Uno squilibrato incidentalmente presidente degli Stati Uniti d’America – Donald Trump – sta gestendo il conflitto in Ucraina come un reality show di cui lui è l’assoluto protagonista. Nella sceneggiatura della Casa Bianca Vladimir Putin e Volodymyr Zelensky sono banalmente le spalle. Il primo è l’impero del male, con la fisiognomica perfetta di chi non vuole decadere. Il secondo è lo sconfitto designato – dal copione – che annoia il pubblico per il suo pietoso insolentire.
Inutili le analisi e inutili gli editoriali pensosi. Ieri Trump di fronte ai giornalisti ha letteralmente dichiarato che «ci saranno dei cambiamenti nel territorio… La Russia si è impossessata di alcuni territori di prima qualità. Si è impossessata in gran parte di terreni oceanici, che chiamiamo proprietà fronte mare. Sono sempre le proprietà più preziose». Sembra l’apertura di una puntata di “Temptation Donbass” perché è esattamente così: Trump l’imbonitore, Trump l’anestetico della complessità, Trump che fa spettacolo sui corpi degli assediati, dei bombardati, dei periferici, dei devastati.
L’aspetto moralmente più contundente del triste spettacolo è però l’Unione europea, nelle forme e nelle facce della presidente von der Leyen, della sua commissaria Kallas, dei capi (e cape) dei governi in Europa e del caravanserraglio sghembo di tutti i ministri degli esteri. Questi sono pura scenografia, stantia, ma cicaleggiano da leader rilasciando comunicati stampa che non pesano nemmeno come un’interferenza lontana. Sculettano da leader. Hanno ragione: mai visti dei campioni di rarefazione politica di tal guisa.
Il gabinetto di guerra israeliano ha partorito un folle progetto criminale. Difficile non pensare proprio i piani di chi un secolo fa volle colpire con intenti genocidari le persone di religione e/o cultura ebraica in Europa.
In un primo momento, infatti, il regime nazista pensò ad una pulizia etnica della Germania, per rimuovere quelli considerati corpi estranei e impuri. È il cosiddetto Piano Madagascar, una migrazione forzata di una parte della popolazione, sradicata dai luoghi in cui viveva da generazioni, soluzione poi messa da parte per passare al totale sterminio (il piano fu ideato nel 1937 dalla Polonia in collaborazione con la Francia, nel 1938 se ne “appropriò” la Germania di Hitler, ndr).
Ed ecco che oggi si ricomincia a parlare di un ‘piano Somalia’ per spostare la popolazione gazawa (e chissà, in futuro anche tutti i palestinesi, compresi quelli della Cisgiordania), idea emersa già in primavera, e pure lo scorso anno (riporta la notizia La Stampa del 9 agosto). È un progetto alla cui formulazione hanno cooperato anche ambienti americani, e l’amministrazione Trump non sembra aver opposto particolari resistenze, anche perché l’idea del presidente resta quella orripilante riviera di qualche mese fa, nel video prodotto con l’intelligenza artificiale e postato dalla Casa Bianca.
Probabilmente Netanyahu non intende poi creare campi di concentramento in Somalia, alla destra israeliana nemmeno interessa cosa ne sarà dei gazawi una volta fuori dal territorio che Israele intende occupare, anche perché, come vediamo ogni giorno, l’opera di sterminio è già in atto con modalità sempre più violente e strazianti. E di certo il governo di Tel Aviv non pensa proprio ad un rientro della legittima popolazione, coerentemente con tutta la storia israeliana che fin dalla fondazione ha vietato il diritto al ritorno ai palestinesi.
Ma va ricordata una differenza fra i due piani di deportazione: a ventilare ipotesi alternative alla terra di Palestina, fra cui proprio la destinazione africana, erano stati anche alcuni sionisti, che (giustamente) notavano come la Palestina non corrispondesse al criterio di “terra senza popolo per popolo senza terra”. Poi di quell’idea si appropriò Hitler, e nel mondo sionista prevalsero invece i gruppi più oltranzisti, in un crescendo coloniale (sulle vicende legate alla colonizzazione israeliana si può vedere il recente volume di Lorenzo Kamel, Israele-Palestina in trentasei risposte, uscito per Einaudi).
E oggi, gli eredi degli oltranzisti sono ancora più aggressivi e dettano la linea nel governo Netanyahu, col favore del premier criminale. Il piano rilasciato nei giorni scorsi parla di occupare il poco e devastato territorio rimasto ai palestinesi, e comprimere la popolazione in uno spazio isolato e ristretto, da cui poi si procederà all’emigrazione.
L’incedere nazista in Polonia passò per tappe analoghe: occupare il Paese, confinare la popolazione in un’area limitata (il ghetto), e da lì deportazione.
