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Trump attacca la Corte penale internazionale e l’Europa resta immobile

Il presidente degli Usa Donald Trump ha ingaggiato contro la Corte penale internazionale (Cpi), una battaglia senza precedenti: una battaglia a colpi di sanzioni di assai dubbia legittimità che rischia di mettere a repentaglio l’attività della Corte stessa, il sistema della giustizia penale internazionale e la tenuta di un ordinamento internazionale basato su regole condivise. L’atteggiamento ostile degli Stati Uniti nei confronti della Cpi, non è una recente novità, ma non vi è dubbio che con il ritorno di Trump alla Casa Bianca vi sia stato un salto di qualità, e non nella giusta direzione.

Vale la pena ripercorrere brevemente le tappe del rapporto tra Stati Uniti e Cpi. Gli Stati Uniti hanno mostrato un atteggiamento ostile nei confronti della Cpi sin dai tempi della sua istituzione, partecipando alla conferenza diplomatica di Roma nel 1998 con l’esplicito intento di limitare il più possibile la giurisdizione della Corte e le sue possibilità di operare contro cittadini statunitensi o di Stati alleati. Infatti, l’allora Presidente Bill Clinton firmò lo Statuto di Roma, ma raccomandò al Senato di non ratificarlo. Con l’avvento alla presidenza di George W. Bush si inaugurò un’era di diplomazia aggressiva e furono intraprese azioni legali senza precedenti contro la Cpi. Bush non solo ritirò la firma Usa del trattato, ma, cosa ben più grave, concluse vari trattati bilaterali (anche con Stati parte dello Statuto della Cpi) per evitare la eventuale consegna di cittadini statunitensi alla Corte. Inoltre, nel 2002 riuscì a far approvare l’American service-members’ protection Act, soprannominato “Legge sull’invasione dell’Aia”, che prevedeva, tra le altre cose, «l’uso di tutti i mezzi necessari per liberare il personale statunitense o alleato detenuto da o per conto della Cpi».

Il secondo mandato di George W. Bush vide un atteggiamento leggermente meno ostile: nel 2005 gli Usa non posero il veto al deferimento della situazione in Darfur alla Cpi da parte del Consiglio di Sicurezza dell’Onu (deferimento richiesto dalla Commissione d’inchiesta guidata da Antonio Cassese, che vorrei ricordare qui per il suo inestimabile contributo alla costruzione del sistema di giustizia penale internazionale).

Sotto l’amministrazione Obama

Dazi, è l’ora della risposta politica di Bruxelles

Trattiamo delle conseguenze economiche di Mr. Trump. Ma va subito avvertito che è praticamente impossibile scindere le conseguenze economiche da quelle politiche, sociali, istituzionali, culturali: la catastrofe ha natura multidimensionale. Muoviamo dalla politica economica interna agli Usa, per passare poi alle due principali questioni economiche internazionali al momento sul tappeto – i dazi e la tassazione delle multinazionali – per concludere con qualche considerazione (auspicio) sulla possibilità di un nuovo ordine internazionale senza gli Usa. Guardiamo alle cose dall’Europa, quella che abbiamo e quella che vorremmo.

Il 3 luglio il Congresso ha definitivamente approvato, con un piccolissimo scarto di voti, la legge di bilancio che Trump ha voluto chiamare Big Beautiful Bill (Bbb, legge grande e bella). Si tratta, invece, neanche dirlo, di una legge grande sì, ma orribile, come ha titolato il New York Times il 5 luglio. Dal lato del prelievo, il provvedimento conferma i tagli di imposta alle imprese, introdotte da Trump nel 2017, che altrimenti sarebbero scaduti, e ne introduce di nuovi. Dal lato della spesa si taglia quel poco di spesa sociale che ancora sussiste negli Usa, come il programma sanitario per i poveri (Medicaid) e l’assistenza alimentare ai bisognosi. Si aumentano invece gli stanziamenti per il controllo della sicurezza delle frontiere e dell’immigrazione. Nel complesso, si tratta di un provvedimento fortemente regressivo: trasferisce reddito dai più poveri ai più ricchi. Gli effetti sul disavanzo e sul debito saranno, inoltre, disastrosi: da qui al 2034 il rapporto debito/Pil aumenterà, a causa del provvedimento, di altri dieci punti percentuali, arrivando al 141-144% del Pil. La correzione di tali effetti tendenziali sull’equilibrio finanziario è affidata, oltre che alla tradizionale fiducia, che accompagna il partito repubblicano dai tempi di Reagan, sui tagli di imposta che si autofinanziano, per l’effetto positivo che esercitano sull’economia, all’incremento dei proventi doganali derivanti dagli aumenti dei dazi. Trump ha più volte declamato che con i dazi gli Stati Uniti stanno incassando, e tanto più incasseranno in futuro, un sacco di soldi. Ma ai dazi Trump

No alle armi. Sánchez indica la via ma in Europa è solo

Un popolo distratto e vacanziero non sembra neppure accorgersi che il suo Paese ha deciso di armarsi, spendere quasi 500 miliardi di euro in dieci anni per costruire o comprare sistemi d’arma. L’Italia non è sola, l’intera Europa si muove nella medesima direzione.

