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Italia-Israele: la vergogna in calendario

Quando Mauro Berruto dice che Italia-Israele del 14 ottobre a Udine «è una partita che non dovrebbe essere giocata», non sta facendo ideologia. Sta ricordando che lo sport, se non prende posizione, diventa complice. È già accaduto. È accaduto quando la Russia è stata esclusa da tutte le competizioni dopo l’aggressione all’Ucraina. Ed è accaduto quando il Sudafrica dell’apartheid è rimasto fuori dal campo per ventiquattro anni. Due pesi, due misure: la Fifa, l’Uefa e il Cio sembrano allergici alla coerenza.

Berruto non chiede l’impossibile. Non invoca il boicottaggio della nazionale, ma un gesto simbolico. Come le magliette rosse di Panatta e Bertolucci nella finale in Cile contro Pinochet. Come gli striscioni, i bracciali, i segni che mostrano che anche il pallone ha una coscienza. Invece si finge che nulla accada. Che i bombardamenti, la fame imposta, le fosse comuni a Gaza, non siano sufficienti a giustificare nemmeno un sopracciglio alzato.

Il paradosso è evidente. Gli atleti russi possono gareggiare solo se prendono le distanze da Putin. Gli israeliani no: in molti casi rivendicano apertamente le scelte di Netanyahu, eppure nessuno muove un dito. La Federcalcio italiana, almeno, potrebbe dire qualcosa. Potrebbe dissociarsi, potrebbe suggerire un altro stadio, un’altra data, un’altra forma. Invece tace.

Non ci si nasconda dietro l’autonomia dello sport. Anche il silenzio è una decisione politica. E oggi, davanti all’occupazione, alla distruzione sistematica, all’assedio, non c’è neutralità che tenga. Chi gioca quella partita, la legittima.

Buon mercoledì.

Foto di Joshua Hoehne su Unsplash

Comando io, anche sui criminali

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni

Giorgia Meloni ha deciso di togliersi la maschera: «Rivendico ogni scelta. Non sono Alice nel Paese delle Meraviglie». Lo dice lei stessa, con orgoglio. A differenza dei suoi ministri sotto accusa – Piantedosi, Nordio, Mantovano – lei è stata archiviata. Ma la vera notizia è un’altra: non si difende, rivendica. Apre la porta alla verità che finora avevano provato a coprire con gli omissis. E la verità è questa: il governo italiano ha liberato un criminale libico ricercato dalla giustizia internazionale. E l’ha fatto per «interessi di Stato» che nessuno ha mai avuto il coraggio di nominare.

Meloni vuole essere ricordata come una che comanda, non come una che governa. E allora si prende la scena, reclama per sé anche la responsabilità penale, se serve. Mette la faccia su una scelta che dovrebbe imbarazzare qualunque democrazia. Ma non è un’ammissione: è una sfida. Sfida i giudici, sfida l’opposizione, sfida la verità. Promette di sedersi in Aula accanto ai suoi accusati per «difendere l’operato del governo». E in nome della «sicurezza degli italiani» pretende anche l’archiviazione morale. Come se tutto si potesse derubricare a questione di fermezza. Come se la giustizia fosse una comparsa, e non un potere dello Stato.

Intanto, la liberazione del torturatore libico passa in secondo piano, occultata da una messinscena in cui la premier si erge a martire istituzionale, senza mai spiegare perché. La narrazione del governo coeso diventa così lo scudo perfetto per evitare di dire la verità. La verità, cioè, che a decidere non è stata una distrazione burocratica. È stata una scelta. E Meloni ce la sta raccontando come una medaglia. Ora la politica ha il dovere di chiederle perché. Davvero. Senza più omissis.

Buon martedì. 

foto gov

Paolo Di Paolo e il riscatto della poesia vissuta

“Lo scrittore americano Jonathan Safran Foer, nella stagione della pandemia, aveva preso l’abitudine di lasciare ogni mattina sul pianerottolo una poesia per i suoi vicini. Una terapia eccentrica: si prescrive l’assunzione di una poesia al giorno. Al risveglio dopo i sogni o dopo gli incubi. E’ preferibile vi sia silenzio intorno.Tutt’al più, direbbe il poeta, stormir di fronde.”
Così nella prolusione del suo bel libro Rimembri ancora (Il Mulino), lo scrittore e saggista (ma anche voce di Paginatre e La lingua batte su Radio 3)  Paolo Di Paolo dichiara l’intento che lo ha spinto a scrivere questo testo colto e appassionato. Ci tiene a precisare che il libro è diretto a chi la poesia la frequenta e chi no, ma specialmente a chi, giovane o meno giovane, a scuola ha avuto la sensazione di “subire”, a volte, la scrittura poetica e gli autori della medesima. Una specie di corteo monumentale di testi anche bellissimi, ma sospesi nel loro tempo, come non avessero riferimento anche all’oggi, come se non fosse possibile interpretare il pensiero di un “grande” senza avere la sensazione di rubare.

Questo è un lavoro di grande finezza, potremmo dire, quasi un risarcimento per chi ha studiato secondo metodi correnti, a volte frettolosi, che non si sottraggono all’ovvietà?
Nella cabala delle esperienze nella mia esistenza, e in quella altrui, ho visto che quel che si chiede è un tipo di insegnamento nuovo. A dartelo capita sia il professore o un supplente inaspettato, che ti fa scoprire un altro volto di un autore e ti porta lontano. E’ un lavoro prezioso, bisogna “rieleggere”le parole, farne brillare il senso, e questo non accade ad un’unica età non si impara solo da giovani, ci sono tante occasioni di “riancoraggio” al materiale che si studia o si è studiato. Anche da adulti. A volte insegnando, chiedevo all’alunno di completare il verso, da questo mi accorgevo come era stato compreso il senso. Ora parlo di giovani, ma il discorso vale anche per gli adulti che hanno studiato certi autori forse di malavoglia, superficialmente. Sandro Veronesi ha scritto tempo fa in un articolo “ proprio quando si comincerebbe ad essere allievi si smette di andare a scuola”.

Tu hai avuto maestri illustri, da Luca Serianni a Giovanni Getto, da Giulio Ferroni, De Benedetti, Bianca Maria Frabotta, lei stessa poeta. Nel libro ricordi appunto come Serianni abbia segnato la tua preparazione e insieme a Getto ti abbia dato di Ugo Foscolo, autore vissuto a scuola come titanico e un po’ ridondante, una rilettura che ne metteva in evidenza la terrena fragilità. Racconti  come il poeta Giovanni Raboni abbia saputo cogliere in Carducci, anche lui retorico cantore per definizione, la “maschera” dietro la quale si nascondeva, trovando in alcune poesie, la capacità di“venire meno” alla sua fama legata ad esaltazioni vittoriose. Ma ci vuole uno sguardo profondo…
Non soltanto sono stati formativi dal punto di vista professionale. Luca Serianni mi ha lasciato un modo di vedere la realtà che esula dal mio mestiere di scrittore. Un’apertura mentale e una capacità di elaborazione che solo i grandi maestri possono trasmettere. Di Frabotta ricordo in particolare la precisione analitica sui testi di Ungaretti. Leggeva una brano e poi diceva “adesso interpreta”chiedendo molto più che non un’analisi sulla struttura. Abituandoci a pensare, a metterci alla pari.

