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La stessa ditta, lo stesso vuoto

Nel 2015, Giuseppe Iaquinangelo è precipitato da dieci metri. Nessuna protezione, nessuna imbracatura, nessuna sicurezza. Da allora vive su una sedia a rotelle. La ditta per cui lavorava era la stessa. Esattamente la stessa. Quella che oggi conta altri tre morti: Ciro Pierro, Vincenzo Del Grosso e Luigi Romano, caduti da un cestello elevatore a Napoli. Anche loro senza imbracature. Anche loro senza ritorno.

Potrebbe sembrare una coincidenza e invece è un sistema che si ripete. La prima volta la giustizia è arrivata con sei mesi di condanna in primo grado, poi prescrizione. La ditta ha continuato a lavorare. Nessun risarcimento. Nessuna interdizione. Nessun freno. Dieci anni dopo, siamo ancora a contare i corpi. Stessa ditta, stesse omissioni, stessa impunità.

E allora la domanda non è come siano morti. La domanda è: perché nessuno li ha salvati prima? Perché nessuno ha fermato chi aveva già dimostrato di non rispettare le regole? Perché le vite degli operai valgono così poco da essere consegnate alla statistica e alla prescrizione?

In Italia, morire sul lavoro è diventato una variabile accettabile. Le leggi esistono, ma la lentezza le svuota. Gli ispettori arrivano, ma i processi non concludono. E le imprese seriali, anche quando lasciano disabili o orfani, continuano a firmare appalti.

Quando lo Stato abdica, non è lo Stato a fallire. Sono i lavoratori a cadere. Uno dopo l’altro. Nello stesso vuoto. E alla fine la morale della storia è terribile: a disinteressarsi della sicurezza in Italia ci si guadagna. 

Buon martedì. 

Foto di Pop & Zebra su Unsplash

Stop alla disinformazione climatica. Petizione per un’informazione responsabile e un futuro vivibile

Anno 2014. La meteorologa francese Evelyne Dhéliat presenta un’edizione molto particolare delle previsioni del tempo su TF1. Mostra una mappa della Francia infuocata e annuncia le temperature previste per il 18 agosto 2050: 40 gradi a Parigi, 43 nel Sud, 38 nel Nord. Un futuro distopico, una provocazione visiva per rendere tangibile, con anni di anticipo, l’effetto della crisi climatica. Alla fine del servizio, Dhéliat rassicura: fortunatamente si tratta solo di simulazioni.
Oggi siamo nel 2025. E quella previsione che allora pareva esagerata è già diventata realtà. A luglio, Parigi ha toccato i 41 gradi. In Spagna si sono registrati 46 gradi, nel Sud del Portogallo 43, in Italia i 40 sono ormai una soglia superata in molte città. L’Europa è soffocata da ondate di calore estreme, incendi e siccità si moltiplicano, le infrastrutture cedono. A Parigi, perfino la Torre Eiffel è stata temporaneamente chiusa per motivi di sicurezza: le alte temperature hanno provocato dilatazioni anomale del metallo.
Nel Mediterraneo è in corso un’ondata di calore marino senza precedenti: le temperature superficiali hanno superato di oltre 5 °C la media stagionale, distruggendo gli ecosistemi e amplificando gli effetti del caldo anche sulla terraferma. Questa non è una parentesi, è la nuova normalità. È la crisi climatica che avanza, non per mancanza di conoscenza, ma per l’inazione e il dilazionismo della politica, incapace di affrontare con coraggio e visione l’emergenza per eccellenza.
A Bruxelles, la Commissione europea ha annacquato parti chiave del Green Deal, cedendo alle pressioni dei gruppi di ultradestra. Al di là dell’Atlantico, il ritorno del negazionismo climatico di Trump ha riportato il Paese fuori dall’Accordo di Parigi e riaperto la strada ai combustibili fossili.
Ma se il clima cambia, l’informazione italiana resta ferma. Nei telegiornali si continua a parlare del caldo come di un fastidio balneare, al massimo come un evento da archiviare con il solito servizio che avverte i cittadini di non uscire nelle ore più calde e di bere tanta acqua. Manca una narrazione chiara fondata su basi scientifiche. Il cambiamento climatico viene spesso trattato come una notizia tra le altre, anziché come la più grave emergenza del nostro tempo. Disinformazione e negazionismo, più o meno espliciti, impediscono alle persone di capire e reagire.
Per questo nasce una petizione pubblica, promossa da cittadine e cittadini preoccupati per il futuro.

Una petizione che chiede tre misure urgenti:
1. Linee guida nazionali per l’informazione climatica
Come per la salute o la violenza di genere, servono regole vincolanti. Le redazioni devono usare fonti scientifiche autorevoli (IPCC, ISPRA, Copernicus), evitare false equivalenze con i negazionisti e adottare un linguaggio chiaro e accurato.
2. Un Osservatorio nazionale sulla disinformazione climatica
Serve un organismo indipendente con scienziati, giornalisti, esperti e società civile. Dovrà monitorare l’informazione, segnalare casi di distorsione o silenziamento, pubblicare report e fornire raccomandazioni.
3. Uno spazio settimanale nei TG RAI
La RAI, come servizio pubblico, ha il dovere di informare in modo strutturato e continuativo. Chiediamo almeno un appuntamento settimanale nei principali TG (TG1, TG2, TG3), in orario accessibile, dedicato a dati scientifici, impatti reali e soluzioni.
Perché senza una corretta informazione non esiste una vera democrazia. Il cambiamento climatico ci riguarda tutte e tutti, ma per affrontarlo dobbiamo prima riconoscerlo e comprenderlo.
La previsione “immaginaria” del 2014 è diventata, purtroppo, la nostra quotidianità. Tocca a noi evitare che diventi anche il nostro futuro peggiore.

Firma la petizione

Gli autori: Giacomo Pellini è attivista climatico, autore di “Contro i mercanti del clima” (Left Edizioni); Maria Santarossa è attivista climatica

Foto di Zoltan Tasi su Unsplash

Entra in vigore l’Ai Act dell’Unione europea

Ricordate questa data: 2 agosto 2025. Quel giorno sarà segnato in modo significativo dall’entrata in vigore dell’AI Act nell’Unione Europea. La normativa impone agli sviluppatori e fornitori di grandi modelli di intelligenza artificiale generativa (General Purpose AI) precisi obblighi di trasparenza e gestione del rischio. In tal modo, l’Unione Europea sarà la prima istituzione statuale al mondo a regolare questo vorticoso settore tecnologico. Per capire quanto pesi questa normativa basta segnalare che tra le Big Tech, Meta – la Corporation guidata da Mark Zuckerberg che controlla Facebook, Instagram e WhatsApp e che ha introdotto in queste applicazioni l’assistente virtuale Meta AI – ha dichiarato di non voler firmare il Codice di condotta Ue sull’IA per i modelli ad uso generale, criticando l’approccio europeo che ritiene introduca “incertezze legali” e il rischio di frenare lo sviluppo dei modelli di IA nel mercato continentale.

