittura senza un soldo, i bambini del Benin non hanno diritti. In testa quello di poter studiare. Metà della popolazione di giovani e giovanissimi non può permettersi di andare a scuola. Un dato impressionante. Sin da piccolissimi sfruttati per strada, nell’edilizia, nei campi. Oppure a spaccare pietre, come a Dassa, Colas, Bembereke. Li chiamano i concasseurs, letteralmente spaccapietre, costretti a faticare anche per dieci ore al giorno. Una vergogna mondiale, di cui nessuno parla, di cui nessuno forse sa. Siamo stati a trovarli questi piccoli schiavi a Paouignan. Un villaggio la cui non-vita è scandita dai ritmi del picchiare dei martelli sulle pietre di granito che i più grandi prelevano nelle cave a ridosso dell’abitato, e che ai bambini tocca ridurre in sassolini. Le famiglie venderanno questa ghiaia a piccoli e medi imprenditori edili che a Paouignan fanno affari evitando i circuiti industriali. Un quintale di pietruzze costa mille Sefa, ovvero 1 euro e 50. Per quel quintale un bambino si sveglia alle cinque del mattino e va avanti, con l’intervallo (miracoloso) della scuola, dalle 8 alle 15, fino a sera. Come il piccolo Prince, cinque anni, che troviamo a spaccare pietre con la sua “mazzetta” artigianale. La madre lo incita a proseguire anche quando si fa male accennando, invano, una richiesta di soccorso. Un inferno, come quello delle miniere di coltan e cobalto del Congo. Ma rispetto alle quali, nonostante apparentemente sia tutto assai meno sporco e violento, si respira un’aria ancora più surreale. Nativi concasseurs, senza via di scampo. Se non, come ci spiega il direttore della primaria, Essé Clement, il “miracolo”, appunto, della scuola, «dove vengono anche per riposare, perché il lavoro è gigantesco – dice Clement – a fronte poi di un guadagno ridicolo per questa gente. Tra l’altro la scuola è pubblica, ma gli viene chiesto di pagare di tasca propria tutto il materiale. Io non insisto perché so che soldi non ne hanno, e che quei pochi che fanno col lavoro dei bambini servono per mangiare. Batto però su questo, ma quando chiedo di farli smettere di spaccare le pietre loro mi rispondono che allora non potranno mandarli a scuola». Una spirale inconcepibile, non c’è via di scampo. Alcuni, spiega ancora Clement, se trovano come fare vanno via da questo villaggio di spaccapietre, quando sono più grandi. Si spostano verso la Nigeria già a 13 o 14 anni, da soli, in cerca di un lavoro come manovali o nei campi. Ma spessissimo l’unica prospettiva, se così si può definire, è l’odissea dell’attraversamento del deserto fino in Libia, e da lì sulle barche nel viaggio verso l’Europa.

È davvero un paradosso, ma ai 40 tra bambine e bambini ospiti di un orfanotrofio a Sakété, pochi chilometri a nord di Porto-Novo, che del Benin è la capitale politica, sembra invece andata meglio. Pur non avendo fuori dal recinto del “Saint Agustin” nessuno ad attenderli, questi piccoli hanno una speranza di riscatto. Intanto un tetto, un pasto, la scuola. Finanche un allenatore di pallone, il balsamo di tutti i poveri del mondo. Il loro coach si chiama Latifoe, 22 anni, il quale naturalmente sogna di venire a giocare in Italia, o di emulare, altrove, come tutti i giovani calciatori africani, le gesta del mito Mbappé, attaccante stellare del Paris Saint Germain e della Nazionale francese, la cui famiglia è originaria del Camerun. La carica dei quaranta bambini impara le regole del gioco, lui è pronto col fischietto. «Ma è soprattutto un modo per giocare», dice Latifoe. Anche Jean Rosè, un anno e mezzo, partecipa come può, tenta di acchiappare una delle palle col suo carrellino di legno costruito alla meno peggio per permettergli di camminare. Lui fu trovato in un angolo della foresta, sanguinante, da una donna che passava da lì per caso. Non cammina bene, e ha il braccio destro che non funziona. Ma è vivo. Jean Rosè, Seglà, François, Carlito, e tutti gli altri, trovano qui un po’ di giustizia anche con un pallone di cuoio tra i piedi o con un pezzetto di gateaux dolce. Nel Benin dove per milioni di bambini giustizia, e dolcezza, mancano da sempre. Come ci ricorda Zinsou, 72 anni, contadino di giorno, sarto dal tramonto, che incontriamo in uno dei villaggi più remoti della zona di Porto-Novo, nella grande foresta di Zongue. Un agglomerato antico, le case di argilla. I bambini nudi, bellissimi, fanno il bagno nelle tinozze, le donne sorridenti e gentili ci offrono da bere un po’ d’acqua che, come vuole l’usanza, tutti devono bere dallo stesso catino. Gli avi di Zinsou furono deportati, partirono da Ouidah. Le storie di quella tragedia gliele raccontavano i suoi nonni. «Mi dissero che fu una cosa terribile perché vennero presi e portati via con la forza da uomini malvagi», racconta. Ne soffre, dice, anche se non li ha mai conosciuti. Poi svela di fare spesso un incubo. Lui che si trova con tutti loro nella notte a camminare per chilometri, senza sapere quale sarà la meta.

Foto di Valerio Giacoia da Porto-Novo, Benin

«Rimuovere gli ostacoli» significa lottare per i diritti

Che fare se dopo 74 anni la maggioranza degli articoli della Costituzione nata dalla Resistenza non sono stati ancora attuati? Cominciamo dall’articolo 1: l’Italia fondata sul lavoro. Molti, soprattutto i più giovani non hanno un lavoro, tanti lo perdono, anche nel pieno della vita, moltissimi lo hanno precario, e quanti anche mal retribuito, in nero, sfruttati, non di rado in condizioni di sicurezza inaccettabili. Le morti sul lavoro chiamate orrendamente morti bianche. Senza lavoro non c’è nemmeno la dignità sociale. Vogliamo parlare poi dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge: soprattutto di genere, di razza, di censo e di condizioni personali e sociali. Figli di persone dello stesso sesso che non hanno diritti, migranti trattati peggio di merci che circolano invece con più diritti nel mondo, poveri esclusi dall’ascensore sociale. E anche davanti alla giustizia non poche volte si assiste all’ordine costituito, anche all’interno dello stesso ordine giudiziario, che agita la spada di ferro contro i deboli e poi impugna una spada di latta contro i forti. Ci dice qualcosa l’Italia una e indivisibile? Parliamone con le genti del Sud e delle aree interne e periferiche del nostro Paese dove la discriminazione territoriale è imperante. Ed invece di ridurre disuguaglianze, si risponde con l’autonomia differenziata, la definitiva botta all’unità nazionale. Con quali soldi si è fatta l’unità d’Italia? Chi ha dato il sangue nelle grandi fabbriche del Nord negli anni 60 e 70? Chi ha pagato il tributo più grande nella lotta al terrorismo e alle mafie?

