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Dall’oblio alla memoria. Una testimonianza sulla deportazione fascista degli etiopi all’Asinara

In questi tempi di feroce neocolonialismo, che vedono i governi europei e quello italiano fra loro, nelle vesti di testimoni complici di genocidi e massacri, storia e memoria ci aiutano a ricordare come, già in un passato non troppo lontano, i crimini coloniali commessi dall’Italia abbiano portato morte e distruzione in alcuni paesi africani.

Dal 5 all’8 agosto scorsi, in Sardegna – a Porto Torres e sull’isola dell’Asinara – si è svolta una iniziativa dal titolo “Dall’oblio alla memoria. La deportazione degli etiopi all’Asinara”, articolata in più eventi per ricordare i prigionieri etiopi deportati sull’isola fra il 1937 e il 1939. Si trattò di uno degli esiti della rappresaglia seguita all’attentato a Rodolfo Graziani, allora viceré di Etiopia, dopo la feroce invasione fascista del regno africano del 1935-36.

A seguito del fallito attentato, avvenuto ad Addis Abeba il 19 febbraio 1937, gli italiani scatenarono una brutale e indiscriminata caccia all’uomo che si protrasse per 3 giorni e che è tuttora ricordata, in Etiopia, con il nome di Yekatit 12 (il nome della data nel calendario etiope).

In quei tre giorni, le forze armate coloniali, le squadre fasciste e la popolazione italiana in città bruciarono abitazioni ed edifici e causarono la morte di almeno 20.000 fra   uomini, donne e bambini.

A seguito dell’attentato, Rodolfo Graziani ordinò la deportazione di svariate centinaia di etiopi, per la maggior parte nobili e funzionari legati alla corte del deposto re Haile Selassie, alti dignitari e politici etiopi, in molti casi, accompagnati dalle famiglie, inclusi figli in tenera età e donne incinte e in alcuni casi, anche solo i familiari di qualche dignitario o funzionario ucciso dopo l’attentato. Nessuno di loro venne accusato di crimini specifici, ma la loro deportazione fu definita da Graziani come una “concessione”. L’intento del regime fascista era evidentemente quello di separare il popolo dai propri leader, convinti erroneamente che ciò potesse portare all’accettazione dell’occupazione italiana. Le conseguenze delle rappresaglie e dei massacri a seguito dell’attentato al viceré, la deportazione delle figure chiave della nobiltà etiope rese invece la popolazione ancora più determinata a resistere, nonostante la ferocia dell’occupazione italiana che, come noto, non esitò ad impiegare i gas, almeno fino al 1939, per assumere un completo controllo del territorio, risultato che non riuscì mai a perseguire.

Secondo la ricostruzione dei discendenti, 374 etiopi vennero deportati all’Asinara. La maggior parte di loro rimase sull’isola fino al luglio del 1939 mentre alcuni vennero trasferiti in altri luoghi di deportazione: Longobucco in Calabria, Ustica, Ponza, Mercogliano in Campania. Nel racconto dei discendenti, la deportazione all’Asinara fu una delle più dure: sull’isola non vi era una comunità locale  con cui interagire, a differenza degli altri luoghi di detenzione e le condizioni igieniche erano pessime. Fin dalla prima guerra mondiale, quasi tutta l’isola era destinata a colonia penale,  mentre in un’area esisteva un sanatorio per malati di tubercolosi costituito da tre edifici, uno dei quali venne destinato ai deportati. Molti si ammalarono, alcuni morirono e alcuni furono internati per malattie psichiatriche da cui non si ripresero per il resto della loro vita.

Con la caduta del fascismo, riacquistata definitivamente la libertà, i sopravvissuti tornarono in Etiopia, ma negli anni successivi, alcune famiglie emigrarono in altri paesi: Gran Bretagna, Stati Uniti, Francia, Canada, Australia… .

Il viaggio della memoria dei prigionieri etiopi all’Asinara è iniziato con le ricerche di Elfy Getachew Nouvellon. Tre dei suoi antenati furono tra i deportati: il trisnonno Tsehafi Tezaz Woldemeskel Tariku, alto dignitario della Corte sia sotto l’Imperatore Menelik che sotto l’Imperatore Hailé Sellasiè, a capo della Cancelleria Imperiale, ebbe un ruolo fondamentale nella costruzione della ferrovia Addis Abeba-Djibouti, mentre il bisnonno Hailé Wold Meskel Tariku, fu Segretario del Ministero della Difesa, e il fratello del bisnonno, Mahteme Selassie Wolde Meskel fu scrittore e studioso di letteratura e poesia amharica.

“Il mio bisnonno – ci ha raccontato Elfy – è morto all’Asinara, non so neppure dove sia seppellito. L’ho sentito nominare raramente in casa, da mia nonna, sua figlia. Di lui sapevo solo che era stato portato in Italia come prigioniero e lì è morto. Avevamo un documento di famiglia e i miei figli si sono incuriositi… . Tutto è iniziato da lì”. Nel 2023 due figli di Elfy fecero un primo viaggio all’Asinara per incontrare i responsabili del Parco. Nacque l’idea di organizzare un incontro collettivo  con i discendenti con i quali la famiglia di Elfy sarebbe riuscita  ad entrare in contatto. Nei due anni successivi Elfy è riuscita a connettersi  con tutti i discendenti dei 374 prigionieri e a ricostruire un albero genealogico non solo dei deportati dell’Asinara, ma dei deportati etiopi in Italia. La rete di contatti cresce così come il desiderio dei discendenti di tornare in Italia, all’Asinara, per rendere omaggio ai propri familiari che in quel luogo sono stati imprigionati senza aver commesso alcun crimine.

Così, nei primi giorni di questo caldo agosto 2025, un gruppo di oltre sessanta etiopi ha raggiunto Porto Torres per un’iniziativa di quattro giorni.

Il 5 agosto, si è svolto  un seminario di introduzione storica a cura dei docenti dell’Università di Cagliari. Gli studiosi del colonialismo italiano, Valeria Deplano e Alessandro Pes, hanno inquadrato la vicenda delle deportazioni fasciste coloniali, sottolineandone la genesi già in epoca liberale e i risvolti razzisti, mentre lo storico Andrea Giuseppini ha raccontato le sue ricerche, tuttora in corso d’opera, per ricostruire la vicenda dei deportati etiopi a l’Asinara. Tali ricerche sono parte di un progetto più ampio, un centro di documentazione on-line, Campifascisti.it, sull’internamento e la prigionia come pratiche di repressione messe in atto dal regime fascista.

Nella seconda giornata, il 6 di agosto, si è svolta la visita e la commemorazione sull’isola dell’Asinara. Il folto gruppo di etiopi, il direttore e le guide del Parco hanno compiuto assieme questo pellegrinaggio a ricordo e  cura di quella ferita, che seppure in silenzio, è transitata di generazione in generazione. Come ci hanno raccontato i discendenti, nessuno dei familiari che ha vissuto la deportazione ha mai parlato molto di quel periodo. Solo recentemente sono stati rinvenuti alcuni diari di alcuni deportati tra i quali quello dello scrittore Girmachew Teklehawariat e di Qegnasmatch Dehne Woldemariam.

Nel gruppo di etiopi era presente l’unica deportata ancora in vita, la signora Yeweinshet Bashahwoured, oggi novantatreenne: nell’edificio che ospita la sede del Parco sono conservate le foto dei deportati, e, fra queste, quella di  Yeweinshet Bashahwoured, e del fratellino ai lati di Senedu Gebrf, figlia del Sindaco di Addis Ababa, ma soprattutto una delle resistenti più agguerrite, parte del gruppo di cadetti etiopi denominati “Black Lions”.

Una delle guide del parco abbraccia l’anziana signora: “Tu sei la mia diva, ogni mattina vengo davanti a questa foto e ti saluto, non avrei mai pensato di incontrarti davvero”. È un momento di commozione tangibile. Nella parte esterna dell’edificio, alla presenza dei discendenti dei deportati e dell’unica sopravissuta che indossano gli abiti tradizionali etiopi, e stata collocata una targa commemorativa a ricordo di quella vicenda. Nel prossimo futuro, l’edificio, un tempo luogo di prigionia di 374 etiopi, sarà destinato a  piccolo museo sulla storia dell’Asinara.