E per capire quanto sia necessaria, invece, una regolamentazione del settore basta leggere l’estratto di un post pubblicato su X, il 17 luglio, da Sam Altman, Ceo di OpenAI, l’azienda che ha creato e opera con ChatGPT. “Oggi – scrive Altman – abbiamo lanciato un nuovo prodotto chiamato ChatGPT Agent. Agent rappresenta un nuovo livello di capacità per i sistemi di intelligenza artificiale e può svolgere per te compiti straordinari […] Anche se l’utilità è significativa, lo sono anche i rischi potenziali. Abbiamo integrato molte salvaguardie e avvisi, oltre a misure di mitigazione più ampie rispetto a quelle che abbiamo mai sviluppato prima, dalla formazione robusta alla protezione del sistema, fino ai controlli per l’utente, ma non possiamo prevedere tutto. Avvertiremo massicciamente gli utenti e daremo loro la libertà di agire con cautela, se lo desiderano. Alla mia famiglia lo descriverei come qualcosa all’avanguardia e sperimentale: un’opportunità per provare il futuro, ma non qualcosa che userei per attività di alto rischio o con molte informazioni personali, finché non avremo avuto l’opportunità di studiarlo e migliorarlo nella pratica”.

Insomma, questo è l’atteggiamento delle Big Tech. Far fare ai propri clienti i topolini da laboratorio su un prodotto che Altman considera potenzialmente rischioso. Leggi le avvertenze, ma i cocci sono, comunque, tuoi. Amen. L’intelligenza artificiale è un utensile che può essere di straordinaria utilità. Ma come tutti gli utensili deve essere utilizzato correttamente. E un uso corretto non può essere affidato all’accortezza di chi lo manovra. Le compagnie che ne sviluppano i software devono esserne responsabili, come stabilisce l’IA Act dell’Unione europea. Sviluppata, rilasciata e gestita con precisi criteri di responsabilità l’AI ci sarà di grande aiuto. Inclusi gli usi nei posti di lavoro. Sia per l’organizzazione del lavoro stessa, sia per aumentare la tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro.

Perciò non possono essere trascurati, nella sua implementazione, i diritti umani personali. Ad esempio, mai deve essere in alcun modo utilizzata per profilare i lavoratori. E l’AI Act è pensato a questo scopo. Non per mettere le redini al mercato, come disinvoltamente sostengono le Big Tech, tanto vicine a quel Donald Trump che, già in gennaio, ha cancellato l’Executive Order on the Safe, Secure, and Trustworthy Development and Use of Artificial Intelligence adottato dall’Amministrazione Biden nel 2023. Ma perché il mercato si sviluppi dentro una cornice di diritto che salvaguardi la persona, nella logica dell’utilizzo antropocentrico delle tecnologie. 25 luglio 2025.

L’autore: Cesare Damiano, già sindacalista e parlamentare in tre legislature, è stato ministro del Lavoro ed è presidente dell’associazione Lavoro & Welfare

L’Europa in ginocchio davanti a Trump

Il patto sui dazi siglato tra Unione Europea e Stati Uniti è la fotografia di un’Europa smarrita, divisa e incapace di esercitare una propria sovranità. Un accordo presentato come un successo diplomatico è, nei fatti, una resa senza condizioni che legittima l’unilateralismo aggressivo di Donald Trump e scarica il costo sui cittadini europei. La Commissione guidata da Ursula von der Leyen accetta una “reciprocità” che di reciproco non ha nulla: dazi al 15% sulle esportazioni europee, a fronte di zero tasse per le Big Tech americane, acquisti forzati di armi e gas statunitensi, investimenti europei per 600 miliardi negli USA.

Per l’Italia, secondo esportatore europeo verso gli Stati Uniti, il colpo sarà durissimo. A rischio, secondo le stime, ci sono oltre 100 mila posti di lavoro nei settori agroalimentare, meccanico e automotive, e 23 miliardi di export bruciati. Mentre la premier Meloni si affanna a parlare di “stabilità”, la realtà è quella di un Paese che si scopre irrilevante, che accetta ogni diktat in nome di un malinteso atlantismo che confonde fedeltà con sottomissione.

La verità è che l’Europa ha negoziato divisa e timorosa, inchinandosi a un’America che alza la voce e detta condizioni fondate su falsi pretesti commerciali. Il risultato è una partita truccata, in cui le regole internazionali – dal WTO agli accordi GATT – vengono accantonate per compiacere un leader che disprezza ogni vincolo multilaterale.

Questa non è politica commerciale. È una capitolazione. E l’Italia, ancora una volta, paga il prezzo dell’assenza

Buon lunedì. 

