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La società ideale esiste?

La domanda che questi tempi portano con sé io credo che sia semplicemente: è possibile pensare che una “società ideale” possa realmente esistere? Oppure no, si tratta solo di un’utopia nel senso che qualunque società prima o poi diventerà ingiusta e violenta verso alcuni, che siano parte di essa o meno? La storia degli Stati moderni, a partire dalla promulgazione delle carte costituzionali che hanno garantito diritti fondamentali ai “cittadini” ci dice che le società hanno un’evoluzione, potremmo dire sono un qualcosa di vivo che si forma e si trasforma nel tempo, sulla base della cultura del tempo e della sapienza e conoscenza del mondo e degli altri.

L’attività politica di gestione della cosa pubblica che la società, intesa come stare insieme, realizza dovrebbe sempre astrattamente basarsi su un’idea di bene collettivo, di cercare di fare ciò che è meglio per tutti, ciò che permette non solo di sopravvivere, nel senso di soddisfazione dei bisogni di ognuno, ma anche di vivere nel senso di cercare una soddisfazione delle “esigenze” di realizzazione umana. Questo aspetto, apparentemente poco importante e spesso dato per scontato, in realtà è forse il pilastro di una società sana.

Perché non è in nessun modo pensabile un benessere che sia soltanto materiale. La realtà degli esseri umani è ben di più che avere soddisfatte le condizioni minime relative ai bisogni materiali. È fatta di relazioni con gli altri, di affetti, di pensiero e fantasia, di voler sapere e conoscere sempre di più e meglio ciò che ci appassiona, avere la libertà di poter fare una propria ricerca. La società ideale è quella collettività nella quale si riesca a realizzare la propria esistenza dando ad essa un “senso” reale e profondo.

Ma tale realizzazione evidentemente richiede di comprendere cosa sia il senso dell’essere al mondo. Non è possibile alcuna politica realmente umana se non si comprende l’essere umano. Questo lo hanno ben chiaro i politici di matrice religiosa che basano la propria comprensione, la propria verità sull’essere umano, sul pensiero religioso. È esso che stabilisce cosa sarebbe o non sarebbe l’essere umano e di conseguenza qual è il senso del suo essere al mondo. Allo stesso modo le altre formazioni politiche si ispirano a principi che hanno al fondo un’idea di essere umano. Senza andare a scomodare i principi che sono (o che dovrebbero) essere quelli della sinistra, limitiamoci a pensare di voler cercare dei principi nuovi, cercare di trovare cosa è che fa uno stare insieme che permette la realizzazione profonda e piena dell’essere umano. L’evoluzione della conoscenza umana nel corso della storia ha portato con sé, nel tempo, a concezioni sempre nuove della realtà dell’essere umano.

Perché quando si realizza qualcosa di nuovo fuori di sé questo poi porta sempre ad una realizzazione nuova dentro di sé. E questi pensieri nuovi su di sé e gli altri, hanno portato a rivoluzioni sociali e politiche.

Si pensi ad esempio alla rivoluzione scientifica di Keplero, Galileo e Newton: un mondo sempre pensato come bidimensionale (la terra) e del tutto diverso da ciò che era nel cielo improvvisamente diventa tridimensionale perché a ciò che è nel cielo si applicano le stesse leggi che valgono sulla terra. Ciò che era inconoscibile diventa quindi qualcosa che si può studiare e conoscere. E andando indietro nel tempo si pensi alla scoperta dell’America: non è tanto la terra sferica ma la scoperta di un intero nuovo continente sconosciuto, infiniti oceani e terre da esplorare e conoscere. Lo spazio esterno aumenta enormemente e così, possiamo pensare, lo spazio interno, le possibilità di pensiero dell’essere umano dopo la scoperta di Colombo. Quanto della rivoluzione scientifica è dovuto a quella scoperta, a quelle possibilità di pensiero che prima non c’erano?