Da una parte – cercando di tener buona un’ormai recalcitrante (ma inerte) opinione politica internazionale – Netanyahu afferma che l’obiettivo è eliminare Hamas, e poi affidare agli arabi il territorio, beninteso riservandosi il diritto di dire chi deve o no governare (senza con questo difendere in alcun modo i terroristi, sia chiaro, ma l’atteggiamento israeliano nega ogni autodeterminazione del popolo palestinese). Dall’altra parla di piena occupazione e controllo, come in Cisgiordania, e i suoi ministri discutono apertamente di cancellazione di Gaza, senza essere smentiti dal premier.
Le cancellerie occidentali iniziano a muoversi, ma timidamente e sostanzialmente solo a parole, senza atti concreti, specie da noi. Sul governo di Netanyahu non vengono imposte reali pressioni di alcun tipo, per cercare di arginare quello che è un vero e proprio atto coloniale e genocidario (binomio che ha segnato tanti episodi della storia occidentale), e nessun decisore politico riconosce apertamente che l’atteggiamento che spinge verso il progetto ‘Grande Israele’ non è altro che quello di un secolo fa, quando qualcuno inneggiava Deutschland über alles, in una pretesa superiorità, folle e criminale, che poteva e doveva travolgere l’altro.
L’autore: Matteo Cazzato è filologo, ricercatore dell’Università di Padova
Troppo ciechi per osservare la caduta delle stelle ieri sono tornati a galla gli odiatori di Michela Murgia. Hanno pensato – quelli – che fossero una ghiotta occasione i quarantotto mesi passati dalla morte della scrittrice per evacuare la loro bile che avevano tenuto in serbo, pronta per gli anniversari successivi.
Michela Murgia si è portata nella tomba peccati non emendabili: ha scorto l’autoritarismo all’amatriciana che sta insozzando le istituzioni ed è quindi odiata da chi l’aveva relegata nel cassetto dei maniacali; ha previsto la caduta dell’archetipo del maschio tradizionale italiano, pronosticando perfino la maschera da commedia dell’arte dell’uomo in divisa in difesa del pregresso; ha rivendicato il diritto – nonché dovere – di parola, senza fermarsi all’elaborazione di un’opinione ma reclamando il diritto di ostentarla; ha insegnato come avviene la compressione degli spazi quando la banalità del male diventa pop.
Per il compleanno della sua morte – rito caro alla stampa – le hanno regalato qualche articolo stanco scritto di fretta copiando i ricordi dei suoi amici. Qualcuno non è riuscito a frenare l’impulso di definirla controversa. Qualcun altro ha intervistato i suoi famigliari con pochissima famigliarità , che hanno sminuito la famigliarità degli altri. Ciò che contava era avere un “Michela Murgia” dentro il sito o nei social per irretire clic.
Tutti hanno potuto tirare fuori dai cassetti i propri giudizi, i pregiudizi e perfino i postgiudizi. La missione è stata compiuta. Ma che pena per i necrofili mai abbastanza vivi, terrorizzati all’idea che i loro avversari se ne vadano tutti.
Guardo e riguardo un video, non riesco a staccarmi. Al centro di una strada deserta, un ragazzino, sembra avere circa 10 anni – difficile dire l’età precisa -, con uno zainetto sulle spalle e legata a una corda una valigia più grande di lui. Deve muoversi velocemente ma non riesce a trascinarla, è troppo pesante. L’esercito israeliano ha improvvisamente diramato l’ordine di evacuazione da quella che era una delle ultime zone “sicure” (si fa per dire) della Striscia di Gaza. Parliamo di Deir el Balah, dove hanno sede varie Ong e l’agenzia dell’Onu, che sono state a loro volta massicciamente bombardate per giorni anche durante la notte. (Mentre scrivo l’Idf ha mirato e distrutto anche il loro warehouse che conteneva farmaci e apparecchiature mediche).
Il video del bambino, insieme a molti altri, è stato diffuso nella chat Operatori dell’informazione per Gaza in cui siamo presenti con altri 160 colleghi che si ribellano alla narrazione parziale, quando non del tutto falsa, dei media italiani mainstream. Coraggiosamente è stato condiviso da un operatore umanitario che in questa zona agisce per sostenere la popolazione civile. Si tratta di un cittadino italiano, Gennaro Giudetti, che si è trovato a sua volta sotto i bombardamenti dell’esercito israeliano, a tappeto, sistematici, perché nessun testimone dell’orrore, dei crimini contro cittadini inermi, deve sopravvivere per poter raccontare. Come scrivevamo sul numero scorso più di 200 giornalisti palestinesi sono stati sterminati. Fatti fuori loro ora solo sparuti cooperanti stranieri restano sul campo e sono il nuovo target dell’Idf. Quello che accade a Gaza da ottobre 2023 non è una guerra tra eserciti. Non è nemmeno una crisi umanitaria nel senso tradizionale. È un’operazione di cancellazione fisica, simbolica e demografica di un popolo, attuata con strumenti militari e giuridici, giustificata dalla retorica della sicurezza, e resa possibile da una complicità internazionale fondata sull’inazione e sul silenzio. È, nei termini esatti del diritto internazionale, un genocidio.