L’indifferenza questa volta può costare molto cara: la fine dello stato sociale e dei progetti per fermare il cambio climatico, proprio nel momento in cui aumentano la povertà e le disuguaglianze e tutti i popoli della Ue sono sulla graticola dell’ennesima onda di calore. “Se vuoi preparare la pace prepara la guerra” è lo slogan più gridato da chi dirige i vari Paesi Ue. L’indifferenza con cui viene accolto preoccupa perché solo i popoli possono cacciare questa classe dirigente mediocre e irresponsabile dalle leve di comando.

Mai come in questo caso Antonio Gramsci aveva ragione nel dire che l’indifferenza è il peso morto della storia. Inutile accusare i popoli se gran parte dell’informazione stimola qualunquismo. Com’è noto la decisione di un piano di riarmo così ambizioso è stata presa al vertice Nato da pressoché tutti i Paesi Ue, meno la Spagna che ha deciso di dire no a questa scelta scellerata.

Sono inconsistenti le ragioni apportate dai socialisti europei per l’appoggio dato alla decisione della Nato. L’elettorato delle sinistre e non solo non condivide questa posizione anzi avrebbe voluto che la sinistra facesse come Sanchez. Tanto meno comprende perché si fatichi tanto a esprimere solidarietà al presidente spagnolo per le aggressioni subite dal “pazzo americano” che forse è meno pazzo di quanto si creda, ma anche dalla Nato e dalla stessa Commissione europea. Il confronto tra destre e sinistre si giocherà nei prossimi mesi su questa partita del riarmo.

Sottrarvisi da parte dei socialisti europei sarebbe una grave responsabilità che pregiudicherebbe per lungo tempo le possibilità di invertire gli attuali rapporti di forza a favore delle destre. È urgente cambiare posizione e compiere atti concreti come il ritiro dell’appoggio socialista alla von der Leyen, così come quello della Spd al governo tedesco, il più bellicista della Ue; infine va anche aperta una riflessione sull’utilità di rimanere nella Nato.

Come non comprendere che un’Europa dedita

Andrea Filippi (Fp Cgil medici): La sanità pubblica e universale è la base della democrazia

Segretario Andrea Filippi, la pandemia ha reso evidente quanto la salute sia un bene comune e quanto un sistema sanitario equo, universale, solidale sia essenziale alla coesione sociale e alla democrazia. Come fare perché questa consapevolezza si trasformi in un cambiamento radicale?

È prima di tutto un problema culturale, poi politico e solo per ultimo organizzativo. La pandemia ci ha costretto ad acquisire consapevolezza della complessità della persona, del limite e della fragilità del nostro essere corpi biologici e della nostra arroganza anti-biologica ed anti-ecologica che ci disconnette da noi stessi, impedendoci una visione collettiva di come co-costruire consapevolmente percorsi di salute. Con la pandemia abbiamo dovuto prendere atto che le riforme successive alla 833 si sono allontanate dall’obiettivo di costruire progressivamente un sistema di tutele della salute equo, universale, solidale, diffuso, strutturalmente solido. Ci avrebbe dovuto costringere, pertanto, ad operare un cambiamento radicale, profondo e sistemico, restituendo ai cittadini i loro diritti.

E invece la risposta quale è stata?