Nel piccolo cimitero in cui sono stati sepolti coloro che sull’isola sono andati incontro alla morte, i discendenti si sono raccolti in preghiera per onorare e ricordare coloro che non sono riusciti a tornare a casa.Il 7 agosto, durante un incontro, pubblico, alcuni discendenti hanno raccontato la dolorosa esperienza dei loro antenati attraverso foto e documenti di famiglia. Tra le varie testimonianze,  Ytna Dehne ha letto un paragrafo del diario della prigionia del nonno Qegnasmatch Dehne Woldemariam: “i pescatori ci avevano portato un pesce, era ancora vivo e non abbiamo avuto il coraggio di ammazzarlo. L’ho messo in un grande catino con dell’acqua salata, e si è ripreso. Tutti assieme siamo andati verso il mare e lo abbiamo lasciato tornare al suo ambiente. Nel mio cuore ho chiesto a Dio che facesse lo stesso con noi, che, come noi avevamo avuto pietà del pesce, lui potesse averne di noi. L’ho pregato di liberarci da quella prigionia per poter tornare a casa, dai nostri cari”.

Infine, l’8 agosto, la performance  di un’artista di origine etiope, ha suggellato quello che nell’intenzione di tutti i partecipanti – italiani ed etiopi – vuole essere il primo di una serie di incontri e iniziative future.

Queste straordinarie giornate non sarebbero state possibili senza il coordinamento, l’assistenza e l’ospitalità affettuosa e senza risparmio delle guide della cooperativa Sealand Asinara e in particolare di Paola Fontecchio, Giuliana Atzori e Loredana Nurra: a ribadire come ci sia sempre più bisogno di quelle iniziative “dal basso”, che sappiano intercettare i fermenti migliori delle comunità in cui viviamo.

Fra queste iniziative ricordiamo, perché strettamente collegata, la rete Yekatit12-19, composta da associazioni, comunità di afrodiscendenti, collettivi e istituzioni – nata per riaccendere l’attenzione collettiva sul passato coloniale dell’Italia, i suoi crimini e la sua rimozione postbellica. Nella convinzione che quella rimozione continui ad agire, in negativo, sulla nostra vicenda contemporanea e sia ragione non ultima, delle inquietudini sociali, antropologiche, politiche che la attraversano e la frantumano.

Come ci hanno dimostrato queste giornate, passare “Dall’oblio alla memoria” (il titolo dell’iniziativa) è un percorso lungo, complesso culturalmente ed emotivamente sfidante. Ma è anche uno dei pochi strumenti che abbiamo per combattere il virus dell’indifferenza che pare dilagare nelle nostre compagini sociali e che costituisce uno dei pericoli più subdoli per una convivenza meno inconsapevole e, per questo, più solidale.

I deportati dell’Asinara sono solo un episodio di quelle pratiche repressive, messe a punto un secolo fa, ma che trovano inquietanti consonanze con il trattamento che i nostri “democratici” governi riservano oggi a migranti, colpevoli solo di fuggire da povertà e guerre e spesso provenienti da quei paesi che il colonialismo occidentale non ha, in fondo, mai finito di sfruttare.

 

Le autrici: Maria Pia Guermandi è archeologa e saggista. Gabriella Ghermandi è scrittrice e musicista italo-etiope. L’8 agosto, all’Asinara, la performance artistica di Ghermandi ha dato il la a quello che nell’intenzione di tutti i partecipanti – italiani ed etiopi – vuole essere il primo di una serie di incontri e iniziative future

«Mio fratello Awdah ucciso da un colono: Israele fa pulizia etnica anche in Cisgiordania»

Awdah Hathaleen

Khalil Hathaleen

«Mio fratello Awdah aveva amici in tutto il mondo. Aspettavamo la restituzione del suo corpo per il funerale ma nella tenda adibita a camera ardente si sono presentati i militari israeliani arrestando gli abitanti del villaggio. Israele sta facendo pulizia etnica in Cisgiordania».
La voce di Khalil Hathaleen è quella di chi ha perso tanto, tutto, ma è anche la voce di un popolo, quello palestinese, che affronta il martirio delle persone più care non solo come lutto ma anche come lotta, senza passare mai dalla vendetta ma ponendo la giustizia come cardine per animare la resistenza nonviolenta. Siamo nella regione Masafer Yatta, le colline a Sud di Hebron, nei territori palestinesi occupati. Khalil è il fratello di Awdah: l’attivista palestinese ucciso il 28 luglio da un colono israeliano nel villaggio di Umm al-Khair. Awdah oggi giace sotto la terra mentre il suo assassino è libero e continua a rubarla ai palestinesi. Ma Awdah era molto altro, a raccontarlo è proprio il fratello.

Khalil, prima di parlare di Awdah può raccontarci qualcosa di lei?
Impossibile parlare di me senza citare mio fratello. Abbiamo vissuto insieme ad Umm al-Khair per 24 anni, era tutto per noi. Per il villaggio. Ho 38 anni, vivo ad Umm al-Khair, ho tre figli. Collaboro con il Consiglio del mio villaggio e ospito attivisti internazionali.

Come sta la sua famiglia e la sua comunità dopo l’assassinio di Awdah?
Abbiamo tutti perso un grande uomo. Sentiamo un vuoto immenso. La mia famiglia è distrutta. Il nostro villaggio è da sempre sotto attacco da parte dei coloni e dell’autorità israeliana ma ora, ancora di più, è precipitato in una grande tristezza. Lo stiamo ancora piangendo.

Suo fratello era il volto della resistenza di Umm al-Khair.
Lo era. Ma era anche un marito, un padre di tre bambini. Il più piccolo ha appena sette mesi. Awdah si era laureato in lingue all’Università di Hebron ed era insegnante di inglese presso scuole elementari. Per queste sue competenze e per la predisposizione al dialogo e all’ascolto è diventato il portavoce del nostro villaggio, accogliendo giornalisti e diplomatici da tutto il mondo. Era appassionato di calcio, militava nella squadra amatoriale di Masafer Yatta, credeva nel ruolo e nel valore dello sport come strumento di aggregazione nonviolenta per la risoluzione dei conflitti. Ha collaborato al documentario “No Other Land”, vincitore del premio Oscar.

Ho conosciuto Awdah nel 2019, mi spiace ma dobbiamo parlarne: cosa è successo il 28 luglio?
Non si deve dispiacere, mi fa male ricordare ma tutto il mondo deve sapere cosa sta succedendo a Masafer Yatta, cosa è successo a mio fratello. La pulizia etnica attuata dall’autorità israeliana va raccontata, anche quando è doloroso. Ad ucciderlo è stato Yinon Levy, un colono noto per la sua violenza. Lui e altri coloni stavano occupando la nostra terra con mezzi pesanti, quando abbiamo protestato ha estratto la pistola e ha sparato colpendolo al petto.

I filmati hanno registrato Levy intento a fumare con i soldati israeliani subito dopo l’assassinio di Awdah. Come è possibile?
L’occupazione israeliana funziona così. Tutelando sempre e comunque i coloni mentre violano il Diritto Internazionale e i Diritti Umani. Fino a giustificare un omicidio. Il colono in questione ha passato tre giorni ai domiciliari poi è tornato in piena libertà. Già il 4 agosto era a ridosso di Umm al-Khair, come se nulla fosse, a dirigere dei lavori per la colonia illegale di Carmel. Capite che per noi non esiste giustizia.

Tutto questo mentre il corpo di Awdah rimaneva “sequestrato” dalle autorità israeliane, lontano dalla famiglia…
Sì, ma non solo. Il giorno successivo la morte di mio fratello hanno chiuso il villaggio rendendolo “area militare interdetta”, arrestando 14 abitanti di Umm al-Khair senza alcun motivo. In particolare membri della famiglia Hathaleen. Avevamo allestito una tenda in memoria di mio fratello, in attesa della salma, ma a presentarsi sono stati i militari israeliani. Volevano silenziarci e spaventarci ma non lo abbiamo permesso.