Sono illuminanti i passaggi in cui Pascoli conosciuto per le “piccole cose” tranquillizzanti e familiari, è visto in una realtà fatta di rapporti un po’ ricattatori, di piccole vendette nei confronti di una sorella specialmente”. Come sei arrivato a questa lettura?
Sì, riferendomi alla famosa poetica del Fanciullino, in cui parla della meraviglia, dello straniamento ingenuo, ho presentato un “fanciullino dark”, quasi spezzato un Pascoli “nero”, che contrasta con l’immagine un po’ bamboleggiante praticata nelle antologie. E’ il frutto di un mio dottorato di ricerca, in cui ho evitato le prospettive canoniche. In realtà si intuisce la “terra desolata” che si apre dietro di lui, in quella vita stretta tra le mura di casa, la sua paura di perdersi senza quel sostegno, c’è una sorta di “unheimlich” un perturbante che lo estranea, in realtà, da ciò che gli è familiare”.

Nel libro ci sono molti raffronti interessanti come il cielo visto da Giacomo Leopardi nel “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” e il cielo stellato delle Myricae pascoliane. Il passaggio repentino e commovente dalla voce di Leopardi a quella di Tabucchi, intenti entrambi, in epoche lontane tra loro, a parlare a chi non c’è più, ma che è più che mai presente : “Dolce e chiara è la notte e senza vento…”. E altri paragoni letterari molto originali.
Ho descritto le farfalle amate da Gozzano, la poesia infantile di Leopardi sulla minestra (che non gli piaceva mai) ma anche il “vento” che soffia nei Sepolcri, il tempo che prende senso a seconda di quel che il poeta sente. Ho mescolato l’alto e il basso, una contaminazione che giova alla comprensione. Non bisogna aver paura della poesia: quel che si deve temere è, come io dico, la conquista, il voler di capire ogni cosa. Ma la poesia è una specie di musica, accade quando le frasi si mettono a ballare…

E poi il Novecento studiato a scuola che, scrivi, “è un corridoio che si percorre a passi svelti quasi di corsa comunque un po’ in affanno. È vero, ricordo la stessa cosa ma c’è un motivo a questa accelerazione secondo te? Succede a fine anno scolastico?
A 30 anni dalla riforma Berlinguer, i programmi non sono mai stati rivisti, non saprei dire perché. Forse si preferisce muoversi ancora su schemi molto conosciuti. Anche nel mio libro, cito abbastanza velocemente Caproni, Saba, Montale, e, tra le donne Alda Merini, Amelia Rosselli e Antonia Pozzi. Nonostante ci siano molti altri poeti che varrebbe la pena studiare. Racconto però i miei incontri con Mario Luzi, Spaziani e i miei tremori di giovanissimo letterato. Qui nel libri ho ripercorso quei programmi, quelli che hanno studiato i miei coetanei e la generazione precedente, e quella attuale. Con un altro sguardo pensando facesse piacere “rimembrare ancora”, capire perché amare da grandi le poesie studiate a scuola.

Con una leggerezza che non è mai superficialità, anzi è la chiave per entrare a contatto con i nomi più celebrati, hai messo un po’ in gioco anche te stesso, la tua ricerca nei confronti della scrittura. Oggi da autore affermato cosa senti di dire ai lettori?
Che per scrivere, ma anche solo per amare la scrittura, bisogna saper immaginare, acquistare questa attitudine. che vuol dire il contrario che tagliare con l’accetta, il contrario della fretta il contrario di giudicare.

Una capacità che mai come oggi è necessaria. E che potrebbe forse aiutarci a cambiare la realtà che ci sta intorno. Ma può davvero aiutarci la letteratura?
La letteratura è sempre stata un fiume minoritario, ma che può trascinare verso grandi lidi. Per fare questo lavoro bisogna imparare a concentrarsi su sé stessi e poi uscire da sé verso altre sensibilità. Riuscendo a coinvolgerle, portarle con sé, senza sapere bene sperando di dare un respiro, una prospettiva diversa. Penso a quando Primo Levi cita la Divina Commedia nel campo di Auschwitz, al poeta polacco Adam Zagajewski che dopo l’11 settembre 2011 scriveva “prova a cantare il mondo mutilato. ..…torna col pensiero al concerto, quando la musica esplose…… Canta il mondo mutilato e la piccola penna grigia persa dal tordo, e la luce delicata che erra, svanisce e ritorna”.

Un ritratto di Paolo di Paolo 

In apertura una statua dedicata a Giacomo Leopardi a Recanati

In tour: Paolo Di Paolo, scrittore, saggista e conduttore di Pagina tre su Radio 3  presenta il libro il 25 agosto a Sentieri e Pensieri, il festival letterario giunto alla sua tredicesima edizione, organizzato dal Comune di Santa Maria Maggiore, diretto da Bruno Gambarotta. E poi sarà presente a Pordenonelegge in più incontri a cominciare da quello di venerdì 19 settembre alle ore 14:30 dentro la Casa Circondariale di Pordenone, dal titolo “Che cosa si perde a non leggere”.

Il grande freddo della spesa: 27% in quattro anni, zero risposte

Entri al supermercato e ogni etichetta è un promemoria di sconfitta. Le pesche sfiorano i 5 euro al chilo, l’olio d’oliva viaggia verso i 10, il prosciutto crudo può costare più di una visita specialistica. In quattro anni, il carrello della spesa è aumentato del 27%. Ma non è inflazione: è un cambio di status. Non sei più un cittadino che compra: sei un povero che fa la spesa.

L’Istat misura, i governi rassicurano, le famiglie resistono. L’indice dei prezzi alimentari, dal luglio 2021 a oggi, è passato da 105 a 134. Alcuni prodotti di base – burro, patate, riso – hanno raddoppiato il loro prezzo. In compenso i salari reali in Italia sono crollati del 7,5%, peggior dato OCSE. Con 30 euro oggi compri quello che nel 2021 pagavi poco più di 23. Il carrello è sempre più leggero, le borse sempre più vuote, i conti sempre più rossi.

Nel frattempo, mentre i bonus una tantum vengono sventolati come miracoli e le accise restano intatte, il costo di casa, elettricità e gas è salito del 32%. I pacchetti vacanza nazionali segnano +74%, i voli interni +208%. E il dato forse più sincero arriva dalle vendite: crescono in valore, calano in volume. Si spende di più, si mangia di meno.

Eppure nessuno ha il coraggio di pronunciare la parola giusta: emergenza. Non energetica, non climatica. Sociale. La fame non è un problema da Terzo Mondo, è diventata una questione logistica in una delle prime potenze industriali d’Europa. Ma, nell’agenda politica, la priorità resta la crociata contro le merendine etniche a scuola.

Buon lunedì. 