In foto Donald Trump e Ursula von der Leyen a Davos

Virus tropicali l’Oms lancia l’allarme ma il governo Meloni si chiama fuori

Oggi la seconda vittima nel Lazio: un paziente di 77 anni è morto allo Spallanzani di Roma dopo essere stato punto da una zanzara portatrice di West Nile. In questi ultimi giorni di luglio 2025, nell’area di Latina, si sono manifestati diversi casi di West Nile, la malattia tropicale diffusa dal virus WNV tramite le zanzare, in particolare la specie Culex, e isolata per la prima volta nel 1937 in Uganda, nella zona di West Nile da cui, appunto, prende il nome. Ha un’incubazione tra due e tre settimane e, se è poco sintomatica nella maggior parte dei casi, in altri provoca febbre, nausea, vomito, linfonodi ingrossati e sfoghi cutanei. Solo di rado è letale, ma ormai si sta diffondendo sempre più in Italia a causa della globalizzazione e del climate change. Per questo virus non ci sono vaccini né cure specifiche, ma i suoi fastidiosissimi sintomi e la sua pericolosità per i soggetti più fragili meriterebbero studi approfonditi.
In questi stessi giorni, poi, si è manifestato a Bentivoglio, non distante da Bologna, il primo caso endemico di Chikungunya, il virus trasmesso dalla zanzara tigre che in Europa va ad aggiungersi agli altri 800 casi esplosi in Francia tra maggio e luglio e dove si parla ormai di epidemia, tanto che l’OMS ha lanciato l’allerta stimando 5,6 miliardi di persone esposte in aree potenzialmente a rischio nel mondo. Si tratta della malattia trasmessa dal virus CHIKV che per circa il 30% delle persone infettate decorre senza alcun sintomo mentre, negli altri casi, dopo circa una settimana di incubazione, si presenta con febbre elevata, estrema spossatezza e forti dolori articolari, principalmente alle mani e ai piedi, da cui deriva il nome “chikungunya” che in lingua swahili significa “quello che piega, contorce”, proprio per le sofferenze causate a questi arti e che possono durare molti mesi o addirittura anni dopo i sintomi più acuti. Solo a gennaio 2025 l’EMA – Agenzia Europea per i Medicinali – ha autorizzato l’utilizzo e commercializzazione del primo vaccino contro la Chikungunya che verrà utilizzato principalmente in America Latina, Africa Centrale e Asia Orientale dove questa malattia tropicale è soprattutto diffusa. Tuttavia, come è noto, il vaccino ha uno scopo preventivo e non ha carattere curativo. Ad oggi, una cura per la Chikungunya, come per la West Nile, non c’è e bisognerà impegnarsi per trovare rimedi, specialmente adesso che questi virus minacciano direttamente l’Europa.
Ma chi potrebbe essere più attrezzato per un simile compito dell’Oms?
L’Organizzazione Mondiale per la Sanità con sede a Ginevra si occupa della salute del mondo e ha mostrato la sua estrema importanza appena cinque anni fa, in occasione della pandemia da Covid-19. E’ un organo tecnico dell’Onu e quindi vi partecipano i medesimi Paesi che aderiscono alle Nazioni Unite. Proprio dall’esperienza del coronavirus, erano partiti tre anni fa gli incontri per addivenirsi ad un “Trattato internazionale sulla prevenzione, sulla preparazione e sulla risposta alle pandemie” essendo ormai evidente che, per un nuovo contagio globale, il problema non è il “se”, ma il “quando” e l’intento era quello di trovarsi tutti meglio preparati al prossimo evento.
Lo scorso 20 maggio, in occasione della 78esim assemblea mondiale della Sanità, organo di governo dell’Oms, è stato approvato l’Accordo in 35 articoli che contiene i principi e gli strumenti per un migliore coordinamento internazionale onde rafforzare la resilienza globale in caso di una nuova epidemia. La sorpresa, però, è stata che, su 140 Paesi chiamati a votare, senza alcun voto contrario, 124 hanno votato a favore e 11 si sono astenuti, tra i quali Italia, Russia, Iran, Israele, Polonia, Romania e Bulgaria. Gli USA, invece, non hanno votato perché, seguendo le indicazioni di Trump e del Ministro della sanità Robert Kennedy Jr, hanno in corso le pratiche per ritirarsi dall’OMS privandola così del 15% delle entrate generali.
La spiegazione che ha offerto l’Italia per l’astensione, è stata la sovranità nazionale. L’Accordo – ha detto il ministro della Sanità Orazio Schillaci presente a Ginevra – costituisce una forma di ingerenza di un’organizzazione sovranazionale in questioni di salute pubblica che si ritiene debbano essere di competenza dei singoli Stati.
Ora, se c’è un argomento in cui la sovranità nazionale appare del tutto fuori posto è proprio la sanità mondiale. L’epidemia del Covid-19 ha dimostrato che i virus non rispettano le dogane e l’unico argine possibile è il coordinamento tra le nazioni per la migliore e più tempestiva risposta. Solo per i no-vax la logica della reazione condivisa tra gli Stati era inaccettabile, ma chi li ha seguiti di più sono stati i Paesi che hanno pagato prezzi elevatissimi in termini di vite umane, costi sanitari e perdite economiche. Assecondare queste ideologie, come fecero all’epoca alcuni partiti oggi al governo, è un grave errore, tanto più quando l’Italia si presenta in Africa, il continente più esposto alle pandemie, col Piano Mattei.
Il Piano Mattei vuole svilupparsi, al di fuori di logiche coloniali, su cinque grandi aree di intervento: istruzione e formazione, salute, agricoltura, acqua ed energia mettendo a disposizione direttamente 5,5 miliardi e mirando a coinvolgere nel progetto l’intera Europa per un incremento di risorse e iniziative.
Sul tema della salute, il Piano vuole rafforzare in Africa i sistemi sanitari, migliorare l’accesso e la qualità dei servizi, potenziare la capacità locali, formare il personale sanitario e sviluppare strategie di prevenzione e contenimento delle minacce alla salute, particolarmente in occasione di pandemie e disastri naturali.
Con queste generose finalità del Piano Mattei, presentato a Roma a gennaio 2024, appare del tutto incoerente l’astensione dell’Italia, nel maggio 2025, rispetto all’Accordo dell’OMS che, tra l’altro, mirava a studiare un meccanismo finanziario per la prevenzione, la preparazione e la risposta alle pandemie, inclusa la catena globale di approvvigionamento e logistica per “migliorare, facilitare e lavorare per rimuovere gli ostacoli e garantire un accesso equo, tempestivo, rapido, sicuro e conveniente ai prodotti sanitari correlati alla pandemia per i paesi che ne hanno bisogno durante le emergenze di sanità pubblica di interesse internazionale”. Uno scopo, cioè, destinato proprio a consentire alle aziende farmaceutiche di svolgere un ruolo chiave nel permettere l’accesso equo e tempestivo a farmaci e dispositivi medici necessari a prevenire e curare una pandemia. In altre parole, l’Accordo dell’OMS mirava soprattutto a tutelare i Paesi africani più esposti alle pandemie sicché il Piano Mattei avrebbe necessariamente dovuto convergere.
Ma non è andata così e la domanda oggi è: se inventi il Piano Mattei affermando la solidarietà con l’Africa in caso di pandemie, perché in sede OMS ti astieni dal votare a favore del trattato internazionale sulle pandemie?
Viene da pensare che, in Italia, la mano destra non sa quello che fa l’altra mano destra.

L’autrice: Shukri Said è giornalista. Coautrice e co conduttrice di “Africa Oggi” per Radio Radicale, è inoltre corrispondente dall’Italia per la Bbc e per Voice of America

 

foto Adobe stock

Trump, lo scontro con il Sudafrica e la “PayPal Mafia”

Sono passati ormai due mesi da quando Elon Musk ha lasciato la Casa Bianca, dando il via a quello che la stampa ha definito come un plateale scambio di ingiurie fra due “cowboy da tastiera” con il presidente Donald Trump. La fine di questo inquietante sodalizio politico tecnocapitalista (iniziato con il saluto fascista di Musk durante la conferenza di insediamento), è stata accolta da molti con un più che giustificato sospiro di sollievo.

Tuttavia, l’ingombrante presenza del magnate sudafricano nel frattempo ha condizionato diverse decisioni di Washington, con conseguenze potenzialmente significative nel futuro prossimo.
Nonostante i fatti in questione siano ancora estremamente vicini, si può tentare un primo bilancio del passaggio dell’uomo più ricco del mondo alla Casa Bianca, attraverso l’impatto delle sue convinzioni politiche e sociali ma soprattutto dei quasi 300 miliardi di dollari (di cui 250 solo per la campagna di Trump) da lui investiti a sostegno dei repubblicani.