Non si tratta più solo di una definizione morale. Nel marzo del 2025, una commissione indipendente delle Nazioni Unite ha dichiarato “plausibile” che Israele stia commettendo atti di genocidio nella Striscia di Gaza. Il rapporto – basato su dati raccolti sul campo, immagini satellitari, testimonianze e documentazione di Ong – elenca una serie di pratiche che, per intensità e sistematicità, rientrano tra quelle previste dalla Convenzione sul genocidio del 1948: uso deliberato della fame come arma, distruzione delle infrastrutture idriche e sanitarie, attacchi mirati contro ospedali, scuole, operatori umanitari, e violenza sessuale sistematica. Secondo l’Alto commissariato Onu, oltre 70.000 persone sono state uccise nella Striscia fino a giugno 2025, in larga parte donne e bambini. L’Unicef ha parlato di «una guerra contro i bambini». The Lancet ha stimato che tra ottobre 2023 e luglio 2025 le vittime civili potrebbero essere oltre 85.000, mentre centinaia di migliaia sono ridotte alla fame estrema. La carestia di massa avanza nella Striscia e il 50% della popolazione si trova in condizioni di malnutrizione acuta, mentre l’accesso agli aiuti è ostacolato militarmente. Non è un effetto collaterale. È una strategia. Francesca Albanese, relatrice speciale Onu sui Territori palestinesi occupati, ha descritto in un rapporto dettagliato la transizione da un’economia dell’occupazione a «un’economia del genocidio», nella quale il controllo totale sulla vita quotidiana dei palestinesi è accompagnato da una distruzione sistematica dei presupposti minimi per la sopravvivenza. Albanese denuncia il coinvolgimento diretto di aziende, istituzioni accademiche, enti pubblici e privati nel mantenimento dell’architettura dell’occupazione. Per questo è stata colpita da sanzioni personali da parte degli Usa, attacchi politici, isolamento. Il messaggio è chiaro: denunciare il genocidio oggi costa la diffamazione e l’espulsione dallo spazio pubblico. La giurista Micaela Frulli – una delle voci più autorevoli del diritto penale internazionale (Dpi) in Italia – ha parlato di una «normalizzazione giuridica della violenza»: l’assenza di conseguenze effettive per crimini di questa entità rende il diritto internazionale una cornice inefficace, priva di cogenza. «Se non viene attivato l’obbligo di prevenzione del genocidio sancito dalla Convenzione del 1948», spiega Frulli, «si mina la funzione stessa del Dpi, che non può essere selettivo o condizionato dalla geopolitica».
Nel frattempo, Israele propone – e avvia – la costruzione di una «città umanitaria» sulle rovine di Rafah. Un progetto promosso dal ministro Katz e sostenuto da Netanyahu, concepito per concentrare centinaia di migliaia di palestinesi in un’area chiusa, dalla quale si potrà uscire solo per «emigrare volontariamente». Il piano, come hanno denunciato 16 giuristi israeliani in una lettera aperta, rappresenta la prosecuzione del disegno genocidario attraverso mezzi amministrativi e pseudo-umanitari. La stessa terminologia utilizzata – «centro modello», «spazio protetto», «riqualificazione» – rievoca, nella sostanza, dinamiche storicamente associate al trasferimento forzato e alla pulizia etnica. La deportazione come esito programmato di una pressione militare totale – fame, sete, bombardamenti, assenza di cure – è già in atto. La città umanitaria è il dispositivo finale di questo processo. È la Nakba del 2025. Ma con una differenza sostanziale rispetto al 1948: oggi, tutto è sotto gli occhi della comunità internazionale. Ogni attacco è documentato. Ogni crimine è registrato. Le prove ci sono. La giustizia, no. Le risposte politiche sono inconsistenti. Gli Usa di Trump non solo proteggono Israele da ogni sanzione, ma attaccano apertamente gli organismi internazionali: la Corte penale internazionale, la relatrice speciale dell’Onu, i giornalisti che documentano. L’Unione europea resta inerte, incapace di prendere posizione (o non vuole?). Nessuna sospensione degli accordi commerciali e militari. Nessuna attivazione dell’art. 7 dei Trattati per la violazione dei valori fondamentali. La Nato continua a considerare Israele un partner strategico. Le parole “diritti umani”, “legalità internazionale”, “democrazia” diventano formule spente, prive di impatto.