 

Foto adobstock

Dazi. Trump fermato dagli industriali Usa: il capolavoro diplomatico di Lula

Con il decreto firmato mercoledì 30 luglio alla Casa Bianca Donald Trump ha fatto un salto di qualità nello scontro diplomatico con il Brasile. Lo ha fatto con un decreto che rende ufficiale l’applicazione di dazi al 50% per il 36% dei prodotti brasiliani, esportati verso gli Stati Uniti, facendo ricorso all’Emergency Economy Power Act (1977), la legge che assegna al presidente degli Stati Uniti poteri smisurati nella regolamentazione delle transazioni economiche internazionali, in risposta a presunte minacce alla sicurezza, alla politica estera o all’economia degli Usa.
Al giudice della Suprema corte Alexandre de Moraes, alla guida delle indagini contro Bolsonaro, è stata applicata la chiamata Global Magnitsky Act, una normativa statunitense progettata nel 2012 dall’ex presidente Barack Obama, per responsabilizzare gli agenti russi coinvolti nella morte dell’avvocato Sergei Magnitsky.
Sebbene non abbia conti correnti all’estero o beni negli Stati Uniti, il magistrato non potrà più toccare il suolo statunitense, saranno bloccati eventuali beni sotto la giurisdizione americana e subirà restrizioni nelle transazioni con cittadini o aziende statunitensi, come gli enti gestori dei circuiti di carte di credito Visa, Mastercard e American Express.
Occorre sottolineare che il Global Magnitsky Act non è certamente concepito come una norma studiata a tavolino per colpire un giudice straniero, che agisce nel rispetto della Costituzione di un Paese democratico, contro gli artefici di crimini e reati che possono minare le basi di una democrazia.
Tuttavia, nel 2022, il Congresso degli Stati Uniti ha reso tale normativa permanente, ampliandone altresì le basi giuridiche, e consolidandola come uno dei principali strumenti globali di sanzione unilaterale del governo statunitense: nei fatti, rendendola uno strumento di ricatto in più al volubile Trump.

Alexandre de Moraes, il giudice conservatore odiato dall’estrema destra

Per la giornalista Raquel Landin, la base bolsonarista, convinta che Alexandre de Moraes sia un “comunista sotto mentite spoglie”, vorrebbe estendere tali sanzioni economiche anche ai familiari del giudice, in particolare alla moglie, l’avvocata Viviane Barci, alla guida di uno studio legale.
Nella nota pubblicata nel sito del Dipartimento di Stato statunitense, per giustificare ciò che gli economisti definiscono la “morte economica” di una persona, il segretario di Stato Marco Rubio, utilizzando un linguaggio religioso, definì il giudice Alexandre de Moraes “un attore straniero maligno”.
Dopo aver obbligato le piattaforme online, comprese le società di social media statunitensi, a vietare gli account di individui che, secondo Rubio, “pubblicano contenuti protetti dalla libertà di espressione”, il magistrato è diventato il principale bersaglio dell’estrema destra transnazionale, con a capo Steve Bannon, che l’ha soprannominato “Lucifero”.
Evidentemente, nel linguaggio degli estremisti, gli ordini di arresto firmati dal giudice brasiliano contro gli influencers di destra, nonché politici che diffondono fake news sugli oppositori, inneggiando a colpi di Stato, attentati terroristici, e violenza fisica contro chiunque sia visto come un ostacolo ai loro interessi, contradicono il volere delle loro divinità.
La mossa – altamente controversa – di Rubio contro de Moraes è stata annunciata dal segretario al Tesoro statunitense Scott Bessent, soltanto poche ore prima della conferma dei dazi. Per Bessent, il magistrato della Corte suprema sarebbe il responsabile di una “campagna oppressiva di censura e detenzioni arbitrarie che violano i diritti umani” nonché “procedimenti giudiziari politicizzati, anche contro l’ex presidente Jair Bolsonaro”.
Tra gli ordini di arresto firmati da Alexandre de Moraes, e ritenuti “ingiusti” dall’estrema destra transnazionale, è opportuno menzionare quello contro la deputata italo-brasiliana Carla Zambelli.
Dopo aver violato (in accordo con l’hacker Walter Delgatti) il sistema informatico del Consiglio nazionale di Giustizia, alterando dati di documenti, certificati, mandati di arresto e scarcerazione, e persino la firma dei magistrati della Corte suprema, Zambelli fu condannata a dieci anni di carcere.
Il 29 luglio scorso, dopo la fuga dal Brasile, e l’inserimento nella lista rossa dell’Interpol, Zambelli è stata arrestata a Roma, a seguito di un’operazione congiunta tra la polizia federale, l’Interpol e le agenzie italiane.
Secondo l’inchiesta del giornalista Andrea Palladino, una rete di imprenditrici brasiliane di estrema destra l’ha tenuta nascosta in Italia per ben due mesi.
Al momento, la soprannominata “pistolera della destra” – per aver inseguito un giornalista puntandogli la pistola e averlo offeso e pretendo delle scuse per le sue domande – è stata tradotta nel carcere di Rebibbia, dopo la convalida del fermo.

La rivolta degli imprenditori statunitensi contro Trump

Per quanto riguarda la lista dei prodotti colpita dai dazi, Donald Trump ha seguito con il Brasile il medesimo copione già adottato con altri Paesi.
Sebbene abbia annunciato un aumento esponenziale e indiscriminato delle tariffe, per tutti i prodotti, poco prima della decisione finale, tolse circa 700 dalla lista, prorogando la scadenza di altri cinque giorni. Obiettivo: permettere a dei container, fermi nei porti brasiliani, di partire verso gli Stati Uniti, e così rifornire le aziende statunitensi più danneggiate, rimaste sprovviste di materia prima.
Dopo la visita della comitiva spedita da Lula, con a capo il vicepresidente Geraldo Alckmin, il pressing del mondo dell’imprenditoria statunitense sul segretario al Commercio Howard Lutnick, è stato decisivo per il passo indietro di Trump.
John Murphy, il vicepresidente senior e responsabile internazionale della Camera di commercio degli Stati Uniti, ne pubblicò una dura lettera, il 28 luglio, sul sito della US Chamber of Commerce.
Nella missiva, Murphy non solo invita Trump ad applicare tariffe 0 ai prodotti agricoli non coltivati nel suolo statunitense, come il caffè, il mango, l’ananas e il cacao, generando un precedente importante per tutti i paesi danneggiati, come chiede l’accantonamento dei dazi per il “gigante latino”.
Sul sito dell’organo, si legge che l’applicazione di un dazio così elevato per il Brasile, in risposta a “procedimenti legali interni”, rischia di provocare una reazione molto negativa nel paese “con potenziali misure di ritorsione significative” che possono comportare “costi elevati non solo per le aziende, ma anche per i lavoratori e gli agricoltori statunitensi”.
Ricordando ed enfatizzando le loro 6.500 piccole imprese, che dipendono dalle importazioni di materie prime brasiliane, la lettera di Murphy si conclude con una vera e propria richiesta di resa al presidente statunitense: “[…] la minaccia di un dazio del 50% sta provocando in Brasile un effetto di rally around the flag, in cui politici di diversi Partiti si stanno unendo per preparare un’accesa ritorsione. Dopodiché, una volta attuate, queste misure potrebbero essere emulate da altri governi, con gravi conseguenze per i lavoratori e le aziende americane”.
Di fronte al netto rifiuto di dialogare direttamente con Lula, Trump è stato sconfessato dai suoi stessi imprenditori.
Pur di scongiurare il peggio, la metodologia applicata dal governo Lula è stata quella di radunare le forze politiche, e il mondo dell’imprenditoria, in difesa della sovranità del Paese, contro il bullismo di uno solo.
Trovare, nel contempo, alleati nel mondo dell’imprenditoria statunitense, si è rivelata una mossa vincente dagli sherpa spediti da Lula per trattare direttamente con le aziende, scavalcando Trump.
Intervistato dal New York Times, Lula ha ribadito l’indipendenza della magistratura brasiliana, il suo incrollabile sostegno al lavoro dei giudici della Corte suprema e ha dichiarato che, sebbene riconosca la superiorità economica, militare e tecnologica degli Stati Uniti, il Brasile non ammetterà un trattamento di servitù.
Per il Times, non esiste un leader mondiale capace di sfidare apertamente Trump quanto Lula.