La conoscenza del nuovo, di ciò che era considerato inconoscibile permette di realizzare qualcosa dentro di sé che va oltre la conoscenza del nuovo. Diventa una realizzazione di nuove possibilità, di una nuova fantasia. Possibilità di immaginare qualcosa che prima non era possibile immaginare.

Ma ogni novità, ogni pensiero nuovo, scatena anche la disperazione, la solitudine, l’invidia e l’odio di chi non comprende, di chi non ce la fa ad accettare il nuovo. Di chi pensa di perdere tutto ciò che sa e che è, da chi rischia di perdere la propria identità. Sono quelli che cercano di riportare indietro l’orologio della storia, cercano di negare la realtà di scoperte che sono per il benessere dell’umanità, per la ricerca di un vivere insieme che sia un vita-tua vita-mea. Non comprendere fa una disperazione che è cieca e violenta e dice bugie pensando siano verità. Le bugie allora diventano verità alternative e la realtà umana che è per la conoscenza e il rapporto non esiste più. Gli altri che non sono come noi non sono più, in realtà, esseri umani e possono quindi essere eliminati, come se non fossero mai esistiti. Una lotta tra vedere e non vedere, tra pensare e credere, tra volere la realizzazione dell’altro che è anche la propria o volere il fallimento dell’altro perché non si è capaci di avere rapporto con il nuovo. Ora come fare per tradurre in concreta azione politica quelle che possono apparire come idee astratte?

Io penso si possa iniziare cercando di individuare quali sono i pensieri, più o meno nascosti, che guidano l’azione politica. Bisogna poi considerare che tutti abbiamo una grande sensibilità nel cogliere il significato delle cose che accadono e delle parole che vengono dette. E quindi quanto quei pensieri, più o meno nascosti, siano veicolati latentemente dall’azione politica. Possiamo così trovare nuovi argomenti per opporci a ciò che ci appare certamente ingiusto anche se non riusciamo a capire esattamente il perché, al di là di un astratto principio morale. Dobbiamo trovare dei principi umani, non negoziabili, e di conseguenza individuare tutto ciò che è inumano. Allora potremo forse affermare di poter fare una politica nuova perché essa sarà coerente con la realtà umana.

Per tornare al concetto di società ideale si possano fare alcuni esempi concreti andando a vedere cosa sappiamo che non funziona nelle società moderne e cercando di individuare il perché, cercando di leggere il latente. Per esempio, l’idea di una sanità non universale, che quindi sia solo per alcuni e non per tutti viola il principio di uguaglianza degli esseri umani tra loro perché propala l’idea di alcuni che sarebbero meglio di altri. Un principio per cui bisogna meritarsi di essere curati e assistiti. Un’idea in realtà molto poco nascosta che veicola un pensiero per cui chi proviene da origini umili, chi è immigrato, chi non ha possibilità economiche è “meno” di chi invece quelle possibilità ce l’ha. Ci sarebbe un umanità di serie A e una di serie B. Per questo una sanità universale e pubblica è fondamentale. Non solo come presidio sanitario ma come presidio culturale e politico. Potremmo anche dire che una sanità che non rispetta il principio di universalità viola l’articolo 3 della Costituzione.

L’idea di una sanità privata porta con sé anche l’idea che la cura è a discrezione dell’operatore sanitario. C’è un evidente conflitto di interessi se c’è un interesse privatistico del medico o della struttura sanitaria a mantenere il paziente malato più a lungo.