Passiamo ora alle guerre. L’Italia ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. Le istituzioni italiane ci hanno portato in guerra senza proclamarla e con l’invio di notevoli armi convenzionali letali in Ucraina hanno disatteso uno dei principi fondamentali della Repubblica nata dopo la devastante Seconda guerra mondiale. Con l’aggravante che siamo un Paese a sovranità limitata, pur essendo il popolo sovrano, perché subiamo basi Nato e presenza di bombe atomiche senza che gli italiani si siano mai espressi su questo. Del principale diritto, quello alla pace e alla vita, non decidiamo liberamente.

La Repubblica, poi, promuove la cultura e la ricerca e tutela il paesaggio: direi che è sotto gli occhi di tutti come i fondi per la cultura e la ricerca ed i concorsi pubblici siano assolutamente insufficienti ed il paesaggio non è sempre tutelato, ma anzi spesso deturpato, martoriato, violentato. Il nostro ambiente richiamato in diversi articoli della Carta è considerato spesso luogo da consumare, depredare, sfruttare, invece che curare, difendere, valorizzare, amare. Per non parlare poi dello smantellamento di uno dei principali diritti umani: quello alla salute per ogni persona e, quindi, il dovere per le istituzioni di garantire in primo luogo una sanità pubblica, tendenzialmente gratuita e soprattutto efficace. Basta farsi un giro per il nostro Paese e rendersi conto come sia stata smantellata la sanità pubblica e come il diritto alla prevenzione, alla cura e alla salute non sia più garantito a tutte e tutti.

L’istruzione pubblica ad ogni livello, tutelata dall’articolo 33, è continuamente sotto attacco perché il disegno dell’ordine costituito è quello di conformare le future generazioni ad un modello classista ed aziendale che è l’antitesi della comunità educante aperta ad ogni individuo, con pari opportunità e con propensione ad accogliere sempre i più fragili per renderli non esclusi da un modello competitivo che rischia anche di annichilire le coscienze. Che dire poi di un modello neoliberista e predatorio, del turbo capitalismo del consumismo universale, che ha sovvertito anche gli articoli 41 e seguenti che mettono al centro la persona, i beni collettivi, la proprietà pubblica e poi quella privata, che non si tutela sempre ma a solo a determinate condizioni. Il modello dominante è sempre tutto invece incentrato sull’io, sull’avere, sul possesso, sulla depredazione dei beni comuni, estromettendo lavoratrici e lavoratori dalla partecipazione all’organizzazione economica e produttiva. Un modello privatistico, in cui tutto ha un prezzo, anche le persone. Il denaro non come mezzo per vivere con dignità, ma obiettivo di vita per la ricerca di una ingannevole felicità. Potremmo continuare a lungo, nel constatare come una Carta anziana sia in realtà ancora una bambina che non si vuol far crescere. Si potrebbe, infatti, continuare parlando dell’attacco politico alle funzioni democratiche di garanzia, come magistratura e media, così come di leggi elettorali incostituzionali, di assetto verticistico dello Stato contro i luoghi della partecipazione, di esercizio di cariche pubbliche ed istituzionali senza disciplina ed onore ed in contrasto alla stessa Costituzione.

Se, quindi, la Costituzione viene svuotata con leggi ordinarie, violata con prassi e condotte, elusa, tradita, che può fare il popolo, che ricordiamolo è sovrano come statuisce l’articolo 1? I Costituenti, che hanno scritto la Carta dopo la guerra, l’orrore fascista e nazista, i crimini di Stato, le leggi razziali, hanno ipotizzato che potesse accadere nuovamente nel futuro che i principi fondamentali della Costituzione potessero essere disattesi, proprio dai poteri, e quindi hanno scolpito come un monumento giuridico l’articolo 3, secondo comma. Che cosa è scritto in questa Carta laica che è ai vertici della gerarchia delle fonti del diritto e, quindi, ogni norma subordinata deve essere interpretata in maniera costituzionalmente orientata? È scolpito che se ci sono ostacoli di ordine economico e sociale – e quanti ce ne sono stati in questi decenni -, se è limitata la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, se è impedito il pieno sviluppo della persona, noi di fronte a questa dura realtà abbiamo un’arma costituzionale.

Di fronte ad un Paese senza giustizia economica, sociale ed ambientale, un’Italia in cui per progresso e sviluppo si è inteso minare il rapporto tra uomo e natura fino al punto di spezzarlo, noi non abbiamo solo il diritto di ribellarci a questa ingiustizia prodotta da modelli normativi ed economici apparentemente legali ma ingiusti, abbiamo il dovere. Noi come Repubblica, abbiamo il compito di rimuovere gli ostacoli che impediscono tutto questo. Recita l’inizio del comma: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli». Compito, quindi dovere, impegno, obbligo. Repubblica, quindi noi tutti. Altrimenti il Costituente avrebbe parlato di istituzioni, invece si rivolge alla Res publica, alla polis, al popolo, a noi. Rimuovere gli ostacoli. Riflettiamo sul verbo, non è un verbo giuridico, istituzionale, politico in senso stretto. È un verbo militante, di lotta, di ribellione, di insorgenza. Alzarsi e lottare per i diritti. Scuotere indifferenze. Rimuovere gli ostacoli è azione di lotta militante a tutti i livelli: nella vita individuale ed associata, nel lavoro, nelle scuole e nelle università, nelle istituzioni. Di fronte alle ingiustizie perpetrate con la legalità formale e l’ordine costituito c’è bisogno dell’impegno di individui e masse nell’attuazione della Costituzione, rimuovendo gli ostacoli con una rivoluzione etica e culturale in primo luogo, pacifica e non violenta, ma che arrivi a colpire il disegno eversivo che sta da decenni avvelenando la nostra bellissima Carta costituzionale. La Costituzione non è un libro da spolverare ogni tanto con retorica e per far magari pulire la coscienza a custodi infedeli, ma un manifesto per la giustizia che, se attuato, può anche realizzare il diritto alla felicità.