Effetto dazi trumpiani: la spinta definitiva verso il multilateralismo

Forte dei rapporti commerciali con la Cina, schierata più volte in difesa del Brasile e dichiarandosi disposta ad acquistare i prodotti tassati al 50% dagli Usa, Lula coglie i frutti del suo ruolo all’interno dei Brics.
Chiaramente intenzionato ad unire l’America Latina, il presidente brasiliano promette rafforzare il Mercosur per fare fronte ad ulteriori aggressioni commerciali e attacchi alla propria sovranità provenienti dagli Stati Uniti.
Per rafforzare la sua posizione, il 21 luglio, nel corso del Foro democratico del Cile, dopo l’incontro con i presidenti Gabriel Boric (Cile), Gustavo Petro (Colombia), Yamandú Orsi (Uruguay) e il primo ministro spagnolo Pedro Sánchez, Lula ha ribadito fermamente il suo impegno per la democrazia, promettendo dare battaglia “affinché gli interessi collettivi prevalgano sugli individuali”.
L’esortazione di Lula, affinché i Paesi democratici della zona si incontrino con più frequenza, al fine di contrastare “l’ondata antidemocratica, che sta colpendo duramente il mondo intero”, segna la presa di distanza del suo secondo partner economico, dopo la Cina, ovvero, gli Stati Uniti.
L’incontro in Cile è stato emblematico, poiché ha siglato anche un’alleanza importante: quella che sosterrà la comunista Jeannette Jara alle elezioni presidenziali cilene del 16 novembre 2025.
In testa a uno dei principali sondaggi sulle intenzioni di voto, Jeannette ha acquisito notorietà come Ministra del Lavoro e della Previdenza sociale del governo di Gabriel Boric, soprattutto dopo aver aumentato il salario minimo, ridotto da 45 a 40 ore la settimana lavorativa e approvato la riforma delle pensioni.
Con una Destra divisa, e dei moderati senza una candidatura propria, i sondaggi indicano Jeannette Jara in largo vantaggio rispetto agli altri.
Storicamente, si tratta della terza candidatura presidenziale con a capo un candidato, o candidata, del Partito comunista. La prima fu quella del poeta Pablo Neruda, nel 1969, e la seconda di Gladys Marín, nel 2009, la prima persona in Cile ad aver accusato pubblicamente Pinochet dei crimini di genocidio, sequestro di persona e violazione dei diritti umani.

L’autrice: L’avvocata per i diritti umani Claudiléia Lemes Dias è scrittrice e saggista. Tra i suoi libri Le catene del Brasile.(L’Asino d’oro ed.) e il nuovo Morfologia delle passioni (Giovane Holden ed.)

Qui l’intervento di Claudileia Lemes Dias a Radio3mondo su Radio3

Street art. I fiori ribelli e le serrande parlanti del collettivo Phzero

Che la Street Art abbia ormai iniziato a cambiare nel mondo parti di città e piccoli centri urbani a volte con opere di alto valore artistico è noto. In Italia è ormai un fenomeno radicato, a Roma in particolare esistono da tempo interventi senz’altro apprezzabili e interessanti ai quartieri S. Basilio, Quadraro, Trastevere, S. Lorenzo e diverse altre aree come le undici palazzine trasformate da artisti internazionali a viale di Tor Marancia o il murale ecologico più grande del mondo a via del Porto Fluviale. Garbatella non è certo da meno con i tanti interventi che raccontano la storia, l’identità e l’anima popolare del quartiere. Se provate a passare a via Anton da Noli in un orario in cui le serrande dei locali commerciali sono abbassate, potrete vedere su quindici di esse disposte in successione, immagini di operai intenti alla pittura o grandi mani che impugnano corde intervallate da scritte con gli articoli della Costituzione dedicati al lavoro. Se vi addentrate nella parte storica del quartiere a piazza Bartolomeo Romano dove è situato il Teatro Palladium, ora proprietà dell’Università degli studi Roma tre e fervido centro di attività culturali, sul lato opposto è presente un murale calpestabile dove su uno sfondo rosso compaiono grandi fiori dall’aspetto insolito e intrigante. Sono tra gli ultimi lavori di Street Art realizzati a Garbatella, opera del collettivo artistico Phzero, composto da Simona Gaffi e Daniele Signore. Li abbiamo incontrati per farci raccontare del loro lavoro e di questi interventi in particolare.

Quando è nato il vostro collettivo?
Nell’estate della pandemia, in un tempo sospeso in cui è emersa l’urgenza di immaginare nuovi modi per stare insieme e agire. Tutto è cominciato grazie a un amico fotoreporter che ci ha coinvolti in un progetto di sensibilizzazione ambientale a Focene, nel Comune di Fiumicino: un tratto di costa segnato dall’inquinamento, ma ancora pieno di potenziale. L’idea era semplice e potente: prendersi cura del territorio attraverso l’arte. Così sono nati dei murales dedicati al mare, alla sua bellezza, alle sue creature. Lavori affiancati da laboratori partecipati con le nuove generazioni, in collaborazione con il Comitato cittadino di Focene e il Comune di Fiumicino. È stato un inizio spontaneo, collettivo, necessario.

L’ideazione del vostro collettivo si è legata da subito all’intenzione di intervenire sulla città?
L’intenzione iniziale non era tanto intervenire sulla città, quanto stimolare un pensiero, un cambiamento di sguardo attraverso l’arte. Ma è stato subito chiaro che lo spazio urbano è il luogo più diretto ed efficace per farlo: lì dove le persone passano, si incontrano, si fermano o magari vengono colpite anche solo per un istante. Il contesto urbano è diventato così non solo il nostro campo d’azione, ma anche il nostro linguaggio. Parlare a tutti, è sempre stato centrale nel nostro approccio e l’arte pubblica, in questo senso, è uno strumento potente di accesso e relazione.