Come siete riusciti a riavere Awdah con voi?
Le donne del villaggio, a partire da nostra madre e sua moglie, hanno iniziato uno sciopero della fame che ha coinvolto settanta persone. Le donne palestinesi sono fondamentali per la resistenza nonviolenta: filmano, documentano e supportano gli uomini mentre lavorano. Oltre a gestire la famiglia. In generale abbiamo denunciato al mondo l’accaduto anche grazie alla rete internazionale che aveva costruito mio fratello. Il 7 agosto le autorità hanno “dissequestrato” il corpo di Awdah, Israele non voleva che venisse sepolto ad Umm al-Khair. Vogliono rubare terra ai vivi e ai morti. Ma non lo abbiamo permesso. Lo stesso giorno sono stati scarcerati i 14 tra parenti e attivisti del villaggio. Per uscire di prigione abbiamo dovuto pagare, come sempre. Il 9 abbiamo celebrato il suo funerale che è stato militarizzato poiché l’esercito israeliano ha tentato di bloccare gli accessi al villaggio con checkpoint e posti di blocco per limitarne la partecipazione. Ma eravamo in centinaia.

La violazione dei Diritti umani e del Diritto internazionale da parte di Israele è documentata da anni in Cisgiordania ma cosa è cambiato dopo il 7 ottobre?
Tutto è cambiato. In peggio. Per i coloni non esistono più Leggi o convenzioni. Possono fare quello che vogliono alzando ancora di più il livello di violenza nei nostri confronti. Attaccano villaggi, persone, compresi bambini, uccidono intere greggi e restano completamente impuniti. Il governo Israeliano li ha legittimati totalmente. Anche nell’utilizzo sistematico della violenza. E sono armati. Nemmeno l’esercito israeliano riesce più a contenerli.

Nonostante tutto avete scelto la strada della resistenza nonviolenta. Perché
Nessuna arma da guerra può fermare Israele. La nonviolenza è l’unico strumento che abbiamo per ottenere la libertà. Per liberare la Palestina. Israele sta attaccando Paesi in tutto il mondo, ci sono troppi interessi, nessuno può fermarli con le armi. Questo non significa retrocedere ma opporsi ogni giorno, con estrema fatica, affrontando perdite dolorose.

Cosa chiede a livello internazionale per rendere giustizia ad Awdah e aiutare il suo villaggio?
Credo nella solidarietà. A tutti gli internazionali chiedo di venire a visitare Umm al-Khair, di vedere con i loro occhi cosa sta succedendo, come funziona il sistema di occupazione israeliano. Cosa significa vivere all’ombra delle colonie illegali. La nostra voce deve arrivare a tutti. Con gli attivisti italiani abbiamo ottimi rapporti di collaborazione, alcuni di loro erano presenti il giorno dell’assassinio di mio fratello. Per questo alcuni sono stati arrestati ed espulsi da Israele. Qui il futuro sembra nero e molto complesso ma dobbiamo continuare a resistere. Non abbiamo scelta.

Cosa dirà a Kinan, i figlio più piccolo di Awdah, quando chiederà di suo padre?
Che era il mio migliore amico. Un uomo amato da tutti, legato alla sua terra e alle persone di tutto il mondo. Un vero attivista e un profondo pacifista ucciso mentre difendeva il presente e il futuro di Masafer Yatta. La lotta di Awdah continua.

L’autore: Cosimo Pederzoli è antropologo, attivista campagna “SaveMasaferYatta”

La guerra in diretta: Abbas Fahdel filma il Libano ferito

Abbas Fahdel, iracheno, uno dei più importanti documentaristi del cinema mondiale, impegnato nel descrivere i tormenti della regione mediorientale in opere come Homeland: Iraq Year Zero (2015) e Tales of the Purple House (presentato alla edizione di Locarno 2022), ha ricevuto il Pardo alla regia alla 78esima edizione del Festival di Locarno con Tales of the wounded land, (Lebanon, 2025).
Vi si sommano dramma, vitalità gioiosa e poesia, in una modalità narrativa su tre livelli, che lo rendono messaggio di speranza, pur nel dolore suscitato da immagini strazianti. Con un collante di sue frasi poetiche simili agli haiku che il regista ha scelto di mettere nel passaggio da una scena all’altra.La volontà di fare un film è successiva al filmare scene familiari felici con sovrapposti eventi inaspettati di bombe che piovono all’impazzata sulle abitazioni civili e le strade, con l’intento chiaro di ammazzare uomini disarmati. .
A conferma dei tre piani del raccontare, storico, familiare e sociale, sono tre le tecniche di ripresa: un drone che dall’alto riprende la fiumana di bare avvolte nella verde bandiera libanese e strette in un’ala di folla, un corteo di lunghezza tragica che porta i morti alla loro benedizione, tutti insieme nella Piazza della cerimonia. Scene da tragedia greca.
Il livello dei bombardamenti in diretta è ripreso col telefonino. Infatti Abbas, colto di sorpresa dalle prime esplosioni mentre stava riprendendo col telefonino la sua bimba che salta in giardino fra mucchi di petali di rosa, prosegue con lo stesso strumento, ma torna a riprendere lei per tranquillizzarla dei tonfi che entrambi attribuiscono al gattone di casa. Vediamo cosi’, in contemporanea con la scena familiare felice, crolli di edifici in diretta, di una tragica potenza, ben superiore alle foto di macerie. In queste sequenze la guerra “avviene” anche per gli spettatori.
Per tutto il resto del film c’è la macchina da presa, imbracciata dopo la decisione di girare un film. Quando, dopo i primi giorni della guerra non dichiarata (ottobre 2023), la coppia si accorge che durerà, in tutta fretta abbandona la casa. C’è paura e Abbas non si porta la macchina da presa. Ma la guerra continua e il regista non fa che pensare a ciò che ha visto-e filmato-, al suo perdurare e si ente di doverlo raccontare al mondo.
La macchina da presa gliel’andrà a prendere, di sua iniziativa, con un viaggio di attraversamento di tutto il Libano, strade deserte per il perdurare della guerra, la moglie quando sono “esiliati” al Nord. Lei ha capito che gli eventi seguiti alla loro fuga non sono una semplice scaramuccia, ma un’aggressione destinata a durare. E, infatti, il cessate il fuoco, peraltro non pienamente rispettato dagli Israeliani, arriva dopo un anno e mezzo.
E cosi il film ha preso corpo ed è stato finito in tempo per partecipare. Esso copre il periodo fra ottobre 2023 e febbraio 2025, dall’inizio dei bombardamenti del sud del Libano da parte di Israele alla data del (teorico) cessate il fuoco. Dice il regista “Il mio film nasce dal bisogno di raccontare una guerra che ha distrutto le nostre case e le nostre vite e di mostrare che, nonostante tutto, anche fra le rovine continuano a fiorire umanità e resilienza.”

Si nota che il Festival di Locarno non fa distinzioni, nello sceglier i film fra tanti arrivati, su i buoni e i cattivi dei conflitti, e questo comporta la possibilità per il pubblico di conoscere con maggior verità la dolorosa storia attuale. Questo film, come With Hasanin Gaza, anch’esso nel concorso internazionale, sono spesso dettati dal desiderio di pace. Le scelte operate dalFestival comportano film senza propaganda. Le informazioni che gli spettatori ne traggono sono in genere più veritiere e potentii di quelle dei quotidiani. Onore al cinema d’autore.