L’autore: Luigi de Magistris, ex magistrato ed ex sindaco di Napoli, è il portavoce di Unione popolare

Il dissenso è giovane

«Come studenti e come giovani pensiamo sia un dovere dissentire, perché l’alternativa esiste ed è nostro compito proporla e portarla avanti». È una frase del comunicato del collettivo del liceo Virgilio occupato, Roma, 5 dicembre 2022.
Milano, 27 settembre 2022, comunicato del collettivo politico Manzoni dopo due giorni di «occupazione simbolica»: «Non crediamo più all’idea di una scuola distaccata e lontana da ciò che accade all’esterno di essa; la scuola ci appartiene ed è il mezzo che riteniamo più consono per manifestare il nostro dissenso rispetto al contesto politico e sociale del nostro Paese». Ancora Roma, assemblea del liceo Socrate occupato, 13 dicembre 2022: «La condizione che noi studenti ogni giorno viviamo sulla nostra pelle è ormai insostenibile. A livello nazionale si è giunti all’affermazione di un nuovo governo di destra, ultraconservatore e reazionario che non farà altro che proseguire le politiche elitarie portate avanti dai governi precedenti e garantire gli interessi delle classi più abbienti».

Questi sono solo tre flash, ma la fotografia complessiva del movimento di protesta che attraversa le scuole italiane è variegata, multiforme e costante, visto che le mobilitazioni si protraggono da oltre un anno. C’è da dire che le occupazioni tra novembre e dicembre 2022 hanno interessato soprattutto Roma, e anche Firenze, secondo quanto riportano le cronache. I media mainstream perlopiù si sono concentrati sui fatti. Qui ci interessa comprendere il senso di questa rivendicazione del “diritto al dissenso” accompagnata da idee e proposte per la scuola da parte di studenti che si sono auto organizzati in collettivi autonomi o che portano avanti progetti di riforma all’interno di sindacati studenteschi. Il vissuto è lo stesso, in un contesto politico mai verificatosi prima nella storia della Repubblica. Tutti poi hanno alle spalle due anni di pandemia, di restrizioni, di problemi dovuti alla Dad, compreso l’aumento del disagio psicologico, evidenziato da studi e sondaggi. Alla fine del 2021 le proteste scaturite nel segno del diritto allo studio in epoca di didattica digitale avevano coinvolto moltissimi istituti, culminate a inizio 2022 con la mobilitazione di massa contro l’alternanza scuola lavoro, dopo la morte, il 21 gennaio, del giovane Lorenzo Parelli durante il suo ultimo giorno di stage. Proteste che a Roma, al presidio del movimento La lupa al Pantheon, finirono con le cariche violente da parte della polizia. Questi due anni hanno lasciato il segno. E poi c’è stata la guerra. E poi ci sono state le elezioni…

Nei documenti degli studenti si respira a pieno questo clima. Sono testi che denotano ricerca, approfondimenti, critiche acute ma anche una visione di scuola e società diverse da quelle proposte dal pensiero dominante. Il decreto anti-rave, tra i primi atti del governo Meloni, è visto come un attacco all’esigenza di socialità di una generazione che «si trova costretta in un sistema di omologazione di massa» e che rifiuta i confini imposti degli spazi consumistici delle discoteche «opprimenti ed elitarie», si legge nel documento del Virgilio. La politica economica del governo di centrodestra è passata al vaglio e criticata: «Abolire il reddito di cittadinanza significa costringere una parte di popolazione a un peggioramento effettivo delle loro condizioni di vita. Crediamo in una società diversa, che garantisca a tutti una vita dignitosa», scrivono gli studenti del Socrate. E poi vengono messi in evidenza l’attacco ai diritti civili e le discriminazioni nei confronti delle donne e delle persone Lgbt. «Anche sull’immigrazione dimostrano una completa mancanza di sensibilità umana ed una sprezzante xenofobia», sostengono gli studenti del Virgilio. E naturalmente vengono respinte le scelte politiche (compresi i tagli ai finanziamenti) in materia di scuola: «Siamo vittime di un sistema scolastico che valuta noi studenti come individui su cui fare profitto, non tutela il nostro diritto allo studio e non permette di esprimerci al meglio» si legge nel documento del Socrate. La richiesta, sottolineata più volte, è quella di «una formazione culturale e personale». Di una scuola che prenda finalmente in considerazione le esigenze dei ragazzi e delle ragazze, le fragilità psicologiche, l’educazione sessuale, i diritti. E di una scuola che non diventi una sorta di agenzia interinale: chiedono quindi di abolire o ripensare la misura renziana dell’alternanza scuola lavoro – diventata nel 2018 Pcto (Percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento). Nel 2022, ricordiamo, dopo Lorenzo Parelli, altri due ragazzi, Giuseppe Lenoci e Giuliano De Seta, hanno perso la vita durante uno stage.

Se i governi precedenti (di centrodestra e di centrosinistra) avevano deluso le aspettative degli studenti, ora l’esecutivo Meloni rappresenta ai loro occhi un ulteriore e pericoloso passo indietro. Il ministro Giuseppe Valditara, «uno dei maggiori responsabili della disastrosa riforma Gelmini», ormai si è guadagnato l’appellativo di “ministro del merito e dell’umiliazione”, con il chiaro riferimento alla sua uscita pubblica sull’educazione appunto, “come umiliazione”. Parole che restano indelebili. Dal centrodestra comunque è un fiorire di proposte sui “metodi educativi” per i giovani: il presidente del Senato La Russa per esempio ha rilanciato la sua vecchia idea della mini naja: un periodo di 40 giorni con l’incentivo, per i volontari, di punti in più alla maturità e alla laurea.

Di fronte a questo scenario politico si muove un universo studentesco fatto di sigle diverse, di sindacati, di reti provinciali e nazionali e di collettivi autonomi. E che manca, anche per difficoltà oggettive, di un coordinamento più esteso. «Il coordinamento più ampio è sempre auspicabile, viviamo la stessa scuola, i problemi, se non per qualche differenza territoriale, sono gli stessi», dice Dario del collettivo politico Manzoni. Al liceo di Milano l’occupazione è arrivata il 26 settembre, subito dopo le elezioni. «Le motivazioni sono state varie: la questione dell’alternanza scuola lavoro per noi è stata cruciale. All’indomani della morte di Giuliano abbiamo organizzato un corteo interno, poi c’era stata la situazione disastrosa delle Marche e quindi volevamo riportare l’attenzione sulla questione climatica. Ma il governo Meloni, diciamo, è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso». In alcune occasioni il movimento multiforme si ricompatta. Il 18 novembre scorso lo sciopero degli studenti promosso dal sindacato studentesco Uds con gli universitari di Link e Rete della conoscenza con lo slogan “Ora decidiamo noi!” ha portato in 80 piazze in tutta Italia 150mila studenti. Alla protesta hanno partecipato, tra gli altri, l’Osa (Opposizione studentesca alternativa), la Rete degli studenti medi, la Rete studenti Milano, che è il coordinamento dei collettivi studenteschi. Infine, il 20 dicembre a Roma il movimento Lupa scuole in lotta ha manifestato davanti al ministero dell’Istruzione e del merito in viale Trastevere.