A piazza Bartolomeo Romano c’è il vostro murale calpestabile, colpisce indubbiamente l’attenzione, forse anche per i colori scelti, tra quello dello sfondo e quello dei grandi fiori disseminati su di esso, come è nata l’idea e qual è la natura di questo lavoro?
Il suo nome è Fiori Ribelli, è inserito all’interno del progetto culturale diffuso Mind the Gap – Festival della Resistenza, nato su iniziativa del Municipio VIII a cui appartiene Garbatella, sorto con lo scopo di valorizzare la memoria attiva della Resistenza. Durerà per tutto il corso dell’anno. Il murale nasce proprio come un atto artistico, che vuole essere politico. L’opera è posta davanti all’Archivio Flamigni, custode di storie e tracce della Resistenza: un grande murale orizzontale calpestabile, realizzato in uno spazio urbano trasformato per l’occasione in piazza viva, luogo di passaggio e condivisione. A guidarci è stata una frase che aveva accompagnato, nei giorni precedenti, il corteo per la commemorazione dell’eccidio delle Fosse Ardeatine: “Ci hanno seppellito, ma eravamo semi.” Un’immagine che ci è sembrata ideale per raccontare la Resistenza non solo come memoria, ma come forza generativa, capace di germogliare ancora. Su un fondo rosso, colore simbolo della Resistenza, si rivelano papaveri realizzati in stencil art, una tecnica che costruisce le immagini a partire dalle sfumature più scure. L’ispirazione è nata osservando la parte più intima del fiore: quel centro dalle sfumature viola scuro che custodisce i semi. Un dettaglio spesso invisibile, ma carico di significato. È lì che si concentra il potenziale della fioritura. Abbiamo immaginato quei semi ribelli lanciati sul suolo urbano, per far rifiorire spazi urbani segnati dall’indifferenza. Semi capaci di generare consapevolezza, trasformazione, memoria condivisa. Fiori Ribelli è un invito a camminare sopra la storia e fare di ogni passo un atto di libertà.

Anche il vostro intervento, indubbiamente originale, sulle serrande di Via Anton da Noli e parte del progetto Mind the Gap?
No, è Serrande d’Arte, un lavoro precedente terminato a fine 2024, al contrario di Fiori ribelli completato quest’anno. È un progetto di riqualificazione urbana ideato, sviluppato e realizzato da noi per restituire dignità e visibilità a questa via posta nella parte periferica di Garbatella. Periferica solo in apparenza, ma attraversata ogni giorno dal lavoro appassionato delle attività commerciali che la abitano. Abbiamo trasformato quindici serrande in opere murali ispirate agli articoli della Costituzione dedicati al lavoro. Un percorso nato dall’ascolto: abbiamo incontrato le attività, raccolto storie e consensi, e reso ogni serranda una superficie espressiva, carica di significato che racconta un diritto fondamentale. I murales, legati da una coerenza cromatica studiata, costruiscono un racconto visivo unitario. Anche a saracinesche abbassate, la via oggi continua a parlare. Serrande d’Arte non è solo un intervento estetico: è un atto di “cura”, un progetto nato dal basso e pensato per essere replicabile, capace di attivare cultura e trasformazione urbana a partire dalle persone e dai luoghi reali.

Avete in programma altri interventi da realizzare all’interno Il progetto Mind the G.A.P. – Festival della Resistenza?
In programma con Mind the Gap abbiamo sicuramente due progetti legati alla memoria e alla Resistenza. Il primo è un’esposizione urbana diffusa: una serie di manifesti in città con le opere selezionate nella V Mostra artistica dedicata alla Resistenza, realizzata in occasione dell’80° anniversario della Liberazione dell’Italia dal nazifascismo, insieme ad altri artisti e collettivi esposti presso Villetta Social Lab il 25 Aprile 2025. Il secondo è un murales: un’opera dedicata alla Resistenza romana, pensata come messaggio visivo e civile, per continuare a raccontare, anche oggi, il valore della libertà e della lotta contro ogni forma di oppressione.

È possibile dire che i vostri lavori hanno un’intenzione provocatoria?
Più che provocatoria, come dicevamo, la nostra arte vuole essere una sollecitazione: un invito a fermarsi, guardare, pensare. Se provocare significa scuotere uno sguardo assuefatto o innescare una riflessione fuori dall’ordinario, allora sì, esiste una componente provocatoria. Ma il nostro intento è prima di tutto attivare un pensiero, rompere l’indifferenza, portare nello spazio pubblico temi urgenti e dimenticati. Questo molto spesso diventa per noi una pratica di studio: alcuni progetti nascono da ricerche approfondite, dal confronto con storici, esperti in scienze politiche, comunicazione, altri artisti. Ma anche da momenti di apertura al dialogo, all’ascolto, alla contaminazione. L’arte urbana ha proprio questa forza: parlare a tutti, nel presente, e allo stesso tempo generare conoscenza condivisa, aprire spazio al pensiero.

L’autore: Roberto Chimenti è architetto, poeta e video maker

Cenerentola nel carcere di Volterra. Punzo apre nuovi spazi di visione

Il regista Armando Punzo in scena nel carcere di Volterra, foto di Filippo Trojano

Sono passati molti anni da quando fu allestito il primo spettacolo all’interno del carcere di Volterra dove il regista Armando Punzo aveva iniziato a costruire il suo progetto di ricerca teatrale che l’avrebbe portato quarant’anni dopo a ricevere il leone d’oro alla carriera alla Biennale di Venezia. Quel primo spettacolo, allora pensato con un gruppo ristretto di detenuti-attori napoletani era La gatta Cenerentola, ispirato alla celebre opera di Roberto De Simone. Oggi, a trentasei anni di distanza e dopo una costruzione di tre anni passata per lo studio Atlantis del 2024, una nuova “Cenerentola” si affaccia ancora nella drammaturgia del regista partenopeo. Ma da quel lontano 1989 le cose sono potentemente cambiate e cresciute in modo esponenziale. Oggi la Compagnia della Fortezza è ormai una realtà conosciuta in tutto il mondo e la sua storia è diventata un riferimento per tutti quelli che realizzano progetti teatrali nelle realtà carcerarie e non solo.

foto di Filippo Trojano

Un lavoro immenso dunque, condotto giorno dopo giorno con costanza ha portato alla creazione di decine di spettacoli come il Marat-Sade, I Negri, Orlando Furioso, Macbeth, Amleto, I Pescecani, Pinocchio, Hamlice, passando per Mercuzio non vuole morire, fino ai recenti Beatitudo e Naturae, per approdare all’ultima fatica di quest’anno: Cenerentola (andata in scena dal 25 al 28 luglio all’interno della Fortezza Medicea e il 1 agosto al teatro Persio Flacco di Volterra).
Un anno, questo 2025 che ha visto come molti altri nella storia della Compagnia della Fortezza delle novità che segnano aperture profonde sia nella storia del lavoro teatrale e drammaturgico, sia della vita e le dinamiche carcerarie. Perché nella ricerca di Armando Punzo questi due aspetti sono sempre fusi e in dialogo costante. Se per Mercuzio infatti, per la prima volta nella storia della compagnia venne fatta entrare dall’esterno una ragazza a lavorare con i detenuti interpretando Giulietta segnando un precedente dopo che per tanti anni anche i personaggi femminili erano interpretati sempre e solo da uomini, per Beatitudo insieme ai detenuti-attori comparve un bambino nel campetto da calcio del carcere (il campino) trasformato per la scena in una enorme piscina/palcoscenico.