Gli effetti di questa ingerenza sono ben visibili su diversi fronti, in particolare rispetto alle attività del DOGE (Department of Government Efficiency, la controversa agenzia parastatale guidata dal multimiliardario e votata a ridurre il debito pubblico statunitense), dai profondi tagli effettuati ai programmi umanitari, all’impressionante quantità di dati personali raccolti digitalmente dall’agenzia, fino all’inserimento di uomini di fiducia di Musk in ruoli dirigenziali.
Ma la minacciosa ombra del fondatore di Tesla si staglia anche al di fuori dei confini statunitensi: il caso più evidente è probabilmente quello del suo Paese natale, il Sudafrica, i cui rapporti con Washington hanno raggiunto un preoccupante minimo storico nel corso degli ultimi mesi.
Una settimana prima delle dimissioni di Musk, Trump ha incontrato in sua presenza il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa alla Casa Bianca. Dopo l’iniziale scambio di convenevoli, l’atmosfera si è subito riscaldata: Trump ha infatti chiesto al suo interlocutore del cosiddetto “white genocide”, termine usato in alcune teorie del complotto con riferimento al presunto sterminio della popolazione bianca in Sudafrica. Senza lasciare a Ramaphosa il tempo di rispondere, le luci si sono spente ed è iniziata la proiezione di un video che mostrava una strada costeggiata da migliaia di croci bianche, indicate da Trump come le tombe di altrettanti agricoltori bianchi assassinati. Il presidente degli Stati Uniti ha poi elencato una serie di nomi di proprietari terrieri bianchi, ognuno seguito dalla parola “dead”. L’incontro, trasmesso in diretta televisiva, ha collezionato diverse definizioni piuttosto eloquenti da parte della stampa, come “trattamento Zelensky”, “trappola” e “imboscata dello Studio Ovale”.

Nonostante il presidente sudafricano abbia mantenuto la calma, smascherando le affermazioni di Trump come infondate e invitando il suo interlocutore all’ascolto, l’incontro non ha certo allentato la tensione fra i due Paesi: nel febbraio scorso, Washington ha soppresso il proprio programma di assistenza umanitaria destinato al Sudafrica, mentre a marzo l’ambasciatore sudafricano Ebrahim Rasool è stato espulso dagli Stati Uniti e definito dal segretario di stato Marco Rubio “un razzista che odia l’America”. Lo stesso Rubio ha poi messo in dubbio la propria partecipazione al prossimo G20, che si svolgerà a novembre a Johannesburg, per “non alimentare l’anti-americanismo”.

Dietro questo progressivo deterioramento nelle relazioni bilaterali è possibile intravedere l’influenza di Musk e di quella che i media statunitensi hanno battezzato “PayPal Mafia”. Con questa espressione si indica un circolo di imprenditori multimiliardari, legati alla società di pagamenti digitali e soprattutto accomunati da radici che affondano nel Sudafrica dell’apartheid. Oltre al già citato Musk, la dicitura comprende altri due dei principali finanziatori di Trump, il miliardario tedesco Peter Thiel, co-fondatore dell’azienda, e il sudafricano David Sacks, già direttore operativo (COO). Chiude il quadro l’ex direttore finanziario (CFO) Roelof Botha, che mantiene un profilo pubblico più defilato ma è sempre rimasto molto vicino a Musk.

Le famiglie di questi personaggi facevano parte della comunità afrikaner, i discendenti dei coloni olandesi (e in minor parte anche tedeschi e francesi) anche noti come boeri, che rappresentavano l’apice di una società interamente razzializzata: nel 1971, anno di nascita di Musk, il primo ministro era John Vorster, ex generale di una milizia filonazista e successivamente integrato in quel National Party che introdusse l’apartheid. Diverse fonti descrivono l’educazione degli afrikaner come fondata sul nazionalismo cristiano (a sua volta accostato alla dottrina nazista da numerosi studiosi e dallo stesso Vorster), che ha storicamente raccontato i boeri come le vittime di una persecuzione da parte degli inglesi e degli zulu, e l’apartheid come un mezzo necessario per proteggere la loro cultura e, di conseguenza, la loro stessa esistenza.

Le famiglie di Musk e Thiel si erano stabilite in Sudafrica proprio perché attratte da tale ideologia: il nonno materno di Musk era a capo di un movimento antisemita e filofascista in Canada, mentre i Thiel hanno risieduto a lungo nella cittadina di Swakopmund (nell’attuale Namibia), nota per celebrare il compleanno di Hitler. Una biografia di Thiel racconta che questi difendeva attivamente il sistema dell’apartheid nei suoi anni da studente, definendolo come “economicamente valido”. Entrambe le famiglie erano attive nel settore minerario, una delle massime espressioni del privilegio bianco: Errol Musk, padre di Elon e descritto dalla stampa come la “figura moderata” della famiglia, ha dichiarato di essere “tanto ricco da non riuscire neppure a chiudere la cassaforte”. Roelof Botha è invece il nipote dell’ultimo ministro degli Esteri dell’era dell’apartheid.

Fu solo verso la fine degli anni Settanta che questo ordine venne messo in discussione con le prime manifestazioni contro la segregazione razziale e la diffusione del modello socialista tra i governi dei paesi limitrofi, dall’Angola al Mozambico allo Zimbabwe. Questi eventi seminarono una crescente preoccupazione tra le élite bianche: Musk lasciò definitivamente il Sudafrica nel 1988, mentre un numero sempre maggiore di afrikaner confluiva nel neonazista Movimento di resistenza Afrikaner (AWB) per arginare quello che Vorster chiamava swart gevaar, il “pericolo nero”.

Questa narrativa non sembra discostarsi troppo dal “white genocide” millantato da Trump a distanza di oltre 50 anni. Tuttavia in questo caso vi è una differenza sostanziale: la teoria in questione proviene dagli Stati Uniti! Nessuna organizzazione o partito politico sudafricano ha mai menzionato apertamente il “white genocide”, nemmeno tra le fila di schieramenti estremisti come AWB o il movimento Suidlanders, un gruppo apertamente nostalgico dell’apartheid che ha ricevuto in alcune occasioni il plauso della Lega di Matteo Salvini.

Da una parte, questo può far riflettere su una tendenza recentemente evidenziata dal New York Times: la breve parabola di Musk a Washington ha dimostrato quanto fake news e teorie cospirazioniste abbiano permeato la Casa Bianca (negli ultimi mesi ne è girata un’altra surreale e grottesca su un complotto in corso per svuotare la riserva aurea statunitense di Fort Knox).