La cura dell’altro non può sottostare ad un principio di profitto nella misura in cui quel profitto diventa approfittarsi dell’altro e della sua libertà (fintantoché rimane malato), cioè in altre parole diventa un mors-tua vita-mea. Altro esempio possibile è quello della scuola: aggiungere accanto a istruzione la parola merito porta con se l’idea che la scuola deve classificare e categorizzare gli studenti con lo scopo non di dare possibilità ad ognuno sulla base delle proprie peculiarità e differenze ma sulla base di un principio di “migliore-peggiore” per cui solo i migliori avranno tutti i diritti, gli altri ne avranno meno e gli ultimi non ne avranno nessuno. Un principio di disuguaglianza che è esattamente il contrario di quell’uguaglianza originaria che tutti noi abbiamo spontaneamente dalla nascita e che ci porta a cercare il rapporto con l’altro diverso da noi. Un principio che porta con sé un’idea di competitività del tutto sterile che vuole dire ai ragazzi che sono da soli e che devono combattere con i propri simili per realizzare se stessi. Un’idea terribile e soprattutto completamente falsa e che perciò determina malessere in chi la subisce, anche, e forse soprattutto, nei primi della classe. Le società e le democrazie si “rompono” quando i principi di umanità, per quanto fragili e incerti, su cui si basano vengono messi in crisi da chi non conosce altro che il mors-tua vita-mea come pensiero di rapporto con gli altri. Sta a tutti noi tenere gli occhi aperti e cercare di individuare quando azioni politiche apparentemente poco importanti sono in realtà portatrici di pensieri latenti pericolosi, che hanno dentro di sé il germe dei società basate sulla discriminazione e sulla violenza.

Illustrazione di Fabio Magnasciutti

La Palestina e il diritto al cibo. Il primo rapporto Onu a fumetti della storia… e forse anche l’ultimo

Testi di Michael Fakhri e Omar Khouri
Disegni di Omar Khouri
Traduzione e introduzione di Luce Lacquaniti

Relatori speciali delle Nazioni Unite sono esperti indipendenti ai quali le Nazioni Unite danno mandato di indagare e redigere rapporti su specifici temi relativi ai diritti umani: ad esempio, alcuni lettori avranno imparato a conoscere Francesca Albanese, relatrice speciale sui territori palestinesi occupati. Nel luglio 2024 Michael Fakhri, relatore speciale sul diritto al cibo, trasmette all’Assemblea generale Onu il suo rapporto su fame e diritto al cibo, con un focus speciale sulla Palestina. L’urgenza di questo focus è senz’altro dettata dagli avvenimenti seguiti al 7 ottobre 2023 nella Striscia di Gaza, in cui il relatore ravvisa quella che definisce una campagna lanciata da Israele per affamare intenzionalmente il popolo palestinese. Tuttavia, il rapporto non tratta solo il qui e ora, ma inserisce la “campagna della fame” da un lato all’interno delle strategie dell’occupazione israeliana in Palestina, che da lunga data cercano di limitare in ogni modo l’autodeterminazione del popolo palestinese, anche affamandolo e minandone la sovranità alimentare; dall’altro lato, all’interno di sistemi alimentari mondiali che creano ovunque fame e squilibri, perché progettati secondo logiche coloniali e capitaliste di sopraffazione e di profitto, piuttosto che secondo un principio di equo accesso alle risorse. Il caso della Palestina è dunque letto come paradigma di una crisi strutturale globale, e la lotta della Palestina come lotta di tutti i popoli contro un sistema oppressivo.

Fakhri ragiona sul fatto che, per rendere universale una storia particolare, e per renderla accessibile a un pubblico il più ampio possibile, al quale desidera arrivare al di là della cerchia ristretta degli esperti Onu, il mezzo migliore siano le immagini. Coinvolge dunque il fumettista Omar Khouri, che sviluppa a fumetti tre sezioni del rapporto: le tre sezioni che si trovano alle pagine seguenti, qui pubblicate integralmente, in traduzione italiana dall’originale inglese, e nella prima versione degli autori, non soggetta

Il mare dentro di noi

Raccontare il mare per raccontare la vita e parlare della vita come inscindibilmente legata al mare. Si potrebbe riassumere così la richiesta che ci ha fatto la casa editrice l’Asino d’oro quando ci ha riuniti, uno scienziato, una psichiatra e un’insegnante appassionata di letteratura, proponendoci di raccontare e poi di scrivere il mare, ognuno partendo dal proprio sguardo.