Tutti i premiati di Locarno 78:

La 78ª edizione del Locarno Film Festival ha premiato con il Pardo d’Oro Tabi to Hibi di Sho Miyake, il quarto film giapponese a conquistare il massimo riconoscimento nella storia del Festival. In precedenza, il premio principale del Festival era stato assegnato a The Rebirth (Ai no yokan) di Masahiro Kobayashi nel 2007, a This Transient Life (Mujō) di Akio Jissoji, uno dei quattro film premiati ex aequo nel 1970, e al classico Gate of Hell (Jigokumon) di Teinosuke Kinugasa nel 1954, anno in cui i tre principali premi sono stati conferiti dalla Giuria Internazionale della Critica. 

Il Premio Speciale della Giuria è andato a White Snail di Elsa Kremser e Levin Peter, mentre il Pardo per la migliore regia è stato aggiudicato ad Abbas Fahdel per Tales of the Wounded Land. I due Premi per la migliore interpretazione sono stati assegnati rispettivamente a Manuela Martelli e Ana Marija Veselčić per Bog neće pomoći (God Will Not Help) di Hana Jušić, e a Marya Imbro e Mikhail Senkov per la loro performance in White Snail. Il Pardo d’Oro del Concorso Cineasti del Presente è stato invece conferito a Tóc, giấy và nước… (Hair, Paper, Water…) di Nicolas Graux e Trương Minh Quý, a testimonianza della vitalità e della varietà del cinema presentato a Locarno78.

Naufragio di Lampedusa, la pietà sequestrata da Palazzo Chigi

Chiamano pietà ciò che è strategia: all’alba, in un’area interdetta del porto di Porto Empedocle, le prime undici bare del naufragio del 13 agosto sono state sbarcate e benedette in fretta, lontano dai familiari e dallo sguardo civile. Il cordoglio ridotto a pratica amministrativa, per togliere voce alle domande.

La Prefettura ha smembrato il congedo: feretri dispersi tra Canicattì, Palma di Montechiaro, Grotte, Castrofilippo, Joppolo Giancaxio. Sull’isola restano 23 salme. Una madre somala chiede di riposare accanto alla figlia e al marito annegati a pochi metri dalla salvezza.

Sul traghetto Las Palmas viaggiavano anche 259 persone classificate “vulnerabili”: gravidanze, menomazioni, mutilazioni, i segni dei lager libici. Un ammiraglio ricorda che atti e direttive trattano le barche in rotta come affari di polizia: il soccorso ha cambiato asse. Ecco l’empietà: osservare, delegare, occultare.

L’invisibilità è una tecnica. Niente file di bare, nessun rito collettivo che apra crepe nella narrazione sui “trafficanti”. È già successo: Roccella Jonica 2024, salme distribuite su più porti; Cutro 2023, trasferimenti fermati dalle famiglie.

Le domande restano: chi ha avvistato e quando? chi ha valutato il rischio? quali mezzi erano disponibili? Sottrarre il funerale allo spazio pubblico non disinnesca la responsabilità, la espone. Silenzio: prova di paura e distanza dallo Stato che pretende di rappresentare. È il trucco antico del potere: negare i riti per negare i fatti. I morti restano e con loro la domanda: chi ha deciso, chi ha visto, chi risponde? Ora. Risposte, adesso. Subito.

Buon lunedì.

Immagine dal video delle operazioni di ricerca e soccorso a sud di Lampedusa a cura della Guardia Costiera

Jazziste contro il silenzio sul genocidio a Gaza: nasce “Voci per la Palestina”

foto di Valerio Pagni

Di fronte all’azione ignominiosa di Israele, che dopo aver bombardato e affamato Gaza ora annuncia la piena presa di possesso della Striscia e la deportazione della popolazione palestinese, si moltiplicano le iniziative di denuncia nel mondo culturale. Tra le iniziative a sostegno del popolo palestinese è nata “Voci per la Palestina”, lanciata da Chiara Pancaldi, Simona Parrinello e Ada Montellanico, autrici, cantanti e musiciste di spicco della scena jazz italiana, da sempre attive per cause civili, ma anche culturali (Montellanico ha fondato e presieduto il MIDJ, Musicisti italiani di jazz; Parrinello ne è stata vicepresidente). Il 23 settembre a Bologna Voci per la Palestina diventa live con decine e decine di artisti.

Come nasce “Voci per la Palestina”?

Racconta Chiara Pancaldi: “Dall’urgenza di uscire da una spirale di solitudine e di impotenza nella quale questi venti mesi ci hanno trascinato. Con Simona e Ada avevamo già firmato Artists for Palestine, un movimento di artisti che si oppongono al genocidio aderendo alla campagna di boicottaggio culturale, ma sentivamo il dovere di parlare non solo come singole cittadine, ma come una voce collettiva, e volevamo che ciò che avevamo da dire fosse espresso in modo forte e chiaro. Da qui l’idea di creare un movimento più ampio che partisse da ‘Artists for Palestine’ ma si estendesse a tutta la società civile”.

Parliamo di un gruppo di donne e uomini, artiste e artisti, lavoratrici e lavoratori del mondo dell’arte e dello spettacolo, cittadine e cittadini. L’intento è quello di squarciare il silenzio e parlare apertamente di genocidio in corso a Gaza con un manifesto che si fonda sull’opposizione ad ogni forma di discriminazione, apartheid, persecuzione e violenza verso qualsiasi popolo. Alla cecità della politica si oppone il mondo culturale che si esprime attraverso il linguaggio dell’arte. Abbiamo chiesto alle tre artiste di raccontarlo fornendo informazioni su come aderire al movimento.

Chiara Pancaldi

Chiara, qual è stata la spinta che vi ha portato prima all’adesione ad “Artists for Palestine” e poi a realizzare “Voci per la Palestina”?

Più di ogni altra cosa, sentiamo il dovere di recuperare un senso di comunità. In questa società dominata dall’iper-capitalismo, da logiche ultra-individualistiche, da uno stato perenne di alienazione, e dove la legge che sembra prevalere è quella del divide et impera, è sempre più importante tornare a parlare di comunità, di condivisione, di relazioni. Stiamo vivendo un orrore immenso anche se non sentiamo il terrore delle bombe, il dolore dato dalla perdita dei propri cari, quello dei corpi amputati, o dei morsi della fame, di questo siamo solo testimoni. Il dolore che ci segna in prima persona, invece, è quello generato dall’apatia e dalla disumanizzazione, che proviamo sempre più forte, giorno dopo giorno, nei nostri corpi e nel corpo, muto, della nostra società.

Simona: “Voci per la Palestina”, oltre che dal sentire condiviso da me, Chiara Pancaldi e Ada Montellanico di opporsi al sentimento paralizzante dell’impotenza, nasce dal rifiuto di accettare l’assenza, o la presenza ancora troppo timida, del mondo dell’arte nell’espressione di dissenso e nel prendere una posizione uscendo da una neutralità complice. Costruire una rete culturale e artistica, che spezzi questo silenzio complice e restituisca all’arte il suo ruolo politico e umano di resistenza, può fare la differenza. Soprattutto se, come auspichiamo, riusciremo a unire le molte realtà frammentate, amplificando ogni gesto e trasformandolo in un’onda collettiva.

Qual è l’intento di questa iniziativa?

Chiara: con questa iniziativa, abbiamo tentato di creare uno spazio in cui prenderci cura di tutti questi dolori, come individui e come corpo sociale, per riappropriarci, in primo luogo, del sentire e, infine, affinché questo sentire possa produrre qualcosa di nuovo. Vorremmo che “Voci per la Palestina” fosse uno spazio in cui gli artisti possano mettere in campo il loro dissenso, attraverso la propria arte e il proprio attivismo, per restituire all’arte, come diciamo nel nostro manifesto, il suo ruolo di strumento di pace, libertà e resistenza. Il movimento sta crescendo, e stiamo lavorando su campagne di sensibilizzazione, cercando di costruire una rete con le molte realtà che in questi due anni si sono mobilitate. Stiamo anche creando azioni di boicottaggio mirate, seguendo le campagne proposte da BDS (il movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni per i diritti del popolo palestinese) e PACBI (Palestinian Campaign for the Academic and Cultural Boycott of Israel), che invita il mondo dell’arte, della cultura e delle università a non collaborare con istituzioni complici dell’occupazione. Le azioni di BDS e PACBI sono forme di resistenza non violenta che mirano a contrastare le politiche di genocidio di Israele e a costruire strategie di pressione reale. Azioni che oggi sono più necessarie che mai, anche alla luce del Rapporto che Francesca Albanese ha presentato alle Nazioni Unite lo scorso 30 giugno.