L’Uds intanto ha organizzato dal 10 al 12 febbraio l’assemblea nazionale a Roma sul tema della rappresentanza e della partecipazione studentesca. È il secondo appuntamento dopo gli Stati generali della scuola che a febbraio 2022 videro la partecipazione anche, tra gli altri, di Flc Cgil, Action Aid, Priorità alla scuola. Il risultato fu il Manifesto nazionale della scuola pubblica con i 5 pilastri della riforma: legge nazionale sul diritto allo studio, abolizione dei Pcto in favore dell’istruzione integrata, potenziamento delle rappresentanze studentesche, garanzia della salute, sicurezza e benessere psicologico e un nuovo Statuto degli studenti e delle studentesse. Ripartire dalla partecipazione serve per aumentare la consapevolezza e l’azione degli studenti, soprattutto in un momento in cui non si sentono rappresentati dai partiti? «È un obiettivo necessario – risponde Lucas Radice dell’Uds Lombardia -. L’attuale modello di rappresentanza è stato svuotato del suo senso politico e invece essere rappresentanti all’interno della scuola vuol dire cercare di rispondere alle esigenze degli studenti e cercare di risolvere condizioni di disagio». Gli strumenti ci sono, andrebbero resi più efficaci, continua Lucas: raddoppiare il numero dei rappresentanti di istituto e anche ridare vigore al comitato studentesco (costituito da tutti i rappresentanti di classe e quelli di istituto). Il diritto allo studio è un altro nodo cruciale. Michele Pintus, Uds Cagliari, parla del problema dei trasporti in Sardegna, tra i motivi anche della forte dispersione scolastica, del diritto all’inclusione per studenti con disabilità, di edilizia scolastica disastrata. «La voce degli studenti deve farsi sentire. Ci sono sì le assemblee di istituto, ma in realtà in molte scuole gli spazi vengono negati. Molti presidi e docenti sono ancora coinvolti nella paura per il Covid e così ci ritroviamo chiusi in questa paura e non riusciamo a esprimerci». Riportare l’assemblea d’istituto ad essere «uno strumento collettivo per fare politica» è anche ciò che ribadisce Morena Luberti, Uds Chieti, che racconta come il 18 novembre gli studenti abruzzesi abbiano espresso le loro rivendicazioni che poi verranno presentate alla Regione per definire una legge regionale sul diritto allo studio.

Tullia Nargiso, dell’esecutivo della Rete degli studenti medi del Lazio, parla di un altro nodo cruciale. «Questi primi mesi di governo – dice – ci stanno dimostrando che non esiste l’intenzione di mirare al futuro delle nuove generazioni, sia dal punto di vista della transizione ecologica che per la politica che stanno portando avanti, anche riguardo, per esempio, al bonus cultura. Puntano poi sullo sport ma non sulla risoluzione del disagio psicologico che resta un problema molto sentito da noi giovani». La Rete degli studenti medi con lo Spi Cgil e l’Unione degli universitari nel 2021 ha condotto l’indagine Chiedimi come sto coinvolgendo 30mila giovani. «Nove studenti su dieci dichiarano di soffrire di ansia o comunque di disagio psicologico e il bonus psicologo non riesce a rispondere alle domande presentate. Noi vorremmo che fosse completamente rivisto il Cic, lo sportello salute all’interno delle scuole».

Infine, la scuola vissuta come bene comune da difendere, luogo della «comunità studentesca unita». Il 3 dicembre, racconta Gaia del collettivo politico Galeano del liceo Socrate, un temporale ha provocato l’allagamento di alcune aule e un blackout elettrico. Episodi del genere non sono nuovi nell’istituto romano. Gli studenti hanno deciso di occupare la scuola. «La nostra azione non era di critica al preside o al consiglio d’istituto – racconta -, ma voleva essere più ampia. Così siamo andati a parlare con il consigliere dell’edilizia scolastica di Città metropolitana». È stato aperto un tavolo con le istituzioni, gli studenti hanno ricevuto assicurazioni sull’inizio dei lavori di manutenzione. E intanto durante l’occupazione si sono svolti i corsi decisi dai ragazzi: incontri con un’associazione di ritorno dalla Striscia di Gaza, con il movimento disoccupati 7 novembre di Napoli, e poi cineforum, poesia e disegno. «Ci siamo focalizzati – conclude Gaia – su un’idea di scuola che fosse diversa dal solito e che comune proponesse attività culturali. Abbiamo un po’ immaginato l’idea di scuola che piace a noi».

Nella foto: Manifestazione degli studenti, Roma, 18 novembre 2022 (foto di Renato Ferrantini)

Non c’è più religione

La notizia ha fatto il giro del mondo: la maggioranza degli inglesi e dei gallesi non si dichiara più cristiana. Secondo i risultati dell’ultimo censimento, in dieci anni i cristiani sono infatti scesi dal 59% al 46%. Per contro, i “senza religione” sono saliti dal 25% al 37%. In Galles è addirittura già avvenuto il sorpasso: 47% contro 44%.
Ma per capire cosa sta succedendo non c’è bisogno di recarsi nella cittadina di Caerphilly, dove i “senza religione” sono il 57%. Perché il fenomeno non è soltanto locale. In Irlanda del Nord, dove le identità religiose sono storicamente fortissime e hanno provocato conflitti cruenti, dove persino agli atei viene chiesto se sono protestanti o cattolici, i “senza religione” hanno raggiunto il 17,4%. Nell’Irlanda repubblicana l’ultimo censimento risale al 2016, e i “senza religione” erano già arrivati al 10%, quasi raddoppiando rispetto alla precedente occasione, mentre i cattolici avevano toccato il minimo storico, il 78%. Secondo i sondaggi le distanze si sono già ulteriormente accorciate, soprattutto in seguito alle innumerevoli notizie di crimini di pedofilia clericale.