La risposta è rappresentata da miopi movimenti che alimentano la malattia che l’ha generata, attraverso interventi tampone privi di progettualità condizionati dal risparmio finanziario; non si può continuare a far credere che i diritti delle persone, l’ecologia della vita, l’armonia sociale, l’equità nelle azioni, l’attenzione ai bisogni ed allo sviluppo delle esigenze, siano uno spreco insostenibile. La sostenibilità

Il (dis)senso del governo per la laicità

La democrazia in Italia è sempre stata incompiuta. Fin dalla sua nascita, il 2 giugno 1946, la Costituzione all’articolo 2 garantisce i diritti inviolabili della persona, anche nelle formazioni sociali in cui si riconosce, e all’articolo 3 afferma l’uguaglianza di fronte alla legge senza distinzione di religione. Ma subito dopo, agli articoli 7 e 8, precisa che c’è qualcuno più uguale degli altri, che ci sono organizzazioni a cui non si applicano le regole che valgono per le associazioni dei comuni mortali. Il concordato con la Chiesa cattolica e il meccanismo delle intese con confessioni religiose, peraltro scelte arbitrariamente dal governo di turno, dovrebbe far riflettere chi con un po’ di leggerezza sostiene che abbiamo la costituzione più bella del mondo e che non la si deve toccare. È vero, con i tempi che corrono le revisioni sarebbero in peggio, ma bisogna avere l’onestà intellettuale di riconoscere apertamente che la nostra carta fondamentale conserva un ingombrante relitto di clerico-fascismo e che gli articoli 7 e 8 dovrebbero essere espunti e magari sostituiti con l’affermazione esplicita del principio di laicità dello Stato. Perché una democrazia liberale non può dirsi tale se non è laica.

Si potrebbe obiettare che la Corte costituzionale, con la sentenza 203/1989, ha già stabilito che la laicità è un principio supremo della Repubblica, ossia che ha una valenza superiore a quella di altre norme di rango costituzionale.

Seppur importantissima è rimasta però una dichiarazione sostanzialmente astratta, quando invece sarebbe stato necessario passare ai fatti. Perché per recuperare il senso della democrazia in Italia è fondamentale recuperare il senso della laicità, fare in modo che sia vissuto dai rappresentanti istituzionali e dunque produca cambiamenti. Può sembrare assurdo

Il potere della scuola davvero democratica

La scuola, se intesa come istituzione separata dalla società, non ha bisogno della democrazia. Osservato dal punto di vista dell’efficienza e dell’efficacia, ovvero della capacità di utilizzare in modo ottimale le risorse disponibili per raggiungere gli obiettivi formativi previsti, un sistema di istruzione può risultare di buona qualità indipendentemente dal suo grado di democraticità e, soprattutto, dalla sua capacità di realizzare e promuovere i principi della democrazia.

Isolata dal corpo sociale, la scuola può semmai giovarsi di alcuni accorgimenti tipicamente antidemocratici, che potrebbero consentirle di migliorare le prestazioni riducendo i costi.

Selezionare e separare precocemente gli studenti offrendo loro opportunità educative diseguali, escludere studenti e personale scolastico dai processi decisionali, adottare una governance verticale, opaca e autoritaria, sono alcune delle azioni possibili per garantire gli apprendimenti desiderati a un numero limitato di studenti di alcune aree territoriali, le cui prestazioni, qualora venissero misurate con prove standardizzate, andrebbero a compensare i pessimi risultati di gran parte della restante popolazione scolastica. E anche volendo promuovere in queste scuole alcuni tra i più avanzati principi democratici, incentivando per esempio la partecipazione attiva di studenti, famiglie, docenti e personale alle decisioni, oppure valorizzando il dialogo e il confronto come strumenti educativi e preparando ogni studente alla cittadinanza attiva e critica, non si aumenterebbe in modo significativo il coefficiente di democraticità del sistema di istruzione, ma si potrebbe semmai contribuire a renderlo più presentabile.

La democrazia, a scuola, non è necessaria, e anche quando è auspicata e proclamata a gran voce – in una classe, in una scuola, in più scuole contemporaneamente – corre il rischio di apparire come un innocuo imbellettamento di cui ci si può facilmente liberare senza suscitare grande scandalo. Come spiegare altrimenti l’adesione di gran parte del corpo insegnante – una volta dichiaratamente progressista e democratico – ai provvedimenti governativi sul voto in condotta (legge 150/2024), che rappresentano

Prossima stazione: Riace. Una mattina di luglio a parlare con Mimmo Lucano

«È arrivata una donna con tre bambini, uno più bello dell’altro, hanno due, tre e quattro anni. Dormivano nella stazione di Padova e un ferroviere ha avuto la sensibilità di accorgersi di loro e di aiutarli. Su un cartoncino ha scritto “Riace – Sindaco Lucano”, e le ha detto: vai là. Questa donna con i suoi bambini adesso si trova qua. E io ora mando avanti i progetti di accoglienza diffusa, come il suo, con quelli che sarebbero i miei stipendi da europarlamentare».