Ma la considerazione più significativa da fare è sicuramente un’altra, e riguarda il termine “genocidio” e il suo utilizzo. Bisogna infatti ricordare che il Sudafrica è stato il primo pPaese al mondo a ricorrere alla Corte Internazionale di Giustizia denunciando il genocidio commesso da Israele nella Striscia di Gaza, mentre gli Usa hanno sempre mostrato un sostegno incondizionato al governo di Benjamin Netanyahu. Sebbene il primo tweet in cui Musk menzionava il “white genocide” sia precedente al 7 ottobre 2023, potremmo essere indotti a pensare che da allora Trump e i suoi sostenitori abbiano abbracciato la teoria cospirazionista proprio per arrivare a svuotare di significato la parola “genocidio” attraverso la sua continua ripetizione, negando così la gravità dei crimini di guerra israeliani.

Questa strategia è molto comune nella comunicazione delle estreme destre ultranazionaliste: spostare l’attenzione dell’opinione pubblica dagli argomenti critici, attraverso l’utilizzo di argomentazioni pretestuose e infondate e di toni volutamente calcati. In questo modo, la comunicazione politica prende la forma di un attacco diretto contro le posizioni discordanti, condotto attraverso l’uso di slogan e che impedisce lo sviluppo di un dialogo. Così si arriva spesso a un vero e proprio capovolgimento della realtà. Non a caso, Trump ha esplicitamente parlato di un “genocidio del quale voi (you people) non volete parlare”.

Nella stessa chiave si possono leggere anche la già citata accusa di razzismo rivolta da Rubio all’ambasciatore sudafricano e soprattutto la scelta di definire “rifugiati” i 68 afrikaner che recentemente hanno ricevuto asilo negli Usa, in un momento storico nel quale i diritti dei migranti vengono frequentemente calpestati da Washington e non solo. Il ministro degli Esteri sudafricano ha esposto questo evidente controsenso nel suo commento alla vicenda, dichiarando: “È il colmo: questo ordine garantisce lo status di rifugiati a un gruppo che rimane tra i più economicamente privilegiati al mondo, mentre ci sono persone vulnerabili negli Usa e nel resto del mondo alle quali viene negato l’asilo e imposto il rimpatrio forzato, nonostante le reali difficoltà che affrontano”. Nonostante la fine dell’apartheid nel 1994, infatti, ad oggi gli afrikaner (circa 2,5 milioni, vale a dire poco più del 7% della popolazione sudafricana) occupano il 60% dei ruoli dirigenziali e controllano il 70-80% dei terreni coltivabili.

Sicuramente le ragioni dell’ostilità della “PayPal Mafia” verso il governo del Sudafrica non sono esclusivamente ideologiche, ma vi si aggiungono anche interessi di carattere strettamente economico: alcune leggi emesse da Città del Capo rappresentano infatti un ostacolo all’allargamento delle aziende di Musk (ad esempio la legge sulle imprese di grandi dimensioni, alle quali è richiesto che un 30% delle quote sia in mano a persone appartenenti a gruppi svantaggiati), mentre altre intaccano lo strapotere dei proprietari terrieri afrikaner (su tutte, la legge sugli espropri dello scorso gennaio, in base alla quale i terreni inutilizzati possono essere confiscati dallo stato anche se solo nel caso in cui questi servano all’interesse pubblico e sia stata accertata l’impossibilità di raggiungere un accordo con il proprietario).

In questo contesto tornano in mente le dichiarazioni del, a suo volta assai controverso Steve Bannon, consigliere di Trump durante il primo mandato, che ha definito gli afrikaner come “le persone più razziste sulla faccia della terra” e Musk come “un’influenza malefica” sul presidente statunitense.

Elon Musk può anche avere perso la sua carica (para)governativa dimettendosi dal DOGE, purtroppo però lascia alla Casa Bianca quanto di peggio potesse: la propria visione del mondo formata nell’apartheid. Musk per altro condivide le idee di Peter Thiel che bolla i programmi di welfare e il voto alle donne come “minacce per il sistema economico” e difende a spada tratta il privilegio individuale.

A pagare il prezzo più alto per questa ingerenza politica sono i veri rifugiati e le vere vittime di genocidio. Lo scorso 21 luglio, l’ambasciatore statunitense in Israele Mike Huckabee (che non riconosce l’esistenza storica del popolo palestinese e si affida alla Bibbia ndr) si è distinto come il critico più feroce della dichiarazione congiunta firmata da 25 Paesi occidentali per chiedere la fine della campagna militare israeliana a Gaza e condannare le “disumane uccisioni” dei civili palestinesi, definendo il documento (fra i cui firmatari figura anche l’Italia) “disgustoso” e “irrazionale”. Nel giugno scorso, invece, gli Stati Uniti sono stati l’unico Paese a bloccare una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che richiedeva un cessate il fuoco permanente a Gaza.

 

L’autore: Giovanni Benedetti è giornalista 

In foto il presidente Usa Trump e il presidente del Sudafrica Cyril Ramaphosa nella sala Ovale il 21 maggio 2025  Foto wikipedia

Registe, produttrici, attrici, donne che hanno fatto la storia del cinema

Maria Rosario

L’Istituto centrale per la grafica di Roma ospita fino al 28 settembre la mostra inVisibili. Le Pioniere del Cinema. Curata da Archivio Luce Cinecittà, e realizzata grazie alla collaborazione del Centro sperimentale di cinematografia, del Museo nazionale del cinema di Torino e della Cineteca di Bologna, restituisce visibilità al ruolo cruciale, e troppo spesso trascurato, delle figure femminili che hanno contribuito in modo determinante a plasmare il linguaggio cinematografico fin dalle sue origini.

L’esposizione si presenta come un emozionante viaggio nella storia del cinema attraverso un vasto corpus di materiali: immagini, filmati d’epoca, pellicole, fotografie, riviste, documenti d’archivio, sceneggiature, e bozzetti. L’obiettivo del progetto è quello di riscoprire la storia della settima arte da una prospettiva nuova ed eterogenea e restituire visibilità alle donne che hanno segnato l’evoluzione dell’industria cinematografica.

“InVisibili” nasce proprio dall’urgenza di colmare un vuoto nella memoria collettiva, celebrando trenta figure femminili che attraverso il cinema hanno saputo reinventare il loro ruolo nella società. La mostra è accompagnata da un catalogo edito da Mondadori Electa, che integra il processo di riscrittura storica del progetto, e include oltre a un inedito dell’autrice Margaret Mazzantini, contributi di firme del giornalismo italiano, che approfondiscono e offrono il loro punto di vista sulle protagoniste dell’esposizione.