Quanto accade in Irlanda sta accadendo anche in Polonia, dove nel 2021 il governo nazionalista ha approvato una legge che vieta quasi totalmente l’aborto. Ha ottenuto l’aperto plauso delle gerarchie ecclesiastiche, ma poi i non credenti hanno superato il 10%. Per i vescovi wojtyliani, le proiezioni future sono catastrofiche: soltanto il 9% dei giovani giudica positivamente la Chiesa. Irlanda e Polonia non sono Paesi come quelli scandinavi, disincantati da decenni. Sono realtà in cui il cattolicesimo rimane estremamente pervasivo. Eppure sembra ugualmente che possano crollare da un momento all’altro.
Non diversamente vanno le cose oltreoceano. Il Canada, confermando la sua propensione europea, nell’ultimo censimento ha visto i “senza religione” crescere al 34,6% (dal 23,9% del 2011 e dal 16,5% del 2001). Ciò che si sta verificando negli Usa era invece assolutamente imprevisto fino a pochi anni fa, quando sembravano costituire la miglior smentita all’inevitabilità della secolarizzazione: il Paese più ricco al mondo presentava altissimi tassi di devozione. Non è più così. Nel 2022 i “senza religione” hanno conseguito anche negli States il loro record (29%), percentuale che nella generazione Z (i nati tra il 1997 e il 2012) raggiunge addirittura il 47%, e in cui per la prima volta sono le giovani sorpassano i giovani. Quasi a ribadire quanto sia roseo l’orizzonte dell’incredulità.

Ma la tendenza è osservabile anche in società meno agiate come il Messico, in cui nell’ultimo censimento i “senza religione” sono risultati essere l’8,1%. E la presa di distanza dalla religione si riscontra pure in Paesi a maggioranza islamica. In Turchia si stima che il 40% della popolazione sia ormai non praticante e il 10% non sia credente. In Iran la maggioranza ha smesso di pregare, e secondo l’organizzazione Gamaan (con sede in Olanda) quasi la metà degli adulti è considerabile “senza religione”, nonostante l’impossibilità di condurre sondaggi imparziali – e questo accadeva prima della rivoluzione in corso. Soltanto in Africa la religione resta apparentemente inossidabile. Anche nel continente più povero vengono però alla luce i non credenti: associazioni di undici Paesi diversi aderiscono a Humanists international.

E in Italia? Sono decenni che i censimenti non pongono domande sulla religione, per cui occorre affidarsi a sondaggi e inchieste. Da una di esse risulta che i cattolici si sono ridotti a due terzi della popolazione, che la maggior parte di essi sono sedicenti tali (perché che non vanno praticamente mai a messa) e che il numero delle religioni di minoranza cresce più velocemente dei loro fedeli. Esiste invece un 30% di connazionali che non crede in dio: solo venticinque anni fa erano il 10%. Sono evidenze scaturite da una ricerca del sociologo Franco Garelli, finanziata dai vescovi italiani (le trovate nel libro Gente di poca fede, Il Mulino edizioni).
Anche nel nostro Paese sono soprattutto i giovani a dichiararsi atei e agnostici – al punto che Armando Matteo, un sacerdote molto stimato da Bergoglio, ha intitolato un suo libro La prima generazione incredula.

Un fenomeno mondiale, dunque. Quali le cause? Storicamente, l’incredulità è emersa quando gli individui hanno raggiunto livelli dignitosi di benessere, istruzione, libertà di espressione e sicurezza esistenziale. Una volta potevano riuscirci soltanto gli appartenenti alle élite. Se oggi assistiamo a un’accelerazione senza precedenti e l’ateismo sta diventando un fenomeno di massa, è perché queste situazioni si sono estese a larghi settori della società. Dichiararsi atei perlopiù non espone più a roghi e decapitazioni (anche se in dieci Stati la pena di morte è ancora in vigore), mentre internet è stata ed è un formidabile propellente per uscire allo scoperto e conoscere altre persone che la pensano allo stesso modo. Per di più, una volta che si è avviato il meccanismo, pare proprio che sia difficile tornare indietro (se non attraverso la repressione): i bambini cresciuti in famiglie non credenti tendono, salvo rare eccezioni, a diventare adulti non credenti. L’incredulità di massa ha tassi di trasmissione intergenerazionale ormai superiori a quelli delle religioni predominanti.

Come se non bastasse, anche le religioni sembrano aiutare il proliferare delle apostasie. La fede sta diventando una convinzione diffusa prevalentemente tra anziani che alle nuove generazioni parla sempre meno, o non parla affatto.
Ma i leader religiosi continuano come se niente fosse a giudicare gli esseri umani secondo criteri dogmatici di bene/male, giusto/sbagliato, lecito/vietato, mostrandosi sempre più lontani da una realtà che è fatta di sensibilità e opinioni in divenire, in particolare sugli aspetti legati alla sessualità. Ratzinger, da questo punto di vista, è stato soltanto il caso più eclatante. Ma non è che con Bergoglio la Chiesa cattolica si sia risollevata: si è rivelato un simpatico influencer incapace di far aumentare l’affluenza ai rituali celebrati dai suoi subalterni. Anche la testardaggine con cui le Chiese cristiane continuano a non affrontare gli scandali che le colpiscono non le aiuterà a risollevare il gradimento.

Ma c’è un’ulteriore ragione che sembra allontanare sempre più persone dall’appartenenza religiosa: i legami troppo stretti con la politica. Talvolta una politica incomprensibile (la Chiesa anglicana che ha come capo il monarca, e conta ventisei vescovi nella Camera dei lord), talvolta una politica liberticida: dall’alleanza del governo polacco con una Chiesa tradizionalista alla Corte suprema Usa che vieta l’aborto in nome del fondamentalismo cristiano, dal sultano islamista Erdoğan al potere in Turchia al regime iraniano degli ayatollah.
Anche in Italia abbiamo adesso un governo tanto, troppo nostalgico di un cattolicesimo vecchio stampo, più arcaico persino di quello democristiano degli anni Cinquanta. Ma i vescovi lasciano fare, privilegiando i supremi interessi della propria azienda. Potrebbero pagare carissimo tale scelta. È uno dei pochi motivi di speranza per il futuro del nostro Paese. E per quello del nostro pianeta.
Entro qualche decennio, il panorama religioso del mondo potrebbe essere molto diverso. Ed è una buona notizia, perché il mondo stesso potrebbe essere più libero, plurale e tollerante. In due parole: più laico.