Intanto, nelle zone cosiddette deconflicted, le bombe continuano a cadere. Gennaro Giudetti da Deir al-Balah ha denunciato attraverso messaggi vocali la totale assenza di protezione per i civili e gli operatori umanitari. La sua voce, insieme a quella di medici, giornalisti, sopravvissuti, chiede un’azione immediata, concreta, non simbolica. Ma finora le istituzioni politiche si sono dimostrate refrattarie persino a nominare la parola “genocidio”, come se riconoscerlo fosse un rischio politico e non un dovere giuridico. Il genocidio non è solo l’atto della distruzione. È anche il processo che lo rende possibile. È l’isolamento di un popolo, la sua disumanizzazione, l’annullamento sistemico delle sue condizioni di vita. È la trasformazione di una crisi politica in un’opportunità strategica per ridisegnare la geografia e la demografia di un territorio (obiettivo Grande Israele). Ed è, soprattutto, il fallimento delle istituzioni che dovrebbero prevenirlo.
Oggi la democrazia non è solo in pericolo nei luoghi in cui è formalmente negata. È in crisi nei Paesi che la rivendicano, ma che tacciono. Dove il diritto si riduce a linguaggio tecnico, e non a strumento di giustizia. Dove i principi universali si applicano a geometria variabile, con doppi standard. Dove il silenzio vale più del diritto. Gaza è un test per la tenuta dell’intero sistema multilaterale. Se questo genocidio resterà impunito, la funzione stessa del diritto internazionale – come argine alla barbarie – sarà compromessa in modo irreversibile. E non riguarderà solo il popolo palestinese. Riguarderà tutti noi.
L’idea di trasferire forzatamente la popolazione di Gaza, senza sapere neanche dove, è un piano strategico che richiama gli avvenimenti più bui della storia contemporanea, Riporta alla memoria scenari di deportazioni di massa e di pulizia etnica. L’espulsione forzata di un popolo dalla propria terra è una violazione palese del diritto internazionale e dei principi fondamentali di autodeterminazione dei popoli. È una misura attuata su larga scala e su base razziale, etnica, politica o religiosa. Al trasferimento segue automaticamente una restrizione della libertà personale e dei diritti civili dei deportati. Dal 1998, in seguito alla ratifica dello Statuto di Roma, la deportazione è annoverata tra i crimini contro l’umanità. Nella Striscia di Gaza, Stati Uniti e Israele hanno deciso che il problema possa essere risolto semplicemente spazzando via gli abitanti da quel territorio. Si cancellano come nulla fosse l’identità e i diritti di milioni di persone, sancendo il principio criminogeno che un popolo possa essere spostato dalla propria terra per favorire interessi economici e politici.
Se il mondo rimane in silenzio di fronte a questa scelta scellerata, si avvallerà un precedente pericolosissimo in base al quale la pulizia etnica diventa una strategia geopolitica utilizzabile dalle nazioni più potenti nei confronti di quelle più deboli. Sarà un ulteriore colpo mortale inferto al diritto penale internazionale e alla credibilità degli organismi umanitari internazionalmente riconosciuti.
L’autore: Vincenzo Musacchio, criminologo, docente di strategie di lotta alla criminalità organizzata transnazionale, associato al Rutgers Institute on Anti-Corruption Studies (RIACS) di Newark (Stati Uniti). Attualmente, è ricercatore indipendente e membro ordinario dell’Alta Scuola di Studi Strategici sulla Criminalità Organizzata del Royal United Services Institute di Londra
Mentre il primo ministro di Israele, Netanyahu annuncia l’occupazione di Gaza, con inaccettabile deportazione della popolazione civile palestinese, Nicola Lagioia usa parole nette, per scuotere le coscienze: “Gaza rischia di essere il buco nero (morale, giuridico, geopolitico, esistenziale) dentro cui finiremo tutti, se non abbiamo una reazione”.
Scrittore attento alla lettura del contemporaneo, Premio Strega con il romanzoLa Ferocia (Einaudi), per anni direttore del Salone del libro di Torino e ora direttore editoriale della rivista Lucy sulla cultura, nonché voce di Paginatre su Radio3 Nicola Lagioia è fra i protagonisti dell’edizione 2025 della rassegna Percorsi a Santo Stefano di Magra (La Spezia), diretta da Emanuela Mazzi e centrata sulla parola chiave “umano”. In vista del suo incontro pubblico di apertura della rassegna il 21 agosto alle 21, 15 in piazza della Pace gli abbiamo rivolto qualche domanda.