Durante i mesi di preparazione del libro Il mare dentro il mare. Le storie, la scienza, i sogni, affiancati da Valentina Pasquazi e Giovanni Senatore, ci siamo incontrati e abbiamo condiviso riflessioni e pensieri che si sono intrecciati riflettendosi poi nel lavoro che ognuno si è trovato a portare avanti nel comporre il proprio capitolo.

Come ha scritto Marie Hélène Rio nella bellissima prefazione: plurale è il mare e provare a descriverlo nella sua immensità e complessità non poteva che essere un esercizio corale. Ed è dopo aver attraversato le parole di Marie Hélène, scienziata e studiosa del mare, che lettori e lettrici approdano al primo capitolo, quello in cui cerca dentro le narrazioni per incontrare il mare.

La letteratura e le narrazioni, si sono da sempre rivolte al mare che è stato di volta in volta, sfondo, protagonista oppure antagonista delle storie raccontate.

Ma quando la letteratura parla di mare non lo fa per conoscere il mare, ma per dire del rapporto che gli esseri umani hanno instaurato con questa immensa distesa blu, con la sua mutevolezza, con le profondità e con le correnti e la narrazione di questo rapporto ha sempre detto molto su come gli esseri umani pensano sé stessi.

Lungi da presentare un compendio di letteratura sul mare, o sulle storie di viaggi o di avventura, l’idea che ha guidato la scelta dei brani è stata quella di cercare il pensiero sulla realtà umana dentro le immagini del mare cercando di risalire ad alcune delle tante radici dell’immaginario culturale condiviso che influenza tutt’oggi il pensiero sugli esser umani.

Non poteva che essere l’Odissea la narrazione da cui partire, dove l’idea di un mare, le cui profondità celano pericoli ed insidie che solo l’eroe è in grado di sconfiggere, ha condizionato

Schifano, Angeli, Festa: l’arte inquieta di una generazione

Festa, Angeli e Schifano. Per anni li hanno citati insieme, come una cantilena. Erano quelli di Rosati, i pittori popolari, nella duplice accezione: famosi e al contempo figli del popolo. Non dominavano solo la scena dell’arte, ma anche quella della mondanità, erano i pittori comunisti che folleggiavano con le principesse, bocconi succulenti per paparazzi, giornalisti da rotocalco, inventori di nuove mitologie pagane… A ogni modo hanno finito per sperperare tutto, come se sempre nel loro inconscio prendesse il sopravvento l’idea che la ricchezza è il vero scandalo dell’uomo».

Il ritratto che Andrea Pomella ci offre di Mario Schifano, Franco Angeli e Tano Festa nelle pagine del suo ultimo romanzo Vite nell’oro e nel blu, edito da Einaudi come il precedente Il dio disarmato, è condensato meravigliosamente in queste poche righe. I pittori di piazza del Popolo, amici “maledetti” che arrivarono alle vette della notorietà, che si accompagnarono a belle e nobili donne, con cui intrattennero rapporti burrascosi, senza risparmiarsi certe cattive compagnie, come quella della mala romana, incontrate sui sentieri della droga di cui furono grandi consumatori. Molto diversi ma tenuti insieme da certe affinità elettive e da un comune destino, da continue fughe in Europa e a New York, dove finirono sotto le luci della ribalta come in un film (il cinema fu un’altra loro passione) e da un finale doloroso e amaro.

E accanto a loro Francesco Lo Savio, fratello di Tano Festa («fratelli di sangue, ma illegittimi», perché nati fuori da un matrimonio) da cui Tano a un certo punto della sua vita si allontanò artisticamente e umanamente per poi scapicollarsi al suo capezzale, dopo che il fratello aveva ingerito trentacinque pasticche di sonnifero (Lo Savio morirà dopo nove giorni di coma a Marsiglia).