foto di Filippo Trojano

Così oggi, ancora una volta la ricerca teatrale ha portato ad una novità potente. In mezzo ad uno spettacolo strutturato nella sua essenza sul bianco e il nero (le scene di Alessandro Marzetti e i costumi di Emanuela Dall’Aglio sono di una bellezza da togliere il fiato) compare come unico altro colore quello dei capelli rossi di Viola Ferro, una giovane attrice professionista che dà corpo e voce secondo il metodo di Grotowski alla base del lavoro della compagnia, a qualcosa di nuovo che sembra addentrarsi per la prima volta tra le mura della Fortezza e forse nella nostra immaginazione. Vedendola e ascoltandola sulla scena echeggiano certe creature shakespeariane, come Bella di Povere Creature e ancora Ada, l’affascinante pianista del capolavoro di Jane Champion. “Ci siamo incamminati nella più pura ricerca, dove il colore svincolato da ogni riferimento naturalistico si fa pura modulazione di luce”.

foto di Filippo Trojano

Infiniti come sempre i rimandi alla storia dell’arte, alla filosofia, la scienza; ci sono Dalì e Picasso, (anche la chitarra del fedele compositore Andreino Salvadori è stata scenografata e trasformata al punto da farci pensare esser stata presa dal famoso quadro cubista del 1912, Bec a gas et guitare). Si parla poi di creature mitologiche: tartarughe, uccelli, unicorni, elefanti, (anche il toro di Guernica ha fatto irruzione in questo nuovo spettacolo che sembra ripercorrere per salti la storia del mondo degli ultimi 300 anni o forse più). Si parla di numeri, di geometrie, di architetture interiori, e profondamente di una resistenza necessaria per tendere verso una costante utopia di una vita migliore possibile. E sono tanti i personaggi di questa grande giostra che ci invitano a farlo, personaggi che portano pensieri complessi con la loro voce, i loro dialetti e accenti. Il pittore, lo scienziato, lo scrittore, l’esploratore, il critico d’arte, l’astronomo, il matematico, il filosofo, il fisico, il poeta… E al termine di questo spettacolo di due ore circa (ma dopo il quale sembrano essere passati secoli) da cui si esce con la sensazione di non aver probabilmente capito nulla, restano infinite visioni e un rinnovato stupore davanti a tanta meraviglia anche agli occhi di chi (come chi scrive) conosce ormai da anni il lavoro di Punzo e dei suoi attori.

foto di Filippo Trojano

Restano dentro le musiche, gli sguardi potenti, la danza… resta una canoa arrivata da lontano su cui ha remato un ragazzo cinese con la schiena di un pesce e che ha portato fino a noi una ragazza dai capelli rossi con cui abbiamo viaggiato su un’acqua invisibile; restano i cappelli a cilindro, i guanti bianchi che hanno disegnato traiettorie infinite; e ancora un enorme destriero bianco, una scacchiera-mare e un cavallo che muove ad L come ultimo personaggio lasciato in scena dal regista che sembra invitarci ancora una volta, una volta fuori, a fare la nostra mossa, cosi come aveva già fatto molti anni prima il cavaliere de “Il settimo sigillo” sfidando la morte.

foto di Filippo Trojano

“Ci vogliono mille pensieri per portare a termine un quadro” dice il regista/Cenerentola, “Non è mai esistito un tempo senza movimento” dice Viola/Cenerentola; “Nell’osservare un insetto ci si dimentica il fiore sconosciuto su cui sta camminando… Avanzare in territori sconosciuti è per me come entrare nella mia vita” dice Paul/Esploratore. Ed è proprio Paul a segnare un’altra commovente e significativa novità nel lavoro e nella storia della Compagnia della Fortezza, perché oggi è finalmente un uomo libero e non più un detenuto-attore, dal momento che da febbraio ha finito di scontare la sua pena e continua a collaborare con il regista e la compagnia dopo aver ottenuto un’autorizzazione permanete che segna un precedente nella storia delle carceri italiane, per poter tornare ogni giorno a lavorare alla creazione di nuovi spettacoli e che oggi è anche il protagonista di un nuovo lavoro intitolato “Fame” che debutterà nella sua interezza a gennaio del prossimo anno.

l’autore: Filippo Trojano è fotografo, giornalista e saggista

Giuliano Turone: La matrice della Strage di Bologna è accertata. Chi sostiene che furono i palestinesi è abituato a mentire diecimila volte al giorno

Giuliano Turone, da magistrato protagonista nel marzo del 1981 della scoperta delle liste della Loggia P2 a Castiglion Fibocchi insieme a Gherardo Colombo, oggi si fa storico e va oltre quel momento apparentemente definitivo per Gelli: l’ex magistrato ci prende per mano e ci conduce dentro le trame della riorganizzazione della rete piduista, che coincide con il consolidamento del potere dei corleonesi dentro Cosa nostra, passando per la sistemazione giudiziaria del latitante Gelli, ben protetto per tutta la sua vita… una micidiale alleanza fascio-piduista (e mafiosa, ndr) che porta sulle spalle diverse stragi e la decapitazione di un’intera classe dirigente progressista, nell’isola siciliana, che si è posta tra la fine degli anni Settanta e gli inizi del decennio successivo come la punta più avanzata di un possibile rinnovamento». Così scrive Stefania Limiti nella appendice al nuovo libro dell’ex magistrato Giuliano Turone Crimini inconfessabili. Il ventennio dell’Antistato che ha voluto e coperto le stragi (1973-1993), edito da Fuori Scena. Abbiamo rivolto alcune domande all’autore per approfondire i contenuti di questo appassionato e documentatissimo lavoro di indagine e di ricostruzione del ventennio più buio della nostra democrazia, che è anche una preziosa chiave di lettura dell’attuale situazione politica.

Turone, partiamo dal titolo. Quali sono i crimini inconfessabili?
Le stragi sono crimini inconfessabili. Ci sono buoni motivi per non confessare mai una strage. Pensiamo a quella di Bologna. Fioravanti e Cavallini confessarono innumerevoli omicidi politici ma mai quello che hanno fatto a Bologna. Le prove invece sono solidissime e sono state confermate anche nelle ultime sentenze che hanno visto la condanna in via definitiva di Cavallini e, nei primi due gradi di giudizio, di Bellini. Sentenze che hanno confermato la loro partecipazione alla strage e hanno portato elementi in più a carico degli ex terroristi Nar Fioravanti, Mambro e Ciavardini.

C’è chi ancora sostiene ogni anno quando si avvicina il 2 agosto che siano stati i palestinesi…
Chi lo dice è gente abituata a mentire anche diecimila volte al giorno, sapendo di avere un seguito che acriticamente li ascolta. Ma ormai esistono migliaia di pagine di sentenze che hanno smontato questa bufala con prove granitiche.

Nel 1980 c’è stata la strage del 2 agosto che è considerata il momento più drammatico della storia repubblicana. Nel libro lei si sofferma molto su un delitto avvenuto pochi mesi prima, il 6 gennaio, a Palermo: l’omicidio di Piersanti Mattarella, perché?
L’omicidio di Mattarella è un momento chiave della storia d’Italia della seconda metà del Novecento. È il crimine più depistato e fu in quella occasione che iniziò il connubio perverso tra Cosa nostra e la destra eversiva.