Pedofilia, il sociologo Marzano: Così la Chiesa italiana si autoassolve

Il 2022 appena concluso per la Chiesa cattolica italiana è stato l’anno della prima volta. Non era mai accaduto infatti che la Conferenza episcopale (Cei) incaricasse qualcuno di realizzare un Report su abusi e violenze contro i minori compiuti in ambito ecclesiastico. L’indagine è stata avviata il 23 giugno e si è conclusa dopo soli 4 mesi tra fine ottobre e inizio novembre. A realizzarla sono stati ricercatori dell’Università Cattolica di Piacenza sulla base dei dati provenienti dai Centri di ascolto istituiti dal 2019 dalla Cei in 90 delle 226 diocesi italiane per raccogliere informazioni e segnalazioni dalle vittime di preti pedofili e dare loro sostegno psicologico e giuridico. Stando allo studio, tra il 2020 e il 2021 sono state 89 le segnalazioni di abusi e violenze di vario tipo raccolte da 30 dei 90 centri (60 non hanno ricevuto alcuna segnalazione); 40 riguardano minori di 14 anni (45%), 33 di età compresa 15-18 anni e 16 adulti vulnerabili. L’estate scorsa il nuovo capo della Cei, monsignor Zuppi, aveva definito il Report «uno strumento per presentare una radiografia dell’esistente» ma anche e soprattutto «per implementare l’adeguatezza dell’azione preventiva e formativa».

A parole tanti buoni propositi, ma è vera svolta? A parole, per dire, monsignor Zuppi presentò l’Università Cattolica come «centro indipendente» dalla Chiesa “dimenticando” che per statuto le università cattoliche sono regolate dal Codice di diritto canonico (art. 807- 814), dalla Costituzione apostolica Ex corde ecclesiae sulle università cattoliche e dalle Norme applicative delle Conferenze episcopali. Giriamo la domanda al sociologo dell’Università di Bergamo Marco Marzano autore di numerosi saggi sul tema tra cui La casta dei casti: I preti, il sesso e l’amore (Bompiani, 2021) e il recente “Gli abusi clericali nel cattolicesimo: uno sguardo sistemico” all’interno del libro curato da Lorenzo Benadusi e Vincenzo Lagioia In segreto. Crimini sessuali e clero tra età moderna e contemporanea (Mimesis, 2022).

Marzano, questo Report rappresenta una svolta nella lotta contro la pedofilia clericale in Italia? «Per la Chiesa italiana la svolta della lotta contro la pedofilia non può certo arrivare da un’indagine di questo tipo», dice senza mezzi termini il sociologo. «Anche perché le criticità emerse sono davvero tante nonostante l’enfasi che ha accompagnato il Report. Per esempio, il questionario è stato inviato a tutte le diocesi ma non tutte hanno risposto. E già questo è interessante. Altre hanno risposto ma solo per dire di non aver ancora attivato il Servizio per la tutela dei minori. Inoltre in molti dei centri d’ascolto non è andato nessuno (60 su 90). Secondo me perché diversi si trovano dentro la curia. Chi vuole denunciare penso sia inibito. Il palazzo dove risiede il vescovo non mi sembra il luogo ideale in cui collocare un centro che raccoglie denunce contro i funzionari della Chiesa. Chi andrebbe dalla polizia a raccontare di aver subito un sopruso da un poliziotto?».

Quaranta segnalazioni di casi di pedofilia in due anni non sono comunque poche, nel senso che segnalano e confermano l’esistenza di un fenomeno criminale negato fino a pochi anni fa. (Nel 2012, chi scrive chiese al portavoce della Santa Sede, monsignor Federico Lombardi: «In tutto il mondo la Chiesa sta indagando, perché in Italia questo non accade?». Risposta: «Perché non esiste un “caso Italia”»). Ai 40 casi censiti dai Centri d’ascolto vanno aggiunti 613 fascicoli sui casi di pedofilia di matrice ecclesiastica trasmessi dalle diocesi italiane al dicastero per la Dottrina della fede tra il 2001 e il 2020, affinché indagasse ed eventualmente giudicasse i presunti responsabili. Un dato quest’ultimo rimasto segreto e a disposizione della Santa sede fino al 17 novembre scorso e rivelato dal segretario della Cei, monsignor Betori, alla presentazione del Report. Questo significa tra l’altro che mai nessuno di questi 613 casi è stato segnalato alla magistratura italiana.

Lei che ne pensa, Marzano: 40 segnalazioni in due anni sono poche o molte? «Intanto va sottolineato che il dato non è omnicomprensivo. Come dimostrate anche con Spotlight Italia, la vostra indagine permanente sui crimini nella Chiesa italiana, le denunce presentate solo all’autorità civile non ci sono. Poi sappiamo benissimo che ci sono tanti casi che purtroppo rimangono drammaticamente sepolti… Gli psicoterapeuti lo spiegano benissimo: un abuso subito da bambini impiega 10-20-30 anni ad emergere dalla memoria della vittima». Monsignor Zuppi ha voluto porre l’accento in particolare sulla prevenzione. E il 17 novembre alla presentazione del Report – dove peraltro il capo della Cei non si è fatto vedere, sebbene la realizzazione dell’indagine fosse stata il suo biglietto da visita al momento dell’insediamento – questi sono alcuni dei dati sciorinati: «Le principali attività svolte dai Servizi diocesani di tutela dei minori consistono in incontri e corsi formativi. Il numero di incontri formativi proposti nel biennio in esame (2020-2021) è cresciuto notevolmente, passando dai 272 incontri del 2020 ai 428 del 2021. Il numero di partecipanti conferma il trend di crescita: da 7.706 nel 2020 a 12.211 nel 2021, con l’aumento più alto per gli operatori pastorali, passati da 3.268 a 5.760». Se pensiamo che in Italia risiede la più alta popolazione ecclesiastica al mondo, con circa 35mila persone, si nota bene che qualcosa è andato storto. È d’accordo?

«Sono numeri eloquenti, dimostrano che i centri d’ascolto non funzionano e dicono che la campagna di prevenzione rischia di essere una campagna vuota. Penso – prosegue il sociologo – che non è creando uno Stato di polizia che si sradica la pedofilia dalla Chiesa. So per certo che a questi corsi diversi sacerdoti ci sono andati perché costretti, e quei numeri sono oltretutto un po’ alterati perché comprendono anche chi ha partecipato più volte. Poi mi chiedo, non tutti coloro che sono agli sportelli dei centri d’ascolto hanno una adeguata formazione in psicologia, in diversi casi ci sono anche sacerdoti: siamo sicuri che abbiano la capacità di aiutare una persona a raccontare, a denunciare, a vincere il timore, il senso di colpa, la vergogna? Non voglio dire che stiano lì per insabbiare le denunce, non ho elementi, e sono sicuramente tutte bravissime persone. Ma penso sia più probabile che in questi luoghi (spesso si trovano nella curia vescovile) ci vada la beghina gelosa del prete piuttosto che una vittima vera e propria. Se l’attività di ascolto fosse svolta da figure davvero indipendenti e laiche questa operazione avrebbe tutta un’altra forza». E qual è la “vera” forza, il vero scopo di questa operazione? «Secondo me la logica che c’è dietro è la solita: mettere al sicuro l’istituzione facendo operazioni di facciata. I Servizi diocesani di tutela dei minori, i centri d’ascolto per le vittime permettono alla Chiesa di dire: “Abbiamo fatto tutto quello che si doveva”. Poi se qualche sacerdote, come è inevitabile, commetterà dei crimini sarà solo sua responsabilità individuale. E le dirò di più, qualcuno di questi sarà dato in pasto all’opinione pubblica pur di preservare la reputazione della Chiesa italiana».