Simona Parrinello

Simona, come si può aderire al Movimento?

Aderire al nostro movimento è semplice. Invitiamo tutte e tutti a iscriversi a “Voci per la Palestina” e ad “Artists for Palestine Italia”. Sul nostro profilo Instagram @vociperlapalestina si trovano tutte le indicazioni per aderire alla rete, i link al manifesto, al form di iscrizione, i materiali utili per partecipare alle call e gli aggiornamenti sulle azioni in corso. Scrivendoci tramite i social sarà facile ricevere supporto e indicazioni per capire come partecipare attivamente e tutti i livelli possibili. Abbiamo da poco lanciato una call nazionale intitolata “Cultura e Arte Disertano il Silenzio – Facciamo Rumore”, in risposta alla chiamata del 27 luglio di “Ultimo Giorno di Gaza” e in una sua espansione estiva e stiamo cercando di coinvolgere teatri, festival, spazi culturali e artisti affinché si possano creare momenti di riflessione, dissenso e consapevolezza interrompendo gli spettacoli e le performance per tutti i mesi di agosto e settembre.

Perché è necessaria un’iniziativa culturale per mettere luce su questo genocidio?

Simona: l’arte e la cultura nascono dal sentire umano più profondo e dalla sua essenza stessa, e non possono restare in silenzio di fronte all’ingiustizia, alla violenza e all’oppressione. Prendere posizione è parte integrante della loro natura di verità: sono strumenti di coscienza, resistenza e trasformazione. Quando, oltre all’ingiustizia, all’oppressione e alla violenza perpetrate, anche le parole e la realtà vengono manipolate, quando si evita deliberatamente di usare il termine “genocidio”, si censura il racconto degli eventi e si tace sulla pulizia etnica in atto a Gaza e in Palestina. Si costruisce una narrazione falsa e distorta che nega la portata della tragedia. In questo silenzio, che soffoca l’anima e rende complici, arte e cultura hanno il dovere imprescindibile di intervenire, di alzare la voce, di farsi grido collettivo. Hanno la responsabilità anche di farsi portavoce di una narrazione alternativa, capace di squarciare l’inganno e restituire dignità, verità e umanità a chi ne è stato privato. Solo attraverso una voce collettiva forte e consapevole possiamo contrastare la manipolazione, scuotere le coscienze e ricostruire verità. L’arte custodisce la possibilità di immaginare mondi diversi, di generare bellezza anche nel dolore. Ne abbiamo esempi commoventi da Gaza stessa ogni giorno. L’arte può tessere legami tra persone e storie lontane. L’arte non parla solo di speranza, la incarna, la coltiva. Attraverso la bellezza, che per noi come per tutte le artiste e gli artisti è parte del quotidiano e di una ricerca costante, si può risvegliare uno sguardo più umano, più empatico, capace di riconoscere l’altro e comprenderlo.

Chiara: l’arte commuove e ci aiuta a sentire l’altro, facendoci uscire da questa condizione di anestetizzazione del dolore, che sembra colpire la nostra società e che sperimentiamo assistendo, quotidianamente, al genocidio del popolo Palestinese in diretta sui social.

Ada: l’arte, quando è viva, quando non si piega allo status quo, è sempre atto politico.

Ada Montellanico

Ada, qual è, secondo te, il contributo che un artista può e deve dare a “Voci per la Palestina”?

Un artista non può voltarsi dall’altra parte. Davanti all’orrore, al genocidio, alla sistematica cancellazione di un popolo, non può esistere neutralità. Il nostro compito – la nostra responsabilità – è di dare voce a chi viene ridotto al silenzio, di trasformare il dolore e la rabbia in linguaggio, suono, gesto, denuncia. “Voci per la Palestina” non è solo un’iniziativa: è un atto di resistenza collettiva. Nel buio dell’indifferenza globale, nel silenzio complice delle istituzioni, l’arte può accendere una luce scomoda, può creare un cortocircuito, può rendere visibile ciò che si vuole cancellare. Per questo chiediamo a tutti di aderire, è importante essere in tanti e uniti per condividere e scambiare idee, creare azioni collettive che abbiano la forza di muovere qualcosa a livello istituzionale, e spingere affinché realtà  culturali e artistiche rompano qualsiasi legame con lo stato genocida. È importante seguire e promuovere le nostre campagne ognuno a proprio modo e con la propria sensibilità o crearne altre insieme. Con la nostra voce possiamo spezzare la narrazione dominante ed  essere strumenti di memoria e di verità, di denuncia, di ribellione creativa, di stimolo per la costruzione di un pensiero nuovo che attraverso l’arte, le immagini, i suoni, le parole, la poesia, possa esprimere la ricchezza, la bellezza e la fantasia inconscia di cui ogni essere umano sano è espressione e portatore. Non si tratta solo di solidarietà: si tratta di prendere parte, di scegliere da che parte stare. E se la nostra arte non prende parte, allora è solo intrattenimento. E noi non vogliamo intrattenere. Sappiamo e siamo coscienti che questo significa esporci e rischiare di perdere lavoro, concerti, etc, ma non possiamo soggiacere a questo ricatto rinnegando i nostri valori.

Come co-autrice del libro de L’Asino d’oro Esseri umani uguali. Una ricerca sulle radici del razzismo (insieme a C. Carbonari, R. Carnevali, F. Montanelli, S. Roffi) presentato anche da Francesca Albanese al Salone torinese, puoi dire quale dovrebbe essere il contributo, per non dire obbligo, di ogni singolo cittadino, anzi essere umano?

Ada: ogni cittadino ha un potere immenso, quello di non restare in silenzio. In un tempo in cui l’informazione è manipolata e il massacro diventa rumore di fondo, la voce del singolo può essere una crepa nel muro dell’indifferenza. Informarsi, parlare, scendere in piazza, prendere posizione, sono gesti che costruiscono una rete di coscienze vigili. Sopratutto boicottare, come raccontava Chiara, non comprando più prodotti di nessun tipo da aziende appartenenti allo stato genocida, o peggio ancora che investono e lucrano in armi e guerre. Boicottare è qualcosa che può realmente fare la differenza e creare un vero danno. Non è più tempo di timidezze, di “non so abbastanza”, di “non mi riguarda”. Riguarda tutti. Non possiamo più dire “non sapevamo”. Le immagini, le testimonianze, la verità ci urlano contro ogni giorno. Chi sceglie di non ascoltare, sceglie di essere complice. Il genocidio in Palestina non è solo una tragedia geopolitica, è una ferita aperta nella coscienza collettiva, è una prova per la nostra capacità di empatia, di indignazione, di azione. In tempi disumani, restare umani è un atto radicale. E ogni cittadino, ogni singolo essere umano, ha la possibilità – e la responsabilità – di fare una scelta: restare in silenzio o farsi voce. Serve sentire che la sofferenza dell’altro ci riguarda. Che il diritto alla vita, alla dignità, all’infanzia, alla terra, alla libertà, è universale. E che quando viene negato a uno, è una ferita per tutti. Siamo chiamati, uno per uno, a costruire un fronte etico, culturale, umano che dica: non in mio nome. Non con il mio silenzio, non con la mia distrazione. Essere cittadini, oggi, significa non voltarsi. E farlo ogni giorno, finché giustizia non sarà fatta. Non possiamo accettare che il mondo continui a girarsi dall’altra parte mentre si cancellano vite, sogni, intere generazioni. La storia ci guarda, e chiederà conto del nostro silenzio o del nostro coraggio.