Nicola, abbiamo perso tutto ciò che è umano a Gaza… Dopo oltre sessantamila morti in gran parte civili palestinesi, donne e bambini, la strage continua è sotto gli occhi di tutti, come se ne esce? A Gaza sta andando in scena un massacro con l’avallo di Stati Uniti (senza il cui aiuto la strage finirebbe all’istante) e i Paesi dell’Europa occidentale (Unione Europea e Gran Bretagna), i quali, mi riferisco all’Europa, avevano fondato un tentativo di rinascita, dopo la II guerra mondiale, proprio su principi che adesso vengono sistematicamente calpestati. La prima vittima di questa situazione è naturalmente il popolo palestinese. La seconda rischiamo di essere noi. Come potremo invocare i capisaldi della dichiarazione universale dei diritti umani – di cui ci siamo reputati a lungo i principali difensori – restando a fianco del governo di Netanyahu? Incapaci di sganciarci dall’attuale governo di Israele, indegnamente asserviti a quello di Trump. Gaza rischia di essere il buco nero (morale, giuridico, geopolitico, esistenziale) dentro cui finiremo tutti, se non abbiamo una reazione.
La Russia ha aggredito l’Ucraina e dopo tre anni la guerra non si placa, Israele ha messo sotto assedio la popolazione civile palestinese per una punizione globale, dopo l’attacco terroristico di Hamas e ora minaccia di annettere la Striscia di Gaza. Che ne è del diritto internazionale, del sogno di una Europa libera dalle guerre e agente attivo in questo senso in cui, nonostante tutto, ancora crediamo? Come dicevo, in questo momento l’Europa mi sembra più che mai una fiorente colonia commerciale degli Stati Uniti (ma con tentazioni di opposta subalternità culturale: basti pensare all’assurda passione di non pochi intellettuali, attivisti, giornalisti, politici e loro ultrà per la Russia di Putin), priva di un’autonomia politica, militare, economica. Basti vedere come è stata gestita la situazione dei dazi: insultati ripetutamente da Trump, ci siamo presentati (in un golf club!) con il cappello in mano per farci derubare con soddisfazione. Siamo in questo momento un continente disonorevolmente agiato, politicamente imbelle, con qualche residua vitalità culturale. Ho sempre sostenuto l’Unione Europea ma mai come oggi mi sembra un progetto in stallo. Credo sia anche chiaro che l’Italia, fuori dall’Unione, conterebbe ancora di meno. Abbiamo appreso in questi anni il vero significato di sovranismo fuori dai confini provinciali: servilismo.
Cosa possiamo fare per fermare questa folle corsa al riarmo mentre il green deal arretra? Ci sarebbe bisogno di un nuovo incontro (ma manca da almeno 40 anni) tra istanze culturali e politica. Peccato che la politica italiana riesca a leggere oggi la cultura solo in modo strumentale, condannandosi così a una vuotezza di contenuti spaventosa. Ci sarebbe dunque bisogno di una politica che torni a guardare al territorio e non alla mappa. Che dia cioè più importanza al mondo reale (magari tornando a frequentarlo ogni giorno, ogni ora) che a quello dei social. Non mi pare stia accadendo.
In tour: Il 21 agosto Nicola Lagioia interviene al festival Percorsi a Santo Stefano di Magra per parlare sul tema “la città dei vivi”. Il 20 settembre terrà una lectio magistralis al Festivalfilosofia di Modena dal titolo “Egemonia o egomania? L’intellettuale e il pubblico”.
Matteo Salvini ha detto che in caso di un grande terremoto, «le città crollerebbero ma il Ponte sullo Stretto resterebbe in piedi». È la dichiarazione perfetta per raccontare la sua politica: un’opera faraonica, isolata nel nulla, che resiste mentre attorno si muore.
Lui ci mette l’orgoglio ingegneristico, come se bastasse progettare un ponte antisismico per meritarsi applausi. Ma non gli viene un dubbio, neanche per sbaglio: se siamo certi che le città crollerebbero, non sarebbe il caso di occuparsi delle città? Di renderle sicure, abitabili, vive? O il piano è davvero che in caso di catastrofe tutti si rifugino sulla carreggiata panoramica di un’opera che costa oltre 13 miliardi?
Il paradosso è che ha ragione: il Ponte, almeno sulla carta, resisterebbe. È pensato per sostenere sismi di magnitudo 7,1, più forte del disastro del 1908. Ma mentre Salvini si commuove davanti ai rendering, la Protezione civile italiana continua a segnalare migliaia di edifici pubblici a rischio. Scuole, ospedali, case. Quelli sì che cadrebbero.
E allora sì, lo ha detto lui: le città crollerebbero. È una confessione. È l’ammissione che i fondi ci sono, ma vanno altrove. Verso il cemento che fa notizia, verso l’arroganza che fa propaganda, mai verso la vita delle persone. Salvini costruisce ponti nel vuoto, mentre la terra trema sotto chi ci vive davvero.
E se il Ponte serve solo a resistere in un deserto di macerie, è esattamente questo che racconta: l’idea di uno Stato che preferisce salvarsi la faccia piuttosto che salvare i corpi. Un’opera antisismica in un Paese che non lo è. Un monumento alla propria insipienza.