Secondo la procura di Palermo che nel 2018 ha riaperto le indagini sugli esecutori, il presidente della Regione Sicilia sarebbe stato ucciso su ordine della cupola mafiosa (Riina, Provenzano, Brusca, Pippo Calò, Francesco Madonia etc) da Antonio Madonia (figlio di Francesco) e Giuseppe Lucchese che guidava la 127 su cui i due killer si dileguarono. A gennaio il nuovo procuratore ha iscritto Madonia e Lucchese al registro degli indagati.
L’iscrizione è un atto dovuto ma sarebbe dovuta avvenire una trentina di anni fa. Quello di Madonia è stato il re dei depistaggi. La notizia che notizia non è perché è vecchissima, è uscita fuori anche di recente, a gennaio scorso. Negli anni Novanta è stato il depistaggio che ha favorito l’assoluzione per insufficienza di prove di Fioravanti e Cavallini (che dunque non potranno più essere processati per questo delitto). Far passare Madonia per sosia di Fioravanti fu un escamotage per mettere l’uno al posto dell’altro. La “sentenza Cavallini” e anche quella su Bellini per la strage di Bologna hanno demolito totalmente questo depistaggio.

Cosa non quadra?
Per fare un esempio, i due pezzi di targa avanzati per il camuffamento di quella della 127 usata per la fuga furono trovati nel 1982 a Torino nel covo dei Nar in via Monte Asolone, gestito da un esponente non secondario proprio del gruppo di Fioravanti e Cavallini. Questi reperti catalogati con il nr. 42 sono in seguito scomparsi dall’ufficio corpi di reato del tribunale di Palermo. In quel covo c’erano anche degli elementi che li legavano alla P2: centinaia di tesserini di riconoscimento dell’arma dei carabinieri e della guardia di finanza, due dei quali erano stati trovati addosso a Cavallini e Soderini all’atto del loro arresto nell’83.

Perché Piersanti Mattarella fu ucciso?
Ci fu una convergenza di interessi. Piersanti Mattarella era l’erede di Aldo Moro, uno dei due fautori del compromesso storico, e c’era chi voleva evitare che ne raccogliesse il testimone. Ma Mattarella era anche detestato dalla mafia per via della sua lotta alle cosche. A causa sua Cosa nostra stava perdendo parecchi appalti e aveva tutto l’interesse a eliminarlo.

E cosa è successo?
Bontate che allora era ancora il grande capo non voleva che i killer del presidente della Regione Sicilia fossero uomini della mafia. Lo riteneva controproducente. Pertanto si rivolse al suo uomo a Roma che era Pippo Calò e che aveva legami strettissimi con la Banda della Magliana. È così che si arriva ad assoldare i killer all’interno dell’eversione nera.

Cosa c’entra il terrorismo nero? Perché Fioravanti e Cavallini si sarebbero prestati?
Non avevano nulla contro Mattarella ma se si pensa al ruolo che ebbero nella strategia della tensione non solo con la strage di Bologna, strategia in cui rientrava anche il delitto Moro, allora diventa tutto più chiaro.

Ma Moro fu ucciso dalle Br.
Quando parlo di strategia della tensione mi riferisco a quella ordita dai servizi atlantici e in particolare dalla Cia sotto la guida di Henry Kissinger. Il compromesso storico era visto come fumo negli occhi dagli Usa che non volevano Berlinguer al governo – nemmeno l’Urss lo voleva, infatti tentarono di ucciderlo – ma quando le Br rapirono Moro gli “strateghi della tensione” si insinuarono nella vicenda per far sì che si concludesse con l’omicidio. Il ruolo cardine di questa storia è stato svolto dallo psichiatra Steve Pieczenik, un uomo della Cia che Kissinger mandò da Cossiga e Andreotti per far finta di trattare con le Br per conto dello Stato italiano, creando le false aspettative che hanno spinto i brigatisti a far precipitare la situazione.

In Crimini inconfessabili ma anche nel suo precedente libro Potere occulto (Chiarelettere) lei ricostruisce tutto nei particolari. È per questo che non si vuole far emergere tutta la verità sul delitto Moro?
Di certo c’è che in questo modo, impedendo l’alternanza di potere, fu massacrata la sovranità del nostro Paese. Dopo Moro, il delitto chiave per scongiurare l’alternanza al governo che peraltro sarebbe il sale della democrazia, è quello di Mattarella.

Sette mesi dopo ci fu la strage di Bologna.
Destabilizzare il Paese spaventando la gente in modo tale che andasse a votare per i conservatori, per realizzare lo status quo. Questo era lo scopo dei mandanti e finanziatori. E qui veniamo a Licio Gelli e alla P2. Il capo della loggia segreta non solo è stato riconosciuto come finanziatore e mandante – e in questo è particolarmente importante ciò che emerge dal recente “processo Bellini” di Bologna – ma anche lui, come il braccio armato della P2 nella strage che ha tutto l’interesse a negare per garantirsi protezione, ha sempre cercato di non essere mai associato alla bomba della stazione di Bologna che ha ucciso 85 persone e ne ha ferite 200. E finché è stato in vita ci è riuscito.

Cosa è rimasto della P2 dopo Castiglion Fibocchi e lo scioglimento della loggia di Gelli? Nel libro lo definisce il “sistema P2”.
Nel marzo del 1981 scoprimmo la lista e per un certo periodo mettemmo in crisi la P2. Il governo Spadolini, l’unico veramente “anti-P2”, però ebbe vita breve e nel giro di poco più di un anno il sistema si ricostituì in maniera strisciante. In quel decennio Gelli è stato latitante per 5 anni, una latitanza dorata e protetta tra la Svizzera e l’Italia. Quando voleva poteva prendere il caffè a Roma in via Veneto, tranquillamente, come ha riferito uno dei suoi avvocati svizzeri in un’intervista all’Espresso. E questo è molto significativo riguardo l’esistenza di un potere occulto che lo proteggeva. Durante la latitanza insieme ai suoi legali predispose tutto per tornare in Italia e consegnarsi in modo tale da essere sicuro di passare il resto della sua vita nella sua villa senza essere disturbato minimamente. E anche questo gli è riuscito.

Il “ventennio dell’Antistato”, citando il sottotitolo del libro, si conclude con le stragi del 1993.
Mettere in fila le date è importante. Dopo la caduta del muro di Berlino, la strategia della tensione di matrice atlantica, per così dire, si assopì. E in Italia ci fu “Mani pulite”. Ma gli epigoni della prima repubblica, quelli importanti, rimangono in piedi. Chi e come ce lo spiegò lo stesso Gelli. Nell’ultima parte della sua vita concesse diverse interviste. Qualcuno gli chiese del Piano di rinascita democratica. E lui rispose tutto compiaciuto che il piano stava andando avanti e che c’era «Berlusconi che è molto bravo in queste cose». E poi ancora in un’intervista al Corriere del 2011: «D’altra parte dovete tener conto che io, sì, avevo la P2 ma Andreotti aveva l’Anello (o “Sid parallelo”, ndr) e Cossiga aveva la Gladio». Fu una cosa incredibile: dichiarò candidamente chi è che proseguiva il “lavoro”. Oltre alla discesa in politica di Berlusconi nel 1994 ricordo che Andreotti tra l’89 e il ’92 è stato nuovamente presidente del Consiglio, con Cossiga presidente della Repubblica. Ed entrambi, il primo nel 1991 (nominato da Cossiga) e l’altro nel 1992, sono divenuti senatori a vita.