 

L’appuntamento: Il 23 settembre a Bologna ( piazza Lucio Dalla dalle 17,30)

 Voci per la Palestina. L’arte si schiera: insieme per la libertà del popolo palestinese

 

Il 23 settembre, a partire dalle ore 17:30, Piazza Lucio Dalla a Bologna diventerà il cuore pulsante di “Voci per la Palestina”, un evento artistico e civile promosso dal movimento omonimo insieme ad Artists for Palestine, con la partecipazione di numerose associazioni aderenti.Musicisti, attori, personalità della cultura, realtà attive nell’ambito umanitario e della tutela dei diritti fondamentali, uniscono le loro voci per dire al NO AL GENOCIDIO DEL POPOLO PALESTINESE e per affermare il valore universale dei diritti umani, agendo l’arte e la cultura come strumenti concreti di denuncia e resistenza. L’iniziativa nasce dal movimento “Voci per la Palestina”, ideato da artiste e artisti che hanno scelto di mettere la propria arte al servizio della giustizia, della pace e della solidarietà. Attraverso musica, teatro, poesia e danza, l’evento creerà uno spazio di riflessione e condivisione, ricordando che l’arte può e deve essere un ponte tra i popoli, capace di unire le coscienze, e con il fine di supportare ogni possibile strumento di lotta politica pacifica e nonviolenta, con particolare attenzione alle campagne di boicottaggio del movimento, a guida palestinese, BDS.Performance artistiche, letture, testimonianze, collegamenti in diretta e contributi video di artisti e sostenitori si alterneranno durante la serata, intrecciando linguaggi diversi per raccontare il dramma, la resistenza e la speranza del popolo palestinese. L’evento Voci per la Palestina è gemellato con l’evento NoBavaglio, in programma sempre nella giornata di martedì 23 settembre a Largo Dino Frisullo, Roma dalle ore 17. Nel corso della giornata alcuni interventi saranno condivisi in collegamento video tra le due iniziative.

Parteciperanno ( in ordine alfabetico): Eloisa Atti, Giacomo Armaroli, Giancarlo Bianchetti, Giulia Barba, Nicola Borghesi, Fabrizio Bosso, Marco Bovi, Stefano Calderano, Carolina Cangini, Stefano Cocco Cantini, collettivo Bologna for Palestine, Alberto Capelli, Piero Cardano, Ettore Carucci, Nelly Creazzo, Maria Pia De Vito, Gianluca Di Ienno, Francesco Diodati, Silvia Donati, Diego Frabetti & Duna Mixtape, Paolo Fronticelli, Giulia Franzaresi, Alessandro Galati, Simone Graziano, Sergio Mariotti, Carlo Maver, Tomaso Montanari, Ada Montellanico, Stefano Moretti, Roberto Ottaviano, Moni Ovadia, Chiara Pancaldi, Simona Parrinello, Alessandro Paternesi, Davide Paulis, Zoe Pia, Franco Piana, Stefano Pilia, Emiliano Pintori, Enrico Pittaluga, Alessandro Rossi, Ruba Salih, Simona Severini, Susanna Stivali, Enrico Smiderle, Stefania Tallini, Tati Valle, Filippo Vignato, Marco Zanotti e Classica Orchestra Afrobeat, Stefano Zenni. Parteciperanno con contributo video: Carolina Bubbico & Corolla Gabriele Coen Gaza Bird Singing – Ahmed Abu Amsha Giovanni Falzone Paolo Fresu Rita Marcotulli

 

foto di apertura di Valerio Pagni

 

 

Il mare restituisce corpi, la politica alibi

naufragio a Lampedusa

Sotto l’ombrellone d’agosto il mare ha restituito corpi. A 14 miglia da Lampedusa, in area Sar italiana, il bilancio provvisorio parla di almeno 27 morti, 60 superstiti e decine di dispersi: tra le vittime una bambina di un anno e mezzo e tre adolescenti.  La rotta è la solita: due barchini partiti dalla Libia, il trasbordo su un’unica barca che imbarca acqua, il capovolgimento, l’avvistamento a mezzogiorno da un elicottero della Finanza. 

La fotografia morale è in un grido: «My baby, my baby», la giovane madre somala arrivata al molo Favaloro senza più la figlia e senza più il marito.  Per l’Organizzazione internazionale per le migrazioni è il peggior naufragio del 2025, in un anno che ha già superato le settecento vite inghiottite nel Mediterraneo centrale.   Le Ong ricordano che le loro navi veloci potevano intervenire, «ma nessuno le ha allertate». 

Il governo ripropone il rosario dell’alibi: «loschi trafficanti», «prevenire le partenze», «dispositivo pronto e operativo».  Intanto a Lampedusa si parla di pattugliamento e soccorso «inadeguati» e di morti annunciate, responsabilità politiche prima che meteorologiche. 

Questa strage è accaduta a ferragosto, quando l’attenzione scivola leggera come la crema solare. È comodo per i distratti: l’indignazione dura il tempo di un reel, poi si cambia ombra. Ma non è il mare a essere crudele: è l’assenza di un sistema europeo di ricerca e salvataggio, la scelta di spostare il problema altrove, la criminalizzazione di chi salva.  

La peggiore tragedia in mare del 2025 è avvenuta quasi a vista di casa. Lì finiscono le vite, qui iniziano gli alibi.

Buon giovedì

 

foto adobestock

Olympe de Gouges, Kuliscioff e le altre che hanno sfidato l’ordine patriarcale

La collaborazione fra il Centro documentazione donna di Modena e il Centro di ricerca interdipartimentale su discriminazione e vulnerabilità dell’Università di Modena e Reggio Emilia è una vicenda che inizia nel 2014, promuovendo iniziative pubbliche sui temi dell’educazione alle differenze e della promozione della parità di genere, dei diritti delle donne, della storia e dell’attualità del femminismo, delle molte forme di violenza maschile contro le donne e delle pratiche di prevenzione e contrasto. Al centro di questa collaborazione, troviamo anche intense riflessioni sulle relazioni di cura, sulle forme di maternità e paternità, sulla diffusione e l’impatto delle nuove tecnologie sul rapporto fra sessi e fra generazioni, sull’intreccio fra forme di discriminazione ed emarginazione.

Questa fertile collaborazione tre anni fa ha dato vita a una nuova interessante impresa: un progetto editoriale, guidato da Vittorina Maestroni e Thomas Casadei e pubblicato dall’editore Mucchi, rivolto alle generazioni più giovani, con l’obiettivo di narrare figure spesso trascurate dalla storia. Si tratta di donne – Mary Shelley, Olympe de Gouges, Anna Kuliscioff, Elena Gianini Belotti, … – che hanno lasciato significative impronte nelle nostre culture, ma di cui la storia spesso trascura l’apporto.

Coniugando diverse forme narrative, il progetto lascia la parola a queste donne, perché illustrino in prima persona il proprio percorso biografico e le proprie opere. Anzi, perché mostrino come la dimensione biografica sia essa stessa espressione del loro pensiero, della loro lotta, del loro messaggio.

Come spesso si dice, la storia la scrivono i vincitori. Questi ricostruiscono l’epopea della loro potenza, le guerre con cui hanno sopraffatto i nemici su cui ora dominano, la giustizia di cui si fanno portavoce. Poi ci sono dinamiche storiche più subdole e silenziose, che impongono forme di dominio meno visibili, potremmo dire sistemiche. Queste forme di dominio, sedimentatesi nei secoli, si sono lentamente normalizzate, hanno strappato il consenso diffuso e silente proprio nascondendo la loro intrinseca invadenza, la violenza, la sofferenza di cui sono origine. Le trame sociali e culturali entro cui viviamo sono tese e riorganizzate silenziosamente da questi equilibri di dominio, che così si presentano come l’habitat naturale e indiscutibile, e quindi come l’assetto giusto proprio perché privo di alternative valide.