La mostra si articola in trenta sezioni, ognuna dedicata a una pioniera del cinema italiano delle origini. Tra le donne raccontate risalta la figura di Elvira Notari, la prima regista italiana che nei primi del Novecento aprì con suo marito la sua casa di produzione a Napoli, e ne avviò una anche negli Stati Uniti qualche anno dopo. Tra le figure straordinarie raccontate da “inVisibili” anche Giulia Cassini Rizzotto, attrice che dal teatro nel 1914 passò al cinema per poi divenire anche regista. Tra le protagoniste del progetto anche la stella del cinema muto Adriana Costamagna e la produttrice, cineasta e attrice Daisy Sylvan. Queste donne non solo hanno diretto film che avrebbero segnato indelebilmente i primi passi del cinema in Italia, ma anche fondato case di produzione e sfidato la censura fascista e le convenzioni sociali del loro tempo.

È un capitolo della storia tristemente trascurato, ma quando il cinema muoveva i suoi primi passi, le donne erano presenti in ogni fase del processo creativo, dalla scrittura alla regia, dalla produzione alla distribuzione. Figure come quella di Notari, Rizzotto e Costamagna, tra le altre sono riuscite ad affermarsi come archetipi femminili liberi e moderni, offrendo una prospettiva anticonvenzionale che ancora oggi traspare dalle loro opere.

Quella proposta da inVisibili non è solo un’operazione di recupero storico. La presidente di Cinecittà, Chiara Sbarigia, ha evidenziato come la mostra esalti il fascino delle grandi attrici del primo cinema italiano, e riesca allo stesso tempo a raccontare con sensibilità anche il lavoro silenzioso di tante lavoratrici del mondo del cinema. L’accurata ricerca, e il confronto dei documenti dell’epoca promossi dal progetto ha reso possibile la riscoperta di punti di vista straordinari.

La mostra “inVisibili. Le Pioniere del Cinema” si tiene presso l’Istituto Centrale per la Grafica a Roma, in Via della Stamperia, 6. È un’occasione da non perdere per chiunque voglia scoprire l’importanza delle donne nella storia del cinema e la loro opera straordinaria, finalmente visibile.

Fonte e immagini: Giulia Maiorana – Studio Errani

Foto di A. Sbaffi e E. A. Minerva – Ministero della Cultura

L’autrice: Linda Capecci è giornalista e critico cinematografico

Vincenzo Musacchio: «A Gaza non è in atto una guerra ma una pulizia etnica di matrice genocidaria»

Foto di Renato Ferrantini

Professor Musacchio a Gaza è in atto una guerra?

Non mi sembra sia corretto parlare di guerra poiché non vedo forze militari di uno o più Stati che si scontrano in battaglia utilizzando armi convenzionali. Non ci sono due eserciti che si fronteggiano. Vedo soltanto l’uso della forza e della violenza, da parte di uno Stato, con l’obiettivo di distruggere o neutralizzare definitivamente un’etnia e cioè quella palestinese. Non parlerei affatto di guerra poiché nelle condotte militari di Israele sussistono tutte le più gravi violazioni del diritto internazionale umanitario. Tra questi: tortura, trattamenti inumani di prigionieri, stupro, attacchi alla popolazione civile, deportazione illegale di cittadini, presa di ostaggi, uccisione indiscriminata di bambini. Direi che in quel territorio è in atto un vero e proprio genocidio e una pulizia etnica mirata.

In base a quali elementi parla di genocidio a Gaza?

Non sono io a dare la definizione di genocidio ma fu l’ONU nel 1948. Questo crimine si è consumato perché persiste l’intenzione mirata a distruggere i palestinesi in quanto tali. Non siamo di fronte ad atti di guerra, ma a una precisa volontà di far scomparire dall’umanità uno specifico gruppo etnico, religioso e nazionale, ritenendo che questi esseri umani non possano e non debbano avere il diritto di vivere. Ci sono ogni giorno continui bombardamenti, distruzione di ospedali, di scuole, abitazioni, si colpiscono persino i bambini in cerca di cibo e acqua.

Secondo lei qual è stato il momento in cui è cominciato questo genocidio?

Il 14 maggio del 2024 quando l’esercito israeliano è entrato a Rafah costringendo ben un milione e mezzo di palestinesi a lasciare quel territorio. Subito dopo ci sono state demolizioni di abitazioni e circa i 2/3 di quelle terre oggi sono totalmente rase al suolo. Importanti elementi del governo israeliano hanno parlato chiaramente di confinamento dei palestinesi (cfr. ex Ministro della Difesa Gallant ed ex premier Olmert). Siamo di fronte a dati di fatto che ci riportano al passato e precisamente ai campi di concentramento nazisti. Bisogna avere il coraggio di dirlo soprattutto quando vi sono prove oggettivamente inconfutabili.

Molti membri del governo israeliano dicono che per scovare i terroristi di Hamas queste azioni militari sono necessarie, lei cosa ne pensa?

Penso sia una baggianata. Sarebbe come dire che per sconfiggere la ‘ndrangheta e catturare gli ndranghetisti noi dovremmo bombardare tutta la Calabria comprese scuole, chiese e ospedali! Siamo seri e chiamiamo le azioni israeliane con il loro nome: genocidio e pulizia etnica. L’unico modo per sconfiggere Hamas e i terroristi è la soluzione politica che a oggi nessuno vuole poiché questo stato di fatto fa comodo a tante persone e gola a molte multinazionali.

Lei crede che gli organismi giudiziari internazionali condanneranno Israele?

I processi potranno anche concludersi con sentenze di condanna, tuttavia, non credo, saranno mai eseguite. La Comunità Internazionale è marcatamente divisa e i più forti sono schierati dalla parte dell’impunità israeliana. Per comprendere la situazione attuale, nondimeno, basti fare riferimento al parallelo tra Ucraina e Gaza. Nel primo caso, Putin è incriminato e alla Russia si applicano sanzioni economiche ed embarghi rigorosissimi. Nel secondo caso, a Gaza, invece, Netanyahu è silenziosamente incriminato, ma a Israele non si applica alcuna sanzione economica o embargo. Come mai? Eppure in quattro mesi di crimini a Gaza l’esercito israeliano ha ucciso più bambini che in quattro anni di guerra in tutto il resto del mondo. Israele però non è sanzionato da nessuno Stato della Comunità internazionale! Dovremmo riflettere su quest’aspetto.