Dopo le dichiarazioni di Francia, Gran Bretagna e altri Paesi disposti a un riconoscimento eventuale della Palestina si delinea il quadro effettivo dello strumento diplomatico del governo di Meloni e Tajani. E non è davvero dei migliori. La subalternità imposta dal governo italiano agli Stati Uniti ha messo la sua povera linea diplomatica sui binari di un posticcio atlantismo, un falso e poco efficiente attivismo sul fronte della guerra in Ucraina e su una confusionaria strategia da cercare di applicare in Africa.
L’Italia si è conformata proattivamente ad ogni scelta di Washington finendo per essere il “cavallo di Troia” statunitense, o meglio trumpiano, in Europa. Sin dall’elezione di Trump, Meloni ha costruito un, a volte immaginario, rapporto speciale con gli Stati uniti, fingendosi equilibrista in grado di tenersi stabile fra interessi europei e quelli statunitensi. In realtà ha creato una narrativa rivolta soprattutto ai mezzi di comunicazione europei che, ad onta di essere contraddittoria – quando ad esempio ha affermato che Italia e USA sono sorelle e sono in buoni rapporti anche quando sono in disaccordo (sic!) – ha sempre parteggiato strenuamente per Washington. L’attivismo italiano in favore degli Stati uniti ha portato l’Europa a pendere per un accordo sui dazi del tutto favorevole a Trump che porterà a degli esiti disastrosi proprio su gran parte della produzione delle classi di beni su cui la destra italiana ha basato la propria politica economica. Ad esempio il settore delle eccellenze alimentari tanto elogiato del governo meloniano, al punto da diventare caratterizzante per il ministero del fedelissimo Lollobrigida, sarà fra i più esposti (secondo uno studio di Unimpresa) e subirà dai dazi un contraccolpo che può essere letale per una importante percentuale di piccole imprese.
L’Italia, con la sua frenesia atlantista ha inoltre costantemente attuato un atteggiamento di complicità nel genocidio commesso da Israele nei confronti della popolazione palestinese, non votando mai alcuna Risoluzione dell’Assemblea generale che chiedesse un cessate il fuoco se non nell’ultimo periodo. Ma non solo. Roma non si è assolutamente discostata dalle posizioni statunitensi e prima di qualsiasi iniziativa il capo dell’esecutivo ha sempre interpellato Washington o il governo israeliano.
É poi forse ancora più grave (perché tenuto sotto traccia) quanto sta avvenendo in Africa e con il cosiddetto piano Mattei, col quale il governo Meloni si è riempito la bocca sin da subito e con il quale in concreto si è ottenuto ben poco, se si esclude la collaborazione con la Tunisia e il complicato (conseguente) gioco a tre con i governi libici che è già stato frutto di una umiliazione per alcuni dirigenti europei. Soprattutto poi non si comprende, da un punto di vista della legalità internazionale, come l’Italia abbia potuto addestrare militari dell’esercito di un governo che formalmente non riconosce. Ad onore del vero su questo particolare punto si deve ammettere che la situazione libica è molto complessa e certe scelte sono state forse dettate più da un eccessivo attivismo che da una inclinazione politica. Sembra infatti, a partire dalle ingarbugliate dichiarazioni del ministro degli Affari esteri Tajani sulla bandiera europea, che ai vertici della Farnesina (quelli politici per intendersi) semplicemente manchi ogni competenza per poter condurre una politica estera mirata e non sia quindi una questione di prese di posizione politiche. Alcuni esempi in questo senso sono illuminanti come la visita del ministro in Egitto ad aprile durante la quale Tajani ha plaudito gli sforzi egiziani per garantire il cessate il fuoco a Gaza. Il piano egiziano è però essenzialmente differente da quello Usa sostenuto da Trump. Sembra quindi che in molti casi la dirigenza del ministero di Tajani sia quantomeno sconnessa dalla realtà e impreparata ad affrontarla senza un deciso indirizzo della presidenza del consiglio dei ministri.
Gli ultimi eventi, con i quali Francia e Gran Bretagna, molto sottilmente, utilizzano la posta del riconoscimento della Palestina contro Israele e in un certo qual senso contro gli Stati Uniti dimostrano però, e finalmente, il vicolo cieco in cui ci hanno portato Meloni e Tajani.
L’Italia, dopo la sua formale sottomissione a Washington non potrebbe mai permettersi, pena la sua credibilità internazionale, di proporre un tale innalzamento della posta e neanche uno simile. Così diventa chiaro il nostro ruolo come Paese: obbedienti servitori di Washington da una parte, e suoi vassalli dall’altra, all’interno dell’Unione europea. La questione dei dazi è risuonante da quest’ultimo punto di vista e non può che riportarci anche a quanto giustamente notato dal noto reportage della rivista Time: un Primo ministro con due facce, una decisamente nazionalista in Europa (a corroborare i vaghi ideali della maggioranza che la ha supportata) e una sordidamente atlantista dall’altra parte dell’Oceano (per ottenere favori e simpatie che finora ha saputo captare anche se solo in parte).