La vita e le opere delle donne che in questi libri si raccontano sono state capaci di strappare le fitte trame di una storia al maschile, proponendosi nella loro dirompenza anticonformista. Producendo un qualche attrito o irrompendo con un’azione incoerente, queste biografie hanno prima di tutto reso visibile lo spessore delle trame che strutturano la nostra convivenza; l’ordine che pensavamo inoppugnabile si palesa allora in tutta la sua contingenza. Ed è da questa possibilità di critica che si apre una “storia altra”, tolta via dagli schemi di dominio, parziali eppure vincenti nel loro imporsi come universali; ma anche “storie altre”, storie di donne narrate fuori dagli stereotipi di cui, per essere promosse all’onore della fama, sono state caricate dalla storia ufficiale.

Il progetto di Maestroni e Casadei è allora un contributo al racconto per intero della storia, in un duplice senso: non solo si riportano alla luce personalità lasciate in secondo piano da una storia monocorde, che appiattisce la ricchezza, la molteplicità sui contorni della figura dominante; ma anche si apre uno spazio in cui queste donne riprendono davvero parola nella loro concretezza, al di là della riduzione della loro vicenda a poche battute, a una sola opera, da parte di una storia in grado di risicate e povere concessioni (per lo più funzionali alla propria conservazione).

Dopo una breve presentazione del volume, una graphic novel disegnata elegantemente da Claudia Leonardi e da Alice Milani rappresenta la vita travagliata e coraggiosa della protagonista; segue una biografia essenziale e qualche estratto dai suoi scritti; la seconda parte del libro è composta da una serie di parole-chiave incontrate nella lettura della biografia, trattate con una postura militante, dalla forte capacità di convincimento.

Gli ultimi due volumi apparsi sono dedicati a Anna Kuliscioff e a Elena Gianini Belotti.

Medicina, politica, emancipazione è rappresenta la storia poliedrica della rivoluzionaria e sovversiva, della ricercatrice, scienziata di medicina, della giornalista, leader politica, amante e madre, socialista e femminista. La sua capacità di irruzione nella storia è tangibile in una semplice lista: fra le prime ragazze a iscriversi all’Università di Zurigo; tra le prime donne laureate in Medicina in Italia; unica donna assistente onoraria di Achille De Giovanni, insigne medico e chirurgo di fine Ottocento; prima donna a tenere una conferenza al Circolo filologico di Milano; fra le prime iscritte all’Associazione dei giornalisti in Italia. È significativo il suo impegno per la medicina sociale, che prefigura la centralità della sanità pubblica e anticipa le questioni oggi al centro della medicina di genere. Ma Kuliscioff ha aperto strade anche oltre l’ambito della scienza e della medicina: ella è fra le prime socialiste femministe, con la sua strenua lotta per la pace, per la salute, per la difesa del lavoro, per il suffragio universale.

È poi da pochissimo stato pubblicato il volume su Elena Gianini Belotti, Dalla parte delle bambine e delle donne. Qui si viene a contatto con l’ampiezza della vicenda biografica e intellettuale di Gianini Belotti, spesso ristretta alla sua pur epocale opera più nota: Dalla parte delle bambine. Ma si riscopre anche l’arricchimento che il confronto con lei può offrirci ancora oggi. Si riscopre come le nostre visioni del mondo non siano scintille che brillano di propria luce, ma siano sempre culturalmente condizionate, in una trama relazionale che spesso tende alla conservazione e alla repressione, ma che può al contrario essere piegata alla forgiatura di strumenti di emancipazione, autonomia, libertà. Questo è stato l’impegno di Gianini Belotti rispetto all’ambiente scolastico, ma a ben vedere la sua dirompenza si è mossa contro ogni forma di discriminazione, di stereotipo, di imposizione e, in generale, di eteronomia; e il nostro confronto con la sua vita e il suo pensiero è un buon modo per prendere coscienza delle lotte del femminismo italiano degli anni Settanta, delle loro esitazioni e della loro attualità.

l’autore: Carlo Crosato è docente nel Dipartimento di Lettere, Filosofia e Comunicazione dell’Università degli Studi di Bergamo

“Paesaggi musicali dalla Palestina”: un libro che porta nelle scuole una cultura che non vuole morire

Parlare di Palestina oggi significa pensare prima di tutto alla sofferenza della popolazione di Gaza colpita – dopo la strage compiuta da Hamas il 7 ottobre 2023 – dalla vendetta del governo e dell’esercito israeliano, che sta praticando uno sterminio. In questo momento così drammatico e buio, il libro Paesaggi musicali dalla Palestina (Gesualdo edizioni) realizzato dalla Scuola popolare di musica Donna Olimpia, Musica in culla e Orff-Schulwerk Italiano (Osi)  è un tentativo di riaccendere una luce anche sulla bellezza e la speranza che da sempre attraversa la cultura di questa terra martoriata, portando nelle scuole italiane il patrimonio musicale tradizionale e contemporaneo palestinese. Il libro contiene proposte di attività didattiche per bambini per favorire la conoscenza, la riflessione e il dialogo.

“Oggi a Gaza non c’è più nulla – denuncia il musicista Francesco Galtieri – anche in Cisgiordania le scuole di musica sono chiuse, c’è un clima di intimidazione, non si possono accompagnare i bambini nelle scuole vicino a Hebron perché sono bersaglio dei coloni. Viaggiare è complicato. La cooperante italiana che da trent’anni si occupa del Mosaic Centre a Gerico, per venire in Italia è dovuta passare per il deserto. Il conto corrente del centro è bloccato, è difficile anche far arrivare i soldi. Comunque, le contraddizioni sono tante. In quei territori circola un detto: «se stai qui due giorni, torni e scrivi un libro; se ci stai due settimane torni e scrivi un articolo; se ci stai molto tempo, torni e non scrivi nulla”. Ora si tratta di riconoscere un’identità e difendere i diritti della popolazione palestinese. In tutto questo, la musica rappresenta una speranza.

E Paesaggi musicali dalla Palestina può essere un seme. La presentazione del libro è stata una esperienza toccante: protagonista sono le parole – come ad ogni presentazione – ma non molte, perché quasi subito c’è la musica. Una interprete palestinese canta un brano tradizionale. Si balla, anche, per mano, tutti: chi sa già i passi e chi (come me) no. E c’è una corrente di gioia davvero inaspettata, visto che stiamo parlando di Palestina.
I proventi del libro saranno devoluti al Mosaic Center di Gerico, impegnato nella conservazione degli edifici storici e dei siti archeologici, con il coinvolgimento di giovani, soprattutto donne, con fragilità sociali.
Paesaggi musicali dalla Palestina è il primo progetto della collana editoriale Fare per capire, dedicata all’educazione musicale nelle scuole, ideata e curata da Francesco Galtieri, Paola Anselmi e Ciro Paduano, musicisti, formatori e docenti della Scuola popolare di musica Donna Olimpia. Li abbiamo incontrati per un dialogo a quattro.

“Abbiamo scelto di partire dalla Palestina anche per continuità con la nostra lunga storia di progetti in Medio Oriente – spiega Francesco Galtieri – dalla fine del 2002, come Scuola popolare di musica Donna Olimpia, promuoviamo gli scambi culturali e sosteniamo le nascenti associazioni musicali. Durante la seconda Intifada abbiamo avviato una collaborazione con l’allora ufficio della Pace del Comune di Roma in Gerusalemme e abbiamo intrapreso diversi viaggi di scambi culturali con associazioni e conservatori sia israeliani che palestinesi. Abbiamo sostenuto un concorso pianistico a Gerusalemme, rivolto a ragazzi di entrambe le sponde, e supportato la sezione di musica orientale organizzata dal conservatorio palestinese. Nel 2007 abbiamo portato in tour per la prima volta in Italia il coro Jasmine, composto da bambini della scuola di musica Magnificat di Gerusalemme”.