«Schifano è l’istinto. Angeli la lotta. Lo Savio il pensiero. Tano Festa è la contemplazione». Pomella ne indaga le iperboliche e fragili esistenze, sempre oscillanti tra beatitudine e dannazione, tra l’oro e il blu, facendole diventare scrittura, racconto, romanzo; un «romanzo biografico, non una biografia», come sottolinea nella Nota dell’autore, a fine libro, perché

Menzogne al potere. Goebbels fa ancora scuola

Giovanni Mari, giornalista al Secolo XIX di Genova, si è occupato a lungo dello scontro tra i partiti italiani, interessandosi in particolare al tema della propaganda politica. per le Edizioni Lindau, esce il suo nuovo saggio L’orchestra di Goebbels. Ordini e veline alla stampa per manipolare le masse. Visto l’interessante, quanto attuale, tematica, abbiamo deciso di raggiungerlo per intervistarlo.

Con questo libro possiamo dire che ha concluso una sorta di “Trilogia” su Paul Joseph Goebbels, ma cosa l’ha spinta a tornare di nuovo su questa figura?

Sì, Goebbels si è preso una parte importante della mia vita e ora ho persino bisogno di scacciare l’incubo del suo portato politico e mediatico. Ma in qualche modo è stato inevitabile studiare a lungo le tattiche e le strategie di quest’uomo tanto malvagio e freddo quanto acuto e determinato nello stravolgere e nel piegate a vantaggio dell’idea nazista ogni singolo spicchio della realtà attraverso sofisticate e reiterate menzogne. Sono da sempre uno studioso della politica e della propaganda e Goebbels interpreta e realizza diabolicamente entrambe le arti. In questo libro mi soffermo soprattutto sulle tecniche che Goebbels ha usato per ipnotizzare i tedeschi sui grandi cavalli di battaglia del nazismo, specie per la sanguinaria campagna antisemita. Non è mera teoria: quella che descrivo è un’analisi dettagliata delle veline che ogni giorno il ministro della Propaganda propinava ai direttori dei giornali obbligandoli a riportarle lettera per lettera sulle loro testate.

Nel libro tratta molto bene la propaganda bellica di Goebbels, con l’esasperazione della cultura del nemico, la «pratica della guerra totale», le menzogne e il ribaltamento delle cronache nemiche, specie quelle inglesi, visto che la radio inglese, come Radio Londra, era ascoltata in Germania e raccontava una situazione diversa. Guardando all’attualità, secondo lei siamo o possiamo ancora essere vittime della propaganda di guerra fatta da entrambi i fronti?

È nei fatti. Lampante. Noi europei

Antisemitismo. Il plagio che ha generato l’odio

«Anche la falsificazione, pur riconosciuta come tale, può continuare a servire allo storico: non già perché si continui a credere a quel che essa “voleva” si credesse, ma perché essa ci è testimonianza di una determinata tendenza, di una certa idea e precisamente della tendenza dell’idea da cui il falsario era ispirato». Così Nicola Gallerano, tra i primi ad occuparsi sistematicamente di uso pubblico della storia – e di conseguenza della falsificazione o manipolazione dei documenti – metteva in luce la rilevanza dei “falsi storici” (dalla donazione di Costantino, che costituì la base del potere temporale dei pontefici “smascherata” dal filologo Lorenzo Valla nel 1517 alle più recenti teste di Modigliani risalenti al 1984), facendoli rientrare a pieno titolo, come conferma il volume qui recensito, nella sfera di interessi degli studiosi, anche per le reali e spesso tragiche conseguenze che producono nella realtà.