L’ultima volta che Left ha incontrato Mimmo Lucano nella sua Calabria eravamo a Caulonia, a cinque km da Riace, dove per oltre un anno è vissuto in esilio forzato per via dell’assurda inchiesta che si era abbattuta su di lui e sul modello di accoglienza che era riuscito a sviluppare in questi luoghi, studiato ed apprezzato in tutto il mondo civile e democratico. Era l’estate del 2019, Lucano era decaduto da sindaco e gli era stato imposto il divieto di dimora nel suo paese. Oggi siamo di nuovo con lui, questa volta a Riace, seduti nel bar che affaccia sulla piazzetta centrale da dove, mentre parliamo, arrivano e partono in continuazione con la corriera decine di ragazze e ragazzi di tutte le nazionalità. Alcuni di loro sono tra i partecipanti ai Giochi antirazzisti che si stanno svolgendo sulla bellissima spiaggia di Riace Marina dove l’1 luglio 1998 approdarono i 220 profughi curdi che la comunità riacese, tra cui Lucano (non ancora sindaco), si prodigò ad aiutare gettando i primi semi di un progetto di accoglienza rivoluzionario che sarebbe durato quasi vent’anni.

Da poco più di un anno Lucano è stato eletto sindaco di Riace per la quarta volta, ed è europarlamentare per la lista Alleanza verdi e sinistra. Ma nel 2021 era stato condannato in primo grado a oltre 13 anni per reati molto gravi. Una condanna abnorme, insensata, tant’è che poi in Appello c’è stata la sentenza di assoluzione che ha ribaltato tutto.

Alla fine è rimasta solo una condanna per falso in atto pubblico confermata dalla Cassazione (e pena sospesa), a febbraio scorso. In mezzo a tutto ciò Riace si è anche ritrovata per un breve periodo con un sindaco leghista, poi decaduto perché si scoprì che era ineleggibile.

Mimmo, in questi sei anni sono successe tante cose… Tu sei di nuovo sindaco e finalmente libero da accuse infamanti, ma Riace? È di nuovo libera di accogliere?
Riace continua ad accogliere ma non abbiamo più fondi pubblici per sostenere i migranti. L’accoglienza sopravvive con i soldi che inizialmente servivano a pagare una sanzione pecuniaria (della Corte dei conti, ndr), ma è una somma una tantum. Allora

Ricordarseli bene, ricordarseli tutti

Può essere un errore prendere a bersaglio «bambini assetati in fila per avere acqua»? Un errore sparare su ambulanze, medici, infermieri, su civili inermi e affamati che rischiano la vita per un pugno di farina? Un errore distruggere ospedali, uccidere «bambini ricoverati per denutrizione»? Secondo il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella: no.
Anche dalle parti del Quirinale qualcuno deve avere pensato che fosse il caso di pronunciare una parola sul genocidio trasmesso in diretta da Gaza. La condanna (tardiva) di Mattarella arriva in contemporanea con l’avvio del percorso di riconoscimento della Palestina da parte di altri 14 Paesi alla conferenza promossa da Francia e Arabia Saudita alle Nazioni Unite. Un documento invita le nazioni che non hanno ancora riconosciuto la Palestina a farlo, invocando «un passo essenziale» verso una pace duratura.
L’argine dell’antisemitismo sventolato come scudo per l’impunità del governo Netanyahu si sbriciola giorno dopo giorno di fronte alla verità. La propaganda giorno dopo giorno si sbriciola sotto il peso dei fatti. E così la fame torna a chiamarsi fame, il sistematico assassinio degli innocenti diventa cristallino e il neonazismo israeliano si svela sotto la coltre della sua drammatica storia.
Vale quindi la pena ricordarsi di ricordare coloro che dal 7 ottobre del 2023 hanno concimato il genocidio (e insistono a farlo) da destra a sinistra, ricordare i servi sciocchi, ricordare i collaborazionisti, ricordare i vili, ricordare gli apparenti equidistanti che altro non erano che lubrificatori della strage. Ricordarseli bene, ricordarseli tutti.
Buon giovedì.

Disegno di Marilena Nardi

Ucciso Awdah Hathaleen, simbolo della resistenza nonviolenta palestinese

Awdah non c’è più. Vittima della pulizia etnica israeliana in Cisgiordania. A colpirlo un proiettile esploso dal colono israeliano Yinon Levy. Nella tenda allestita per il funerale si sono presentati anche i soldati dell’Idf per arrestare membri della famiglia Hathaleen. Sono ancora in prigione senza alcuna accusa formale, mentre il colono Levy è temporaneamente ai domiciliari. A casa sua, su terra palestinese, in una colonia illegale costruita nella regione di Masafer Yatta, le colline a Sud di Hebron. Territori occupati Palestinesi.