Cosa rappresenterebbe per lei un vero salto di paradigma? «Nella Chiesa cattolica, non solo quella italiana, va cambiato il rapporto con la sessualità e l’affettività del clero. Va messa radicalmente in gioco la cultura che nega la sessualità e l’affettività. Si dovrebbe quindi affrontare il nodo della formazione clericale e soprattutto il punto cardine che ruota intorno al celibato obbligatorio». Ma sappiamo bene che da questo orecchio la Chiesa non ci sente. «Esattamente – osserva Marzano – ma non perché non voglia eradicare la pedofilia dal suo interno. Semmai di questo sarebbe felicissima perché i preti violentatori, i catechisti, gli allenatori negli oratori, i capi scout violentatori sono la sua principale fonte di guai. Però rielaborando l’idea di sessualità, riorganizzando la formazione dei seminaristi e “sciogliendo” il nodo del celibato obbligatorio, i gerarchi della Chiesa rischierebbero di buttar via il bambino con l’acqua sporca. E il bambino per loro è l’organizzazione di tipo clericale, basata su una casta di persone distanti dal sesso (almeno in apparenza), dalla “normalità” di noi poveri mortali, dai desideri e dalla vita affettiva. In buona sostanza si perderebbe l’idea del sacerdozio, che porta con sé l’automatico accesso a privilegi e potere, soprattutto in Italia».

Violenza sulle donne, la psichiatra Calesini: Fuori dalla spirale di un sistema patriarcale

Il caso della Comunità Loyola conferma quanto sia trasversale e sistemica la violenza sulle donne. Ne parliamo con la psichiatra e psicoterapeuta, Irene Calesini.

La violenza sulle donne in Italia è una piaga della società. Irene Calesini, quanto incide il contesto ambientale e culturale su queste dinamiche?
La violenza contro le donne in tutte le sue forme, più che una piaga, che rimanda alla idea di una ferita che non guarisce in un corpo forse sano, è un fenomeno pervasivo, che caratterizza la stessa strutturazione della società, interessandola nel suo complesso, a più livelli e che si ripete nel tempo, nei diversi sistemi: sociale, economico, politico… religioso. È inoltre trasversale, come sappiamo, cioè colpisce donne di tutti i ceti sociali, livello culturale, possibilità economiche, condizioni fisiche e mentali, età. Ecco, forse dovremmo partire da qui: da quanto sia diffusa e quanto in fondo sia connaturata al modo stesso in cui sono nate e si sono sviluppate le nostre società. La violenza è agita da individui in relazioni personali, ma è anche nella organizzazione stessa della società, del lavoro, ecc. In questo senso il contesto ambientale, storico, politico e una certa cultura fomentano la violenza. Cultura però è anche la resistenza a tale violenza, con altri pensieri e prassi. Non dimentichiamo poi che è diffusa globalmente, in società molto diverse tra loro e questo complicherebbe il discorso; e obbliga a cercare quel qualcosa che evidentemente accomuna situazioni storiche, politiche, diverse – e che non è il discorso di una naturale violenza del genere umano, che scientificamente non c’è -. Quel qualcosa che va cercato nella cultura e più profondamente nel pensiero verbalizzato e/o agito e di cui si può essere più o meno consapevoli, per cui la donna è un essere inferiore, con tutte le conseguenze relazionali e materiali possibili.

Cosa può accadere all’interno di contesti “chiusi” come i monasteri?
In genere in un contesto chiuso c’è una ripetitività delle dinamiche, un controllo reciproco, si possono stabilire alleanze contro qualcuno, di solito più debole. Non si riesce a stabilire altri rapporti al di fuori che siano quindi non soggetti a controllo, giudizio, ecc. Non sono una conoscitrice di questi specifici contesti. Da quello che so vige la regola della obbedienza e negli ambienti cattolici c’è una forte gerarchia. In particolare tra i gesuiti la gerarchia assume caratteristiche militari, come dimostra anche la dizione “casa generalizia”. Questo condiziona le relazioni. C’è sempre una “asimmetria” tra due persone in una relazione gerarchica e di obbedienza; se poi si inserisce la disparità uomo-donna che non sembra estranea all’ambiente religioso, ecco che il contesto si connota come costrittivo. Nella nostra società, laica, giustamente come dovrebbe essere, è riconosciuta una assoluta parità di diritti e doveri e – tranne che in ambiente militare – non è dovuta per legge “obbedienza”, né nei rapporti privati, né in quelli sociali (nel lavoro è dovuta collaborazione nel rispetto dei ruoli professionali, ad esempio.) E succede quello che vediamo e viviamo tutti i giorni, pensi in una società dove questo, per impostazione ideologica, non è garantito.

Vale a dire?
Per agevolare la comprensione diciamo che si è nel pieno di un sistema patriarcale: la Chiesa cattolica è costruita su certi presupposti, pensiamo ai Padri della chiesa. Direi che le donne all’interno della gerarchia religiosa sono inevitabilmente in una condizione di discriminazione e quindi questo aggrava la condizione di partenza, c’è sottomissione. Tanto meno il contesto è garantista in merito alla parità effettiva e tanto più è possibile che ci siano situazioni di “abuso psicologico”. Che è sempre sottostante secondo me, ma non soltanto secondo me, a quella fisica, a quella sessuale, economica, attraverso il Web, attraverso le immagini pubblicitarie.