In questa prospettiva, un ruolo considerevole hanno avuto I Protocolli dei Savi Anziani di Sion, «l’apocrifo più celebre del XX secolo». Come è noto, i Protocolli furono pubblicati sul New York Times nel 1920 (a oltre 15 anni dalla prima uscita avvenuta in Russia) come verbali di un organismo burocratico anonimo composto dai capi del sionismo internazionale che pianificavano il loro programma di conquista del mondo. Nonostante le confutazioni successive (compresa la smentita sullo stesso quotidiano americano, risalente al 1921), i Protocolli sono diventati «il prototipo del più famoso di tutti i falsi antisemiti (Norman Cohn, 1969)» dando linfa «per decenni» al «pregiudizio antiebraico in tutto il mondo» con esiti ideologici e politici giganteschi. Il Discorso del Rabbino, documento che precede di alcuni decenni i Protocolli (1881), oggetto della rigorosa e inedita indagine dell’autore, che si muove con destrezza tra storia e filologia, è presentato come «la matrice narrativa» dell’accusa riproposta nei Protocolli, che Ignazio Veca inserisce nella categoria del “plagio di successo” (indagata in particolare nel IV capitolo, La fabbrica del plagio), distinguendola da quella della falsificazione più classicamente intesa, in quanto trattasi, in questo caso, di «una invenzione narrativa prodotta dall’appropriazione fraudolenta di materiali preesistenti […] che cambiano la natura del testo originario e ne fanno un modulo narrativo da agitare sul tribunale dell’opinione pubblica» (p. 246), ossia dell’appropriazione indebita di testi altrui.

Il libro, che inaugura

Lo Stato sono io: Mario Roatta e la continuità tra fascismo e Repubblica

Ci sono libri che apri, leggi e poi riponi in uno scaffale sapendo che lì resteranno perché quel che avevano da dirti te lo hanno detto. Altri con i quali non riesci a chiudere: li rileggi, li sottolinei di nuovo, li riempi di chiose, poi li metti in un angolo della scrivania perché sai che presto tornerai a parlare di nuovo con le loro pagine. Il generale Roatta. Il passato rimosso del fascismo (Salerno) di Davide Conti appartiene a questa seconda categoria e il lettore lo capisce subito, sin dal primo capitolo, colpito da come una gran mole di materiali d’archivio viene utilizzata a sostegno di una serrata ricostruzione di una figura solo in apparenza secondaria come Mario Roatta e dal rigore con cui Conti scava dentro la storia e gli archivi dello Stato italiano per esplorare e interrogare quella dimensione della continuità tra Stato fascista e Stato repubblicano che è fondamentale non solo per gli storici, ma per chiunque non voglia arrendersi all’apparente impossibilità di far vivere in tutta la sua potenza democratica la cittadinanza repubblicana prevista dalla Costituzione del 1947.

Durante il fascismo Roatta, dal 1934 al 1939, è capo del Servizio informazioni militare (Sim) e, tra il dicembre 1936 e il febbraio 1937, delle forze armate italiane in Spagna; dal marzo 1941 è Capo di stato maggiore dell’esercito e dal 1942 comanda la II Armata in Croazia. Il Sim di Roatta è responsabile di azioni criminali come l’assassinio del re Alessandro di Jugoslavia e di Carlo e Nello Rosselli, oltre che di una serie di sabotaggi diretti prima a indebolire il governo repubblicano spagnolo e poi ad appoggiare l’alzamiento franchista. Criminale è pure l’indirizzo dato da Roatta all’occupazione italiana della Jugoslavia: la sua circolare 3C, del marzo 1942, prevede la fucilazione sul posto dei prigionieri, la distruzione di paesi, la deportazione, l’internamento e l’affamamento dei civili. Al termine della guerra il governo jugoslavo chiede l’estradizione di Roatta quale principale responsabile della fucilazione di 1000 ostaggi, dell’assassinio di 8000 persone, della distruzione di 800 villaggi, della morte per fame di più di 4500 civili. Il 25 luglio 1943 Vittorio Emanuele III si libera di Mussolini, ma non di Roatta, che anzi svolge un ruolo di primo piano nei 45 giorni del tentativo badogliano di instaurare un ‘fascismo senza Mussolini’. Il 26 luglio Roatta