Awdah Hathaleen era un attivista molto conosciuto, difendeva il suo villaggio in maniera nonviolenta, abitava ad Umm al-Khair. Una località sotto attacco dalla vicinissima colonia illegale di Karmel. Insegnante, giornalista, attivista per i diritti umani e padre di famiglia: Awdah era tutto questo. Ma era anche un simbolo di dignità, resistenza e amicizia. L’ho conosciuto nel 2018 mentre mi trovavo a monitorare sversamenti illegali di liquami che dalla colonia israeliana di Karmel venivano dirottati verso i campi palestinesi, per avvelenare il terreno e il bestiame.

Proprio ad Umm al-Khair, durante un’invasione di coloni israeliani, Awda è stato centrato al petto da un proiettile. A spararlo è stato l’odio sionista per mano del colono Levy, ora indagato per omicidio colposo anche se la versione che verrà accolta è quella della “legittima difesa”. Non a caso la polizia israeliana ha chiesto di sospendere l’esecuzione della decisione del tribunale. Tutto questo mentre ieri, all’interno della tenda adibita a camera ardente, hanno fatto irruzione i soldati dell’Idf per arrestare altri abitanti di Umm al-Khair. Stessa cosa nella notte successiva: 14 parenti di Awdah sono ora in prigione, più l’attivista Alì Awad del vicino villaggio di Tuba.

Awdah ha lottato fino all’ultimo perché i suoi figli potessero vivere in una Palestina libera. Una pallottola gli ha centrato il petto ma il suo cuore sarà una bussola per la Resistenza nonviolenta palestinese.

 

La storia di Awdah: Attivista e docente palestinese residente a Umm al-Khair, nella zona di Masafer Yatta, collinare a sud di Hebron, occupata dalla Cisgiordania. Aveva studiato per diventare insegnante di inglese presso l’Università di Hebron e insegnava nella sua comunità locale.The New Arab+15+972 Magazine+15Cinefilos.it+15

Fin dai 17 anni si era impegnatto nella resistenza pacifica contro le demolizioni forzate e l’espulsione dei palestinesi dalla loro terra. È stato consulente e figura chiave per la realizzazione del documentario No Other Land” (Premio Oscar), che racconta le violenze dei coloni e delle forze israeliane contro le comunità di Masafer Yatta

Report decapitato: ecco la Rai che vuole il governo

La Rai ha deciso: a Sigfrido Ranucci viene tolta la responsabilità della firma per Report. Contratti, trasferte, acquisti, rapporti legali: tutto riassegnato a un altro dirigente. Non è solo una questione organizzativa. È l’ennesimo tassello di una strategia di contenimento. Dopo i tagli al programma, dopo il caso del provvedimento disciplinare per la sua presenza a “Otto e mezzo” (smentito dall’azienda, ma annunciato dal diretto interessato), ora si passa a depotenziare chi da anni incarna uno dei pochi esempi di vero servizio pubblico.

Ranucci lo dice chiaramente: “Per motivi noti”. Motivi che non sono tecnici ma politici. In un’azienda normale, un audit superato e l’efficienza di una squadra coesa sarebbero motivo di fiducia. In Rai, nel 2025, diventano un problema se il coraggio editoriale mette in imbarazzo il potere. “Continueremo a fare il nostro lavoro”, promette il conduttore. Ma sarà sempre più difficile, sempre più ostacolato, sempre più condizionato.

La gestione Meloni ha già dimostrato cosa intende per pluralismo: lottizzazione sfacciata, censura strisciante, promozione del servilismo. Oggi è toccato a Ranucci. Domani a chiunque osi ancora confondere la televisione di Stato con il giornalismo. Il fatto che la Rai smentisca ogni intento punitivo mentre smonta pezzo dopo pezzo la macchina di Report è solo il segno di quanto la doppiezza sia diventata sistema.

Non è una faida tra colleghi, non è una banale riorganizzazione interna. È una spoliazione consapevole di una delle rare isole di inchiesta rimaste nella tv pubblica. E riguarda tutti: riguarda l’idea stessa di cosa debba essere un servizio pubblico. Se obbediente, prono e innocuo, o libero, scomodo e trasparente. Se raccontare la realtà significhi rischiare il posto o essere premiati. E oggi, in Rai, la risposta è fin troppo chiara.

Buon mercoledì.

L’appuntamento: Left incontra Sigfrido Ranucci al Percorsi Festival  il 23 agosto a Santo Stefano di Magra , il giornalista di Report sarà intervistato live dalla direttrice di Left Simona Maggiorelli