Chi ha bisogno di valutazioni indipendenti, quando basta l’entusiasmo di Salvini? Con due ore di discussione e qualche settimana per aggiornare un progetto vecchio di 14 anni, il Cipess ha dato il via libera al Ponte sullo Stretto. Un’opera da quasi 14 miliardi, interamente a carico del bilancio nazionale, che i suoi promotori continuano a spacciare come «acceleratore di sviluppo».
Nel frattempo, restano 68 criticità irrisolte certificate dal Comitato scientifico del Mit. Tra queste, l’uso di materiali inadeguati, la sottovalutazione del rischio sismico e la presenza di una faglia attiva a venti metri dal pilone calabrese. Ma la società Stretto di Messina, come se niente fosse, nega la possibilità di terremoti.
Il progetto divide le opere in una miriade di mini-lotti, col risultato di moltiplicare i cantieri e rendere impossibile un controllo unitario. Il rischio? Dieci anni di devastazione urbana e sociale tra Messina e Villa San Giovanni, con oltre 700 famiglie in attesa di esproprio.
Manca ancora il parere della Corte dei Conti, ma si sa: in Italia il diritto segue l’annuncio. E se qualcosa dovesse andare storto, ci penserà la penale da 1,5 miliardi da pagare a Webuild.
Si chiama “opera strategica”, ma i dubbi sul ponte restano identici a quelli che portarono allo stop del 2012. Solo che oggi, anziché un piano, c’è una propaganda. E anziché una visione, c’è un plastico.
Il ponte, nelle parole del governo, è una promessa di futuro. Nei fatti è un debito, una frattura, un’ipoteca sulla pelle del Sud. Un simbolo di potere più che una necessità. Una passerella sospesa nel vuoto – tecnico, ambientale, democratico – costruita per far credere che il cemento possa colmare ciò che la politica ha distrutto.
Amori d’artista, travolgenti, liberi e senza etichette. Ti bacio il cuore di Elena Stancanelli pubblicato da Electa e illustrato da Marina Sagona, è una raccolta di racconti brevi. Ogni storia si dispiega come una cartolina che dipinge un’epoca, un luogo, e un legame sentimentale e artistico che ha saputo sfidare le convenzioni del proprio tempo. Tra gli amori raccontati, quello tra Leonard Cohen e Marianne Ihlen, Truman Capote e Jack Dunphy, Joan Didion e John Gregory Dunne. Abbiamo incontrato l’autrice Elena Stancanelli.
Con Ti bacio il cuore ha scelto di raccontare delle storie d’amore celebri ma anticonvenzionali, evitando definizioni ed etichette e restituendo la complessità di ogni relazione. C’è un racconto in particolare al quale è più legata o dal quale ha avuto origine il progetto?
Credo che il racconto a cui sono più legata e da cui ha avuto origine il progetto sia quello su Leonard Cohen nell’isola di Hydra che apre effettivamente il libro per tante ragioni, anche mie personali. Ho sempre pensato all’isola come il luogo perfetto dove far nascere in isolamento, e immersi nella bellezza, una storia d’amore come quella di Leonard e Marianne. Direi che quello è il punto da cui sono partita, e per me il luogo dell’amore per eccellenza è proprio la Grecia. La vita sull’isola, l’estate, la giovinezza, in questo caso diventano una sorta di Big Bang dell’amore, più che della relazione.
Se dovesse sceglierne uno, quale secondo lei, tra gli amori raccontati nella raccolta ha saputo sovvertire in modo più potente le convenzioni sociali della propria epoca?
La più emblematica in questo senso, secondo me è la storia di Gertrude Stein e Alice Toklas. Il loro amore è molto interessante, prima di tutto perché non viene mai definito come tale. Non avrebbero mai dichiarato di essere coinvolte in una relazione sentimentale, ma allo stesso tempo sarebbero diventate una sorta di epitome della relazione queer tra due donne. Si sono fatte portatrici di un’idea di libertà e sono riuscite a scardinare in modo molto potente tutta una serie di convenzioni legate all’amore, senza cercare alcuna legittimazione. Questo mi commuove molto di questa relazione: la semplicità di essere rispetto al dichiarare. Soprattutto se pensiamo a ciò che è successo negli anni successivi quando per ottenere diritti, per scardinare convenzioni, per far accedere ogni amore alla sua legittimità ci siamo giustamente organizzati per gridarlo il più forte possibile. Ecco, loro non hanno mai gridato, però nello stesso modo hanno ottenuto moltissimo. Non voglio dire che quella sia una strada migliore, ma senza dubbio è un’altra strada, e mi ha commosso molto esplorarla.
Qual è stato il lavoro di ricerca e ricostruzione storica delle vicende narrate?