L’autore: Vincenzo Musacchio, criminologo, docente di strategie di lotta alla criminalità organizzata transnazionale, associato al Rutgers Institute on Anti-Corruption Studies (RIACS) di Newark (Stati Uniti). Attualmente, è ricercatore indipendente e membro ordinario dell’Alta Scuola di Studi Strategici sulla Criminalità Organizzata del Royal United Services Institute di Londra

Foto di Renato Ferrantini

Barbara, Svetlanka e le altre. La resistenza invisibile delle donne ucraine

Leopoli. «Prima dell’inizio della guerra andavamo in giro eleganti, con i tacchi alti. Poi abbiamo iniziato a indossare scarpe da ginnastica e jeans. Dovevamo difenderci dalla guerra anche così, con i vestiti. Quando arrivavano gli attacchi, bisognava poter correre, scendere sottoterra, nascondersi in fretta».

A dircelo è Svetlanka, 54 anni, medico. Ha cercato di resistere il più a lungo possibile sotto l’occupazione russa a Donetsk. Continuava a lavorare nei rifugi, curava le persone operando in condizioni disperate, pur di non lasciare il suo posto. Ma a un certo punto ha dovuto scegliere: restare avrebbe messo in pericolo non solo lei, ma anche suo marito. Così sono partiti, con il peso dell’abbandono ma anche con la speranza di salvarsi. La sua voce si scalda quando tira fuori il telefono e mostra una foto: la loro figlia, una ragazza bellissima, che ora vive e studia in Spagna. «Lei è la nostra forza», ci dice, con un sorriso che per un attimo sospende tutto il resto.

Incontriamo Svetlanka in un centro per rifugiati ucraini di Leopoli, dove fa la volontaria. La sua non è una storia di eroismo al fronte. Ciò nonostante, Svetlanka resiste. È la resistenza pacifica e distante dai riflettori delle donne ucraine. Quella che non innalza bandiere o cerca riconoscimenti, né è praticata con le armi. Sono molti i modi in cui viene portata avanti. Insegnare, amare, documentare, salvare, organizzare, reinventarsi, dentro il disastro. Ma anche semplicemente ricostruire le proprie piccole routine tra gli allarmi antiaerei, oppure mettersi il rossetto in un rifugio. Farlo per te stessa, anche se magari hai perso tutto e la stanchezza ti dice che arrendersi sarebbe più semplice.

«Avevo paura, certo. Ma ho pensato che loro potessero averne più di me. Già vivevano in una condizione precaria. La guerra non avrebbe dovuto farli scomparire dagli occhi di tutti. Così sono uscita lo stesso». Ivanka, 52 anni, ricorda bene il giorno dell’invasione su larga scala, il 24 febbraio 2022, quando ha deciso di andare comunque a portare un pasto caldo ai senzatetto di Leopoli, come era solita fare da anni. «I miei amici», li chiama. Ora anche lei è volontaria al centro per rifugiati.

Ivanka ha una calma che spiazza. Una tranquillità capace di imporsi anche nel caos. La noti mentre coordina con dolce fermezza le altre volontarie, mentre chiacchiera con i suoi amici senzatetto, con affetto sincero. In un momento di pausa, ci racconta di suo figlio, che ha 28 anni, ed è stato fermato per strada e reclutato. Ora è al fronte. Riesce a sentirlo, è in contatto con lui.

«Se cammini per la città noti subito che mancano gli uomini – dice ancora Ivanka -. Anche se qui, a Leopoli, la guerra non si combatte nelle strade, la morte è arrivata lo stesso. Molte donne hanno figli, mariti, padri al fronte. Alcuni sono tornati in una bara, di altri non si sa più nulla». Ivanka abbassa lo sguardo e prende fiato. «Le donne – prosegue – camminano per strada con grazia, vestite bene, come se nulla fosse. Ma dentro soffrono, anche se tentano di non mostrarlo. Coloro che accogliamo nel centro spesso ci raccontano che non riescono nemmeno a parlare con le amiche, con le vicine. Hanno paura di appesantire chi gli sta accanto, come se il loro dolore fosse troppo grande anche solo da nominare. Ma quel dolore c’è, e le accompagna ovunque».

«Non avere una casa mia, non avere la mia libertà… è difficile. È come vivere a metà, in attesa che qualcosa si sblocchi, che finisca». Natalia ha 26 anni. Suo marito ora è al fronte, ed è stato lui, mesi dopo allo scoppio della guerra, a dirle di andare via da Luhansk. Lei era pronta fin dall’inizio, ma ha aspettato quel segnale per partire. E così, nell’estate del 2022, ha lasciato tutto ed è fuggita. Oggi vive nel centro Unbroken Mothers, una struttura di accoglienza di Leopoli dedicata alle mamme con figli sotto i tre anni. La figlia è nata in questo nuovo luogo, lontano da casa. Il marito riesce a farle visita quando può.

Nella stessa struttura vive Caterina che di anni ne ha 33 anni ed è arrivata circa un anno fa. Ricorda con lucidità quel giorno: un bombardamento era scoppiato vicino casa sua. La paura è stata più forte di tutto. Ha preso il figlio, nato solo tre giorni prima, ed è fuggita da Cherson. Non è stato facile trovare un modo per andarsene. I trasporti erano caotici, le strade insicure, ma alla fine è riuscita a salire su un treno e lasciare la propria città. «Qui è un’altra vita», dice. «Gli allarmi ci sono ancora, ma almeno non cadono missili vicino. Possiamo respirare». Dal futuro non ha grandi aspettative. «Non so cosa succederà, non riesco a pensarci troppo. Ma una sola cosa desidero con tutta me stessa: che mio figlio cresca sano. E che possa vivere in un’Ucraina libera».

«Il mio più grande desiderio è tornare a casa. Anche se fosse distrutta, mio figlio – che è ingegnere – potrebbe ricostruirla. Io vorrei solo la pace». Barbara ha 79 anni. Non sa se la sua casa sia ancora in piedi oppure no. Le notizie sono frammentarie, e il dubbio è diventato per lei una costante. Suo figlio, che ha tre bambini, ora vive a Leopoli. È ospite nell’appartamento di un vecchio amico dell’università, un uomo che vive da molti anni in Italia per lavoro e che, sapendo della loro situazione, gli ha ceduto temporaneamente la casa. Barbara invece vive nel campo profughi di Mariapolis, nella periferia di Leopoli, in un container condiviso con altre due donne che non conosceva prima, ma con cui ha trovato un buon equilibrio. È curiosa, ci osserva, si informa su chi siamo. «Le donne della mia età che vivono qui, anche con la guerra addosso, anche se dentro stanno male, si sforzano ogni giorno di mantenere un’apparenza di normalità», ci dice abbozzando un sorriso.

«Abbiamo tutto ciò che ci serve, tutte le condizioni per vivere bene». Mentre Taissia, 85 anni, ci parla, non si può fare a meno di sorridere, con tenerezza: lo spazio all’interno dei container in cui vive da tre anni insieme al figlio sessantenne è minuscolo, quasi claustrofobico. Ma lei lo racconta con dignità, senza lamenti. Anche lei viene da una zona oggi occupata e adesso è ospitata nel centro profughi di Mariapolis. Taissia è riconoscente, ci tiene a ringraziare chi ha costruito questi moduli abitativi – sono stati donati dai polacchi. La sua casa è stata danneggiata, ma alcuni vicini stanno cercando, a poco a poco, di rimetterla in sesto. Quando possono, aggiustano. Un gesto semplice, ma pieno di speranza.