Riscoprire Orwell, una boccata d’ossigeno

«Sta per scoppiare la guerra. Nel 1941, così dicono. E ci sarà un sacco di vasellame rotto, piccole case sventrate come pacchi postali e le budella del segretario del responsabile contabile sparse sul pianoforte che sta acquistando a rate… Tutte le cose che vi passano nell’anticamera del cervello, quelle da cui siete terrorizzati, quelle che vi illudete siano soltanto incubi o che accadano esclusivamente nei paesi stranieri: le bombe, le code per il cibo, i manganelli di gomma, il filo spinato, le camicie colorate, gli slogan, i faccioni enormi, le mitragliatrici che sputano proiettili dalle finestre delle camere. Tutto ciò accadrà. Lo so… Era come se mi si fosse rivelata una profezia».

Siamo verso la fine di uno dei libri purtroppo meno noti di George Orwell, Una boccata d’aria (Feltrinelli), riproposto in questi mesi nella magistrale traduzione e curatela di uno dei suoi più autorevoli esperti italiani, Andrea Binelli. È proprio lo studioso a criticare in maniera netta, nella sua introduzione, una delle chiavi di lettura di fatto più popolari dei libri di Orwell, ossia il loro essere profetici. Scrive Binelli: «Orwell è un autore celebre in tutto il mondo e un intellettuale ingombrante le cui analisi critiche sono messe in sordina e le opere letterarie narcotizzate da letture superficiali. Fa parte di questo processo di mitologizzazione banalizzante il bollarlo come “profeta”, l’etichetta per chi predice uno scenario, questo sì, ma lo fa attraverso ragionamenti scomodi di cui si preferiscono eclissare i riferimenti socio-politici dietro l’evanescenza innocua del discorso profetico».

Si tratta di una lettura importante, che spiega molto a fondo la parabola letteraria orwelliana, un percorso tra tantissimi libri e saggi, che troppo spesso viene ridotto ai due testi che lo resero famoso, Millenovecentottantaquattro e La fattoria degli animali. La spiega bene perché ci racconta un Orwell diverso, da riscoprire: sempre politico, ma in senso sociale, vale a dire, attento alle dinamiche in atto nella società contemporanea.

È stato detto che nei suoi libri e negli scritti critici e giornalistici Orwell tenti di rinverdire una caratteristica tutta inglese che egli chiama decency (decenza, correttezza, rispettabilità), e che sarebbe da un lato un valore

New York 2025, il ritorno dei Democratici

Se c’è una cosa che dovrebbe apparire chiara, in questa prima metà del 2025, è che dare un colpo al cerchio e uno alla botte della politica non è la strada giusta da percorrere per sconfiggere le destre. Lo sanno bene i Democratici statunitensi, che dopo la sonora sconfitta alle elezioni presidenziali del 2024 sono spariti dalle scene per leccarsi le ferite e cercare di riorganizzarsi (forse, lo vedremo). Il ritiro dalla campagna elettorale dell’ex presidente Joe Biden e l’inserimento in extremis della sua vicepresidente Kamala Harris si sono rivelati una strategia fallimentare, dato che l’attuale presidente Donald Trump ha vinto sia il voto popolare che quello dei Grandi elettori.

Nel 2016, quando lo stesso Trump corse contro l’avversaria democratica Hillary Clinton, vinse solo il voto dei Grandi elettori, con circa tre milioni di preferenze popolari in più per Clinton. Se in quel caso la contraddizione di base del sistema elettorale statunitense non aveva garantito la Casa Bianca a chi aveva preso più voti dai cittadini, stavolta tutto coincide.