Ho cercato di raccontare tutte storie per le quali avessi a disposizione delle fonti originali. Quasi tutti gli amori della raccolta sono stati narrati in prima persona in epistolari o diari. Ho scelto di raccontare storie che fossero state testimoniate da chi le viveva, questo è stato uno dei criteri, per questo in Ti bacio il cuore vengono citate lettere, o dichiarazioni delle persone coinvolte. Il criterio di trascrizione e rielaborazione è stato invece quello di farli diventare dei minuscoli racconti, come delle cartoline. In questo senso mi ha sicuramente orientata la scelta di raccontarli in determinati luoghi. Di conseguenza ogni luogo ha potuto raccontare un amore.
Come e quando ha avuto origine il progetto? C’è stato un momento specifico nel suo percorso che l’ha portata a voler dare nuova voce a questi amori?
Come tutti i progetti più divertenti è nato in modo abbastanza casuale, inizialmente con una serie di interventi su La Repubblica, successivamente mi è stato chiesto di trasformarlo in un libro dalla casa editrice Electa. Attraverso queste collaborazioni è poi nato il desiderio di scegliere altre storie, incuriosita soprattutto dal tema delle relazioni e degli intrecci sentimentali nel passaggio tra un secolo e l’altro: cos’era il Novecento e cosa sono questi anni. In qualche modo ho guardato a queste storie d’amore non con nostalgia, ma sicuramente come a qualcosa che adesso non esiste più, ed è stato soppiantato da mille altre realtà diverse. Ho trovato stimolante esplorare delle storie che hanno influito così profondamente sulla mia formazione, sulla mia educazione sentimentale, e anche sul mio percorso di scrittrice.
In un’epoca in cui le relazioni sentimentali hanno contorni sempre più sfumati che tipo di impatto potrebbe avere Ti bacio il cuore?
Questo è un libro che in qualche modo dice con leggerezza, a chi è più giovane, che c’è stato un tempo in cui le cose erano così, anche se ora sono molto diverse. Per quanto riguarda la nostra epoca abbiamo sviluppato, e quando dico noi intendo questo occidente, molte paure rispetto a come eravamo prima. Il mondo è diventato più ostile o almeno ci sembra che sia diventato più ostile, e abbandonarci al mondo e dunque anche all’amore è diventata una faccenda più complicata e per tante ragioni siamo più spaventati adesso, e quindi abbiamo meno facilità di essere liberi rispetto al bisogno di dimostrare di esserlo. Il mio romanzo in uscita il 16 settembre per Einaudi La gioia di ieri, in particolare parla del nostro tempo attraverso un personaggio che si chiama Anna, e che ritorna nei miei libri (è lo stesso che troviamo ne La femmina nuda). Nel nuovo libro ho scelto di utilizzare la realtà per raccontare il Novecento e la finizione per raccontare la contemporaneità.
In una raccolta tanto eterogenea come Ti bacio il cuore, che racconta esperienze profondamente distanti e differenti, trova che ci sia un minimo comun denominatore, riconosce un leitmotiv nelle storie d’amore raccontate?
Il leitmotiv, secondo me è la libertà, ed è un concetto complicato perché la libertà è forse uno dei concetti maggiormente strattonati da una parte all’altra negli ultimi anni. Queste sono storie di persone che esperivano la libertà anche a costo di perdere pezzi, però non disponibili a trattare sul tema della libertà. Il concetto di libertà per tante ragioni ad oggi si è trasformato, è diventato un’altra cosa. In questi anni è forse stato più facile dichiarare la nostra libertà che non esperirla, e in questo siamo molto cambiati per tante ragioni. Ad esempio, abbiamo un tribunale social molto forte che ci giudica per ogni cosa che facciamo e questo continuo giudizio ci impone dei comportamenti che devono rispondere a una serie di regole che a volte non sono neanche le nostre, e trasgredirle ci porterebbe in un tale stato di angoscia sociale che non lo facciamo. La libertà, secondo me in parte è stata compromessa da questo giudizio continuo e ossessivo. In ogni momento il nostro comportamento potrebbe essere sottoposto a una gogna che diventa enorme, amplificata dai social. Questo, secondo me è spaventoso e inevitabilmente determina la nostra libertà.
C’è un’idea, un concetto di legame umano che vorrebbe trasmettere al lettore con il suo libro?
Ho cercato appunto di mettere insieme tante storie che avessero come denominatore comune, come dicevamo, l’idea di rispondere alla propria libertà, al proprio desiderio senza per questo ferire il mondo. Però insomma, ecco, questa è una cosa che posso dire, io non sono una persona nostalgica, ma a volte ho la sensazione che una certa vitalità, anche scomposta, che hanno questi amori, un pochino l’abbiamo persa. Ecco, se dovessi dire di voler recuperare qualcosa di quel tempo, direi la vitalità. Vitalità nel senso di entusiasmo irrazionale, anche sghembo di vivere.