La missione umanitaria di Mediterranea a Leopoli
Questo reportage è stato realizzato nell’ambito della diciannovesima missione della Staffetta Umanitaria per l’Ucraina, promossa dall’ong Mediterranea Saving Humans. Un’iniziativa che non si limita a portare beni materiali per sostenere la popolazione civile sfollata, ma si basa sull’ascolto e sulla prossimità. Insieme al progetto di musicoterapia Music and Resilience e all’equipe medica, Mediterranea tiene aperto un canale di solidarietà concreta. Info:mediterranearescue.org

Tutte le cifre di un Paese in guerra
Dopo tre anni e mezzo dall’inizio dell’invasione russa su vasta scala dell’Ucraina, il conflitto continua a provocare vittime, distruggere infrastrutture e ridisegnare gli equilibri geopolitici dell’Europa. Secondo le cifre aggiornate al 30 giugno scorso dell’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti umani (Ohchr), i civili uccisi dall’inizio dell’invasione su larga scala sono almeno 30.457, con oltre 60.000 feriti. Tuttavia, le stesse Nazioni Unite ammettono che i numeri reali potrebbero essere significativamente più alti, a causa della difficoltà di verificare i numeri delle vittime nelle zone occupate o sotto costante bombardamento. Dal punto di vista territoriale, la Russia controlla attualmente circa il 18% del suolo ucraino, che corrisponde alle regioni parzialmente o totalmente occupate di Donetsk, Luhansk, Zaporizhzhya e Kherson, oltre alla Crimea annessa. Secondo l’Institute for the Study of War (Isw), il fronte militare non si sta più spostando in modo significativo: le posizioni sono diventate relativamente stabili, quasi “congelate” nel tempo e nello spazio, senza grandi avanzamenti o ritirate da parte di uno dei due schieramenti. Ciò ha trasformato la guerra in un conflitto di posizione, con offensive limitate ma incessanti. Sul terreno, dall’inizio del 2024 ed aprile del 2025, la linea del fronte, si è spostata di poche decine di chilometri, ma il perimetro dell’occupazione resta consistente: al primo luglio 2025 le forze russe detengono 113.673 km². Nelle zone occupate il Cremlino ha accelerato la “russificazione”: il passaporto russo è reso obbligatorio, ed è soppresso lo studio della lingua ucraina nelle scuole. La Missione “United Nations Human Rights Monitoring Mission in Ukraine” (Hrmmu) dell’Onu per i diritti umani dichiara anche confische di proprietà e l’obbligo, per chi resta, di affrontare restrizioni di movimento, arruolamenti forzati e un’economia di sussistenza spesso in moneta russa, il rubli.

La crisi umanitaria resta enorme. Oltre 12 milioni di persone hanno dovuto abbandonare le proprie abitazioni. Secondo l’Unhcr, oltre 6,4 milioni di rifugiati ucraini si trovano attualmente all’estero, principalmente in Polonia, Germania, Repubblica Ceca, Romania e Italia. Altri 3,7 milioni sono sfollati interni. L’Unione Europea ha esteso fino al 2027 la Direttiva di protezione temporanea, garantendo ai profughi il diritto di soggiorno, lavoro e studio, ma il sostegno dell’opinione pubblica è in calo e l’integrazione si fa sempre più complessa. I pacchetti di sanzioni imposti dall’Unione Europea alla Russia e la fornitura di oltre 85 miliardi di euro in aiuti per spese militari, per la ricostruzione del paese e sostegni umanitari, non sembrano al momento sufficienti per uno spostamento reale degli equilibri a favore di Kiev, mentre a Bruxelles ancora nessuno sembra avere una strategia chiara da proporre per avvicinarsi alla risoluzione del conflitto. Nel frattempo, il piano di riarmo ReArm Europe lanciato dalla presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen a marzo 2025, che potrebbe mobilitare fino a 800 miliardi di euro, non prevede una reale politica comune di difesa. Il rischio sempre più concreto è che l’iniziativa, anziché consolidare il protagonismo europeo – oggi ai minimi termini – nello scacchiere internazionale, finisca col rivelarsi innanzitutto un grande dono all’industria bellica. Mentre la diplomazia arranca e le armi continuano a scandire il quotidiano dell’Ucraina, quasi un cittadino su quattro si trova distante dalla propria casa. L’esito del conflitto non si gioca solo sulle prime linee, ma anche sulla capacità della comunità internazionale di offrire protezione a chi fugge e di difendere i diritti di chi per scelta o per obbligo resta in Ucraina, nei territori sotto il governo di Kiev o in quelli occupati.

L’autrice: Lia Trofin è giornalista

Salari giù, ministri su: il teatrino romano davanti alla voragine Ocse

Al netto della propaganda da rotocalco, dei teatrini tra ministri vacui e degli ossimori riformisti a uso e consumo di talk show, l’Italia reale sta in fondo a una tabella Ocse. Dal 2021, i salari reali sono scesi del 7,5%: il peggior dato tra i Paesi avanzati. È il prezzo della stagnazione strutturale, camuffata da “record occupazionali” che reggono solo se si ignora che il 33% dei lavoratori privati ha ancora un contratto scaduto. Il tasso di occupazione è del 62,9% contro una media Ocse del 70,4%, e il lavoro cresce solo sopra i 55 anni.

In un’Italia dove si lavora di più e si guadagna meno, la forbice generazionale si allarga. I baby boomer godono di redditi più alti dei giovani, rovesciando il rapporto del 1995. Nel 2016 il reddito degli over 55 ha superato del 13,8% quello dei lavoratori più giovani. Il Pil pro capite, a produttività costante, è destinato a calare dello 0,67% all’anno fino al 2060. Eppure si continua a parlare di crescita come se fosse un destino, mentre l’unico trend stabile è quello della fatica: il 42% dei lavori è fisicamente impegnativo, e si chiede agli anziani di restare in servizio e ai giovani di accettare l’erosione delle prospettive.

Dietro gli slogan, resta un Paese che invecchia senza rigenerarsi, che occupa senza emancipare, che racconta occupazione mentre comprime diritti. È questa l’Italia che i numeri raccontano: un Paese dove l’austerità è diventata sistema, e l’equità un ricordo. Un Paese che assiste al declino, mentre i suoi governanti fingono di non vedere. E neppure arrossiscono.

Buon venerdì.

foto gov.