L’ultimo capitolo si intitola “I nipoti di Mussolini”. Chi sono?
Il riferimento è al libro di David Broder in cui afferma che l’Italia è sempre stato un Paese apripista. Lo è stato nel 1922 perché il fascismo nasce lì. E lo è stato nel 1992 quando Berlusconi inizia a parlare di politica e poi due anni dopo quando da presidente del Consiglio per primo sdoganerà gli eredi di Almirante al governo.

L’articolo è stato pubblicato su Left di aprile 2025. Qui

Bologna 1980: Il processo che ha fatto luce sulla matrice neofascista e piduista della strage ora diventa memoria visiva

i soccorsi dopo la strage di Bologna del 2 agosto 1980

Un ufficiale del Sisde, il servizio segreto civile ai tempi controllato dalla loggia massonica P2 di Licio Gelli, sapeva in anticipo del progetto di compiere un attentato di cui «avrebbero parlato tutti i giornali del mondo». Ma il 6 agosto 1980, quattro giorni dopo la strage alla stazione di Bologna, nonostante avesse «avuto queste informazioni prima, [venne] a dire che abbiamo sempre collaborato». Semmai era vero il contrario e a quarantacinque anni di distanza dal più grave attentato avvenuto nell’Italia del dopoguerra (il secondo più grave a livello europeo: 85 vittime e 216 feriti), si possono leggere le parole chi c’era in quell’estate.

Per la precisione, quelle parole non si possono solo leggere: a breve (da marzo 2026), si potrà anche vedere chi le ha pronunciate, in un’aula giudiziaria a Bologna. È l’aula della Corte d’Assise presso cui, dal 16 aprile 2021 al 6 aprile 2022, è stato celebrato il cosiddetto “processo mandanti” per la strage alla stazione di Bologna e qui sono state collocate sei telecamere che, attraverso una regia remotata (indispensabile in tempi attraversati ancora dalla pandemia), hanno ripreso integralmente ogni fase del dibattimento, fino al pronunciamento della condanna finale che ha posto un punto fermo sulla storia d’Italia dal 1947 al 1993.

Si tratta di un girato di 450 ore, risultato di un progetto che ha un titolo chiaro: “Il processo di Bologna | Archivio della memoria”, reso possibile da una coralità di persone e realtà. L’idea è del regista e autore cinematografico Paolo Fiore Angelini, che l’ha condivisa con una casa di produzione bolognese, Bo Film, attivatasi immediatamente diventando capofila di una catena di produttori a cui si sono aggiunti tecnici cinematografici, l’Associazione abc e Ponte di Archimede Produzioni, con il sostegno del Comune di Bologna e della presidenza della Regione Emilia Romagna.

Ma, nel corso delle riprese, per ragioni economiche il girato è stato conservato su un supporto analogico (cassette Lto) e dunque non era consultabile. Se si trattasse solo della qualità, questa non sarebbe un problema: è stata mantenuta. Il problema, invece, è legato alla consultazione dell’archivio di quel processo, impossibile fino al completo riversamento in digitale. Dal 2024, la questione è stata affrontata grazie al Fondo di Digitalizzazione per le Imprese Culturali e Creative della Regione Emilia Romagna. E ora, per completare l’opera, si è aggiunto un crowdfunding attraverso il quale anche singoli cittadini possono contribuire all’obiettivo finale: https://www.produzionidalbasso.com/project/il-processo-di-bologna-archivio-di-memoria/.

Obiettivo finale che porterà, nel giro di pochi mesi, ad avere l’archivio audiovisivo a disposizione di chiunque lo voglia guardare e studiare: una copia di un’inquadratura dell’intero dibattimento sarà a disposizione dell’Associazione tra i familiari delle vittime della strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980 e dell’Archivio Flamigni di Roma. Presso Bo Film, invece, sarà possibile fruire l’intero archivio, con i diversi punti di vista. In questi tre luoghi (due a Bologna e uno a Roma), dunque, la storia d’Italia può essere vista direttamente e vissuta non solo attraverso le parole scritte in sentenze e libri, ma attraverso toni di voce, espressioni, prossemica e tutti quegli elementi dell’umanità che trasformano quella storia in vita.

L’autrice: Antonella Beccaria è giornalista, autrice di numerosi saggi ed è stata testimone al processo per la strage di Bologna ( in foto un momento della sua testimonianza al processo filmato da Bofilm 

Foto di apertura di wikipedia

Alta velocità cancellata, propaganda in corsia di sorpasso

In Calabria non ci sarà l’alta velocità. Ci sarà, invece, il Ponte sullo Stretto. Così ha deciso il governo, con la stessa leggerezza con cui si taglia una spesa da 9,4 miliardi dal PNRR-PNC e la si ricolloca in un capitolo indefinito. È tutto scritto nero su bianco nel rapporto intermedio del Cresme, presentato in Commissione ambiente alla Camera. Mentre si moltiplicano i video del presidente Occhiuto che descrive la Calabria come un cantiere aperto, nella realtà i lavori finanziati dal Piano in quella regione sono fermi al 15%. Ma tanto, nell’Italia governata dalla destra, la propaganda corre veloce. I treni no.

Il definanziamento dell’alta velocità Salerno–Reggio Calabria è un doppio schiaffo. È uno schiaffo ai cittadini calabresi, ancora condannati a viaggi da terzo mondo e a una mobilità da secolo scorso. Ed è uno schiaffo al principio stesso del PNRR, nato per colmare i divari territoriali e rilanciare l’equità infrastrutturale. Invece, quei fondi sono stati “rimodulati” per rincorrere sogni faraonici come il Ponte, che costa meno in appalti immediati e rende di più in termini elettorali. Un classico esempio di “scippo politico”, come l’ha definito il Pd calabrese.

Le parole dell’assessora regionale ai lavori pubblici, che prova a rassicurare parlando di “copertura con altri fondi”, suonano come una presa in giro. Se non sono più quelli del PNRR, quali sarebbero questi fondi alternativi? Per ora, l’unica certezza è che il governo ha stornato anche 3,5 miliardi di fondi di coesione per Calabria e Sicilia, usandoli per “rimpolpare” il budget del collegamento stabile sullo Stretto.

L’alta velocità in Calabria diventa così il simbolo di una strategia precisa: far pagare al Sud il prezzo della messinscena sovranista, mentre si regala la scena a un Salvini che pretende infrastrutture di bandiera senza neppure riuscire a garantire quelle di base. Se il PNRR doveva segnare un cambio di passo, qui è stato ridotto a un passo indietro. Accelerato.

Buon venerdì.  

foto wikipedia