Tra i vari concerti, ricordiamo quello in sostegno di Emergency, al liceo Morgagni di Roma e quello a dicembre a Roma in Campidoglio. “I brani portati dai bambini contengono messaggi di pace, la musica è uno strumento di connessione tra popoli e culture. Abbiamo fatto formazione e realizzato un manuale per gli insegnanti delle scuole UNWRA delle Nazioni Unite che forniscono istruzione ai bambini palestinesi. Abbiamo portato due pianisti, un palestinese e un israeliano, a suonare nella sala accademica di Santa Cecilia”. Nel 2008 gli è stato assegnato il premio internazionale Gibson dall’International Society for Music Education, per il progetto Note di pace, che attraverso la musica promuoveva lo scambio culturale tra israeliani, italiani e palestinesi.

“Grazie a questi progetti negli anni siamo entrati in contatto con tante persone coraggiose – racconta –  come Veronika Cohen, professoressa emerita presso la Jerusalem Academy of Music and Dance, sopravvissuta all’olocausto, che ha festeggiato i suoi 80 anni organizzando una protesta fuori dal carcere israeliano di Neve Tirtza per denunciare le condizioni delle detenute palestinesi. O come Ramzi Aburedwan, figura iconica in Palestina, perché da bambino, durante la prima Intifada, era tra coloro che lanciavano i sassi, poi ha scoperto la passione per la musica, e  ancora oggi, come direttore della scuola di musica Al Kamandjati di Ramallah, sostiene l’educazione musicale dei poveri e dei profughi”.

“Attraverso questi contatti abbiamo scoperto il patrimonio culturale palestinese e ci siamo appassionati – aggiunge Paola Anselmi –. Il loro approccio alla musica è diverso dal nostro, che è piuttosto accademico. Nel loro conservatorio si affrontano prima di tutto la musica e gli strumenti tradizionali, e si suona tutto a memoria. Nel nostro immaginario la Palestina è associata alla sofferenza, ma la sua voce umana e musicale è straordinaria, pervasa di luce e speranza. Per esempio, il primo brano del libro è una ninna nanna, “Nini Ya Moumou (o Mῡmῡ)”. Le ninne nanne arabe partono da un canovaccio, una melodia molto semplice che viene poi affidata all’improvvisazione, generalmente di altissimo livello, di chi interpreta. La ninna nanna che abbiamo scelto è cantata da una nonna per il suo nipotino. Nel testo non si parla della mamma che non c’è, ma della mamma che sta per tornare; e se il cibo manca sulla nostra tavola, sarà presente su quella dei vicini: c’è sempre un’apertura positiva. I brani proposti in Paesaggi musicali dalla Palestina sono sette, tra canti tradizionali e musiche contemporanee, compresi due brani della compositrice e attivista Rima Nasir Tarazi, fondatrice del Conservatorio palestinese, che, ultranovantenne, continua la sua attività di educatrice, promuovendo la musica come mezzo di espressione e resistenza.

“La collana Fare per capire – spiega Ciro Paduano – è organizzata in scaffali tematici. Lo scaffale Musiche dal mondo, in cui rientra Paesaggi musicali dalla Palestina, offre percorsi didattico-musicali su materiali provenienti da diverse aree geografiche, in particolare da zone martoriate, basati sul principio fare per capire. La metodologia Orff, o Orff-Schulwerk, che applichiamo da anni, non segue la distinzione tra teoria e pratica: la didattica passa per l’esperienza e l’improvvisazione, non solo con gli strumenti musicali, ma anche col corpo e con la voce. Nei nostri quaderni operativi ci sono la danza, il canto, la voce parlata, il movimento ritmico, la partitura. E aldilà della musica c’è molto altro: l’intento di allargare gli orizzonti, permettendo ai bambini di conoscere melodie di altre culture e di sfatare tabù o paure nei confronti di ciò che è lontano e diverso. In fondo, queste canzoni parlano di temi semplici e familiari, come la natura, la casa, l’amore. Sono piccoli semi di pace che gettiamo, come musicisti e come educatori”. Seguiranno altri volumi per i vari scaffali della collana, con contenuti diversi ma gli stessi principi pedagogici. “Ovviamente, essendo attività per le scuole, i materiali sono stati riadattati. Undici autori, da Cuneo a Palermo, li hanno rielaborati per renderli accessibili ai più giovani. Anche i passi di danza sono semplificati, ma senza svuotarli di senso. Alcuni passi hanno origini antiche, per esempio pestare i piedi a terra era già una pratica fenicia per scacciare gli spiriti maligni, poi lo facevano gli operai per schiacciare il fango per fare i mattoni con cui costruire le case: lo stesso gesto attraversa il tempo acquistando una valenza diversa”.

Quale è i vostro obiettivo? “Con il nostro impegno vogliamo sostenere il diritto alla bellezza e alla musica, affinché non sia un privilegio, ma una realtà, affinché entri in tutte le scuole e sia per tutti i ragazzi – risponde Anselmi –. Perfino in questi tempi così difficili la bellezza è ovunque, anche in questi bambini che attraversano i checkpoint con i loro strumenti musicali, e continuano a studiare la musica anche tra i bombardamenti.
“Oggi, più che mai, la musica ha una missione e un messaggio speciale da dare al mondo- – dice Rima Nasir Tarazi in una video-intervista proiettata durante la presentazione del libro – Attraverso la musica possiamo raccontare la nostra storia e continuare a testimoniare che la bellezza vincerà sempre. Sono la bellezza, l’armonia, l’amore e la compassione che salveranno gli esseri umani”.

In apertura, lezione di musica con Ciro Paduano a Betlemme

Se Sala è colpevole, Salvini è colpevolissimo

Matteo Salvini

Roberto Vannacci ha deciso che il sindaco di Milano porta una «responsabilità morale enorme» per la morte di Cecilia De Astis, investita da un’auto pirata guidata da quattro minorenni. Perché governa la città. Applicando la stessa aritmetica politica, il suo segretario Matteo Salvini si ritroverebbe un inventario di tragedie. Da ministro dell’Interno durante il crollo del Ponte Morandi (43 morti) e la strage di Corinaldo (6 morti). Nei mesi dei “porti chiusi”, oltre 3.500 migranti morti o dispersi nel Mediterraneo, con naufragi come quello del 1° settembre 2018 (più di 100 morti) o del 25 luglio 2019 (circa 150 dispersi). Da ministro delle Infrastrutture nel governo Meloni, il naufragio di Cutro (94 morti, 35 minori), l’alluvione in Emilia-Romagna (15 morti) e l’incidente ferroviario di Brandizzo (5 morti). E poi le migliaia di vittime della strada negli anni di governo, nonostante codici riscritti e annunci di svolte epocali.

So bene che la responsabilità politica non si misura con il pallottoliere dei cadaveri e che la realtà è più complessa di un titolo a effetto. Ma quando un parlamentare decide di piegare una tragedia privata in arma da scagliare, l’unico modo per svelarne l’impostura è riprodurne lo schema fino a mostrarne il ridicolo. Se davvero volessimo misurare il valore di chi governa contando i morti, il metro finirebbe per scottare tra le mani di chi lo impugna. Ho dovuto quindi scrivere un editoriale così stupido per smascherare la stupidità, sapendo che la stupidità, come certe erbacce, prospera proprio nel terreno che la espone.

Buon mercoledì

 

foto Gov

Sant’Anna di Stazzema: la storia di Genny che a 23 anni sfidò i nazifascisti per salvare suo figlio [gallery]

Il 12 agosto 1944 le S.S. hanno compiuto il massacro di Sant’Anna di Stazzema uccidendo e poi dando alle fiamme 560 persone di tutte le età. Genny Bibolotti Marsili aveva 23 anni, venne presa e condotta in una stalla (poi data alle fiamme) con suo figlio, in località Vaccareccia. Sebbene ferita, si sfilò da un piede lo zoccolo e lo scagliò con forza sul volto del tedesco. Il suo sacrificio fu compiuto. Attirata l’attenzione del militare, che la finì con una scarica di mitra, riuscì con il suo gesto disperato, a salvare la vita al piccolo Mario di 6 anni. Mario oggi ottantaseienne è uno dei pochissimi superstiti della strage nazifascista ancora in vita.

L’autore: Valerio Pagni è fotografo pluripremiato, in particolare per il suo lavoro su sport e disabilità