Harris è sparita quasi subito, dopo una campagna elettorale con una partenza elettrizzante e una fine inquinata dalla scelta di abbracciare posizioni più vicine alla destra che alla sinistra. Il suo compagno di ticket, Tim Walz, governatore del Minnesota che sarebbe diventato suo vice nel caso di una vittoria, ha invece dichiarato che il suo impegno in politica è più vivo di prima, perché se gli Stati Uniti si trovano nelle grandi difficoltà in cui li sta facendo sprofondare Trump è anche colpa sua, che avrebbe dovuto vincere e invece ha perso. Una delle poche voci, in realtà, che si sono alzate dalle fila del Partito democratico, che in buona parte sembra aver seguito il suggerimento di James Carville, storico consulente politico dei Dem e attore di numerose campagne elettorali, tra cui quella di Bill Clinton del 1992: fingersi morti.

In un editoriale pubblicato dal New York Times, Carville ha dichiarato che secondo lui non c’è motivo di agitarsi, perché il sostegno registrato nel 2024 da Donald Trump è destinato a scemare autonomamente, senza che l’opposizione debba fare nulla tranne che decidere chi candidare alle elezioni del 2028.

Una scelta, questa, che non ha nulla di scontato. La discesa

Stati Uniti, autopsia di una democrazia (liberale)

A soli pochi mesi dall’inizio del secondo mandato di Trump, gli Stati Uniti appaiono drammaticamente e forse irreversibilmente cambiati, sia in patria che sulla scena mondiale. La furia di Trump ha minato la tradizionale capacità di trovare dei compromessi da parte del governo federale. Il suo indebolimento dei diritti costituzionali fondamentali in patria e la sua ostilità all’immigrazione hanno reso gli Stati Uniti inospitali per i visitatori che arricchiscono il paese e contribuiscono alla sua produttività e innovazione. E il suo disprezzo per le norme costituzionali, le leggi e gli accordi internazionali ha indebolito la credibilità americana e reso gli Stati Uniti un partner internazionale inaffidabile e, persino tra alcuni alleati, una minaccia da temere. Con la legge di bilancio voluta da Trump milioni di americani, compresi bambini poveri, rischiano di perdere l’assistenza sanitaria (Medicaid). I fondi destinati a sfamare i bambini affamati vengono tagliati, sacrificati per riempire le tasche degli ultra-ricchi. Migliaia di persone moriranno, non per caso, ma intenzionalmente. Terrore, paura e punizioni hanno sostituito gli ideali di uguaglianza, libertà e giustizia.

Le proteste di Los Angeles e il metodo di governo di Trump.

Un passaggio decisivo della torsione autoritaria che il regime trumpiano sta compiendo è stata la mossa di inviare le truppe – 700 marines e quattro mila soldati della guardia nazionale – a Los Angeles dalla prima metà di giugno. Una decisione che riflette un modello sempre più evidente di questa presidenza: Trump dichiara un’emergenza o una crisi laddove molti altri non la vedono, consentendogli di intraprendere azioni radicali, mobilitare sostenitori e combattere su un terreno politico che ritiene favorevole. La dichiarazione di emergenza economica da parte di Trump il 2 aprile ha consentito l’imposizione di tariffe doganali estese. La sua dichiarazione di invasione al confine meridionale ha aperto la strada a un’intensificazione dell’arresto, deportazione e deumanizzazione dei migranti irregolari. La proclamazione di un’emergenza energetica gli ha reso più facile allentare le normative. La sua dichiarazione secondo cui il fentanyl proveniente da Cina, Messico e Canada costituiva un’emergenza ha giustificato i dazi, così come un’analoga sentenza sull’approccio della Corte penale internazionale nei confronti di Israele ha giustificato sanzioni contro i giudici. La capacità di Trump di proclamare queste (ed altre) emergenze tramite degli ordini esecutivi gli ha consentito di dispiegare immediatamente l’autorità che ne è derivata. Gli conferisce poteri straordinari, evitando di passare attraverso i normali meccanismi e la burocrazia del governo. L’obiettivo è concentrare ed esercitare poteri straordinari per sbarazzarsi del controllo democratico dove vuole, sbarazzarsi