Spesso il violentatore non è uno sconosciuto.
Qui c’è il discorso della fiducia che viene tradita: se qualcuno che tu riconosci come autorità morale – in questo contesto è opportuno parlare di morale – un tuo superiore, un maestro, una persona per te degna di stima e fiducia, ti usa violenza, questa diventa ancora più grave. E lo è tanto che nel nostro codice penale il reato di maltrattamento in famiglia è perseguibile di ufficio, perché viene ritenuto ancora più grave subire violenza da qualcuno con cui è in atto una relazione che implica fiducia. L’Unicef nel 2000 ha dichiarato che «la violenza intra-familiare è una delle negazioni più perniciose dei diritti umani, in quanto è perpetrata non da persone sconosciute, ma da persone di cui ci si fida». Forse nelle comunità religiose i rapporti di convivenza, per vicinanza e consuetudine, si possono considerare familiari. Queste donne erano inoltre in condizioni di dipendenza economica. È una brutta storia però ribadisco, è una storia che si ripete in tutta la società e questo ancora di più ci fa dire quanto sia sistemica e trasversale questa violenza contro le donne.

Molte denunce contro padre Rupnik riguardano violenze avvenute decenni fa…
A livello più profondo e per rimanere a questi casi c’è da considerare la condizione di donne provenienti da situazioni spesso svantaggiate economicamente o socialmente, spesso giovani, non ancora formate, che fanno una scelta di fede o che sono orientate a farla e magari hanno l’aspettativa di trovare persone che condividono i loro stessi sentimenti e scelte e vedono in un/una superiore un riferimento, una persona di cui fidarsi. Nella relazione di qualunque natura che si instaura entrano in gioco tutti questi fattori di contesto e le personalità, la realtà interna degli individui. Chi è vittima di una violenza psicologica da parte di una persona di cui si fida spesso non se ne rende conto per lungo tempo. Ogni malessere, che pure si sente, viene ascritto al fatto di non essere stata adeguata, di non essere abbastanza brava o all’altezza dell’altro, le parole dell’altro che svalutano, che scherniscono, vengono giustificate. Ci si fa sempre più “piccole”, trasparenti. Nelle forme di violenza psicologica, come nelle varie forme di violenza domestica, si alternano anche “lune di miele”, momenti apparentemente appaganti, che confondono ancora di più. Certo è che se in ambienti religioso il rapporto che si instaura è molto stretto, è consuetudinario, il danno è sempre più grande.

Quali sono le conseguenze per chi subisce una violenza psicologica?
Ogni tipo di violenza, che sia fisica, sessuale, psicologica, tramite il Web, ecc, ha sempre conseguenze sulla sfera psichica, mentale, oltre che fisica. Si va da malattie psicosomatiche, al disturbo post traumatico da stress, a disturbi di ansia, a varie forme di depressione; in alcuni casi ci possono essere anche viraggi verso aspetti francamente psicotici, in genere acuti, e/o dissociativi. Non sono rari i tentati suicidi o i suicidi. La violenza psicologica ha la caratteristica di protrarsi nel tempo, è subdola; si esplicita con atteggiamenti, frasi, oppure silenzi, volti a sminuire l’altra, a intimidirla, a disconfermare le sue azioni, parole, pensieri; con minacce di aggressione o di abbandono. La donna esperisce un senso di allarme e di essere costantemente sottoposta a giudizio.
Spesso la violenza psicologica va insieme al ricatto economico, lo abbiamo visto anche nelle denunce raccolte da ex focolarini e pubblicate su Left nei mesi scorsi.
Esattamente, il ricatto economico è spesso presente e la violenza si accompagna anche a un senso di autosvalutazione, di colpa; la donna stessa crede alla negazione che l’altro agisce su di lei. Non è adeguata, non è abbastanza intelligente, non è abbastanza brava, empatica, non capisce l’altro, non se ne prende cura abbastanza; non è una buona madre; ecco queste cose vengono fatte proprie, agiscono in profondità. Poi se la violenza psicologica si accompagna anche ad atti di violenza fisica o/e sessuale diventa sempre più invadente. C’è sempre senso di vergogna e colpa. I danni a livello psichico sono enormi.

Si può scindere la violenza sessuale da quella psicologica?
No, assolutamente. Nella cosiddetta violenza sessuale, che chiamerei sempre stupro, è sempre insita la violenza psicologica. La costrizione ad avere un contatto fisico intimo non voluto è violenza psichica, in qualunque modo questo avvenga, perché il soggetto agente non tiene in nessun conto la volontà dell’altra. Sia che questa venga espressa con le parole o in modo non verbale, ritraendosi, sia che la donna accetti il contatto per paura, soggezione o altro che non sia una libera scelta. Accade spesso che chi è violentato si paralizzi per il terrore. In ogni caso è chiaro che non viene rispettata (o recepita) la condizione emotiva, psichica dell’altra. L’altra in questo caso (o anche l’altro nel caso dei crimini di pedofilia) è un oggetto per il violentatore. In termini psichiatrici egli annulla la realtà interna dell’altra (è un oggetto per masturbarsi o per dimostrare a se stessi la propria “virilità”) o la nega (“è buona solo per quello”, “anche se dice no, vuole dire sì”). In genere nello stupro c’è la volontà di sottomettere, dominare l’altra, umiliarla, distruggerne le capacità emotive, psichiche: la vitalità, la affettività. Volontà cosciente o intenzionalità inconscia. Quanto questo sia correlato alla idea di mascolinità veicolata da certa cultura e quanto alla problematica individuale di rapporto con l’altro sesso apre un ulteriore discorso. Ancora si potrebbe approfondire nel caso degli stupri di guerra ed etnici: qui la intenzionalità è cosciente. Nella violenza sessuale si condensa e si potenzia tutto quello che si verifica con la violenza fisica e psicologica. Viene lesa l’immagine di sé che è insieme fisica e psichica.

Come si curano queste ferite?
Queste sì, purtroppo, possono diventare piaghe, cronicizzare e non guarire mai, se non vengono scoperte. Ovviamente si curano con la psicoterapia e spesso occorrono molti anni. Possono servire anche cure somatiche perché molto spesso si ammala anche il corpo: malattie dell’apparato intestinale, genito-urinario; danni al sistema osteoarticolare, all’apparato masticatorio. Problemi cardiaci e cardiovascolari, malattie della pelle, sistema immunitario compromesso, ecc. La pericolosità della condizione di violenza risiede nel fatto che spesso è sconosciuta alla stessa donna che la vive, o è sottostimata. Specie se non è anche fisica. Ma anche se lo è, viene subita e sopportata, fino all’escalation o fino a che non coinvolge i figli, per paura o perché non è facile separarsi internamente da un uomo con cui magari si è vissuto un periodo di innamoramento o con cui si sono avuti figli. Accade spesso che donne che si rivolgono ai Servizi di salute mentale pubblici o privati per disturbi di ansia o depressione abbiano una lunga storia di violenza domestica o comunque relazionale, che è misconosciuta e che emerge solo dopo diverso tempo. Che può magari emergere solo attraverso i sogni, ma va intuita, cercata.